L’ambiente marino è altamente inquinato. Sono ancora allo studio le quantità di microplastiche e microfibre presenti negli oceani. Anche i cittadini possono giocare un ruolo fondamentale per salvare i nostri mari. Il contributo dell’approccio “citizen science”
È estate, la calura imperversa e l’unica salvezza, pensiamo in molti, non può essere che...
Il World Economic Forum prevede che nel 2050 il peso della plastica negli oceani supererà il peso degli animali marini. Che fare dunque con le tonnellate di rifiuti che inquinano i nostri mari? Dalle barriere ai robot fino fino alla barca made in Italy, sono tanti i sistemi che provano a ripulire il patrimonio blu
L’inquinamento da plastica è una delle minacce più pericolose per i mari e oceani del pianeta che compromette gravemente ...
Un miliardo di tonnellate di CO2 ogni anno, tanto quanto il traffico aereo mondiale. È la media delle emissioni provocate dalla pesca a strascico. Lo studio, realizzato da 26 biologi marini e pubblicato a marzo 2021 da Nature, stima un impatto che va da 600 milioni a 1,5 miliardi di tonnellate. Soprattutto rivela un aspetto ancora poco noto sull’alterazione di equilibri delicatissimi da parte delle attività umane. Mari e oceani assorbono un terzo dei gas serra emessi in atmosfera e il carbonio si deposita nei sedimenti, che sono il più grande bacino di stoccaggio al mondo. Resta imprigionato lì senza dar fastidio a nessuno, fino a quando le reti, arando i fondali, lo liberano. In parte ritorna nell’aria e in parte resta in acqua, rende acido l’ambiente marino, riducendo così la sua capacità di fare da filtro. L’Italia è il terzo Paese al mondo in questo tipo di emissioni dopo Cina e Russia.
Come funziona la pesca a strascico
Si pratica con reti a cono trascinate da una o due barche. Grattano il fondale con una parte armata di piombi e catene per smuovere il sedimento dove si nascono le tane dei pesci. Servono per pescare i piccoli pesci da frittura, merluzzetti, triglie, razze, telline, vongole, gamberetti e altri piccoli crostacei. Ma distruggono quello che incontrano: dai coralli alle alghe. Inoltre raccoglie tutto, esemplari adulti e giovani, ostacolando il ripopolamento ittico. Nelle reti finiscono pesci il cui commercio è vietato dalle convenzioni, come cetacei e tartarughe, o specie in estinzione come lo squalo mako, lo smeriglio, la ventresca, che deve essere ributtato in mare. Secondo la Fao oltre 60 specie di squali e razze vengono catturate dallo strascico. Il problema è che, una volta impigliati nelle reti, muoiono. Succede al 18% delle tartarughe marine catturate, mentre un altro 18% muore successivamente per i danni subiti.
La pesca più redditizia
Per questo che è largamente praticata. Nel 2019 il volume commerciabile di questo tipo di pescato è stato di 66 mila tonnellate, il 37% del totale (176.738 tonnellate), ma in termini economici lo strascico pesa il 54% del totale: 480 milioni su 891,7 milioni. La flotta italiana di pescherecci a strascico e la più grande del Mediterraneo: 2.086 su un totale di 12.101, vale a dire il 17,2% di tutta la flotta nazionale, ed è quella che ha resistito di più alla crisi, perdendo lo 0,2% contro il 9,8% del totale. Lo confermano anche i dati di consumo di gasolio: nel 2018, ultimo dato disponibile, i pescherecci a strascico hanno consumato oltre 281 milioni di litri su 354 milioni totali; in Spagna 76 milioni su 100 e in Francia 12,7 milioni su 21,5. La sua insostenibilità parte anche da qui: è il tipo di pesca che in assoluto consuma più carburante.
È la più inquinante
Fino agli anni ‘50/’60 per le reti si usava la canapa o il cotone: a fine vita finito si gettavano nell’oceano e nel giro di qualche anno diventavano cibo per i pesci. Da qualche decennio si utilizzano quelle in nylon, e quando si impigliano, si rompono, si perdono, o vengono volontariamente buttate quando si pesca dove è vietato, oppure abbandonate perché smaltirle costa, restano nei mari fino a 600 anni. Chilometri di reti fantasma trascinate dalle correnti imprigionano pesci, uccidono delfini, soffocano coralli. Poi pian piano si deteriorano in micropezzi, finendo poi nei nostri piatti quando mangiamo il pescato. Dai dati Fao e del Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite: 640.000 tonnellate di reti da pesca navigano negli oceani, il 10% di tutti i rifiuti.
Le soluzioni ignorate
Esiste un tipo di pesca meno impattante, come l’utilizzo delle nasse, delle specie di gabbie che vengono deposte sul fondo, o le «reti da posta», che non vengono trascinate, ma depositate sui fondali, e con reti dalle maglie appena un po’ più larghe. È noto dal 2001, quando uno studio ministeriale italiano condotto da IcrMare ha dimostrato che passando da 50 a 60 mm non si imbrigliano i pesci più piccoli. Il problema è che si riduce anche il fatturato del 22,8%. Per questo non viene fatto. L’Islanda, che ha mari molto ricchi e dove la pesca incide tra il 9 e l’11% sull’economia. Proprio per preservare i suoi mari ha regolamentato il settore sin dagli anni ’90, con limiti fissati di cattura per ciascuna specie e quote percentuali per armatori e pescatori, con il divieto di rigetto in mare (tutto il pesce catturato deve essere portato a terra). E per la pesca a strascico è obbligatorio l’utilizzo di luci colorate nelle reti, speciali griglie che evitano di pescare i pesci troppo piccoli, e le reti devono essere poste a mezza profondità. Quasi ovunque invece ciò che non è vendibile e lo si ributta in mare. È il «bycatch», lo scarto del pescato, spesso costituito da pesci morti. Secondo la Fao nel 2019 sono state 9,1 milioni di tonnellate, di cui 5,1 solo dalla pesca a strascico e aggiunge: la pesca più insostenibile si pratica nel Mediterraneo e nel Mar Nero (62,5% di stock sovrasfruttati), nel Pacifico sudorientale (54,5%) e nell’Atlantico sudoccidentale (53,3%).
