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Ghiaccio artico: dal 2025 non scherma più le acque dal riscaldamento globale

La trasmissione di calore dall’aria all’acqua dell’Artico viene impedita dalla calotta. Ma solo se la coltre misura più di 50 cm



Il ghiaccio artico potrebbe smettere di schermare le acque del Polo Nord dal calore contenuto in atmosfera già dalla metà di questo decennio. Perché ciò si verifichi non c’è bisogno che la coltre ghiacciata scompaia del tutto. L’effetto-tappo del ghiaccio artico perde efficacia anche quando lo strato si assottiglia eccessivamente.

I calcoli li ha fatti un gruppo di ricercatori della Texas A&M University e pubblicati in un articolo sulla rivista Climate Dynamics. Il punto di partenza è l’osservazione che il cambiamento climatico e l’aumento delle temperature globali, che tocca uno dei suoi picchi massimi con lo scostamento che si registra al Polo Nord e su gran parte delle regioni artiche, causa un assottigliamento della calotta polare. In particolare, la coltre che si è accumulata di anno in anno, e che quindi resiste all’estate artica ed è di spessore maggiore, non viene ricostituita a sufficienza durante l’inverno.

Lo strato più sottile che ne risulta è meno in grado di proteggere la colonna d’acqua sottostante dal calore diffuso dall’atmosfera. Gli studiosi sono riusciti a calcolare che la soglia oltre la quale lo spessore del ghiaccio artico inizia a diventare inefficace si aggira tra i 40 e i 50 cm. Ogni porzione di Polo Nord dove la calotta è meno spessa di questi valori registrerà quindi un incremento delle temperature delle acque marine dovuto al passaggio di calore dall’aria.

Un’informazione importante perché permette di calcolare l’esatta estensione della calotta che resta in grado di fare da schermo. Secondo i ricercatori, si tratta di una superficie di circa il 4-14% più ristretta di quella totale. Che forniscono una visione prospettiva del fenomeno: tra i 360mila e i 970mila km2 di ghiaccio artico, nel corso del 20° secolo, sono diventati troppo sottili.

Il 2020 è stato il 2° anno peggiore di sempre per l’estensione della calotte artica. Le rilevazioni del Noaa americano a dicembre certificavano che le emissioni di gas serra stanno trasformando l’Artico in un clima completamente differente. Con ghiaccio in minor quantità, più giovane e più sottile. Colonnine di mercurio che raggiungono picchi inauditi e temperature medie che fanno stabilmente registrare record da 7 anni a questa parte. Effetti feedback più frequenti. E con alterazioni profonde delle caratteristiche biologiche di questo bioma, che si riscalda ad un ritmo doppio del resto del mondo.

fonte: www.rinnovabili.it


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Addio ai ghiacci

Già nel 2005 la riduzione dei ghiacci nella zona artica del pianeta aveva cominciato a raggiungere dimensioni impressionanti di milioni di chilometri quadrati, oggi, con gli aumenti record delle temperature medie registrate, la situazione è diventata naturalmente sempre più grave. Tra le conseguenze ancora non del tutto accertate scientificamente ma certo più che probabili, c’è la possibilità che lo scioglimento dei ghiacci possa liberare virus antichi, rimasti in ibernazione per molti secoli e capaci di sopportare l’alternanza di caldo e freddi estremi.



Nel mese di settembre l’estate, in Italia e nell’Artico, non era certamente ancora finita, ma già si moltiplicavano le previsioni relative a un 2020 tra gli anni più caldi degli ultimi decenni, anche se forse non sarà stato il più caldo di sempre. Vediamo quindi, con lo sguardo necessariamente retrospettivo delle nostre rilevazioni d’insieme, le informazioni disponibili nel settembre scorso sulla crisi climatica.

Nel Circolo Polare Artico gli incendi di questa estate hanno battuto il record raggiunto nell’anno passato, producendo nuvole di fumo che hanno coperto una superfice equivalente ad un terzo del territorio del Canada.

La maggior parte degli incendi si è verificata nella Repubblica Russa del Sakha, Siberia orientale, dove hanno percorso milioni di acri di terra e causato un picco di anidride carbonica, stimata in 208 megatonnellate nel 2019 e in 395 nel 2020. Inoltre una massa di ghiaccio di 113 chilometri quadrati si è staccata dalla piattaforma 79N, situata nel nord ovest della Groenlandia.

