Un «buco dell’ozono» ha attraversato i cieli europei
Nella primavera 2020 i ricercatori di
Come il fotovoltaico integrato negli edifici può alimentare l’Italia

La parola d’ordine per accelerare la rivoluzione ecologica senza aumentare l’impatto sull’ambiente? Fotovoltaico integrato negli edifici e nelle infrastrutture.
L’energia solare ha un posto di primo piano nelle strategie nazionali di decarbonizzazione. Eppure, il contributo che il comparto può fornire al mix energetico del futuro è spesso sottostimato. Parte del problema sta nello sviluppo tecnologico, molto più rapido rispetto le valutazioni politiche sul tema. I miglioramenti nell’efficienza e nella resa di celle e moduli avanzano quasi quotidianamente; e già oggi la tecnologia fotovoltaica rappresenta una delle opzioni più economiche per la nuova produzione elettrica su scala utility, in diverse aree del mondo.
Ma come sfruttare al massimo una risorsa così vantaggiosa senza sottrarre nuovo terreno? A rispondere è la la lettera pubblicata in questi giorni su Nature, da Massimo Mazzer (Cnr-Imem), referente italiano nell’Implementation Working Group sul Fotovoltaico del SET Plan Europeo, e David Moser, Responsabile R&D sul Fotovoltaico di EURAC Research. Nell’articolo “Come l’energia solare può alimentare l’Italia senza consumare più suolo (nature.com)“ i due autori vanno diritto al punto. E rimarcano le potenzialità italiane del fotovoltaico integrato negli edifici, definendolo come “la più efficace alternativa al consumo di suolo”.
D’altra parte, l’urbanizzazione si è conquistata una buona quota di terreno. Perché allora non sfruttare superfici già costruite? Precedenti stime valutavano per i tetti italiani un potenziale di produzione fotovoltaica di circa 120 GWp. Dati bastati su un’efficienza del modulo del 15%. Con la tecnologia commerciale attuale (efficienza al 22%) tale potenziale sale automaticamente. “Sulla base di questi dati, i moduli commerciali attualmente disponibili […] genererebbero 200 TWh di elettricità all’anno“, scrivono Mazzer e Moser. Un valore doppio rispetto all’obiettivo nazionale per il fotovoltaico 2030. “Con moduli efficienti al 30%, il potenziale raggiungerebbe 275 TWh/a. Anche le facciate possono contribuire significativamente […] si stima che edifici residenziali e uffici potrebbero integrare impianti fotovoltaici su un totale di almeno 160 km² di superficie di facciate, e contribuire alla generazione di 15-25 TWh/a di elettricità (a seconda della tecnologia fotovoltaica usata)”.
La pubblicazione fa parte di un’iniziativa intrapresa a livello nazionale già a partire dal 2017, con la costituzione di specifici gruppi di lavoro misti, composti esperti del mondo della ricerca e industriale. L’obiettivo? Definire il contributo italiano all’Implementation Plan del SET Plan Europeo. Un lavoro che ha prodotto risultati molto importanti sul piano del possibile rilancio di tutta la filiera industriale del fotovoltaico (compresa la parte alta) di importanza strategica per l’Italia e l’UE.
La lettera dedicata al fotovoltaico integrato negli edifici, spiega il CNR, “rappresenta una ulteriore voce dibattito pubblico, rappresentativa di coloro che hanno contribuito alla scrittura del Piano Strategico, per chiarire quanto ampie, diversificate e convenienti siano le potenzialità del fotovoltaico integrato nelle infrastrutture esistenti (a partire dagli edifici) nel nostro Paese”.
fonte: www.rinnovabili.it
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Ambiente e salute nei siti contaminati
Martedì 13 aprile 2021, alle ore 14.00, con la partecipazione di autorità e ricercatori, è tenuta la presentazione online del libro “Ambiente e Salute nei siti contaminati. Dalla ricerca scientifica alle decisioni”, a cura di Mario Sprovieri, Liliana Cori, Fabrizio Bianchi, Fabio Cibella, Andrea De Gaetano. ETS Edizioni, pagine 508, euro 28 (http://edizioniets.com).
La gestione delle aree altamente inquinate fa parte delle sfide per l’immediato futuro, e comprende una conoscenza profonda della storia del territorio e delle persone che ci vivono, nuove tecnologie di monitoraggio e bonifica, strategie di lungo termine assieme ad azioni rapide e incisive per mitigare i rischi esistenti.
Per i ricercatori del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che hanno iniziato nel 2016 il progetto CISAS, Centro Internazionale di Studi avanzati su Ambiente, ecosistema e Salute umana, finanziato dal MIUR, la sfida è stata quella di monitorare, sperimentare, approfondire e proporre soluzioni coinvolgendo gli attori competenti su ambiente e salute assieme ad amministratori e Istituzioni locali, associazioni e scuole.
L’esperienza ha riguardato tre territori che includono aree a terra e aree marine, i tre SIN (Siti di bonifica di interesse nazionale) di Priolo, Crotone e Milazzo, dove le pressioni ambientali sono state rilevanti nel corso della storia e hanno prospettive differenti in termini di produzione e utilizzo del territorio.
Sono coinvolti nel progetto CISAS 9 Istituti del CNR – IAS, IFC, IRIB, IASI, IBF, IGM, IIA, ISAC, ISMAR – coordinati dal Dipartimento Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’Ambiente, in collaborazione con le Agenzie Regionali per l’Ambiente di Sicilia e Calabria, ISPRA e Istituto Superiore di Sanità, ENEA, Aziende Sanitarie Locali, Università di Palermo, Messina, Catania, Enna, Roma e Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
Mentre il progetto sta per concludersi viene pubblicato il libro Ambiente e Salute nei siti contaminati. Dalla ricerca scientifica alle decisioni, che fa il punto sulle conoscenze consolidate e su quelle che sono mature per contribuire alle attività di bonifica e di limitazione dei danni all’ecosistema e alle persone.
Si parte da una panoramica sui siti inquinati europei e italiani, focalizzandosi poi sulle criticità specifiche delle zone marino-costiere, così rilevanti per l’Italia.
Gli studi sull’ambiente e la salute sono stati effettuati mantenendo l’attenzione alla loro relazione, ragionando sugli ambienti come ecosistemi che includono le persone e le coinvolgono direttamente, avvalendosi delle scienze sperimentali e della biomatematica.
Si sono intrecciati gli sguardi sull’inquinamento del mare, dalla qualità delle acque lungo la colonna che porta dalla superficie ai fondali, ai sedimenti, al fitoplancton, ai pesci, ai mercati dove i cittadini fanno la spesa, includendo tecniche innovative per capire il comportamento degli inquinanti nel tempo e la presenza di sostanze “emergenti”, non ancora conosciute, e di rischi cumulativi.