Le regole e i controlli
Una volta che una porzione di fondale viene «arata», i pescherecci si spostano più in fondo, e oltre i 200 m l’ambiente marino è ancora più delicato. Uno studio del 2014 condotto dalle università di Ancona e Barcellona, a queste profondità, la pesca a strascico causa una riduzione del contenuto di sostanza organica fino al 52%, e un turnover più lento del carbonio organico (circa il 37%). In Italia questo genere di pesca è vietata entro i 3 km dalla costa o a meno di 50 metri di profondità, e vanno poi rispettati i periodi di fermo biologico per consentire la riproduzione dei pesci. Di fatto si pratica sei mesi l’anno, e i controlli stanno a zero. Nel 2015, secondo MedReAct, sono state rilevate 102 infrazioni, 89 nel 2016. La maggioranza dei casi, molti dei quali segnalati da cittadini, o responsabili di aree marine protette, riguarda lo strascico in zone vietate. La Guardia Costiera rende noto il solo dato del 2020, che è in linea, 90 sequestri di reti da traino effettuati. Intanto i pescatori che non «strascicano» pescano sempre meno, proprio perché di pesce non ne trovano più.
La terra di nessuno
A livello mondiale, oggi solo il 2,7% dei mari è protetto. Secondo lo studio pubblicato da Nature, per eliminare il 90% dei rischi connessi all’emissione dell’anidride carbonica provocata dalla pesca a strascico sarebbe necessario proteggere almeno 4% degli oceani all’interno delle acque nazionali. Soprattutto nelle aree più vulnerabili, ovvero le piattaforme continentali che includono la zona economica esclusiva della Cina, le aree costiere dell’Europa atlantica e la dorsale di Nazca del Perù. L’obiettivo, però, è quello di proteggere il 30% dei mari. In questo modo non solo si potrebbe ripristinare la biodiversità negli habitat oceanici, ma aumenterebbe anche la quantità globale del pescato annuo di 8 milioni di tonnellate, in declino costante dagli anni ‘90. Nell’incontro di ottobre a Kunming, in Cina, promosso dalle Nazioni Unite, il mondo discuterà proprio della Convenzione sulla diversità biologica.
fonte: www.corriere.it
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Uno studio pubblicato su Nature Sustainability afferma che la plastica che arriva dai nostri acquisti è il rifiuto più frequente nei mari. Globalmente si tratta di oggetti di largo consumo, ma nei Paesi ricchi soprattutto reti da pesca. Per questo la direttiva Sup potrebbe non bastare
Il problema della dispersione dei rifiuti negli oceani è una delle grandi minacce del nostro secolo: allo stato attuale, più di 150 milioni di tonnellate di plastica sono state immesse in mare. La preoccupazione del mondo scientifico per questo fenomeno ha dato luogo a importanti ricerche sulla distribuzione e sull’impatto dei rifiuti marini. Restava però frammentario lo studio sulla loro natura. Per colmare questa lacuna, una nuova pubblicazione su Nature Sustainability fornisce la prima diagnosi completa dell’origine dei rifiuti che finiscono negli oceani.
Le informazioni preesistenti si basavano su metodi di campionamento e criteri di classificazione disorganici. Per raccogliere i dati necessari all’analisi, il team di ricerca ha invece integrato modelli regionali e armonizzato sistematicamente dati su tipologie di rifiuti rinvenuti nei grandi ambienti marini a livello globale. Più di 12 milioni di informazioni provenienti da 36 banche dati sono stati standardizzati grazie alla collaborazione con istituti di ricerca e ONG di 10 Paesi. La plastica rappresenta l’80% dei rifiuti in mare
Guidato dalla ricercatrice Carmen Morales-Caselles dell’Università di Cadice e finanziato dalla Fondazione Bbva e dal ministero della Scienza spagnolo, lo studio ha permesso di identificare i prodotti più inquinanti per i principali ecosistemi acquatici su scala globale, analizzando la composizione dei rifiuti nell’oceano.
Dalla ricerca emerge che solo 10 tipi di prodotti di plastica rappresentano il 75% dei rifiuti, questo a causa sia dell’utilizzo diffuso di questi oggetti che della degradazione estremamente lenta. La plastica originata dal consumo terrestre infatti è di gran lunga l’elemento più frequente nei rifiuti marini su scala globale, costituendone l’80%. A seguire metallo, vetro, tessuti, carta e legno lavorato. A soffocare gli oceani sono soprattutto sacchetti monouso, bottiglie di plastica, contenitori per alimenti e involucri di cibo, i quattro oggetti più diffusi che costituiscono quasi la metà dei rifiuti. “Non ci ha sorpreso che la plastica costituisca l’80% dei rifiuti, ma ci ha sorpreso l’alta percentuale di imballaggi da asporto” ha dichiarato la stessa Morales-Caselles.
Gli articoli per il consumo da asporto hanno quindi costituito la quota maggiore, seguiti da quelli derivanti dalle attività di pesca, soprattutto corde, reti sintetiche e altre attrezzature. Tuttavia, la proporzione di rifiuti legati alle attività marittime come pesca e navigazione aumenta nelle zone scarsamente abitate, diventando il tipo di rifiuti predominante nelle acque oceaniche aperte e alle alte latitudini (> 50°), dove costituisce all’incirca la metà dei rifiuti totali. Secondo la ricercatrice, “il contributo delle attività marittime ai rifiuti oceanici è in media del 22% in tutti gli ecosistemi, ma questo numero dovrebbe essere considerato come un minimo poiché alcuni oggetti non sono facili da collegare alle attività marittime”.
Tale variazione nella composizione dei rifiuti sulla superficie dell’oceano dipende dall’effetto del vento e delle onde, che spazzano regolarmente i grandi oggetti galleggianti verso le coste, dove si accumulano sul fondale marino o subiscono un processo di erosione accelerata e rottura sulla riva, trasformandosi in microplastiche. È così, sotto forma di microplastiche, che possono superare più facilmente le onde, arrivare in mare aperto ed entrare nei circuiti di trasporto delle correnti oceaniche (oltre che nella catena alimentare).
www.marinelitterlab.eu
Fattori socioeconomici
La più alta concentrazione di rifiuti è stata trovata sui litorali e sui fondali marini vicino alle coste. Le differenze di composizione tra gli ambienti indicano infatti una tendenza dei rifiuti più voluminosi a restare intrappolati nelle zone costiere, mentre la plastica di origine terrestre che viene rilasciata in mare aperto ha per lo più la forma di piccole particelle (tuttavia, l’analisi pubblicata su Nature Sustainability ha incluso unicamente oggetti più grandi di 3 cm, escludendo frammenti e microplastiche).