Riportiamo inoltre i dati ripresi da un testo di grande interesse per la comprensione dello stato e delle prospettive delle aree più ghiacciate al Polo Nord e al Polo Sud (Peter Wadhams, “Addio ai ghiacci”, due edizioni in italiano, che è stata allegata alla rivista Le Scienze del settembre 2020) del quale consigliamo vivamente la lettura, in quanto completo nelle analisi e quasi profetico nelle previsioni.

Secondo questa fonte, attualmente il ghiaccio marino dell’Artico (cioè gli strati di ghiaccio che si formano non sulla terraferma ma sul mare) raggiunge la sua massima estensione e spessore a febbraio, e quella minima a settembre.

Già nel 2005 si registrava una grande riduzione dei ghiacci e quello marino si staccava dalle coste della Siberia e dell’Alaska agevolando l’attraversamento del mitico Passaggio a Nord Ovest. In termini quantitativi il ghiaccio si riduceva a 5,3 milioni di chilometri quadrati rispetto ad una media stagionale di circa 8 milioni di chilometri quadrati.

Nel 2007 si è registrata una ulteriore riduzione a 4,1 milioni di kmq. E nel 2012 si è pervenuti a 3,4 milioni sempre di chilometri quadrati. In previsione, è probabile che avremo nei prossimi anni durante l’estate solo delle sacche di ghiaccio per meno di un milione di chilometri quadrati complessivi.

Sempre secondo questo autore, la situazione dell’Antartide è un po’ diversa, l’accumulazione di ghiaccio marino durante l’inverno su coste sempre battute dalle onde e dai venti è molto maggiore, e le diminuzione dello spessore procede più lentamente, mentre dalla banchisa si staccano invece iceberg di grandi dimensioni (uno era grande come la Liguria e la frattura che ha causato il distacco era lunga 160 chilometri).

Infine, da una fonte giornalistica, ogni tanto si ricorda la possibilità che lo scioglimento dei ghiacci potrebbe liberare virus antichi, rimasti in ibernazione per molti secoli e che quando emergono potrebbero liberare antichi virus capaci di sopportare l’alternanza di caldo e freddi estremi.

L’ipotesi che siano ancora attivi e quindi particolarmente pericolosi per gli esseri umani attuali sembra sia ancora da dimostrare sul piano scientifico. Infine, può essere utile ricordare i livelli massimi e minimi raggiunti dalle temperature gli ultimi giorni di agosto: il termometro ha raggiunto a Herat, in Afghanistan i 55,2 gradi centigradi, mentre allo stesso 25 agosto a Dome A, in Antartide si registravano meno 69 gradi centigradi.

Tra i meccanismi globali di danno è da ricordare un dato fornito dall’Agenzia Europea per l’Ambiente: il 13% dei decessi in Europa è dovuto alle diverse forme di inquinamento.

In Cina la situazione è decisamente più grave perché il solo inquinamento dell’aria causa tra 1,2 e 1,5 milioni di morti ogni anno. I dati si riferiscono la concentrazione registrata tra il 2000 e il 2016 delle polveri sottili Pm 2,5, e quindi in complesso circa trenta milioni di morti premature tra gli adulti.

I dati disponibili riguardano le emissioni globali di gas serra. Tra il 1990 e il 2015 sono state emesse 722 gigatonnellate di gas serra, per circa la metà dovute ai consumi del 10% più ricco della popolazione mondiale (630 milioni di persone ( in Usa, Ue, Cina e India) che hanno un reddito netto di almeno 38mila dollari all’anno.

L’1% della popolazione con un reddito di almeno 109mila dollari, è responsabile del 15% delle emissioni. La classe media, 2,5 miliardi di persone, è responsabile del 40% delle emissioni, mentre la metà più povera causa solo il 7% delle emissioni.


Eventi estremi

Naturalmente, questi cambiamenti climatici hanno causato un numero impressionane e crescente di eventi meteorologici estremi.

Cicloni. Durante il passaggio dell’uragano Laura, si sono contati 29 morti, di cui 20 in Louisiana, 8 in Texas e 1 in Florida. Lo stesso evento aveva già causato la morte di 35 persone nei Caraibi, in particolare ad Haiti e nella Repubblica Dominicana. I venti hanno raggiunto i 240 chilometri orari e quindi si è trattato dell’uragano più forte degli ultimi 150 anni. L’uragano Sally, con venti fino a 155 chilometri orari, ha raggiunto Alabama e Florida, causando alluvioni e interruzioni di corrente elettrica.