Il monitoraggio dell’inquinamento dell’aria e i modelli meteorologici e di trasporto degli inquinanti sono stati utilizzati per creare mappe di ricaduta e scenari previsionali, fondamentali anche per gli studi di epidemiologia ambientale. Si sono studiate le emissioni di sostanze odorigene con il contributo dei cittadini (che fanno segnalazioni con APP) e anche gli effetti della contaminazione dell’aria sull’epitelio polmonare.
Gli studi ecotossicologici e molecolari hanno utilizzato campioni prelevati negli ambienti naturali inquinati per osservarne da vicino l’evoluzione con modelli sperimentali, con un’attenzione specifica alle modificazioni del sistema endocrino e di quello immunitario.
Gli studiosi di epidemiologia hanno realizzato uno studio di coorte, coinvolgendo più di 800 coppie madre-bambino nelle tre aree, che continuerà negli anni prossimi durante la crescita dei piccoli nel tempo. Vengono proposti indicatori specifici per ciascun sito inquinato, per seguire l’evoluzione nel tempo dell’esposizione ai principali inquinanti e comprenderne gli effetti sulla salute delle comunità attraverso l’osservazione sistematica dell’andamento di specifiche condizioni patologiche. Per seguire in modo sempre più raffinato il destino degli inquinanti dall’ambiente al corpo umano è stato messo a punto un prototipo di micro capsula per l’esplorazione del microbioma intestinale.
Dentro e attorno agli studi una molteplicità di eventi di presentazione, concorsi per le scuole, corsi di formazione, congressi scientifici, più di recente teleconferenze e incontri webinar per riportare i risultati agli interessati, in una prospettiva di crescita delle conoscenze scientifiche della comunità e degli amministratori, di aumento delle occasioni di confronto tra ricercatori, di sviluppo delle azioni in collaborazione e delle sedi di confronto sul futuro.
Come scrive nella prefazione del libro Alessandro Bratti, Direttore di ISPRA “Ci si trova di fronte, quindi, ad ampi territori sostanzialmente “congelati”, che non possono esprimere le loro potenzialità economiche, urbanistiche, agricole, commerciali, in quanto condizionati dalla presenza del sito di interesse nazionale. In questo contesto non certo entusiasmante questo lavoro che raccoglie il contributo di numerosi ricercatori, specialisti nel loro settore, offre non solo una panoramica completa della complessità del problema trattando tutti i vari aspetti (giuridici, ambientali, sanitari ed economici) ma inquadra le possibili soluzioni all’interno di nuovi percorsi quali l’Economia circolare e la Bio-economia. … Grazie a questo lavoro si mettono le basi per cercare di affrontare e risolvere in via definitiva un’eredità pesante del passato che ha contribuito a creare ricchezza ma ad un prezzo elevato in termini di ambiente e salute. Oggi le conoscenze e le tecnologie ci aprono la possibilità di saldare i conti e di procedere verso uno sviluppo veramente sostenibile.”
fonte: www.snpambiente.it
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Transizione e idrogeno: attenzione alle follie energetiche
Abbiamo di fronte una sfida enorme: per evitare gli effetti più disastrosi del cambiamento climatico e raggiungere i target europei, nel campo dell’energia dobbiamo fare in tempi strettissimi una ristrutturazione tecnologica senza precedenti.
Potrebbe essere fatale continuare a investire in tecnologie da abbandonare al più presto, come il gas, rincorrere soluzioni poco mature e incerte, come la cattura della CO2 o, peggio, affidarsi a idee ancora in fase sperimentale, come la fusione nucleare.
Bisogna “fare in fretta quello che sappiamo fare già ora”, cioè dispiegare fonti già mature come le rinnovabili, fotovoltaico in testa. Un vettore chiave come l’idrogeno, se può essere prezioso quando prodotto da Fer e usato nel modo giusto, può diventare però controproducente per la transizione energetica se prodotto in maniera “sporca” o se utilizzato in maniera inefficiente, ad esempio miscelandolo al gas.
Questa, in estrema sintesi, la visione fornitaci nella video-intervista (video qui sotto e trascrizione integrale qui) con Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del Cnr e autore di vari saggi sulla transizione energetica, tra cui il nuovo “Emergenza energia, non abbiamo più tempo” (Edizioni Dedalo, settembre 2020).
Nell’intervista, tra le altre cose, Armaroli spiega che tagliare del 55% delle emissioni entro il 2030 vuol dire che “moltiplicare per 9 lo sforzo” dato che, dovendole diminuire del 45% in 9 anni dai livelli attuali, dobbiamo effettuare una riduzione tre volte maggiore in un terzo del tempo, rispetto a quanto fatto dal ‘90.
In questa sfida finte soluzioni “ponte” come il gas per Armaroli “sono parte del problema” e anche l’idrogeno cosiddetto blu, prodotto cioè da metano con cattura della CO2 risultante dal processo, rischia di essere un boomerang.
L’unica strada sostenibile per l’idrogeno, sottolinea, è produrlo con rinnovabili, ma allora bisogna accelerare su questo fronte e “i 5GW aggiuntivi al 2026 citati nel Pnrr sono troppo poco, serve almeno cinque volte tanto e al 2030 dieci volte tanto”.
Pessima poi l’idea di miscelare l’idrogeno al metano nelle condotte: oltre agli ostacoli tecnici, questo vettore non va usato dove ci sono già soluzioni pulite alternative, come nella mobilità leggera o nel riscaldamento. Scaldare un edificio con l’idrogeno verde, ad esempio, sarebbe una follia in termini energetici: “richiederebbe cinque volte più elettricità rispetto a usare una pompa di calore”.
fonte: www.qualenergia.it
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Ricerca. Con la mobilità elettrica nel 2030 l’inquinamento delle città crollerà dell’89%

Cinque città a confronto
Lo studio prende in considerazione la dispersione in atmosfera e al suolo degli inquinanti e l'impatto delle emissioni in cinque città: Torino, Milano, Bologna, Roma e Palermo. L'analisi guarda a due scenari: uno al 2025 e uno al 2030, con riferimento all'attuale parco circolante di veicoli privati e della logistica.
