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Cibo, ecco quanto dipendiamo dalle api


Un mondo senza api sarebbe sicuramente un pianeta privo di miele. Ma anche senza cioccolato. Il motivo? Il cacao è una delle colture – insieme al kiwi, meloni, cocomeri, zucche e noci del Brasile – che dipendono per il 90% dagli impollinatori, api in testa.

Le api, messe in pericolo dall’uso dei pesticidi (purtroppo non solo dai famigerati neonicotinoidi), svolgono insieme ad altri insetti – vespe e farfalle – un ruolo fondamentale nella ...

Cosa fare per proteggere le api e gli impollinatori dagli insetticidi
















Se davvero si vogliono proteggere le api e gli altri impollinatori dalla catastrofica situazione in cui si trovano, è necessario rifondare la legislazione in materia di insetticidi e pesticidi, cambiandone radicalmente l’impostazione. A sostenerlo, dalle pagine di Nature, è Adrian Fisher, esperto in materia dell’Università dell’Arizona, che esprime un’opinione assai netta, e condivisa con 14 colleghi. Il primo dato di fatto è il fallimento delle normative attuali, con il clamoroso esempio dei neonicotinoidi, che Fisher definisce sistemico, in quanto del tutto incapace di proteggere gli impollinatori. Se si vuole cambiare, bisogna partire da un concetto fondamentale: che questi ultimi siano protagonisti ineludibili della sicurezza alimentare.

Chiare le linee guida suggerite da Fisher. Innanzitutto, prima di ottenere un via libera, un produttore deve dimostrare che il suo fitofarmaco non è tossico per gli impollinatori, e mettere a punto un protocollo per la verifica della tossicità a dosi subletali che includa lo studio del comportamento in situazioni ecologicamente realistiche. Bisogna poi rendere obbligatoria un’attività di analisi regolare sulle colonie di impollinatori, e prevedere test di tossicità da accumulo e da combinazione tra i diversi pesticidi e residui presenti nell’ambiente. Infine, è indispensabile affidare a enti pubblici terzi il controllo dei possibili effetti sul lungo termine, affinché emergano prima possibile eventuali tossicità impreviste.


Su Nature è stato pubblicato un appello per chiedere un cambiamento radicale delle norme per la protezione degli insetti impollinatori

Intanto, in attesa che i regolamenti e le norme seguano la direzione indicata da Fisher, uno studio dei ricercatori della Cornell University di Ithaca, New York, pubblicato su Nature Food, autorizza a sperare che almeno gli apicoltori possano disporre presto di un vero e proprio antidoto contro gli insetticidi. Secondo studi recenti, il 98% della cera e del polline degli Stati Uniti contiene sei tra i principali insetticidi usati nel mondo, alcuni dei quali noti per indebolire notevolmente il sistema immunitario delle api, rendendole così molto più suscettibili a infestazioni quali quella da Varroa.

Per questo i ricercatori newyorkesi, che hanno creato anche una start up (Beeimmunity) per commercializzare le soluzioni messe a punto, hanno cercato il modo di neutralizzare le sostanze tossiche che le api inevitabilmente assorbono con una sorta di finto polline ripieno di un enzima che, una volta entrato in circolo, le degrada. La sostanza, una fosfodiesterasi studiata contro i pesticidi organofosfati, viene somministrata in liquido zuccherino o insieme al polline (dal quale è indistinguibile). Così arriva all’apparato digerente, e il “guscio” protettivo delle particelle permette di oltrepassare intatta gli acidi dello stomaco delle api. Nell’intestino poi vengono scisse, liberando l’enzima che può agire, depurare l’organismo dell’insetto e neutralizzare il pesticida.

Un gruppo di ricercatori ha sviluppato un sistema per contrastare gli effetti dei pesticidi sulle api

Dopo i primi test in vitro molto positivi, gli autori sono passati a quelli sulle api in laboratorio, confrontando la sopravvivenza di api esposte all’organofosfato malathion nutrite o meno con l’antidoto. Mentre il 100% delle prime ha resistito anche alle dosi più alte, le seconde sono morte tutte entro pochi giorni.

In seguito è stata ideata anche un’altra versione dell’antidoto, questa volta sfruttando l’azione stessa dei pesticidi e in particolare dei neonicotinoidi, diretti specificamente contro alcune proteine degli insetti. Le palline di finto polline, in quel caso, sono stare realizzate proprio con quelle proteine, in modo da avere una sorta di spugna sferica che attiri tutto l’insetticida al suo interno, e che sia poi espulsa con le feci. I primi risultati, anche in questo caso, sono più che incoraggianti.