Il tifone Haishen, in Corea del Sud, con venti fino 180 chilometri orari, ha causato alluvioni e la cancellazione di centinaia di voli.

In precedenza , aveva causato due morti in un’isola a sud-ovest del Giappone. Il ciclone Ianos, nel Mediterraneo con 120 chilometri all’ora ha colpito la Grecia nella Tessaglia e ha causato tre morti , mentre almeno 5000 case sono state danneggiate.

Incendi. Dall’inizio dell’anno, in California, gli incendi hanno distrutto più di 8000 chilometri quadrati di vegetazione, una superficie uguale a quello dello Stato del Delaware, è il dato più alto dal 1987. Gli incendi senza precedenti che dall’inizio dell’estate si sono propagati in California, Oregon e Stato di Washington hanno distrutto più di due milioni di ettari di vegetazione e hanno causato 35 morti.

In Argentina, secondo alcune associazioni ambientaliste locali, gli incendi hanno distrutto più di 350mila ettari di zone umide nel delta del fiume Paranà e 48mila ettari di foreste nella provincia di Cordoba. Per il 95% sarebbero di origine dolosa. Secondo il programma europeo Copernico, gli incendi di quest’anno in Siberia hanno prodotto emissioni record di anidride carbonica, e precisamente 244mila tonnellate , contro le 181mila del 2019.

Un incendio in Andalusia, Spagna, ha distrutto circa 10mila ettari di vegetazione e costretto 3200 persone ad abbandonare le loro case.

Alluvioni. A seguito di estese alluvioni, in Niger sono morte 35 persone dall’inizio di giugno e 300 mila sono state costrette a lasciare le loro abitazioni. In Pakistan sono state almeno 38 le persone morte a causa delle forti piogge, mentre in Burkina Faso i morti per la stessa causa sono stati 13.

In Sudan sono morte 99 persone e le case danneggiate oltre 100mila, e il Nilo ha fatto registrare il più alto livello raggiunto dalle sue acque da quando sono iniziate le rilevazioni. Molta pioggia è inoltre caduta su 5 delle 10 regioni dell’Etiopia, con almeno 200mila persone rimaste senza casa. Infine in Senegal le vittime delle piogge sono state 5.

Fulmini. In Uganda sono stati colpiti a morte 9 bambini.

Carenze idriche. Acqua generalmente sfruttata in modo insostenibile, con le acque fossili in netta riduzione in Africa.

Invasione di meduse. Anche se in realtà sono gli esseri umani ad invadere il loro habitat. A livello mondiale, sono circa diecimila le specie di meduse conosciute e vivono da oltre 500 milioni di anni sul pianeta, in quanto sono i primi animali pluricellulari ad essersi affermati nei mari.

Possono superare i due metri di diametro e pesare più di 200 chili. Quali sono le cause principali dell’invasione di mari diversi? La pesca intensiva di cetacei, tartarughe e tonni e il riscaldamento generale delle acque dei mari.


Aree colpite da disastri.

Dal mese di luglio l’Arcipelago delle Mauritius ha affrontato un grave disastro ambientale. A metà del mese una nave cargo, la MV Wakashio si è prima incagliata e poi spezzata in due parti a Grand Salle, una delle isole, e da essa sono fuoriuscite almeno 1000 tonnellate di petrolio.

Il 31 agosto, un vecchio rimorchiatore, uscito per trainare una chiatta che doveva raccogliere il petrolio, è affondato causando la morte di tre uomini dell’equipaggio.

Può sembrare che nel mondo vi siano meno incidenti che coinvolgono petroliere, ma in realtà il petrolio che fuoriesce è in quantità molto maggiori perché le navi hanno ormai dimensioni sempre più grandi.

Con le maggiori dimensioni, i percorsi più a rischio sono quelli attraverso gli stretti di Hormuz, Malacca, Bosforo, Suez, Bab Al Mandeb e quelli vicino alla Danimarca.

Il campo di accoglienza per immigrati di Moria, sull’isola di Lesbo, che ne accoglieva quantità molto maggiori della sua capienza e li manteneva in condizioni miserevoli, è bruciato nel mese di agosto. Alcuni paesi europei sono intervenuti per ricollocare almeno in parte gli immigrati, però hanno accettato solo 400 bambini, ben poca cosa rispetto alle 13.000 persone che affollavano il campo.

In Kenya, le grandi aziende petrolchimiche che producono la plastica stanno cercando di far modificare le norme in vigore nel paese, ma in realtà sono interessate anche ad altri paesi africani.