Nello scenario di ricambio del parco mezzi, "la penetrazione di una percentuale di veicoli elettrici gioca un ruolo fondamentale nella riduzione delle concentrazioni degli inquinanti locali, in particolare di NO2 (biossido di azoto)": si passerebbe da un minimo del 47% a Bologna a un massimo del 62% a Roma nello scenario al 2025; e dal 74% a Palermo fino all'89% nella Capitale, nello scenario al 2030. Impatto ridotto, ma comunque importante per il PM10. Se si osservano i risultati dello scenario 2025 la percentuale di riduzione parte da un minimo del 28% (caso Bologna) fino ad un massimo del 38% (caso Palermo); per lo scenario 2030 l'abbattimento non è così determinante come per NO2, la riduzione varia tra 34% e 46%.
fonte: www.e-gazette.it
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Plastica: ascesa e caduta di un mito creato negli anni ’30. Articolo tratto dall’Almanacco della scienza del Cnr
Proponiamo ai lettori questo interessante articolo ripreso dall’Almanacco della scienza del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) sulla storia della plastica, passata da grande novità negli anni ’30 a uno degli elementi più inquinanti del globo 90 anni dopo.
A lungo simbolo positivo di progresso, la plastica è un classico esempio di come, nel giro di pochi decenni, si siano trasformati i valori del sentire comune. Dopo i primi tentativi di produrre oggetti con celluloide e bachelite, il grande impulso alla produzione di massa di beni in plastica parte dagli anni ’30 del secolo scorso, con l’utilizzo in scala industriale del petrolio come materia prima. Come spesso avviene, sono le finalità militari delle guerre mondiali a dare un determinante impulso allo sviluppo di una tecnologia: in questo caso la necessità di elaborare materiali sintetici che sostituissero quelli naturali, difficilmente reperibili. Negli anni ’50 c’è il vero e proprio boom della plastica, che entra nelle case di tutti sotto forma di prodotti di uso comune, che divengono icone di ottimismo e di benessere, non a caso vengono immortalati anche dalla Pop Art. Oggi quelle stesse qualità positive di solidità e resistenza dei prodotti in plastica si sono trasformate in una minaccia
“La plastica, alla cui scoperta l’Italia ha contribuito in maniera determinante con Giulio Natta, premio Nobel per la Chimica nel 1963 e fondatore dell’Istituto di ricerca in chimica macromolecolare del Consiglio nazionale delle ricerche, ha svolto un ruolo fondamentale in settori chiave, come l’imballaggio alimentare e non, i trasporti, l’elettronica, le costruzioni”, spiega Mario Malinconico dell’Istituto per i polimeri, compositi e biomateriali (Ipcb) del Cnr. “Le materie plastiche sono ovunque e hanno rivoluzionato moltissimi aspetti della vita quotidiana, grazie alla loro versatilità. Si stima che se dovessimo sostituire la plastica con cui realizziamo contenitori rigidi e flessibili, imballaggi in film e in schiuma con i materiali tradizionali come vetro, metalli, legno, si avrebbe un costo ambientale ed energetico tra le quattro e le sette volte superiori. Tuttavia, esse portano con sé un rischio: essendo materiali di sintesi prodotti in laboratorio, non si degradano in natura, dove non esistono enzimi in grado di ‘digerirli’. La loro massiccia dispersione negli ecosistemi, dovuta soprattutto al nostro smodato utilizzo di imballaggi con un ciclo di vita estremamente ridotto, determina un serio rischio per l’ambiente. Sottoposti all’azione degli agenti atmosferici, infatti, gli oggetti di plastica si dividono in parti sempre più piccole: è così che nascono le famigerate micro e nanoplastiche, la cui pervasività e dannosità sono ormai tristemente note”.
Le microplastiche e nanoplastiche costituiscono un pericolo non solo per mari e fiumi, su cui finora si era concentrata la ricerca, ma anche per la struttura dei terreni e per le possibili alterazioni che un accumulo potrebbe generare sulla capacità dei suoli di assimilare il carbonio. “È necessario sottolineare che il carbonio da cui si ottengono i polimeri, alla base delle materie plastiche, è un carbonio fossile, estratto dagli strati interni della Terra, il cui rilascio modifica il bilancio totale di carbonio presente in atmosfera. In questo senso, la plastica ha una funzione di ‘tampone’, poiché intrappola il carbonio di origine fossile in un materiale durevole. Se non venissero disperse nell’ambiente, le plastiche non creerebbero problemi di inquinamento”, conclude il ricercatore. “Intercettate con un efficiente circuito di raccolta differenziata, potrebbero essere riciclate più e più volte, prima di recuperarne il valore energetico. Oggi si stanno sviluppando anche processi di depolimerizzazione efficienti per riottenere le molecole costituenti e rifare i polimeri. Altra risposta della tecnologia è la cosiddetta bioplastica, ricavata da fonti rinnovabili, biodegradabile e compostabile, che si sta affermando nel settore dell’imballaggio ultrasottile e della raccolta della Forsu (Frazione organica del rifiuto solido urbano)”.
Edward Bartolucci articolo tratto dall’Almanacco della scienza del Cnr
fonte: www.ilfattoalimentare.it
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Bioplastiche: Nuovi modelli di produzione e consumo
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Il particolato atmosferico non favorisce la diffusione del Covid-19, nuovo studio Cnr-Arpa
Un recente studio, condotto dall’Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac), sedi di Lecce e Bologna, e dall’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente-Arpa Lombardia, dimostra che particolato atmosferico e virus non interagiscono tra loro. Pertanto, escludendo le zone di assembramento, la probabilità di maggiore trasmissione in aria del contagio in outdoor in zone ad elevato inquinamento atmosferico appare essenzialmente trascurabile.
La ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Environmental Research, è stata condotta analizzando i dati, per l’inverno 2020, degli ambienti outdoor per le città di Milano e Bergamo, tra i focolai di COVID-19 più rilevanti nel Nord Italia.
“Tra le tesi avanzate, vi è quella che mette in relazione la diffusione virale con i parametri atmosferici, ipotizzando che scarsa ventilazione e stabilità atmosferica (tipiche del periodo invernale nella Pianura Padana) e il particolato atmosferico, cioè le particelle solide o liquide di sorgenti naturali e antropiche, presenti in atmosfera in elevate concentrazioni nel periodo invernale in Lombardia, possano favorire la trasmissione in aria (airborne) del contagio”, spiega Daniele Contini, ricercatore di Cnr-Isac (Lecce). “È stato infatti supposto che tali elementi possano agire come veicolo per il SARS-CoV-2 formando degli agglomerati (clusters) con le emissioni respiratorie delle persone infette. In tal caso il conseguente trasporto a grande distanza e l’incremento del tempo di permanenza in atmosfera del particolato emesso avrebbero potuto favorire la diffusione airborne del contagio”.