Ora tutti i test si sono spostati in 240 alveari del New Jersey, per sperimentare le diverse soluzioni non solo in un ambiente naturale, ma nella complessa realtà delle colonie. Se tutto andrà per il meglio, entro pochi mesi potrebbe essere messo in vendita uno di questi antidoti che, secondo le previsioni, dovrebbero essere anche molto economici (l’enzima è già prodotto industrialmente e ha numerosi altri impieghi) e facilissimi da gestire.

fonte: www.ilfattoalimentare.it



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Salvare le api, un progetto europeo nato a Venezia. 3,2 milioni di euro per prati, siepi e bordure fiorite

 

Gli insetti impollinatori sono fondamentali per la produzione della maggioranza delle specie vegetali e quindi per l’agricoltura, ma oggi sono a rischio di estinzione. Un problema legato al degrado ambientale e alla scomparsa degli habitat naturali di questi insetti, che secondo la piattaforma intergovernativa su biodiversità e servizi ecosistemici (Ipbes) riguarda oltre il 40% delle specie, principalmente api e altri imenotteri (vespe o api selvatiche) o farfalle. Per il momento si cerca di rimediare con progetti internazionali come LIFE Biodiversità PollinAction, della durata di cinque anni coordinato dall’Università di Venezia.


“Esistono varie categorie di insetti impollinatori”, spiega Emilio Guerrieri, dirigente di ricerca presso l’istituto per la Protezione sostenibile delle piante del Cnr, “tra le più importanti gli imenotteri, quali api, vespe e simili, i ditteri quali mosche e simili e i lepidotteri ossia le farfalle diurne”. Sono però gli imenotteri a essere i principali impollinatori – approssimativamente in una percentuale intorno al 50%, seguiti rispettivamente dagli altri due gruppi al 30 e al 20% – e quindi quelli più a rischio. “La criticità è legata a diversi fattori – spiega Guerrieri – l’uso di insetticidi ad ampio spettro di azione, il cambiamento climatico che influisce sulla quiescenza, il riposo nei mesi freddi, che possiamo paragonare al letargo e la perdita di biodiversità vegetale, cui si aggiungono altri elementi di stress come i parassiti delle api”.


Gli imenotteri sono i principali impollinatori in una percentuale intorno al 50% seguiti da mosche per il 30% e dalle farfalle 20%

Eventi che mettono in crisi un meccanismo naturale di straordinaria efficienza, che offre alle piante importanti vantaggi genetici: “Gli insetti bottinano i fiori per il nettare di cui si nutrono, e in questo modo si sporcano di polline che trasportano da pianta a pianta”, spiega Guerrieri. Tra poco questo potrebbe non essere più possibile, come mostrano dati preoccupanti sulla moria di insetti, soprattutto api, con la conseguente riduzione della produzione di miele, ma soprattutto con gravi conseguenze per le coltivazioni. “In Cina ho visto frutteti in cui i fiori di pero erano impollinati a mano da braccianti agricoli, uno per uno”, ricorda Guerrieri. “Uno scenario apocalittico che non è così lontano da noi, anche se ora anche lì si sta cercando di portare l’agricoltura verso una maggiore sostenibilità”.

Ed è in questa direzione che si muove LIFE “Biodiversità” PollinAction, coordinato dalla botanica Gabriella Buffa dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, e avviato dal mese scorso con un budget di 3,2 milioni di euro e dieci partner tra l’Italia e la Spagna. Un programma di azioni finalizzate a invertire questa tendenza, recuperando gli habitat naturali di questi insetti; “Prima di tutto i prati da sfalcio, a vegetazione spontanea e quindi ricchi di biodiversità, che una volta erano un elemento essenziale del sistema agicolo da cui si ricavava il fieno per il bestiame, ma che oggi stanno scomparendo a causa dell’urbanizzazione e di un’intensificazione dell’agricoltura”, osserva Buffa. Questi prati garantiscono fioriture prolungate, dove gli insetti possono trovare nutrimento durante tutta la stagione; i coltivi hanno invece cicli più brevi, con fioriture sincrone, come ad esempio i frutteti, o hanno diversi sistemi di impollinazione come i cereali, privando api e altri insetti della possibilità di nutrirsi.