Queste imprese hanno investito 200 miliardi di dollari nelle attività produttive. Inoltre nel 2019 hanno spedito quasi 700mila tonnellate di rifiuti di plastica in 96 paesi, dove solo una parte sarà riciclata secondo modalità corretta, mentre il resto sarà disperso nell’ambiente.

I flussi di rifiuti verso l’Africa sono quadruplicati dopo che la Cina nel 2018 ha bloccato queste importazioni. E’ tuttavia importante notare che in Africa 34 paesi su 57 hanno vietato l’uso dei sacchetti di plastica.

Kobalt Belt, la grande area dove si estrae il cobalto, un minerale prezioso per costruire le batterie di auto e telefonini, la richiesta mondiale ammonta 200mila tonnellate.

A 2000 chilometri dalla capitale del Congo, nella regione del Katanga, oltre ai minatori ufficiali che lo estraggono, lavorano oltre 40.000 tra bambini e adulti che scavano a mani nude o con strumenti rudimentali le pietre incrostate del prezioso minerale, che sarà poi purificato nell’impianto di una multinazionale inglese, la Glencore.

Per reperire e raccogliere dieci chili di pietre servono due giornate di lavoro pagate da 3 a 5 dollari ciascuna, mentre i prezzi internazionali del minerale aumentano ogni giorno.


Politiche dannose per l’ambiente

In Egitto, sono molto discussi i progetti di due autostrade che sembra debbano attraversare la zona turistica delle Piramidi

E’ in corso la costruzione della Trans Adriatic Pipeline, il gasdotto che costerà all’Italia 4,5 miliardi di euro e attraverserà la Puglia, per far arrivare il gas dal Mar Caspio e dall’Azerbaigian.

Il reddito garantito, volto ad eliminare il lavoro nero In Italia, ha fatto emergere 200mila cameriere e badanti, ma un numero molto ridotto di braccianti agricoli.

L’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile chiede che siano cancellati i 19 miliardi di sussidi alle imprese che con le loro attività produttive e commerciali continuano a causare rilevanti danni all’ambiente.

Un articolo riporta che almeno il 43% delle spiagge italiane è colpito da forme di erosione e sottolinea che la possibilità di procedere ad un arretramento degli stabilimenti balneare e degli altri locali impiantati sulle spiagge è stata finora completamente ignorata, mentre le cifre pagate dai concessionari per l’uso del demanio pubblico continuano ad essere ridicolmente basse.

L’Eni e il governo annunciano su molti giornali la creazione vicino Ravenna del più grande centro di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica già presente nell’atmosfera, che verrà quindi bloccata ad almeno tremila metri di profondità, negli spazi lasciati liberi dal petrolio e dai gas estratti in precedenza.

Le fonti non precisano le quantità da prelevare e immagazzinare e i costi complessi di tutta l’operazione. E’ bene ricordare che queste soluzioni tecnologiche a uno dei più gravi problemi ambientali sono state pochissimo sperimentate e potrebbero risultare eccessivamente costose.

Ma l’aspetto più preoccupante è quello del rapporto tra le emissioni che continuano ad aumentare e le quantità di CO2 che in quantità crescenti si accumulano nell’atmosfera.

In altre parole, la priorità assoluta dovrebbe essere data a una rapida riduzione delle emissioni di gas serra, fino a farle sparire entro pochissimi anni (e su questo versante ancora si agisce in misura praticamente irrilevante): vi è cioè il rischio che le soluzioni tecnologiche distraggano dagli obiettivi reali da perseguire subito.

Mancano inoltre indicazioni precise sulle reali possibilità di trasformare l’anidride carbonica in sostanze utili e sui costi relativi. Infine un dato che dovrebbe essere approfondito e confermato. Su un giornale, che faceva riferimento alla “lentocrazia” c’era un dato preoccupante: i decreti finora emanati contenenti misure anticovid sembra siano stati attuati solo nella misura del 28%! C’è solo da sperare che si tratti della immaginazione troppo fervida di un giornalista poco scientifico…

Alberto Castagnola

fonte: comune-info.net


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Auto elettriche, autonomia ridotta d’inverno: motivi e cosa fare

Auto elettriche e batterie durante i mesi invernali, i motivi del calo di resa nei periodi freddi e qualche possibile contromisura.