Nella ricerca sono state stimate le concentrazioni di particelle virali in atmosfera a Milano e Bergamo in funzione del numero delle persone positive nel periodo di studio, sia in termini medi sia nello scenario peggiore per la dispersione degli inquinanti tipico delle aree in studio. “I risultati in aree pubbliche all’aperto mostrano concentrazioni molto basse, inferiori a una particella virale per metro cubo di aria”, prosegue Contini. “Anche ipotizzando una quota di infetti pari al 10% della popolazione (circa 140.000 persone per Milano e 12.000 per Bergamo), quindi decupla rispetto a quella attualmente rilevata (circa 1%), sarebbero necessarie, in media, 38 ore a Milano e 61 ore a Bergamo per inspirare una singola particella virale.
Si deve però tenere conto che una singola particella virale può non essere sufficiente a trasmettere il contagio e che il tempo medio necessario a inspirare il materiale virale è tipicamente tra 10 e 100 volte più lungo di quello relativo alla singola particella, quindi variabile tra decine di giorni e alcuni mesi di esposizione outdoor continuativa. La maggiore probabilità di trasmissione in aria del contagio, al di fuori di zone di assembramento, appare dunque essenzialmente trascurabile”.
“Per avere una probabilità media del 50% di individuare il SARS-CoV-2 nei campioni giornalieri di PM10 a Milano sarebbe necessario un numero di contagiati, anche asintomatici, pari a circa 45.000 nella città di Milano (3,2% della popolazione) e a circa 6.300 nella città di Bergamo (5,2% della popolazione)”, sottolinea Vorne Gianelle responsabile Centro Specialistico di Monitoraggio della qualità dell’aria di Arpa Lombardia. “Pertanto, allo stato attuale delle ricerche, l’identificazione del nuovo coronavirus in aria outdoor non appare un metodo efficace di allerta precoce per le ondate pandemiche”.
“La probabilità che le particelle virali in atmosfera formino agglomerati con il particolato atmosferico pre-esistente, di dimensioni comparabili o maggiori, è trascurabile anche nelle condizioni di alto inquinamento tipico dell’area di Milano in inverno”, conclude Franco Belosi, ricercatore Cnr-Isac di Bologna. “È possibile che le particelle virali possano formare un cluster con nanoparticelle molto più piccole del virus ma questo non cambia in maniera significativa la massa delle particelle virali o il loro tempo di permanenza in atmosfera. Pertanto, il particolato atmosferico, in outdoor, non sembra agire come veicolo del coronavirus”.
fonte: www.ecodallecitta.it
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La mobilità elettrica cresce, ma la circolarità delle batterie è ancora a zero
Metà delle emissioni totali di gas serra nel mondo derivano da attività di estrazione e trasformazione di risorse. Un dato da tenere in debito conto se si vuole raggiungere, confermato pochi giorni fa dal Consiglio Europeo, di ridurre del 55% le emissioni di gas serra entro dieci anni, per poi arrivare alla neutralità climatica nel 2050.
Riuso di pile e accumulatori, questo sconosciuto
È rivolto a questi obiettivi anche il Piano d’azione strategico per l’economia circolare, orientato a ridurre la produzione di rifiuti ma riconfigurare il mercato interno europeo delle materie prime seconde (mps) di alta qualità. La Commissione Europea, però, ha ritenuto necessario affiancare a strategie e piani d’azione anche un sistema di monitoraggio finalizzato a accelerare in maniera efficiente la transizione circolare. Tra questi ci sono gli End-of-life recycling input rates (in sigla EOL-RIR, Tassi di riciclaggio di input a fine vita), legati proprio alla misurazione dell’uso delle risorse. Questi indicatori promettono di monitorare accuratamente i progressi compiuti in termini di riutilizzo di materia nei processi produttivi. Dalle statistiche fornite da Eurostat su EOL-RIR, emerge che importanti materiali come cobalto e litio, principali elementi utilizzati nelle pile e accumulatori, riportano un tasso di riutilizzo pari a zero. Insomma, mentre la mobilità elettrica e l’industria degli accumulatori si fanno largo sullo scenario globale, anche a suon di incentivi di varia natura, non c’è praticamente traccia di circolarità nella filiera costruttiva delle batterie e dei suoi elementi costitutivi. Siamo ancora in alto mare nel riuso di queste materie prime così preziose e rare e al tempo stesso così intensamente utilizzate e presenti negli oggetti della nostra quotidianità.
L’iniziativa della Commissione Ue
Non a caso la Commissione Europea ha in programma una radicale revisione del quadro normativo in materia, che congiuntamente a una spinta verso il diritto alla riparazione potrebbe contribuire ad arginare il problema e le emissioni climalteranti che ne derivano. Qualche giorno fa la Commissione ha presentato la prima delle iniziativa annunciate nel nuovo Piano d’azione per l’economia circolare: un nuovo quadro normativo per le batterie che punta a rafforzare la sostenibilità dell’intera catena del valore degli accumulatori per la mobilità e incentivare la circolarità di tutte le batterie. Si intende infatti introdurre delle regole sul contenuto riciclato e su i tassi di raccolta e riciclaggio di tutte le batterie. Questo punto vuole incentivare il recupero di materiali ad alto valore aggiunto da poter reinserire nel mercato. Inoltre, il regolamento definisce dei requisiti di sostenibilità per quanto riguarda il processo di produzione, l’approvvigionamento etico delle materie prima e la sicurezza dell’approvvigionamento, tramite il riutilizzo, il riciclaggio e il cambio di destinazione. “Con questa proposta UE innovativa sulle pile e batterie sostenibili stiamo dando il primo grande impulso all’economia circolare nell’ambito del nostro nuovo piano d’azione per l’economia circolare – ha dichiarato Virginijus Sinkevičius, Commissario responsabile per l’Ambiente, gli oceani e la pesca – Questi prodotti sono pieni di materiali preziosi e vogliamo garantire che nulla vada sprecato: la sostenibilità delle pile e batterie deve crescere di pari passo con il loro numero sul mercato dell’UE.”
Il cobalto si ricicla, ma l’Europa non se n’è accorta
L’indicatore EOL-RIR misura per una data materia quanto del suo input nel sistema produttivo derivi dal riciclaggio di “rottami vecchi”, vale a dire rottami da prodotti a fine vita. Questo indicatore quindi raccoglie non solo l’aspetto del riciclo, ma anche le altre strategie attuabili per portare il sistema alla circolarità, come il riuso o la riduzione (in base al cosiddetto Paradigma delle R).