A livello mondiale, la composizione dei rifiuti immessi nearshore (sotto costa) riflette i fattori socioeconomici, con un peso relativamente ridotto di oggetti monouso nei Paesi ad alto reddito, dove invece prevalgono reti e altri strumenti usati nella filiera ittica.
www.marinelitterlab.eu “Vietare il monouso e puntare su EPR e deposito su cauzione”
Nel complesso, questo studio può essere utilizzato per individuare le azioni necessarie a gestire la produzione, l’utilizzo e il destino degli oggetti più inquinanti prodotti dall’uomo sul Pianeta, fornendo informazioni utili alle politiche di prevenzione. Identificare le principali fonti della plastica oceanica è infatti necessario per fermare il flusso di rifiuti marini verso l’oceano alla fonte, piuttosto che limitarsi a pulirlo, evitando così in primo luogo l’immissione nell’ambiente.
Partendo da questo presupposto, gli autori sostengono divieti normativi sui prodotti di plastica da asporto non indispensabili. Per gli altri prodotti, lo studio suggerisce di applicare sistemi di responsabilità estesa del produttore (Epr), unitamente an sistema di deposito e rimborso per i consumatori di prodotti da asporto (deposito su cauzione), entrambe giustificate dal rischio di dispersione di questi prodotti nell’ambiente.
La sostituzione dei più inquinanti articoli in plastica con altri prodotti realizzati con materiali più facilmente degradabili dovrebbe invece tenere conto di tutti gli impatti del ciclo di vita dei prodotti alternativi, incluso il fatto che sostituendoli alla plastica si avrebbe con tutta probabilità come unico effetto una sostituzione della tipologia di rifiuti dispersi in mare. Senza tener conto poi, chiariscono i ricercatori, l’impatto del ciclo di vita dei prodotti alternativi, che non sempre garantiscono un approvvigionamento sostenibile delle materie prime.
La direttiva Ue sulla plastica monouso? Potrebbe non bastare
Lo studio conclude che il modo migliore per affrontare l’inquinamento da plastica è che i governi limitino severamente gli imballaggi di plastica monouso.
Carmen Morales-Caselles e il suo team analizzano anche le politiche Ue a riguardo (come la direttiva SUP sulla plastica monouso), sostenendo che l’azione europea rischia talvolta di distogliere l’attenzione dal fulcro della questione. ”È un bene che ci sia un’azione contro i cotton fioc di plastica, ma se non aggiungiamo a quest’azione gli oggetti più comuni nei rifiuti, allora non stiamo affrontando il cuore del problema, ci stiamo distraendo”, ha detto la ricercatrice dell’Università di Cadice. Cannucce e palette da caffè infatti costituiscono solamente il 2,3% dei rifiuti, cotton fioc e bastoncini di lecca-lecca lo 0,16%.
Anche l’Italia tra i grandi inquinatori
Uno dei set di dati utilizzato da Morales-Caselles e colleghi è uno studio pubblicato sulla stessa rivista che prende in esame i rifiuti immessi nell’oceano da 42 fiumi in Europa. Lo studio afferma che Turchia, Italia e Regno Unito sono i primi tre contributori di rifiuti marini galleggianti. “Adottare misure di mitigazione non significa pulire la foce del fiume”, ha detto Daniel González-Fernández dell’Università di Cadice, che ha condotto quest’ultima ricerca. “Bisogna fermare la spazzatura alla fonte, in modo che la plastica non entri nemmeno nell’ambiente”. La complessa sfida che ci troviamo ad affrontare ha bisogno pertanto di un’azione urgente a partire dalla terraferma e dai fiumi, bloccando l’immissione dei rifiuti in mare.
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fonte: economiacircolare.com
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I ricercatori della King Abdullah University of Science and Technology hanno sviluppato un sistema economicamente fattibile per estrarre il litio ad alta purezza direttamente da mari ed oceani.
Il litio è un elemento vitale per l’odierno accumulo energetico a batterie, ma l’aumento della domanda a cui andremo incontro dovrebbe esaurire le riserve terrestri entro il 2080. La soluzione? Per qualcuno è da cercare in acqua. Gli oceani contengono circa 5.000 volte più litio della terraferma, ma a concentrazioni estremamente basse di circa 0,2 parti per milione (ppm). In altre parole il prelievo marino è sempre stato un processo lungo, complesso e costoso. Una nuova ricerca della King Abdullah University of Science and Technology (KAUST) potrebbe cambiare le carte in tavola. Qui infatti un gruppo di scienziati ha realizzato un nuovo sistema per estrarre il litio dall’acqua di mare.
Il team guidato da Zhiping Lai ha sperimentato un metodo mai utilizzato prima: una cella elettrochimica contenente una membrana ceramica in ossido di litio, lantanio e titanio (LLTO). La struttura possiede pori abbastanza larghi da consentire il passaggio degli ioni di litio. Bloccando nel contempo gli ioni più grandi di sodio, magnesio e potassio, presenti nell’acqua a concentrazioni molto più elevate. “Le membrane LLTO non sono mai state utilizzate prima per estrarre e concentrare gli ioni di litio”, afferma il ricercatore Zhen Li, che ha sviluppato la cella.
Estrarre litio dall’acqua di mare, come funziona?
In un articolo pubblicato sulla rivista Energy & Environmental Science, gli scienziati spiegano il funzionamento del loro sistema. L’unità contiene tre scomparti. L’acqua di mare scorre in una camera di alimentazione centrale; qui gli ioni di litio positivi passano, attraverso la membrana LLTO, in un compartimento laterale contenente una soluzione tampone e un catodo di rame rivestito di platino e rutenio. Nel frattempo, gli ioni negativi escono dalla camera di alimentazione e, attraverso una membrana a scambio anionico, passano in un terzo compartimento contenente una soluzione di cloruro di sodio e un anodo di platino-rutenio.