Le auto elettriche sono indicate da più parti come il futuro dei trasporti. A giocare un ruolo di primo piano sullo sviluppo del settore sono le batterie e l’autonomia che sono in grado di offrire, anche in termini di velocità di ricarica.

L’arrivo dell’inverno rappresenta un momento critico per chi possiede un’auto elettrica. Chi ha già avuto modo di passare dai mesi più caldi a quelli freddi avrà notato un calo netto nelle prestazioni delle batterie. Sistemi di accumulo che subiscono le basse temperature invernali per diversi motivi.

Uno dei motivi principali della minore resa delle batterie durante l’inverno è nella combinazione chimica dei sistemi di accumulo. In sostanza la ridotta autonomia è causata dalla presenza al loro interno di un elettrolita liquido, che con le rigide temperature invernali tende a diventare più denso.

Questo processo interferisce con la capacità di rilasciare energia durante la fase di scarica, in virtù del minore spostamento di ioni. Influisce in realtà anche sulla ricarica, tanto da rendere questa fase più lunga rispetto al solito. Una soluzione potrebbe essere quella di adottare batterie allo stato solido, che in assenza di un elettrolita liquido subirebbero in misura minore l’arrivo delle basse temperature.

Un esempio è quello offerto in questi giorni da Toyota, che ha annunciato batterie capaci di ricaricarsi per l’80% in appena 10 minuti.

Altri possibili aspetti negativi legati al clima freddo sono quelli della densità dell’aria e dell’utilizzo di pneumatici invernali. Durante i mesi più rigidi l’aria offre una maggiore resistenza al passaggio della vettura in quanto contiene un maggior numero di molecole rispetto alla bella stagione.

Gli pneumatici invernali favoriscono la sicurezza riducendo il rotolamento, “sprecando” parte della potenza erogata dalla batteria producendo un movimento parziale rispetto a quello delle gomme estive. Da considerare in ultimo l’efficienza dei sistemi di accumulo in caso di utilizzo dell’impianto di riscaldamento, affidato unicamente all’aria condizionata (mancando il motore termico che permette la diffusione del calore con la semplice ventola).

Alcune case automobilistiche hanno iniziato a mettere a punto diverse soluzioni per limitare il fenomeno. Contromisure a dire il vero necessarie anche nei mesi estivi, in quanto la resa migliore delle batterie avviene a una temperatura prossima ai 20 gradi.

Si tratta di sistemi di riscaldamento/raffrescamento delle batterie, dalla più o meno elevata efficacia. Utile in questo senso informarsi, prima di procedere con l’acquisto della nuova auto elettrica, sulla tipologia e l’efficienza del sistema applicato.

Altro consiglio è quello di ricaricare, se possibile, la propria vettura all’interno di un garage dotato di un buon isolamento termico. Si limiterà così l’effetto negativo delle basse temperature invernali quantomeno in fase di ricarica.

Fonte: DMove

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Il futuro della nicchia climatica




Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings 
of the National Academy of Sciences in data 26 maggio 2020, primo autore 
Chi Xu.



Gli autori dimostrano che per migliaia di anni - fin dai tempi dei 
cacciatori -raccoglitori, quindi in condizioni ben diverse dalle nostre 
attuali  - la specie umana è vissuta all'incirca nello stesse condizioni 
di temperature disponibili globalmente, ovvero con temperature annuali 
medie comprese tra circa 11°C e 15°C. Quindi anche la specie umana, come 
tutte le specie avrebbe una sua nicchia di temperature  e gli autori 
scrivono che anche le coltivazioni ed il bestiame allevato dall'uomo 
sono in gran parte limitati a queste temperature, questo lo scrivono a 
sostegno della natura fondamentale della citata nicchia di temperature. 



Nell'articolo dimostrano quanto segue:  SI PREVEDE CHE - SE CONTINUIAMO 
CON LE NOSTRE EMISSIONI DI GAS SERRA SENZA FORTISSIME RIDUZIONI - LA 
POSIZIONE GEOGRAFICA DI QUESTA NICCHIA DI TEMPERATURE  SI SPOSTERA' DI 
PIU' NEI PROSSIMI CINQUANT'ANNI DI QUANTO SI SIA SPOSTATA NEI 6000 ANNI 
PRIMA DEL PRESENTE.  Più avanti scrivono che "SE NON AVVERRANNO 
MIGRAZIONI SI PREVEDE CHE UN TERZO DELLA POPOLAZIONE GLOBALE SUBIRA' 
TEMPERATURE ANNUALI MEDIE MAGGIORI DI 29°C,  che attualmente si trovano 
soltanto su uno 0,8% delle superfici terrestri, in gran parte 
concentrate nel Sahara



https://www.pnas.org/content/117/21/11350

Nadia Simonini


Rete Nazionale Rifiuti Zero


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Nel 2070 un terzo dell’umanità potrebbe vivere in regioni calde come il Sahara

Uno studio scientifico spiega che, se non agiremo in tempo, tra 50 anni su quasi un quinto della Terra il clima sarà caratterizzato da caldo insopportabile.