L’obiettivo del progetto è di realizzare infrastrutture “verdi” che favoriscano la presenza di specie vegetali adatte agli insetti

Con quali conseguenze? “Uno degli obiettivi del progetto è di quantificare la situazione”, spiega la botanica. In Europa e in altri paesi ci sono molti dati sulla perdita di insetti, mentre della situazione italiana sappiamo poco, e anche il report europeo del 2017 sulle iniziative dei diversi stati europei a tutela degli impollinatori non menziona neppure l’Italia. Anche se ci sono forti segnali di allarme, come la notevole riduzione della produzione di miele, che nel 2019 si è praticamente dimezzata.
L’obiettivo del progetto europeo è quello di realizzare infrastrutture “verdi” che favoriscono la presenza di specie vegetali adatte agli insetti. “Lavoreremo con modalità diverse”, spiega Buffa, “in Spagna puntiamo a recuperare terreni abbandonati, mentre in Italia i nostri interventi sono concentrati in aree della Pianura Padana orientale, fortemente antropizzate e dove è diffusa l’agricoltura meccanizzata“. Nel progetto sono coinvolti sei comuni, due apicoltori in Spagna, sei aree ad agricoltura estensiva in Friuli-Venezia Giulia e il Passante di Mestre oltre ad alcune aziende agricole appartenenti al circuito di EcorNaturasì, produttore e distributore di alimenti biologici e biodinamici. “Cerchiamo di dimostrare che si può fare economia utilizzando il territorio in modo sostenibile”, spiega Buffa, “in Italia stiamo creando una filiera per valorizzare la produzione di latte e formaggio da animali alimentati col fieno ricavato dallo sfalcio dei prati, per valorizzare la competitività delle aziende agricole che mettono a disposizione il terreno per il progetto”.

In altre aree, come le scarpate del passante di Mestre, è prevista invece la realizzazione di prati, siepi e bordure fiorite: “Interventi di questo tipo sono molto diffusi in altri paesi, come la Gran Bretagna”, spiega Buffa, “e oltre a rendere più gradevole il paesaggio offrono agli insetti piccole aree attraverso le quali spostarsi“. Il progetto prevede la conversione di 200mila metri quadrati di seminativi in prati fioriti, oltre al miglioramento di 2,6 milioni di m2 di praterie esistenti, e alla realizzazione di 3,5 chilometri di siepi e di corridoi ecologici su trenta chilometri di strade.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Con il lockdown stiamo salvando le api: i fiori selvatici spuntano nelle città di tutto il mondo

















Sarà questa la primavera in cui probabilmente salveremo le api? Se risale a poco più di un mese fa la notizia secondo cui il troppo caldo aveva risvegliato in anticipo miliardi di insetti impollinatori, ora la situazione potrebbe (più o meno) ribaltarsi. E il merito sarebbe del coronavirus.
Le misure restrittive che hanno, tra le altre cose, praticamente annullato le falciature e ridotto di gran lunga traffico e inquinamento, hanno anche il vantaggio di aver fatto esplodere i fiori selvatici, aiutando in qualche modo il ripristino dei tanto delicati ecosistemi vegetali urbani e il timido ritorno delle api.
Fiori rari e popolazioni di api in calo potrebbero insomma iniziare a riprendersi durante il lockdown del coronavirus perché ormai in quasi tutte le città si lascia che crescano indisturbate ai bordi delle strade piante selvatiche di ogni tipo.
Secondo la più grande organizzazione europea per la conservazione delle piante selvatiche, Plantlife, sono infatti i cigli delle strade gli ultimi rifugi per le molte specie vegetali che sono state devastate dalla conversione dei prati naturali in terreni agricoli e complessi residenziali. Queste strette strisce di prati possono ospitare ben 700 specie di fiori selvatici.
Negli ultimi anni, spiega Trevor Dines, botanico di Plantlife, “la cattiva gestione si è combinata con l’inquinamento, creando una ‘tempesta perfetta’. I consigli comunali hanno adottato politiche eccessivamente impazienti che abbattono i fiori prima che possano piantare i semi”. Ma sono state proprio le falciature, a causa della crisi dovuta a Covid-19, ad essere tra i primi servizi ridotti se non addirittura sospesi. E gli ecosistemi vegetali urbani hanno già iniziato a riprendersi.
Tutto ciò giova in maniera straordinaria anche alle popolazioni di api, farfalle, uccellini, pipistrelli e di tutti gli insetti che dipendono dalle piante selvatiche per la sopravvivenza.
Semplicemente lasciando fiorire, insomma, tante delle nostre piante potranno nuovamente offrire polline e nettare alle api in un amorevole scambio. Di contro, infatti, circa l’80% delle piante si serve dell’aiuto di insetti o di altri animali per trasportare granuli di polline dalla parte maschile a quella femminile della pianta.
Ai tempi del coronavirus, quindi, la natura riprende i suoi spazi. Ed è magnifico rendersi conto quanto poco ci vorrebbe per lasciarla indisturbata e vivere più in armonia col Pianeta che popoliamo.
fonte: www.greenme.it