Il gruppo ha testato l’impianto usando l’acqua del Mar Rosso. Ad una tensione di 3,25V, la cella ha generato gas idrogeno al catodo e gas cloro all’anodo. E indotto il passaggio del litio attraverso la membrana LLTO, accumulandolo nella camera laterale. Ovviamente il risultato non è l’elemento puro, ma una soluzione acquosa arricchita di litio. Ma con altri quattro cicli di lavorazione si raggiunge una concentrazione di oltre 9.000 ppm.
I ricercatori stimano che la cella avrebbe bisogno di soli 5 dollari di elettricità per estrarre 1 chilo di litio dall’acqua di mare. Il valore dell’idrogeno e del cloro prodotti nel processo compenserebbe ampiamente questo costo e l’acqua residua potrebbe essere utilizzata negli impianti di desalinizzazione. “Continueremo a ottimizzare la struttura della membrana e il design delle celle per migliorare l’efficienza del processo”, affermano gli scienziati. Il team spera anche di collaborare con l’industria del vetro per produrre la membrana LLTO su larga scala e a costi accessibili.
fonte: www.rinnovabili.it
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Questa è la conclusione di un nuovo rapporto pubblicato martedì dal Programma ambientale delle Nazioni Unite e Azul senza scopo di lucro per la giustizia oceanica, intitolato Neglected: Environmental Justice Impacts of Plastic Pollution.
"L'inquinamento da plastica è un problema di giustizia sociale", ha detto in un comunicato stampa il coautore del rapporto e fondatore e direttore esecutivo di Azul, Marce Gutiérrez-Graudiņš . "Gli sforzi attuali, limitati alla gestione e alla riduzione dell'inquinamento da plastica, sono inadeguati per affrontare l'intera portata dei problemi che la plastica crea, in particolare i disparati impatti sulle comunità colpite dagli effetti dannosi della plastica in ogni punto, dalla produzione allo spreco".
Il rapporto fornisce diversi esempi di come la plastica danneggia le comunità vulnerabili, secondo UN News .
Produzione: la plastica proviene dal petrolio e l'estrazione del petrolio può essere un processo altamente dannoso e inquinante. Le comunità indigene sono sfollate per trivellazioni petrolifere, il fracking inquina l'acqua potabile e le raffinerie di petrolio rappresentano un rischio per la salute delle comunità afroamericane lungo la costa del Golfo degli Stati Uniti.
Uso: le donne hanno maggiori probabilità di essere esposte alle tossine derivanti dall'uso della plastica, che è predominante nei prodotti domestici e femminili.
Smaltimento: la plastica smaltita in modo improprio finisce negli ecosistemi marini, dove minaccia il sostentamento di coloro che si affidano alla pesca per sopravvivere e minaccia la salute di coloro che la consumano per errore nei loro frutti di mare. Inoltre, le persone che si guadagnano da vivere raccogliendo rifiuti sono esposte in modo sproporzionato alle sue tossine.
"L'impatto della plastica sulle popolazioni vulnerabili va ben oltre i sistemi di gestione dei rifiuti inefficienti e talvolta inesistenti", ha dichiarato nel comunicato stampa Juliano Calil, autore principale del rapporto e ricercatore senior presso il Centro per l'economia blu. "Inizia con questioni relative all'estrazione di petrolio, attraverso ambienti tossici ed emissioni di gas serra, e ha anche un impatto sulle politiche di distribuzione dell'acqua".
Gli autori del rapporto hanno notato che l'uso della plastica è aumentato solo dall'inizio della pandemia COVID-19 e sta diventando parte di una "tripla emergenza" insieme alla crisi climatica e alla perdita di biodiversità, ha detto UN News.
Per affrontare questi problemi, la relazione ha privilegiato diverse soluzioni. Questi includevano più studi sugli impatti sulla salute della plastica; migliore monitoraggio dei rifiuti di plastica; divieti di plastica monouso; e maggiori investimenti nella gestione dei rifiuti, nel riciclaggio e nel riutilizzo.
In un invito alla stampa che annunciava il rapporto, gli autori si sono anche espressi a favore di un trattato internazionale per porre fine all'inquinamento e alla produzione di plastica, come riportato da Gizmodo . David Azoulay, il direttore del programma sanitario del Center for International Environmental Law che non ha aiutato a scrivere il rapporto, ha affermato che la sua enfasi sui diritti umani potrebbe aiutare a fornire un quadro per un simile trattato.
"Considerare approcci basati sui diritti", ha detto a Gizmodo, "è un passo molto importante per lo sviluppo di un trattato che sviluppi effettivamente soluzioni".
fonte: www.ecowatch.com
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La Terra è un pianeta azzurro, osservando una foto dallo spazio ci accorgiamo che il nostro globo è ricoperto dall’acqua: mari e oceani occupano circa il 70% della superficie del nostro pianeta e ne determinano il clima e la temperatura, consentendo alla biodiversità di prosperare.
Essi fungono da sistema respiratorio per la Terra: producono ossigeno per la vita e assorbono anidride carbonica e calore. Sono uno dei fattori chiave per la vita sul nostro pianeta: così come una persona non può vivere senza cuore e polmoni in salute, la Terra non può sopravvivere senza oceani e mari sani.
Sono all’ordine del giorno notizie circa gli impatti profondi che le attività umane hanno sugli oceani: li inquiniamo scaricandovi plastiche, reti, scorie radioattive, mascherine (…). Disturbiamo le catene alimentari con pratiche di pesca dannose che devastano i fondali, li acidifichiamo immettendo nel ciclo carbonio derivato dall’utilizzo di combustibili fossili. Siamo inoltre causa di un riscaldamento che avanza a una velocità senza precedenti, attraverso le emissioni di gas serra. Permettiamo che tutto questo accada “a causa dell’idea, radicata nel passato, che gli oceani della Terra e le loro risorse fossero infiniti; e continuiamo a farlo nonostante le valutazioni scientifiche più aggiornate ci abbiano ripetutamente avvertito che era un grave errore. Probabilmente, la cosa peggiore è la rapida accelerazione di questi fenomeni.”