Se non agiremo per mitigare i cambiamenti climatici, 3,5 miliardi di persone si ritroveranno, entro i prossimi 50 anni, a vivere in luoghi caldi come lo è oggi il deserto del Sahara. Nel 2070, si tratterà di un terzo della popolazione mondiale. Che si troverà costretta ad abbandonare terre che per seimila anni hanno beneficiato di una “nicchia climatica” che oggi il mondo si appresta ad abbandonare per colpa di uno sviluppo incontrollato, insostenibile e incurante dei limiti del Pianeta.
L’analisi riscrive la geografia climatica del Pianeta

A spiegarlo è un rapporto pubblicato il 4 maggio sulla rivista scientifica americana Proceedings of the National Academy of Science (Pnas). Nel quale spiega in che modo cambierà la “geografia climatica” della Terra in caso di inazione da parte della comunità internazionale. Ovvero qualora il mondo decida di continuare a produrre con i metodi attuali, disperdendo immense quantità di gas ad effetto serra nell’atmosfera e non limitando, di conseguenza, la crescita della temperatura media globale.





Gli impatti e i costi del riscaldamento globale saranno molto più grandi del previsto e avranno un impatto rilevante sugli ecosistemi, sulle comunità e sulle economie umane © Jody Davis / Pixabay

Come noto, infatti, l’Accordo di Parigi indica che il riscaldamento globale dovrà essere limitato ad un massimo di 2 gradi centigradi, alla fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali. “Rimanendo il più possibile vicini agli 1,5 gradi”, indica il documento. Era il 2015 quando il mondo lo approvò, al termine della ventunesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite (Cop 21). All’epoca, ai governi fu chiesto anche di presentare degli impegni formali di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra.

Inoltre, fu chiesto al Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) di redigere un rapporto, con l’obiettivo di comprendere cosa cambierà, in concreto, se la temperatura dovesse crescere di 1,5 o di 2 gradi centigradi. Il documento, chiamato Special report 1.5 è stato consegnato nell’ottobre del 2019, curato da una task force di 91 super-esperti provenienti da 40 paesi, e ha spiegato che le differenze, in termini di impatto del riscaldamento globale, sarebbero enormi.
Il clima rischia di essere stravolto nelle regioni temperate come in quelle tropicali

Eppure, le promesse di riduzione delle emissioni di CO2 avanzate dai governi nel 2015 non soltanto non ci porteranno a centrare l’obiettivo degli 1,5 gradi, ma neppure quello dei 2 gradi. Faranno salire la temperatura media globale a 3,2 gradi, nel 2100, secondo quanto riferito dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente nel rapporto Emissions Gap. Il che significherà passare da una condizione di crisi climatica ad un’autentica catastrofe. E ciò a patto che gli impegni vengano rispettati per intero…

Ma non è tutto. Uno studio pubblicato da 100 scienziati francesi ha indicato che, nel peggiore degli scenari, il riscaldamento globale potrebbe raggiungere i 7 gradi centigradi. Un valore ben più alto rispetto a quelli finora ipotizzati. Lo studio pubblicato dal Pnas, curato da ricercatori cinesi, americani ed europei, indica che già nel 2070 la temperatura media potrebbe crescere di 3 gradi. “Ma in alcune aree si potrebbe arrivare a 7,5, in assenza di azioni di mitigazione”, spiega il rapporto.

Così, terre che sono state abitate dagli esseri umani (e utilizzate per produzioni agricole) per migliaia di anni diventeranno invivibili. Oggi la maggior parte della popolazione mondiale vive in regioni temperate, nelle quali la temperatura annuale si situa mediamente tra 11 e 15 gradi centigradi. Un numero più ristretto di persone abita invece in regioni equatoriali o tropicali, nelle quali la media è decisamente più alta: tra i 20 e i 25 gradi.