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Biodiversità e agricoltura: la riscoperta delle tecniche del passato per fare un salto nel futuro






Tutelare la biodiversità non è solo utile all’ambiente, ma anche vantaggioso per l’agricoltura, aiuta a difendere i campi dagli insetti dannosi, favorisce l’impollinazione e aumenta la produzione. Per questo si stanno riscoprendo, con una nuova consapevolezza, pratiche antiche come la costruzione di siepi intorno ai campi le bordure fiorite attorno ai frutteti, le rose nelle vigne o il mantenimento di strisce di terreno incolto. Lo conferma una ricerca su oltre 1.500 terreni agricoli in tutto il mondo, uno sforzo internazionale coordinato da Eurac Research di Bolzano e dall’Università di Würzburg.

I ricercatori hanno analizzato due servizi ecosistemici – processi regolati dalla natura – vantaggiosi per l’uomo: il servizio di impollinazione fornito dagli insetti selvatici, e il servizio di controllo biologico, cioè la capacità di un ambiente di difendersi da insetti nocivi grazie ad altri insetti antagonisti presenti in natura. “In questo modo si migliora la produzione e si riduce la spesa per i pesticidi”, spiega Matteo Dainese, biologo di Eurac e responsabile dello studio, “una ricerca nata all’Università di Padova, dove mi sono formato, e poi sviluppata negli anni in una collaborazione internazionale”, spiega il ricercatore.

In passato alcune di queste tradizioni esistevano anche da noi, come le siepi fiorite a separare i campi o le piante di rose messe a protezione dei filari di viti, perché sono le prime a essere attaccate dai parassiti e ne segnalano la presenza: oggi in Italia il recupero di queste tradizioni è diffuso soprattutto nelle coltivazioni biologiche, mentre c’è più interesse in Germania o in Europa settentrionale, dove si lavora soprattutto nei meleti e sulle coltivazioni di colza, ma anche in altri paesi come l’America Latina dove questi metodi sono applicati alle piantagioni di caffè. “Ma anche da noi le cose stanno cambiando, in Alto Adige per esempio la biodiversità è entrata nel linguaggio dell’amministrazione”, sottolinea Dainese, “si comincia a comprenderne l’importanza”. Arriva dalla centro di sperimentazione di Lainburg in Alto Adige, per esempio, una serie di studi sui vantaggi legati alla presenza di strisce fiorite perenni nei meleti.

“Fino a qualche anno fa si lavorava per salvaguardare la biodiversità in quanto tale, ora stiamo cominciando a comprenderne i vantaggi legati alla produttività “, spiega Paolo Barberi, agronomo della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che ha partecipato a vari progetti europei su questi temi.





Le piante di rose messe a protezione dei filari di viti, perché sono le prime a essere attaccate dai parassiti e ne segnalano la presenza

“Per anni l’agricoltura intensiva ha permesso di incrementare la produttività, ma oggi le cose stanno cambiando”, conferma Dainese. Siamo arrivati a una fase di stallo o addirittura a una diminuzione, senza contare che alcuni organismi stanno sviluppando resistenze a pesticidi ed erbicidi. “Abbiamo avuto un approccio semplicistico, pensando che si potesse risolvere tutto attraverso soluzioni tecniche puntuali, con uno specifico pesticida o diserbante, dimenticando la complessità dei sistemi naturali“, aggiunge Barberi. “Per questo abbiamo dimenticato buone prassi come la rotazione delle colture, che stiamo recuperando.” Oggi si punta a un approccio integrato (Integrated Pest Management) che usa vari sistemi preventivi per ridurre l’utilizzo di pesticidi, e più in generale di prodotti chimici, “con risparmio di costi diretti e indiretti, senza dimenticare l’impatto dell’uso delle sostanze chimiche sulla salute di chi lavora in agricoltura”, ricorda Barberi, “per questo c’è sempre maggior interesse per la biodiversità, anche a livello di Unione Europea”.