Per l’Europa, dove aumenta costantemente il numero degli accumulatori al litio in circolazione per la mobilità elettrica, avere un tasso di EOL-RIR pari a zero per il cobalto equivale a bloccare del tutto l’economia circolare nel settore. Ad oggi, in pratica, una batteria a fine vita non ha più niente da offrire al sistema economico, evidentemente perché quest’ultimo non ha messo in campo sistemi di recupero e riutilizzo dei materiali, tutt’altro che impossibili da realizzare. Ad oggi, dunque, nel Vecchio Continente una risorsa rara quanto strategica come il cobalto viene gettata via come se non avesse più alcun valore, mentre in altre parti del mondo questa preziosa materia prima continua ad essere estratta per ricoprire la stessa funzione. Un circolo vizioso in totale contrasto con il Piano d’azione europeo per l’economia circolare, per cui i materiali che si possono riciclare dovrebbe essere reinseriti nell’economia come nuove materie prime.
Verso un boom della domanda
Trovare una soluzione al recupero di cobalto, la cui estrazione quasi sempre coincide con casi estremi di sfruttamenti di lavoratrici e lavoratori, anche minori, è un tema sempre più attuale, proprio perché è ormai presente in quasi tutti gli oggetti tecnologici che utilizziamo quotidianamente. La batteria di uno smartphone contiene dai 5 ai 10 grammi di cobalto, mentre ne servono diversi chilogrammi per un’auto elettrica, che deve a questo metallo raro la capacità di estendere la durata della sua batteria agli ioni di litio e quindi la sua autonomia. Se ancora non è chiara quanto sia alta la domanda di cobalto nel mondo, gli analisti del Swisse Resource Capital AG (SRC), società svizzera di consulenza e analisi nel settore minerario, rendono noto come ci sarà un boom di domanda di cobalto nei prossimi anni che si attende salire oltre le 300mila tonnellate all’anno entro il 2025. Un segnale d’allarme che, anche grazie alle norme a cui sta lavorando l’Esecutivo comunitario, l’Europa potrebbe trasformare in opportunità. Per farlo però, dovrebbe immediatamente rendere operativa la possibilità di tramutare i cumuli di rifiuti elettrici ed elettronici in una vera e propria miniera di cobalto, creando quindi un mercato alternativo in grado di coprire la richiesta sempre maggiore dei grandi produttori asiatici di batterie per vetture elettriche e prodotti elettronici.
L’Italia alla guida del nuovo corso?
La tecnologia attualmente disponibile in Europa per il trattamento delle batterie di auto elettriche a fine vita prevede costi ancora molto alti, soprattutto di tipo energetico, ed è orientata al solo recupero di materie rare e ad alto valore aggiunto, come il cobalto e nichel. Al contrario, le alte temperature del processo danneggiano litio (anch’esso con EOL-RIR uguale a zero) e manganese, che quindi non si possono riutilizzare. Il processo quindi sembra adatto al recupero soltanto di alcune materie, ma non permette di “salvare” tutti gli elementi della cosiddetta black mass, la componente attiva delle batterie. Sul tema della gestione degli accumulatori al litio a fine vita Cobat, consorzio che si occupa anche della gestione dei rifiuti di pile e accumulatore, ha investito in ricerca e sviluppo per individuare insieme al CNR-ICCOM (Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto di Chimica dei Composti Organo Metallici) di Firenze una tecnologia innovativa che non solo permetta un trattamento e riciclo a costi sostenibili ma che massimizzi il recupero di quei materiali, in modo da poterli nuovamente inserire nel mercato come materia prima seconda. Dai risultati incoraggianti dello studio, Cobat è attualmente in attesa di ottenere un brevetto per la realizzazione di un impianto di macinazione da cui recuperare la black mass degli accumulatori. Ma prendere un accumulatore a fine vita e scomporlo in tutte le sue componenti non è l’unica soluzione. Sempre Cobat sta analizzando la possibilità di dare seconda vita agli accumulatori nel settore delle rinnovabili. Le batterie dei veicoli elettrici dopo circa 8 anni hanno una capacità di carica insufficiente ad alimentare una macchina, ma conservano comunque una capacità di carica, sia pur ridotta. Da questa constatazione nasce l’idea di riutilizzare le batterie non più in grado di alimentare veicoli per riassemblarle e renderle adatte a stoccare energia da fonti rinnovabili. Luigi De Rocchi, responsabile ricerca e sviluppo di Cobat spiega come “le case automobilistiche sono fortemente interessate alla second life degli accumulatori utilizzati sulle proprie auto, dal momento che l’allungamento del loro ciclo di vita e la nascita di un business secondario può avere effetti positivi sui costi di gestione degli accumulatori, in questo modo agevolando l’affermazione del mercato dell’elettrico”.
Etica e profitto, una sfida
Recuperare materiali rari come il cobalto da li accumulatori non sarebbe solo un’opportunità economica ma avrebbe anche un valore etico. Da una parte abbiamo l’avvento della mobilità a bassissime emissioni con auto e moto elettriche, dall’altro però si deve fare i conti con una disponibilità limitata di materie prime e condizioni economiche e sociali sfavorevoli nei territori in cui queste materie prime critiche vengono estratte. Il caso del cobalto ne è un esempio, dal momento che le aree di estrazione sono poche e spesso instabili. La maggior parte delle riserve sono concentrate in regioni politicamente fragili, come la Repubblica democratica del Congo, fornitore del 55% del cobalto totale a livello globale. Questo mercato diventa così emblema dei danni dell’economia lineare: per fornire un materiale utile prevalentemente al mondo globalizzato si sottraggono risorse e diritti a popolazioni che vivono in estrema povertà, limitando i vantaggi a una élite spesso corrotta. Incentivare il recupero di materiali come il cobalto dalle batterie dismesse potrebbe portare ad allentare la presa nei confronti delle risorse “altrui”, creando una filiera domestica – la cosiddetta “miniera urbana” – in grado di dare valore ai cumuli di apparecchiature elettroniche e accumulatori esausti che invadono i punti di raccolta e le discariche di tutta Europa, Italia compresa. In questo modo ci si potrebbe aspettare un’impennata dell’indicatore EOL-RIR per cobalto, litio e molti altri materiali che costituiscono una batteria.