Il riscaldamento globale potrebbe raggiungere i 7 gradi centigradi
secondo uno studio francese © Uriel Sinai/Getty Images)
A rischio soprattutto le aree più povere del mondo

Ebbene, nel primo caso le temperature potrebbero raggiungere i 20 gradi in media, ovvero l’equivalente attuale dell’Africa settentrionale. Mentre chi abita in zone già calde, il valore medio potrebbe raggiungere i 29 gradi. Condizioni estreme, che oggi si registrano soltanto nello 0,8 per cento della superficie terrestre, ma che potrebbero essere la realtà, di qui a 50 anni, per il 19 per cento del Pianeta.

Infine, lo studio aggiunge che le zone più colpite saranno le più povere del mondo. In particolare l’India, la Nigeria, il Pakistan, l’Indonesia e il Sudan. Nei quali già oggi vivono quasi due miliardi di persone.

fonte: www.lifegate.it


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Il futuro dipende (anche) dalle api



















Le api sono insetti fondamentali per la prosperità e la sopravvivenza dell’intero ecosistema terrestre e di quella dell’uomo, che però con la sua azione irresponsabile ne sta minando l’esistenza. Per combattere il fenomeno, stanno nascendo diverse iniziative per la tutela di questo prezioso insetto.
Nonostante già durante i primi anni di scuola tutti impariamo quanto sia importante il ruolo che le api svolgono per la nostra esistenza e per quella dell’intero ecosistema, esso è ancora da molti sottovalutato.
L’ape domestica, insieme ad altri insetti come le farfalle, è una delle principali responsabili dell’impollinazione delle piante: spostandosi ripetutamente da un fiore all’altro, ogni ape è responsabile della fecondazione di un’enorme quantità di piante sull’intera superficie terrestre. Se questo fenomeno in alcuni casi può avvenire anche attraverso piogge e venti, per il 70% delle specie vegetali terrestri è invece totalmente dipendente dall’intervento delle api.
Dovrebbe risultare quindi automatico capire quanto sia importante la sopravvivenza di questo piccolo animale per l’uomo: gran parte di ciò che viene coltivato in agricoltura per soddisfare il fabbisogno alimentare dell’umanità dipende dal volo delle api, senza di esse le conseguenze per l’uomo sarebbero catastrofiche.
Purtroppo qualcosa in questo senso si sta già verificando e l’inverno in corso è un esempio perfettamente calzante: le temperature eccezionalmente elevate hanno fatto sì che le api si risvegliassero con almeno un mese di anticipo rispetto al loro normale ciclo biologico. La loro sopravvivenza ora è messa a repentaglio dall’alta probabilità di un ritorno a temperature decisamente più fredde.



Coldiretti ha già annunciato che, secondo le elaborazioni su dati Isac-Cnr relativi al mese di dicembre e gennaio, fino ad ora in Italia la temperatura è stata superiore di 1,65 gradi rispetto alla media storica. Le gelate di un inverno tardivo sarebbero nefaste tanto per i fiori sbocciati in anticipo quanto per gli insetti e potrebbero mettere in difficoltà diverse produzioni. Ma questo non è di certo il primo caso: già durante lo scorso 2019 infatti gli apicoltori toscani hanno registrato una perdita di produzione di miele pari a circa l’80%.
Le principali cause di questo allarmante fenomeno sono da ricercare nel cambiamento climatico, nella deforestazione senza scrupoli e nell’utilizzo irresponsabile di pesticidi: azioni che, negli ultimi 15 anni, hanno causato ingenti perdite tra la popolazione delle api in percentuali che, in alcune aree del globo, arrivano addirittura al 90% degli esemplari.
I danni derivanti da una situazione di questo tipo non sono soltanto ambientali: anche l’economia locale ne risentirebbe pesantemente. A una perdita di produzione nazionale non può che corrispondere un aumento delle importazioni, con tutte le conseguenze che ne derivano, una su tutte le difficoltà a cui andrebbero incontro le aziende italiane.
Così come in buona parte l’uomo è responsabile di questi cambiamenti negativi, il suo intervento è anche fondamentale per cercare di porvi rimedio. Un esempio in questo senso arriva dalla capitale, dove l’Assemblea Comunale romana si è dichiarata all’unanimità favorevole alla realizzazione di un progetto di “apicoltura urbana”, un’iniziativa votata alla lotta contro la moria delle api che prevede la destinazione di diverse aree pubbliche all’apicoltura cittadina, attraverso la posa di arnie che dovranno favorire il ripopolamento degli insetti e agevolarne l’esistenza. La delibera prevede inoltre interventi di incremento del verde pubblico e una progressiva riduzione dell’uso di pesticidi.