Non ci possiamo fermare a questa constatazione, dobbiamo comprendere che con il diffondersi della deforestazione, la pratica della monocoltura su vasta scala, la deviazione dei fiumi, l’industrializzazione, l’edificazione all’interno di molti ambienti sensibili e così via, l’attacco alla Terra è simultaneo e su più fronti a tutti i principali ambienti della pianeta (marini, di acqua dolce, terrestri e aerei). Tutto ciò non ha davvero precedenti nella storia della Terra. “Il tasso di estinzione dei nostri giorni mostra che il collasso di questi ecosistemi non si verificherà ‘prima o poi in futuro’, ma si sta già verificando”. Così scrive Rohling.
Dunque, comprendere come funzionano gli oceani e i mari è un primo passo necessario e fondamentale, e per capirlo non c’è niente di meglio che seguire il viaggio delineato da Eelco J. Rohling che in Oceani ricostruisce la storia del nostro mare fin dalla sua comparsa su questo pianeta, circa 4,4 miliardi di anni fa.
Il viaggio inizia dalla curiosità di un ragazzino – oggi paleoceanografo e docente all’Australian National University - che viveva in Olanda e rimase affascinato osservando quanto le reti a strascico dei pescatori “catturavano” sui fondali del Mare del Nord: teschi, zanne e ossa di mammut che, scoprì studiando, risalivano alla fase in cui la piattaforma Doggerland era emersa durante l’era glaciale… Dalla preistoria fino ai giorni nostri, l’autore descrive i principali eventi nell’evoluzione degli oceani, non dimenticando gli impatti dell’umanità sulla salute e l’abitabilità del nostro pianeta. Perché non c’è niente di più sbagliato che pensare che l’umanità sia troppo piccola per influenzare i cicli biogeochimici marini. Leggere per credere.
*Legge della conservazione della massa postulata da Antoine-Laurent de Lavoisier nel 1789.
fonte: www.puntosostenibile.it
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Dopo Cowspiracy arriva su Netflix Seaspiracy, il documentario che svela il lato oscuro dell’industria della pesca e di tutte le condotte suicide che stanno devastando gli oceani.
L’oceano, culla e polmone della vita sulla Terra, è l’habitat più vasto e prezioso del nostro ecosistema. Il luogo in cui tutto è cominciato e da cui dipende l’equilibrio di tutte le specie, uomo incluso. Noi, invece, lo stiamo condannando a morte, inquinandolo e depredandolo senza misura. A tracciare questo drammatico quadro, sbattendoci in faccia la verità è il documentario Seaspiracy, uscito il 24 marzo su Netflix.
Durante tutta la lavorazione del film, gli attivisti Kip Andersen (produttore esecutivo) e Ali Tabrizi (regista), hanno incessantemente divulgato notizie e dati sullo stato di salute dei mari, per cercare di accelerare la presa di coscienza delle persone e delle istituzioni, invocando un cambio di rotta nell’atteggiamento suicida che l’umanità porta avanti ormai da troppo tempo.
Seaspiracy, la trama del documentario
Risultato di anni di ricerche e di indagini (condotte anche a rischio della propria vita dai registi), il film mostrerà quali proporzioni ha raggiunto oggi il nostro impatto sugli oceani. Alleati indispensabili per la nostra sopravvivenza, essi producono la metà dell’ossigeno che respiriamo, ospitano l’80 per cento della vita, sulla Terra, assorbono circa un terzo delle emissioni di CO2 create dall’uomo e, dagli anni Sessanta ad oggi, hanno assorbito il 90 per cento del calore in eccesso con cui abbiamo alterato il clima della Terra.
In cambio noi, dal 1950 ad oggi, abbiamo portato al collasso il 29 per cento delle specie ittiche commerciali (con un trend che minaccia un declino sempre più rapido e devastante entro il 2048); uccidiamo 650 mila animali marini ogni anno tra balene, delfini e foche, massacrando 73 milioni di squali all’anno per la loro carne, ma anche “per errore”.
Senza fare sconti, gli autori sono andati a scavare all’origine delle condotte umane responsabili della distruzione oceanica, che sta provocando la più grande estinzione di massa delle specie degli ultimi 65 milioni di anni, dopo la scomparsa dei dinosauri.
Questo film trasformerà radicalmente il modo in cui pensiamo e agiamo sulla conservazione degli oceani per sempre. È ora che concentriamo le nostre preoccupazioni ecologiche ed etiche sui nostri mari e sui suoi abitanti. Questa è una nuova era per il modo in cui trattiamo l’habitat più importante della terra.
Ali Tabrizi, attivista oceanico e regista di Seapiracy
Andersen e Tabrizi hanno così portato le telecamere sui pescherecci, nelle aree di acquacoltura, ma anche negli uffici dei responsabili, portando a galla il lato oscuro dell’industria della pesca con il suo sfruttamento intensivo dei mari e dei suoi abitanti.
A finire sotto accusa è dunque la condotta scellerata e ottusa dell’umanità, che da anni aggredisce le acque oceaniche e i loro abitanti con spietata avidità e prepotenza. Un tema scottante e messo sotto silenzio anche da chi avrebbe dovuto denunciare e, di conseguenza, intervenire. Da qui la scelta del titolo, Seaspiracy (gioco di parole tra sea, mare, e conspiracy, cospirazione), con cui il film punta il dito contro l’omertà di chi finora ha taciuto su quello che è definito uno dei più grandi problemi che affliggono la nostra epoca e da cui dipenderà la salvezza dell’intero pianeta.
Lo stesso approccio usato in Seaspiracy era stato adottato anche nel documentario del 2015 Cowspiracy, prodotto da Leonardo DiCaprio e diretto dallo stesso Kip Andersen. Al centro delle sue indagini, allora, era stato l’impatto ambientale della produzione di carne sul pianeta e l’omertà delle associazioni ambientaliste.