Potenzialità delle materie prime seconde
La Commissione Europea è al lavoro anche per aggiornare il quadro di monitoraggio dell’economia circolare, che fa già riferimento a numerosi indicatori basati su diversi aspetti del sistema economico, tra cui EOL-RIR per le materie prime seconde. C’è anche l’ulteriore obiettivo di creare nuovi indicatori che terranno conto di aspetti del Piano d’azione per l’economia circolare e delle relazioni tra circolarità, neutralità climatica e obiettivo “inquinamento zero”. Per quanto riguarda le materie prime seconde , il Piano d’azione per l’economia circolare prevede diverse misure a sostegno di una loro maggiore competitività in termini di costo e disponibilità, così da portare equilibrio tra domanda e offerta e permettere l’espansione del settore, per esempio con l’introduzione dell’obbligo di contenuto riciclato minimo nei prodotti. Spingere in questa direzione rafforzerebbe la crescita del mercato delle materie prime seconde e aumenterebbe la responsabilità nei produttori. Questi ultimi potrebbero così vedere rivalutati i loro magazzini, che in un’ottica circolare costituiscono un patrimonio non indifferente di materie utili e preziose.
L’Italia ha di fronte a sé una grande sfida, quella di sfruttare le sue grandi potenzialità nella raccolta e riciclo di rifiuti di pile e accumulatori per divenire un importante fornitore di materia prima seconda, valorizzando così ancora una volta la sua capacità di aggirare l’ostacolo della mancanza di materie prime puntando su recupero, riutilizzo e riciclo.
fonte: economiacircolare.com
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Pellicole alimentari non inquinanti, la ricerca del CNR
Mario Malinconico, ricercatore dell’Istituto per i polimeri, compositi e biomateriali (Ipcb) del Cnr sottolinea che «la plastica di origine fossile si degrada in un arco temporale che può raggiungere i 1.000 anni, a fronte della plastica biodegradabile, che si degrada di almeno il 90% in sei mesi. Nel 2015 i prodotti plastici consumati nel mondo ammontavano a 322 milioni di tonnellate».
Un’interessante alternativa potrebbe essere il Modified Atmosphere Packaging (Map), una tecnica di conservazione utilizzata per prolungare la shelf life degli alimenti freschi o “minimally processed”: consiste nel modificare la composizione dell’aria che circonda l’alimento permettendo di allungarne la conservazione. Questa metodologia può essere applicata a prodotti quali la carne, la frutta e la verdura.
Dal Map è derivato Equilibrium Modified Atmosphere Packaging (Emap), un sistema di conservazione senza il ricorso all’uso di sostanze chimiche che trova l’applicazione ideale per prodotti che devono essere trasportati su lunghe distanze, ovvero nel caso delle esportazioni, del mercato alberghiero o del commercio al dettaglio. Emap utilizza pellicole traspiranti, trasparenti, che permettono di sigillare gli alimenti evitando la formazione di condensa.
Il mercato del biologico ricerca soluzioni sempre più sostenibili che al momento sembrano essere le pellicole biodegradabili. Esistono pellicole Emap che impiegano materie prime biodegradabili e amiche dell’ambiente che riescono a coniugare la qualità e la durabilità dei prodotti alimentari con la sostenibilità.
Il Cnr ha effettuato esperimenti su larga scala con il progetto europeo Hortibiopack, ed è ancora in corso la sperimentazione nell’ambito del progetto Biodegrapack del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. I risultati sembrano incoraggianti: il nuovo sistema che impiega una pellicola in acido polilattico offre buone performance sia in termini di prolungamento della shelf life che di biodegradabilità, infatti può essere smaltito con i rifiuti umidi ed entrare nel circuito del compostaggio industriale.
fonte: www.rinnovabili.it
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I costi del fotovoltaico diminuiti del 30%. Già oggi è possibile riciclare il 90% dei materiali dei pannelli
Dal webinar “Investire nel Green Deal: i Fondi di Investimento e l’opportunità nell’Economia Sostenibile”, organizzato dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e da GreenHill Advisory, è venuta la conferma che negli ultimi 5 anni il solare fotovoltaico ha subito una vera e propria rivoluzione, attraversando rapidamente diverse fasi, dagli incentivi al consolidamento; dalla rimodulazione del programma Conto energia (la cosiddetta Feed-in Tariff) alla compressione dei rendimenti; fino all’attuale slancio dato dall’innovazione tecnologica, che oggi ha reso il settore ancora più sostenibile rispetto alle fonti tradizionali, anche in assenza di incentivi statali, raggiungendo prima del previsto la grid parity.
Un traguardo che gli ecoscettici e la lobby dei combustibili fossili ritenevano irraggiungibile e che ora apre la strada a una maggiore diffusione delle energie rinnovabili per riuscire a rispettare gli obiettivi energetici dell’Italia per il 2030 che richiedono una forte accelerazione per installazione nuova capacità rispetto a quanto fatto registrare negli ultimi 2 anni.
Intervenendo al convegno, Giuseppe La Loggia, head of energy infratructures di EOS IM Group, ha sottolineato che «Un’evoluzione del settore è quindi necessaria per consolidare il cambiamento, e contribuire al raggiungimento degli ambiziosi obiettivi nazionali ed europei di green energy. La sfida attuale, in altre parole, è garantire agli investitor in economia reale opportunità in grado di sfruttare le potenzialità delle energie rinnovabili in assenza di incentivi statali. Per noi, le nuove opportunità per lo sviluppo sono progetti greenfield operanti in grid-parity, grazie al sostanziale miglioramento tecnologico raggiunto».
Secondo un’analisi realizzata da EOS IM su dati International Technology Roadmap for Photovoltaic e LONGi, «L’investimento nell’energia rinnovabile da fonte solare gode oggi di un vantaggio per cui, solo negli ultimi 5 anni, il LCOE (costo) si è ridotto di quasi il 30% dal 2015 al 2019. Negli ultimi 5 anni sono state introdotte su vasta scala innovazioni come le celle mono-cristallino, la “passivazione” (PERC) e la resa bifacciale del pannello fotovoltaico. L’avanzamento tecnologico ha portato a un importante rilancio dello sviluppo del settore, permettendo il raggiungimento delle condizioni di viabilità e di indipendenza economica degli impianti solari senza necessità di sussidi pubblici. In 30 anni la degradazione dei pannelli solari, grazie al cambio di tecnologia, è diminuita di 14 punti percentuali, permettendo una mitigazione sostanziale del rischio regolatorio, con un contestuale aumento della produzione annua e della vita utile del progetto, una maggiore produzione di energia garantita, e più a lungo. Inoltre, abbiamo oggi un minore impatto ambientale legato al decommissioning, ovvero lo smaltimento, oltre ad una notevole riduzione delle superfici occupate».