fonte: https://www.nonsoloambiente.it

Il Riscaldamento Degli Oceani Sta Accelerando Piu’ Di Quanto Si Pensasse




Quasi tutto il calore in eccesso della Terra (93%) viene assorbito dagli oceani ,  questo porta all’espansione termica delle acque; l’espansione termica delle acque insieme allo scioglimento dei ghiacci continentali porta all’aumento del livello dei mari. “I dati sulla temperatura degli oceani mostrano che il (loro) riscaldamento sta accelerando di più di quanto pensavamo”. Il link per leggere l’articolo integrale è in fondo dopo la mia brevissima sintesi.
Argo è un sistema globale di dispositivi che effettuano misurazione di temperatura, pressione, profondità, conduttività delle acque oceaniche; è  una rete di più di 3900 sonde sparse in tutti gli oceani  fin dai primi anni 2000, galleggiano a circa 1000 metri di profondità, ogni dieci giorni scendono ad una profondità di 2000 metri per poi risalire alla superficie, da qui inviano a satelliti i dati raccolti, poi scendono di nuovo ad una profondità di 1000 metri. Dallo studio pubblicato sulla rivista scientifica Science risulta che nel periodo 1991 - 2010 le acque oceaniche si sono riscaldate in media più di cinque volte più velocemente che nel periodo 1971-1990.

Lijing Cheng, John Abraham ,Zeke Hausfather e Kevin Trenberth scrivono che il riscaldamento delle acque oceaniche ha contribuito ad aumenti nell’intensità delle piogge, ai livelli dei mari che stanno salendo, alla distruzione delle barriere coralline, ai livelli declinanti di ossigeno negli oceani e ai declini nelle calotte di ghiacci, nei ghiacciai e nei ghiacci nelle zone polari.

https://www.abc.net.au/news/science/2019-01-11/ocean-warming-accelerating-faster-than-thought-science/10693080


Nadia Simonini

Rete Nazionale dei Comitati Rifiuti Zero       


Copernicus: lo “Stato europeo del clima 2018”











Il Copernicus Climate Change Service (C3S), in collaborazione con il Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio raggio (ECMWF), per conto dell’Unione europea, ha pubblicato l’European State of the Climate 2018.
Il rapporto presenta una panoramica delle condizioni annuali e stagionali in Europa e nell’Artico europeo, rispetto alla media a lungo termine.
Illustra in dettaglio tre eventi più significativi nel 2018 in cui si sono verificate condizioni meteorologiche persistenti per diversi mesi ed esplora le variazioni associate di durata del sole, vegetazione e umidità del suolo, scarichi fluviali, incendi, ghiacciai e ghiaccio marino.
Infine, vengono evidenziati una serie di indicatori chiave per i cambiamenti climatici, che colloca gli eventi e il loro impatto in un contesto globale a più lungo termine.

Temperature

  • La temperatura media europea nel 2018 è stata una delle tre più alte mai registrate.     
  • L’estate è stata la più calda mai registrata, più di 1,3°C del solito.    
  • Tutte le stagioni sono state più calde del solito, con la tarda primavera, l’estate e l’autunno che hanno visto temperature superiori di 1°C sopra la media.    
  • Si sono verificate alte temperature massime dalla primavera in poi, soprattutto al nord.
  • Si sono verificate temperature minime molto al di sopra della media nel sud-est.

Siccità

  • Si è avuto un inizio freddo dell’anno.
  • Le temperature medie sono state più alte del normale per ogni mese da aprile a dicembre. Si è verificato un lungo periodo di siccità da primavera a novembre.    
  • Le zone dell’Europa centrale e settentrionale sono state le più colpite, con precipitazioni stagionali che hanno raggiunto meno dell’80% dei livelli normali per la primavera, l’estate e l’autunno.   
  • Le precipitazioni ridotte e le temperature calde portano a una siccità nell’Europa settentrionale che corrisponde alla gravità di quella del 1976.

Le persistenti condizioni calde e secche del 2018 in Europa mostrano una chiara impronta sulle principali variabili climatiche:
Gli indicatori climatici principali mostrano l’evoluzione a lungo termine di diverse variabili climatiche chiave. Questi possono essere usati per valutare le tendenze globali e regionali di un clima che cambia.

Artico europeo

fonte: http://www.snpambiente.it