Dopo aver appreso, tramite un rapporto della Fao, che l’allevamento del bestiame genera più gas serra dell’intero settore dei trasporti e rappresenta la causa motrice principale della devastazione ambientale, Andersen, attivista convinto, era rimasto sconvolto dal silenzio assordante sul tema da parte delle grandi associazioni ambientaliste. Le stesse che lui stesso aveva sostenuto per anni.
Da lì il suo desiderio di andare a fondo della questione e la scoperta del motivo di tale silenzio: la paura delle associazioni di essere identificate come realtà anti-carne, perdendo così l’indispensabile sostegno popolare ed economico. Il legame letale tra allevamenti intensivi e oceani
Un altro aspetto che affronterà Seaspiracy è la connessione tra l’industria zootecnica e l’inquinamento delle acque, con la conseguente distruzione degli habitat, contaminati dai deflussi agricoli. Un legame letale che secondo l’Epa (Environmental protection agency) è la causa principale dell’estinzione delle specie marine e delle zone morte oceaniche.
Quello che è chiaro da tempo, insomma, è che da questa guerra che l’uomo ha dichiarato agli oceani, nessuno potrà uscire vincitore e che per ristabilire un equilibrio duraturo serve una decisa e rapida presa di posizione da parte di tutti. Il documentario Seaspiracy, con la sua denuncia chiara e coraggiosa, potrà certamente contribuire a questo scopo.
fonte: www.lifegate.it
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Lo studio internazionale, al quale hanno partecipato ricercatori ENEA e INGV, ha evidenziato anche che i cinque anni più caldi si sono verificati tutti a partire dal 2015 e ciascuno degli ultimi nove decenni è stato più caldo del decennio precedente
È stato completato il primo studio sul riscaldamento globale degli oceani con i dati relativi all’anno 2020 elaborato da un team internazionale di scienziati tra cui ricercatori italiani dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell’ENEA.
Secondo lo studio dal titolo ‘Upper Ocean Temperatures Hit Record High in 2020’ appena pubblicato sulla rivista internazionale Advances in Atmospheric Sciences, la temperatura media globale dell’oceano nel 2020 è il valore più caldo finora registrato. Ma non è tutto. L’analisi mostra anche che i cinque anni più caldi mai registrati si sono verificati tutti a partire dal 2015.
I dati del 2020 evidenziano che lo strato dell’oceano tra la superficie e i 2.000 metri di profondità, ha assorbito 20 Zettajoule di calore rispetto all’anno precedente, equivalenti al calore prodotto da 630 miliardi di asciugacapelli in funzione giorno e notte per un anno intero.
Per il ruolo che l’oceano riveste nel modulare il clima della Terra, il contenuto di calore dell’oceano rappresenta il miglior indicatore del fatto che il pianeta si stia riscaldando o meno. Come peraltro affermato pochi giorni fa per l’ambito atmosferico dal servizio europeo Copernicus Climate Change, il 2020 e il 2016 sono i due anni più caldi mai registrati considerando, però, che il 2016 è stato l’anno de El Niño, il fenomeno climatico periodico che determina un forte riscaldamento delle acque oceaniche.
“Il 90% del calore del riscaldamento globale finisce negli oceani quindi in realtà il ‘riscaldamento globale’ non è altro che il ‘riscaldamento dell’oceano’, sottolinea Simona Simoncelli dell’INGV di Bologna e co-autrice italiana dello studio insieme a Franco Reseghetti del Centro Ricerche Ambiente Marino S. Teresa dell’ENEA.
“Oceani più caldi influiscono notevolmente sulle condizioni meteorologiche locali, generando tempeste più potenti e favorendo l’innalzamento del livello del mare. I risultati della ricerca rappresentano un ulteriore chiaro dato che indica la necessità di agire al più presto per limitare gli effetti del cambiamento climatico in atto”, aggiunge Simoncelli.
Il valore del riscaldamento determinato in questo lavoro fornisce, inoltre, un quadro anche sul lungo termine. Infatti, è risultato che ciascuno degli ultimi nove decenni è stato più caldo del decennio precedente. Il grafico seguente confronta il valore relativo al 2020 con alcuni decenni precedenti.
Il riscaldamento dell’oceano, per decennio, dagli anni ‘40
“Il riscaldamento osservato ha delle conseguenze: la Terra sta diventando ogni anno più calda e questo non è un problema solo del mondo accademico, perché il cambiamento climatico influisce quotidianamente sulle nostre vite e sulla nostra società. La vita di un numero sempre maggiore di persone viene messa in serio pericolo e purtroppo non si sta facendo abbastanza per cercare di limitare gli effetti nefasti del cambiamento climatico globale”, evidenzia il ricercatore ENEA Franco Reseghetti.
Pianeta e oceani sempre più caldi determinano effetti sorprendenti e terribili come, ad esempio, gli incendi di vastissime dimensioni scoppiati in Australia, in parti della regione amazzonica e negli Stati Uniti occidentali. Tali fenomeni così estremi sono, purtroppo, destinati a divenire sempre più comuni nel futuro. Inoltre, oceani più caldi portano ad un riscaldamento maggiore dell'atmosfera e un’atmosfera più calda provoca piogge più intense, un numero maggiore di tempeste e uragani, per giunta di maggiore intensità, aumentando anche il rischio di inondazioni.
Ad esempio, nel Nord Atlantico quest’anno si è verificato un numero record di tempeste che hanno colpito il nord America, lo stesso fenomeno si è verificato in Vietnam e l’arcipelago delle isole Fiji è stato recentemente devastato da un uragano di categoria 5 (valore massimo). È quindi tutto il pianeta ad essere interessato dal fenomeno del riscaldamento, non solo qualche area specifica.
Immagine da satellite del ciclone Yasa, 17 dicembre 2020
Anche i Paesi dell’area mediterranea sono stati colpiti da importanti incendi estivi (Spagna, Portogallo, Grecia e Italia), e hanno subito danni da trombe d'aria e piogge di intensità estrema nell'anno più caldo mai misurato in Europa.
Secondo i ricercatori “Il mar Mediterraneo non è da meno, anzi: tra tutte le aree analizzate in dettaglio in questa ricerca il Mediterraneo è il bacino che evidenzia il tasso di riscaldamento maggiore negli ultimi anni, confermando peraltro quanto già riscontrato nel Rapporto sullo Stato dell’Oceano del Servizio Marino Europeo Copernicus del 2016 e del 2018, proseguendo un processo iniziato una trentina di anni fa ma con un incremento più elevato rispetto alle altre aree oceaniche”.