La Loggia aggiunge che «Ulteriori vantaggi legati al progressivo consolidamento tecnologico sono legati alle tecnologie di storage dell’energia nei picchi giornalieri e stagionali di produzione, che non corrispondono sempre a quelli di utilizzo, per cui tutti i nostri nuovi investimenti prevedranno la possibilità di cogliere tali opportunità».
Il convegno ha anche evidenziato «L’impatto positivo e rilevante in termini di indotto per l’economia reale della zona coinvolta da sviluppo di nuovi impianti di generazione di energia, dato il concreto potenziale in termini di occupazione e valorizzazione del territorio».
Ne è convinta anche Elettricità Futura di Confindustria che ha lanciato la campagna social “La transizione energetica: dalle parole ai fatti!” per diffondere la cultura della transizione energetica e che evidenzia la soluzione di un altro problema: quello del riciclo dei pannelli solari.
A elettricità Futura ricordano che «Quello elettrico è di fatto uno dei settori più legati all’economia circolare, dall’efficienza energetica allo smaltimento dei rifiuti. Con le tecnologie attuali si arriva tecnicamente a poter riciclare il 90% dei materiali dei pannelli fotovoltaici. La prospettiva tecnologica ci suggerisce un incremento di questa percentuale, grazie anche all’utilizzo di materiali innovativi, e di conseguenza anche dei benefici legati».
L’Associazione confindustriale cita uno studio dell’International Renewable Energy Agency ed evidenzia che «Se al 2050 riutilizzassimo in un’ottica di economia circolare i 78 milioni di tonnellate di quantitativo di materiale degli impianti fotovoltaici a fine vita, avremmo come benefici 15 miliardi di dollari in termini di ricchezza in nuove aziende e posti di lavoro locali e qualificati che si occupino di recupero dei materiali, la possibilità di ottenere 2 miliardi di nuovi pannelli e che a loro volta potrebbero creare 630 gigawatt di nuova capacità elettrica. Puntare sull’economia circolare vuol dire dare una seconda vita ai pannelli fotovoltaici, facilitando il riutilizzo di componentistiche ancora funzionanti favorendo lo sviluppo di un mercato secondario. Splende il sole sull’economia circolare. Vero! Già oggi è possibile riciclare il 90% dei materiali dei pannelli fotovoltaici. La normativa valorizzi la circolarità del solare. Green Deal ora!»
La campagna delle imprese del settore elettrico e di Elettricità Futura per il Green Deal non si ferma al fotovoltaico ma punta a «Superare le opposizioni ideologiche alla diffusione degli impianti necessari alla transizione, smentendo i miti più comuni che alimentano l’opposizione dell’opinione pubblica allo sviluppo impiantistico e che creano un’errata percezione degli impatti della decarbonizzazione per l’economia e il sistema energetico. Accrescere la cultura della transizione energetica favorendo la creazione di opinioni libere da preconcetti ideologici e basate su fatti e numeri. Tenere alta l’attenzione dei media riguardo alla necessità di impiegare le risorse del Recovery Fund per la transizione energetica».ùElettricità Futura sottolinea che «Per raggiungere il target del Green Deal 2030 è necessario realizzare in Italia almeno 65 GW di nuova potenza da fonti rinnovabili entro il 2030. In questo contesto ambizioso, acquistano significato le iniziative finalizzate a dare nuovo impulso agli investimenti per l’ulteriore sviluppo delle fonti rinnovabili. L’Italia dovrà mettere in campo azioni e politiche per favorire gli investimenti nelle rinnovabili, definendo regole chiare e armonizzate per realizzare impianti che producano più energia verde e a prezzi competitivi. Lo stesso PNIEC riconosce, all’interno della strategia per lo sviluppo delle energie rinnovabili, misure finalizzate a sostenere la salvaguardia e il potenziamento del parco di impianti esistenti. Il repowering è infatti il rinnovamento delle centrali elettriche che producono energia rinnovabile, compresa la sostituzione integrale o parziale di impianti o apparecchiature e sistemi operativi al fine di sostituire capacità o di aumentare l’efficienza o la capacità dell’impianto».
Per questo, «E’ necessario migliorare l’efficienza dei parchi eolici grazie al repowering lavorando sulla semplificazione normativa. La durata delle procedure autorizzative per l’eolico (quindi anche per il repowering) è nel nostro Paese pari a 5 anni, di gran lunga superiore a quella stabilita dalla Direttiva RED II di un anno, massimo due per casi eccezionali. Infatti, durante iter tanto lunghi, cambiano le tecnologie di riferimento, le condizioni al contorno (incluso lo sviluppo della rete e il contesto normativo regolatorio) e i progetti da autorizzare rischiano di arrivare al permitting già vecchi!»
Migliorando l’efficienza dei parchi eolici e frealizzandone di nuovi si potrebbe avere un contributo di 37 miliardi di euro per il PIL Ue e dare lavoro a 300.000 persone. In Italia occorrono 5 anni in Italia per il repowering, REDII ne prevede massimo 2 con meno burocrazia.
L’unione europea vuole raggiungere la carnbon neutrality entro il 2050, con una qualità dell’aria migliore e impatti economici positivi. Elettricità Futura fa notare che «I 55 progetti di tecnologie sostenibili analizzate da Capgemini Invent nell’ambito del rapporto “55 Tech Quests to Accelerate Europe’s Recovery and Pave the Way to Climate Neutrality” sono in grado di generare investimenti per 790 miliardi di euro l’anno e di ridurre fino a 871 milioni di tonnalle di emissioni di CO2».
Le imprese elettriche delle rinnovabili italiane sono convinte che «Il Green Deal è un’opportunità di sviluppo economico e sociale per il Paese. Nel nostro settore verranno generati benefici anche sull’occupazione e mobiliterà nei prossimi 10 anni in Italia nel solo settore elettrico circa 50.000 nuovi occupati permanenti al 2030 e 40.000 nuovi occupati temporanei annui per un totale di 90.000 nuovi occupati al 2030. Per cogliere questa grande occasione è necessario lavorare per una transizione energetica equa ed inclusiva attraverso l’adozione di policy in grado di generare benefici in termini di PIL, occupazione e riduzione delle disuguaglianze. In Italia realizzare il Green Deal significa creare 90.000 nuovi posti di lavoro al 2030 e ridurre disuguaglianze sociali. Vero! La transizione energetica favorisce occupazione e aumenta equità!»