Così si recuperano le pratiche tradizionali, rivisitandole alla luce delle conoscenze scientifiche per costruire un paesaggio eterogeneo, un mosaico di campi agricoli, bordure di siepi fiorite e piccole aree naturali preservate per tutelare la biodiversità. Che serve a migliorare l’impollinazione – “di cui ha bisogno il 70% delle colture agricole”, ricorda Dainese – e a favorire la presenza di insetti utili. “ Come le coccinelle, che soprattutto allo stato larvale attaccano gli afidi, ma anche alcuni coleotteri oppure i sirfidi, insetti simili alle api che ricoprono importanti ruoli negli agroecosistemi, agendo come impollinatori nonché come antagonisti naturali di insetti nocivi, ma anche api selvatiche e farfalle”, spiega Dainese. Oggi gli insetti utili si possono anche allevare per poi inserirli nell’ambiente sulla base di rigidi protocolli di screening che garantiscono la sicurezza dell’intervento, “che può essere integrato con altre forme di interventi per la tutela della biodiversità e dell’ambiente”, spiega Barberi, “per esempio recuperando una pratica antica come l’introduzione nei sistemi di coltivazione di leguminose che, fissando l’azoto atmosferico, permettono di ridurre l’uso di fertilizzanti e migliorano la qualità del terreno”.


Il 70% delle colture agricole ha bisogno dell’impollinazione tramite insetti

In realtà esistono molti possibili interventi per ogni tipo di coltivazione. “Anche i sistemi a monocoltura possono giovarsi di un’introduzione di biodiversità”, spiega Barberi, “anzi, tanto più il sistema di partenza è povero di biodiversità, tanto più il vantaggio è evidente”. Colture diverse richiedono però interventi diversi: per le colture perenni, come frutteti oliveti o vigneti, di solito si punta sulla presenza di inerbimenti (creazione di una copertura erbosa, Ndr) tra i filari. Per i cereali o altre colture che possono essere messe in rotazione si può ricorrere a questo metodo lungo il perimetro dei campi “ma anche a colture di copertura“, spiega Barberi, “coltivazioni inserite nel periodo di tempo tra il raccolto della coltura precedente e la semina della successiva”. In questo modo, anziché lasciare incolto o lavorato il terreno, si introduce un elemento di biodiversità, per esempio una leguminosa, per poi sfalciarla o interrarla, “proteggendo il suolo dall’erosione e dalla perdita di fertilità, e migliorandone la qualità, oltre a contrastare le erbe infestanti”, spiega Barberi.

Per quanto riguarda invece i prati e prati pascoli, “che nella nostra zootecnia mancano e che stiamo cercando di recuperare”, quando si tratta di prati artificiali si tutela la biodiversità seminando al posto di una singola coltura (come l’erba medica) un mix di specie, per esempio graminacee e leguminose, che stabilizza la produzione, migliora l’ambiente e fornisce un alimento più completo agli animali. “Senza dimenticare”, ricorda Barberi, “che i sistemi agricoli ad alta biodiversità sono più attrezzati per contrastare e adattarsi agli effetti del cambiamento climatico”. Si tratta di progetti ambiziosi che hanno bisogno di consenso. Per questo, spiegano i ricercatori, oggi bisogna lavorare insieme agli agricoltori, evitando soluzioni calate dall’alto e coinvolgendoli nelle scelte. Mentre sono in preparazione nuovi studi per quantificare il beneficio economico di queste innovazioni che guardano al passato.

fonte: www.ilfattoalimentare.it

Il futuro dipende (anche) dalle api



















Le api sono insetti fondamentali per la prosperità e la sopravvivenza dell’intero ecosistema terrestre e di quella dell’uomo, che però con la sua azione irresponsabile ne sta minando l’esistenza. Per combattere il fenomeno, stanno nascendo diverse iniziative per la tutela di questo prezioso insetto.
Nonostante già durante i primi anni di scuola tutti impariamo quanto sia importante il ruolo che le api svolgono per la nostra esistenza e per quella dell’intero ecosistema, esso è ancora da molti sottovalutato.
L’ape domestica, insieme ad altri insetti come le farfalle, è una delle principali responsabili dell’impollinazione delle piante: spostandosi ripetutamente da un fiore all’altro, ogni ape è responsabile della fecondazione di un’enorme quantità di piante sull’intera superficie terrestre. Se questo fenomeno in alcuni casi può avvenire anche attraverso piogge e venti, per il 70% delle specie vegetali terrestri è invece totalmente dipendente dall’intervento delle api.
Dovrebbe risultare quindi automatico capire quanto sia importante la sopravvivenza di questo piccolo animale per l’uomo: gran parte di ciò che viene coltivato in agricoltura per soddisfare il fabbisogno alimentare dell’umanità dipende dal volo delle api, senza di esse le conseguenze per l’uomo sarebbero catastrofiche.
Purtroppo qualcosa in questo senso si sta già verificando e l’inverno in corso è un esempio perfettamente calzante: le temperature eccezionalmente elevate hanno fatto sì che le api si risvegliassero con almeno un mese di anticipo rispetto al loro normale ciclo biologico. La loro sopravvivenza ora è messa a repentaglio dall’alta probabilità di un ritorno a temperature decisamente più fredde.