Gli scienziati del team hanno potuto portare a termine lo studio, malgrado le difficoltà legate alla pandemia, grazie all’utilizzo di nuove metodologie per l’analisi dei dati di temperatura delle acque marine e vari tipi di sonde che hanno permesso di raggiungere i 2000 m. di profondità.
“I risultati ottenuti sono la riprova che sono in atto effetti globali di ampia portata sull'ambiente e sulla società, pertanto, forte è l’invito ad intervenire per limitare in modo importante le emissioni di gas serra e allo stesso tempo ad adattarsi alle conseguenze ormai inevitabili dell’incessante riscaldamento avvenuto negli ultimi decenni”, concludono i ricercatori.
Oltre alla collaborazione internazionale di altissimo livello, lo studio è frutto di una solida partnership pluriennale tra INGV ed ENEA relativa all’analisi dei dati del monitoraggio della temperatura della colonna d’acqua lungo la linea marittima commerciale “Genova-Palermo” che proseguirà nei prossimi tre anni nell’ambito di un progetto INGV. Il monitoraggio continuo lungo questa tratta è infatti una componente importante del sistema osservativo globale degli oceani.
La scheda
Chi: ENEA e Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV)
Le Nazioni Unite mettono in campo una grande alleanza internazionale per le scienze oceaniche. Una missione che coinvolge da vicino tutti noi.
Se c’è un elemento che ha sempre affascinato l’umanità per il carico di mistero che porta con sé, questo è l’oceano. Mentre i bambini volano con la fantasia leggendo le storie di intrepidi navigatori che lottano contro pirati senza scrupoli e mostruose creature degli abissi, gli adulti sono alle prese con un’altra, grande missione. Diversa, ma non meno avventurosa. La missione di capire gli oceani, per prendersene cura e salvare il loro destino, che è anche il destino del Pianeta.
Gli oceani inesplorati
Considerato che sono passati più di cinquant’anni da quando l’uomo ha messo piede sulla Luna e, nel frattempo, siamo anche riusciti a fotografare un buco nero, sembra incredibile che non conosciamo ancora l’elemento che occupa oltre il 70 per cento della superficie del Pianeta in cui viviamo. Più dell’80 per cento degli oceani non è ancora stato mappato, osservato, né esplorato, stando alla Nasa. “Come possiamo proteggerli senza avere la minima idea di cosa contengano?”, commenta Ricardo Aguilar, a capo delle spedizioni in Europa dell’organizzazione internazionale Oceana. Anche questo vuoto di conoscenza può spiegare il fatto che solo il 7 per cento della loro estensione sia inquadrato come area marina protetta.
Una mappa di tutti i fondali entro il 2030
Il progetto Seabed 2030 si è posto una missione tanto chiara quanto coraggiosa: mappare ad alta risoluzione il 100 per cento dei fondali entro il 2030. Come fare? Le rilevazioni satellitari sono imprecise; gli ecoscandagli fissati sulle navi danno risultati migliori, ma richiederebbero secoli di navigazione. Seabed 2030 ha quindi suddiviso gli oceani in quattro grandi aree, assegnando ad autorevoli istituti di ricerca la responsabilità di ciascuna di esse. Ogni sede dovrà recuperare i dati batimetrici già esistenti (cioè le informazioni sui fondali rilevate tramite un ecoscandaglio, che non sempre sono di pubblico dominio) e condurre nuove campagne di mappatura. Al British oceanographic data centre spetterà poi il compito di assemblarli in una mappa unica, gratuita e aperta alla consultazione di tutti.
Quando è stato lanciato il progetto, a luglio del 2017, solo il 6 per cento dei fondali era stato mappato con un livello di precisione ritenuto accettabile. A tre anni di distanza era già stato raggiunto il 19 per cento.
Il decennio Onu delle scienze oceaniche
Conoscere questi ecosistemi significa mettersi nelle condizioni di proteggerli. “Gli interventi possono essere efficaci solo se sono basati su solide conoscenze fornite dalla scienza. C’è una crescente necessità di trovare soluzioni scientifiche che ci permettano di comprendere i cambiamenti in corso nei nostri oceani e di rovesciare il declino della loro salute”. Sono le parole del documento con cui le Nazioni Unite eleggono il periodo 2021-2030 come decennio delle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile.
Fino a oggi le scienze oceaniche hanno fatto grandi passi avanti, ma si sono dovute accontentare di risorse risicate. Per la precisione, sostiene l’Onu, si aggirano tra lo 0,04 e il 4 per cento degli investimenti globali in ricerca e sviluppo. Il decennio vuole quindi essere un’opportunità “irripetibile” per rafforzare la cooperazione internazionale e dare vita a nuove partnership tra istituti di ricerca, decisori politici, aziende, associazioni e cittadini. Dando così un forte slancio alla ricerca scientifica e all’innovazione tecnologica, e convogliandole verso il 14° Obiettivo di sviluppo sostenibile che prevede di “preservare e usare in modo sostenibile gli oceani, i mari e le risorse marine per lo sviluppo sostenibile”.
Con il decennio delle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile, l’Onu stabilisce sette priorità da realizzare entro il 2030. Un atlante digitale completo degli oceani. Un sistema completo di osservazione degli oceani da tutti i bacini principali. Una conoscenza qualitativa e quantitativa degli ecosistemi oceanici e delle loro dinamiche, come base per la loro gestione e per il loro adattamento. Un portale con dati e informazioni sugli oceani. Un sistema di allerta integrato per molteplici situazioni di rischio. Inclusione degli oceani nelle attività di osservazione, ricerca e previsione legate al sistema terrestre, con il supporto di scienze sociali e umanistiche e valutazioni di carattere economico. Sviluppo di competenze e trasferimento accelerato delle tecnologie, training ed educazione, cultura degli oceani. Dalla salute degli oceani dipende il nostro futuro
La posta in gioco è alta e il tempo che abbiamo a disposizione scarseggia. Stiamo parlando dell’ecosistema più vasto al mondo, dove vivono almeno 200mila specie note (ma il totale probabilmente è nell’ordine dei milioni). Un ecosistema che per il 40 per cento versa in cattive condizioni. A ricordarlo è il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp).