Elettricità Futura conclude: «Per conseguire gli obiettivi del Green Deal e la proposta di innalzare il target di decarbonizzazione europeo dal 40% ad almeno il 55%, il nostro Paese dovrà impegnarsi attraverso un Piano al 2030 più ambizioso del PNIEC (Piano Nazionale Integrato Energia e Clima approvato dal Governo italiano a gennaio 2019). Il 70% dell’energia elettrica consumata in Italia dovrà infatti provenire entro il 2030 da fonti rinnovabili! Ciò significa che al 2030 dovremo raggiungere circa 120 GW di potenza da fonti rinnovabili rispetto ai 55 GW attuali. Un incremento di 65 GW in dieci anni che sembra ancora utopistico, se consideriamo che dovremmo costruire ogni anno impianti per 6,5 GW. Negli ultimi anni la media in Italia è stata invece di circa 1 GW. L’Italia sta perdendo l’opportunità del Green Deal: è falso che siamo sulla buona strada! Acceleriamo o di questo passo raggiungeremo i target del 2030 nel 2085!»
fonte: www.greenreport.it
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Salvare le api, un progetto europeo nato a Venezia. 3,2 milioni di euro per prati, siepi e bordure fiorite
Gli insetti impollinatori sono fondamentali per la produzione della maggioranza delle specie vegetali e quindi per l’agricoltura, ma oggi sono a rischio di estinzione. Un problema legato al degrado ambientale e alla scomparsa degli habitat naturali di questi insetti, che secondo la piattaforma intergovernativa su biodiversità e servizi ecosistemici (Ipbes) riguarda oltre il 40% delle specie, principalmente api e altri imenotteri (vespe o api selvatiche) o farfalle. Per il momento si cerca di rimediare con progetti internazionali come LIFE Biodiversità PollinAction, della durata di cinque anni coordinato dall’Università di Venezia.
“Esistono varie categorie di insetti impollinatori”, spiega Emilio Guerrieri, dirigente di ricerca presso l’istituto per la Protezione sostenibile delle piante del Cnr, “tra le più importanti gli imenotteri, quali api, vespe e simili, i ditteri quali mosche e simili e i lepidotteri ossia le farfalle diurne”. Sono però gli imenotteri a essere i principali impollinatori – approssimativamente in una percentuale intorno al 50%, seguiti rispettivamente dagli altri due gruppi al 30 e al 20% – e quindi quelli più a rischio. “La criticità è legata a diversi fattori – spiega Guerrieri – l’uso di insetticidi ad ampio spettro di azione, il cambiamento climatico che influisce sulla quiescenza, il riposo nei mesi freddi, che possiamo paragonare al letargo e la perdita di biodiversità vegetale, cui si aggiungono altri elementi di stress come i parassiti delle api”.
Eventi che mettono in crisi un meccanismo naturale di straordinaria efficienza, che offre alle piante importanti vantaggi genetici: “Gli insetti bottinano i fiori per il nettare di cui si nutrono, e in questo modo si sporcano di polline che trasportano da pianta a pianta”, spiega Guerrieri. Tra poco questo potrebbe non essere più possibile, come mostrano dati preoccupanti sulla moria di insetti, soprattutto api, con la conseguente riduzione della produzione di miele, ma soprattutto con gravi conseguenze per le coltivazioni. “In Cina ho visto frutteti in cui i fiori di pero erano impollinati a mano da braccianti agricoli, uno per uno”, ricorda Guerrieri. “Uno scenario apocalittico che non è così lontano da noi, anche se ora anche lì si sta cercando di portare l’agricoltura verso una maggiore sostenibilità”.
Ed è in questa direzione che si muove LIFE “Biodiversità” PollinAction, coordinato dalla botanica Gabriella Buffa dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, e avviato dal mese scorso con un budget di 3,2 milioni di euro e dieci partner tra l’Italia e la Spagna. Un programma di azioni finalizzate a invertire questa tendenza, recuperando gli habitat naturali di questi insetti; “Prima di tutto i prati da sfalcio, a vegetazione spontanea e quindi ricchi di biodiversità, che una volta erano un elemento essenziale del sistema agicolo da cui si ricavava il fieno per il bestiame, ma che oggi stanno scomparendo a causa dell’urbanizzazione e di un’intensificazione dell’agricoltura”, osserva Buffa. Questi prati garantiscono fioriture prolungate, dove gli insetti possono trovare nutrimento durante tutta la stagione; i coltivi hanno invece cicli più brevi, con fioriture sincrone, come ad esempio i frutteti, o hanno diversi sistemi di impollinazione come i cereali, privando api e altri insetti della possibilità di nutrirsi.
Con quali conseguenze? “Uno degli obiettivi del progetto è di quantificare la situazione”, spiega la botanica. In Europa e in altri paesi ci sono molti dati sulla perdita di insetti, mentre della situazione italiana sappiamo poco, e anche il report europeo del 2017 sulle iniziative dei diversi stati europei a tutela degli impollinatori non menziona neppure l’Italia. Anche se ci sono forti segnali di allarme, come la notevole riduzione della produzione di miele, che nel 2019 si è praticamente dimezzata.
L’obiettivo del progetto europeo è quello di realizzare infrastrutture “verdi” che favoriscono la presenza di specie vegetali adatte agli insetti. “Lavoreremo con modalità diverse”, spiega Buffa, “in Spagna puntiamo a recuperare terreni abbandonati, mentre in Italia i nostri interventi sono concentrati in aree della Pianura Padana orientale, fortemente antropizzate e dove è diffusa l’agricoltura meccanizzata“. Nel progetto sono coinvolti sei comuni, due apicoltori in Spagna, sei aree ad agricoltura estensiva in Friuli-Venezia Giulia e il Passante di Mestre oltre ad alcune aziende agricole appartenenti al circuito di EcorNaturasì, produttore e distributore di alimenti biologici e biodinamici. “Cerchiamo di dimostrare che si può fare economia utilizzando il territorio in modo sostenibile”, spiega Buffa, “in Italia stiamo creando una filiera per valorizzare la produzione di latte e formaggio da animali alimentati col fieno ricavato dallo sfalcio dei prati, per valorizzare la competitività delle aziende agricole che mettono a disposizione il terreno per il progetto”.
In altre aree, come le scarpate del passante di Mestre, è prevista invece la realizzazione di prati, siepi e bordure fiorite: “Interventi di questo tipo sono molto diffusi in altri paesi, come la Gran Bretagna”, spiega Buffa, “e oltre a rendere più gradevole il paesaggio offrono agli insetti piccole aree attraverso le quali spostarsi“. Il progetto prevede la conversione di 200mila metri quadrati di seminativi in prati fioriti, oltre al miglioramento di 2,6 milioni di m2 di praterie esistenti, e alla realizzazione di 3,5 chilometri di siepi e di corridoi ecologici su trenta chilometri di strade.
fonte: www.ilfattoalimentare.it
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