Coldiretti ha già annunciato che, secondo le elaborazioni su dati Isac-Cnr relativi al mese di dicembre e gennaio, fino ad ora in Italia la temperatura è stata superiore di 1,65 gradi rispetto alla media storica. Le gelate di un inverno tardivo sarebbero nefaste tanto per i fiori sbocciati in anticipo quanto per gli insetti e potrebbero mettere in difficoltà diverse produzioni. Ma questo non è di certo il primo caso: già durante lo scorso 2019 infatti gli apicoltori toscani hanno registrato una perdita di produzione di miele pari a circa l’80%.
Le principali cause di questo allarmante fenomeno sono da ricercare nel cambiamento climatico, nella deforestazione senza scrupoli e nell’utilizzo irresponsabile di pesticidi: azioni che, negli ultimi 15 anni, hanno causato ingenti perdite tra la popolazione delle api in percentuali che, in alcune aree del globo, arrivano addirittura al 90% degli esemplari.
I danni derivanti da una situazione di questo tipo non sono soltanto ambientali: anche l’economia locale ne risentirebbe pesantemente. A una perdita di produzione nazionale non può che corrispondere un aumento delle importazioni, con tutte le conseguenze che ne derivano, una su tutte le difficoltà a cui andrebbero incontro le aziende italiane.
Così come in buona parte l’uomo è responsabile di questi cambiamenti negativi, il suo intervento è anche fondamentale per cercare di porvi rimedio. Un esempio in questo senso arriva dalla capitale, dove l’Assemblea Comunale romana si è dichiarata all’unanimità favorevole alla realizzazione di un progetto di “apicoltura urbana”, un’iniziativa votata alla lotta contro la moria delle api che prevede la destinazione di diverse aree pubbliche all’apicoltura cittadina, attraverso la posa di arnie che dovranno favorire il ripopolamento degli insetti e agevolarne l’esistenza. La delibera prevede inoltre interventi di incremento del verde pubblico e una progressiva riduzione dell’uso di pesticidi.

fonte: https://www.nonsoloambiente.it

Il riscaldamento globale diminuisce la biodiversità degli impollinatori in Europa

Esaminate 2000 specie: volano prima, meno a lungo e in maniera meno sincronizzata. Gravi conseguenze per i servizi ecosistemici





















Gli insetti impollinatori svolgono un ruolo importante negli ecosistemi terrestri fornendo funzioni e servizi ecosistemici essenziali alle piante selvatiche e coltivate. Ma il rifornimento sostenibile di questi servizi ecosistemici richiede la presenza concomitante di diverse comunità di impollinatori durante le stagioni. Nonostante l’evidenza che il riscaldamento climatico stia spostando temporalmente la fenologia degli impollinatori, mancava finora una valutazione generale di questi cambiamenti e delle loro conseguenze sugli insiemi degli impollinatori. A colmare questa lacuna, partendo dal più grande database sugli insetti impollinatori mai realizzato grazie a diverse fonti, tra le quali il Muséum national d’Histoire naturelle (MNHN) francese, ci ha provato un team di ricercatori francesi, belgi, britannici e svedesi guidato da François Duchenne dell’Institut d’écologie et des sciences de l’environnement de Paris e del Centre d’écologie et des sciences de la conservation (MNHN – CNRS – Sorbonne Université), che ha pubblicato su Nature Ecology & Evolution lo studio “Phenological shifts alter the seasonal structure of pollinator assemblages in Europe”, che esamina i cambiamenti nel periodo di volo, tra il 1960 e il 2016, in 2.000 specie di impollinatori e concludono che negli ultimi 60 anni «Gli impollinatori volano in maniera meno sincronizzata e, in media, meno a lungo».
Sembrerebbe infatti che gli impollinatori volino in media 6 giorni prima e 2 giorni in meno. «In Francia, per esempio – dicono i ricercatori – il picco di attività degli insetti impollinatori è ormai all’inizio di luglio, contro la metà luglio degli anni ‘60. Queste risposte variano spazialmente – sono molto forti nel sudovest dell’Europa e quasi nulle al nord – ma anche tra le specie – i ditteri (il gruppo delle mosche) anticipano molto il loro periodo di volo rispetto alle farfalle e ai coleotteri, mentre gli imenotteri (api e vespe) sono nella media».
Dato che i diversi gruppi di impollinatori tendono a ridurre il loro periodo di attività e non spostano in avanti il loro periodo di volo allo stesso ritmo, diventano sempre più isolati durante la stagione dell’impollinazione. Questo si è tradotto in una diminuzione della biodiversità simultanea degli impollinatori, in particolare tra il 1980 e il 2016, con una diminuzione che va dal 3 al 9% nell’Europa occidentale. Le variazioni nel periodo di volo osservate sono state confrontate con l’aumento delle temperature in Europa e lo studio dimostra che «Si sono verificate a seguito del forte aumento delle temperature tra il 1980 e il 1995 e non tra il 1960 e il 1980, quando le temperature erano relativamente stabili. Inoltre, sono prevedibili conseguenze, a priori negative, sull’impollinazione di colture e fiori selvatici. Questa minaccia si aggiunge al forte calo degli impollinatori osservato negli ultimi 40 anni, principalmente a causa dei pesticidi e della distruzione degli habitat».
I ricercatori concludono: «La nostra analisi rivela inoltre che questi cambiamenti hanno probabilmente alterato la distribuzione stagionale della funzione e dei servizi di impollinazione riducendo la sovrapposizione tra le fenologie degli impollinatori all’interno degli assemblaggi europei, tranne nella parte più nord-orientale dell’Europa. Si prevede che tali cambiamenti ridurranno la ridondanza funzionale e la complementarità degli assemblaggi di impollinatori e, pertanto, potrebbero alterare la performance della funzione e dei servizi di impollinazione e la loro solidità rispetto alle estinzioni di impollinatori in corso».
fonte: www.greenreport.it