Le calotte polari si fondono a causa del riscaldamento globale e fanno innalzare il livello dei mari, con il rischio di sommergere i territori dove vivono 300 milioni di persone. La CO2 nell’atmosfera, in concentrazioni ormai spropositate, viene assorbita dalle acque e rende più acido il Ph della loro superficie, provocando danni irreparabili alle forme di vita.
8 milioni di tonnellate di plastica finiscono in mare ogni anno. Il 35 per cento degli stock ittici viene pescato a livelli che la Fao definisce come biologicamente insostenibili. Le minacce in corso sono tante, diverse tra loro, ma accomunate da una forte responsabilità dell’uomo.Leggi anche
Con l’Agenda 2030 l’Onu ribadisce con forza che la sostenibilità è un concetto a tre dimensioni: ambientale, sociale ed economica. Tutte e tre dipendono in modo dirimente dalla salute degli oceani. Essi infatti assorbono il 30 per cento della CO2 di origine antropica, mitigando il riscaldamento globale; contribuiscono al sostentamento di 3 miliardi di persone; hanno un valore economico che, considerando le risorse marine e costiere e le industrie a esse collegate, si aggira sui 3mila miliardi di dollari all’anno. Cioè il 3 per cento del pil globale.
Una prova di resilienza per le piccole isole
Tra le priorità designate dall’Onu per questo decennio c’è quella di rafforzare le conoscenze scientifiche nei 47 paesi a minor livello di sviluppo (Ldcs) e nei piccoli stati insulari in via di sviluppo (Sids). Territori dove le conseguenze dei cambiamenti climatici si manifestano in tutta la loro drammaticità, ma dove mancano le risorse economiche necessarie per studiarli e affrontarli in modo davvero efficace.
Tra di loro c’è Tuvalu, composto da nove atolli in mezzo all’oceano Pacifico, con una superficie di appena 26 chilometri quadrati che ne fa il quarto stato più piccolo del mondo. Da qui, proprio grazie alla scienza, arriva una sorprendente buona notizia. Un team di ricercatori degli atenei di Plymouth (Regno Unito), Auckland (Nuova Zelanda) e dell’università Simon Fraser di Burnaby (Canada) ha ricostruito al computer uno degli atolli per simulare la sua reazione all’innalzamento del livello dei mari. Il risultato, descritto in un articolo pubblicato da Science advanced, ha superato le più rosee aspettative. “L’accumulo di sedimenti trasportati dalle acque porterebbe a un sollevamento delle stesse isole, evitando che vengano sommerse, attraverso un adattamento naturale”, ha spiegato uno degli autori, Gerd Masselink. Un esempio da manuale di resilienza, capace di accendere nuove speranze.
Ocean words, storie sommerse sotto la superficie
Seabed 2030 e le scoperte su Tuvalu sono due delle tante storie narrate da Ocean words, nuovo progetto che “nasce per far parlare gli oceani di tutto il mondo e cerca un pubblico di persone attente, sensibili e capaci di mettersi in ascolto” (scopri la pagina Instagram di Ocean words qui).
Se è vero infatti che la salute degli oceani è centrale per l’equilibrio del Pianeta, della società e dell’economia così come le conosciamo, ciò significa che non possiamo permetterci di disinteressarcene, delegandola a un ristretto nucleo di addetti ai lavori. Una maggiore sensibilità a tutti i livelli, compreso quello dei cittadini, è un segnale forte rivolto a chi ha il potere di orientare gli investimenti in ricerca e sviluppo. Largo, dunque, alle voci di scienziati, attivisti, aziende illuminate ed esploratori. Con la speranza che, magari, possano ispirare gli oceanografi di domani.
fonte: www.lifegate.it
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Dal 9 all’11 ottobre, team di studenti, ricercatori ed esperti si riuniranno online per trovare le idee più innovative per tutelare gli oceani.
Se siete studenti, ricercatori, sviluppatori, esperti di comunicazione, economia, marketing o design e avete a cuore le sorti dei mari del Pianeta, Oceanthon è l’evento che fa per voi. Si tratta di un hackathon, cioè un evento dedicato ad eseperti del mondo digitale, che si svolgerà completamente online dal 9 all’11 ottobre 2020. Obiettivo: raggruppare i talenti migliori per trovare le soluzioni più innovative per la difesa degli oceani e promuovere il ruolo dei mari nella creazione di un futuro più sano, resiliente, produttivo e sostenibile.
L’evento si inserisce tra quelli organizzati per Il decennio delle scienze del mare per lo sviluppo sostenibile (2021-2030), iniziativa delle Nazioni Unite nata dall’impegno della Commissione oceanografica intergovernativa dell’Unesco per favorire la cooperazione internazionale nel campo delle scienze del mare, coordinare programmi di ricerca e migliorare la gestione delle sue risorse. Insieme alla Commissione, organizza l’Oceanthon anche la Fondazione Cmcc – Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici con il supporto di Hack for Italy.
Oceanthon, come funziona
Durante l’evento, i giovani talenti saranno raggruppati in team e messi alla prova: ogni gruppo dovrà usare tecnologie innovative come l’intelligenza artificiale o la realtà aumentata e virtuale per sviluppare idee innovative a difesa degli oceani. Per dimostrare che la scienza è al servizio della società, ogni progetto dovrà avere una forte componente di comunicazione, coinvolgimento degli stakeholder e cambiamento dei comportamenti.
Le idee più interessanti confluiranno in un database a cui potranno accedere aziende e persone interessate a finanziare i progetti; il team che avrà proposto l’idea giudicata migliore da un gruppo di esperti, riceverà un premio per realizzare la propria proposta. La premiazione del team vincente avverrà il 22 ottobre 2020, in diretta streaming dal Teatro No’hma di Milano, in occasione di “Generazione Oceano”, un evento che mira a formare una generazione consapevole dell’importanza del mare per la salute e per il nostro futuro.
fonte: www.lifegate.it
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