Fiori di campo invece che patate: così lo scettico contadino bavarese ha testato l’ondata di amore per le api

Ha messo a disposizione un ettaro dei suoi terreni per piantare fiori selvatici, invece che patate, a chiunque fosse stato pronto a pagare 30 euro per ogni frazione di 50 metri quadri. E il successo lo ha travolto




















Franz Lehner è un agricoltore bavarese di 53 anni, con tre figli, che mantiene la sua famiglia coltivando patate con metodi tradizionali, quando serve anche col ricorso a pesticidi. Lehner non ha niente contro le api, ma essendo di orientamento piuttosto conservatore, si è mantenuto lontano dal referendum che lo scorso novembre ha raccolto in pochissimo tempo l’adesione di 1,7 milioni di bavaresi, per chiedere una serie di limitazioni alle coltivazioni intensive, così da tutelare maggiormente le api. 

Animato da un profondo scetticismo — racconta il settimanale Die Zeit — Lehner ha deciso allora d’improvviso di aprire una pagina Facebook per lanciare un’iniziativa: mettendo a disposizione un ettaro dei suoi terreni per piantare fiori selvatici, invece che patate, a chiunque fosse stato pronto a pagare 30 euro per ogni frazione di 50 metri quadri (o 50 euro per ogni 100 metri quadri). Una sorta di asta pubblica per verificare la solidità delle convinzioni di tutti coloro che ritenevano di voler fare qualcosa per la salute delle api. Lehner era convinto che nessuno avrebbe risposto alla sua provocazione, al massimo quattro gatti. 

E invece dopo già qualche giorno la sua pagina Facebook ha iniziato a essere inondata di messaggi, richieste e prenotazioni. Dai social quest’ondata di interesse è passata al contatto diretto, con mail, lettere e telefonate, ognuna delle quali con desiderata particolari: come la famiglia che voleva assicurarsi cinque frazioni di prati selvatici anche per i figli e la nonna, o la rappresentanza di un’azienda che chiedeva di poter farci su un picnic. Dopo essere stato costretto ad ampliare il terreno da rinselvatichire di un altro ettaro, e aver raccolto in tutto 231 offerte, Lehner ha capito però qual è la differenza sostanziale tra coltivare patate e fiori di campo per far impollinare le api. È che in quest’ultimo caso le persone vogliono avere un rapporto «con quello che comprano», e magari avere una foto del fazzoletto di prato acquistato, oppure anche una dedica da metterci su per farla vedere sui social. Lehner non sa se questo è davvero di aiuto per gli insetti, di certo fa bene alle coscienze dei suoi sponsor, e comporta una montagna di lavoro.

fonte: https://www.corriere.it

Sos api: nell’ultimo anno si è perso il 40% delle colonie negli USA. Le cause sono ancora poco chiare

















L’anno compreso tra aprile 2018 e aprile 2019 è stato tragico, per le api americane, perché ha fatto registrare la perdita di colonie più alta da quando è attivo il monitoraggio, attorno al 40%.
È allarme dopo la pubblicazione dei dati annuali elaborati dall’Università del Maryland insieme all’organizzazione no profit Bee Informed Partnership: il quadro è in preoccupante peggioramento, e non si capisce come fare per invertire la rotta.
Le statistiche vengono elaborate ogni anno (da 13 anni) in base a quanto riferiscono oltre 4.700 apicoltori di tutti gli stati, che allevano poco meno di 320.000 colonie e che rappresentano circa il 12% del totale delle 2,69 milioni di colonie stimate in tutti gli Stati Uniti. Il giro d’affari legati all’impollinazione delle piante commerciali è stimato attorno ai 15 miliardi di dollari, e in mancanza delle impollinatrici il rischio, molto concreto, è che tutta l’industria alimentare tradizionale ne risenta.
Ma i dati sono impietosi. Secondo quanto riferito, nell’estate 2018 sono andate perse il 20,5% delle colonie di api, contro il 17,1% dell’estate precedente, mentre nello scorso inverno la perdita è stata del 37,7%, ben 8,9 punti percentuali al di sopra di quella dell’inverno 2017-2018. In totale, quindi, sono scomparse il 40,7% delle colonie, contro una media degli anni precedenti attorno al 37,7%.
Nonostante da anni si studi il fenomeno, le cause sono ancora poco chiare. I ricercatori dell’Università del Maryland citano la varroa, micidiale parassita un tempo tenuto sotto controllo da farmaci che ora sono inefficaci nel 90% dei casi, e altri parassiti di diverso tipo, forse non tutti noti. E poi la scomparsa dei pollini compositi dovuta all’agricoltura industriale, l’impiego di pesticidi e le variazioni climatiche alle quali le api sono sensibilissime. Per esempio, quando un inverno è troppo freddo il rischio di morte è molto elevato, ma quando è troppo mite la varroa e gli altri parassiti proliferano molto di più, così come altri fattori che hanno un effetto sinergico gli uni verso gli altri.
In attesa che si giunga a elaborare soluzioni più efficaci di quelle attuali, concludono gli autori, l’unico provvedimento concreto è quello di attenersi scrupolosamente ai consigli contenuti nelle linee guida ufficiali di università, enti di ricerca e associazioni come appunto Bee Informed Partnership.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

Perdita di biodiversità, più di metà degli ecosistemi è compromesso

Il 58% degli ecosistemi è a rischio, in particolare USA, Argentina, Sudafrica e Asia centrale. Oltre alla perdita di specie animali e vegetali, gli effetti avranno ricadute su salute dell’uomo e economia

Perdita di biodiversità, più di metà degli ecosistemi è compromesso

La biodiversità di animali e piante è crollata a livelli di allerta su più della metà delle terre emerse. La distruzione degli habitat naturali è talmente estesa che gli ecosistemi interessati potrebbero perdere le più basilari capacità di funzionamento. Una perdita di biodiversità così estesa, oltre a rappresentare un chiaro danno per l’ambiente, potrebbe avere ricadute negative importanti per la salute dell’uomo e per l’economia.
Sono le conclusioni di uno studio pubblicato ieri sulla rivista Science, nel quale gli scienziati forniscono la valutazione più completa sulla perdita di biodiversità su scala globale ad oggi disponibile. E il messaggio di fondo è chiaro: abbiamo oltrepassato il limite. La ricerca si basa sull’analisi di 2,4 mln di dati per circa 40mila specie raccolti su un campione di quasi 20mila siti sparsi su tutta la Terra.
Nel 58% dei casi (dove vive il 71% della popolazione mondiale) gli scienziati hanno osservato che la corruzione degli ecosistemi è ormai al di sotto del limite di sicurezza. I sistemi naturali più colpiti si trovano negli Stati Uniti, in Argentina, in Sudafrica e nell’Asia centrale.

Perdita di biodiversità, più di metà degli ecosistemi è compromesso 
L’anno scorso un gruppo di esperti aveva proposto di identificare come ecosistemi gravemente compromessi quelli dove si è verificata una perdita di biodiversità superiore al 10%. “Stiamo giocando con una roulette ecologica”, sintetizza il professor Andy Purvis del Natural History Museum e uno degli autori della ricerca.
In ballo quindi non c’è soltanto la possibile estinzione di specie animali e vegetali. Anche la qualità della vita dell’uomo, e in particolare gli sforzi per mettere in campo modelli di sviluppo sostenibile nel lungo termine, sono messi a repentaglio da questa situazione. Certo disponiamo di soluzioni tecnologiche per replicare alcune funzioni svolte dalla natura – ad esempio gli impollinatori, sempre meno a causa della progressiva scomparsa delle api per l’inquinamento atmosferico e l’uso di pesticidi – ma non possiamo compensare adeguatamente una forte perdita di biodiversità.

fonte: www.rinnovabili.it