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La nuova corsa all’oro dell’industria estrattiva

 

È il deep sea mining: minare materiali chiave per l'industria high tech dai fondali marini. L’industria la considera un ponte verso la transizione energetica, la comunità scientifica avverte riguardo alle conseguenze

Sul fondo dell’Oceano

Clima, Mario Tozzi: "Va fermata subito l'estrazione di idrocarburi con lo stop alle sovvenzioni"

Il geologo: "Il rapporto Ipcc dice che servono azioni serie in poco tempo, ma nessuno le fa"





fonte: www.ansa.it


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La Groenlandia ha deciso di vietare le attività petrolifere

Il governo della Groenlandia ha annunciato che non saranno più sfruttate riserve petrolifere sul proprio territorio, per ragioni economiche e climatiche.








La Groenlandia ha deciso di vietare le attività di ricerca di petrolio su tutto il territorio nazionale. Ad annunciarlo è stato il governo guidato da Mute Egede, nella giornata di venerdì 16 luglio: secondo l’esecutivo dell’immensa isola nordica, lo sfruttamento delle fonti fossili è poco redditizio e troppo pericoloso per clima e ambiente.

Allo studio un divieto anche sull’estrazione di uranio

Si tratta della prima grande riforma approvata sulla questione dal governo, retto da una coalizione composta da sinistra ed ecologisti. I dirigenti della Groenlandia stanno riflettendo anche ad una seconda legge, che vieterebbe anche l’estrazione di uranio. Già è stato congelato, in questo senso, un vasto progetto della società australiana Geeenland Minerals. Una scelta in linea con l’orientamento della popolazione: un sondaggio indica che il 63 per cento degli abitanti dell’isola è contraria allo sfruttamento dell’uranio.

Il cambiamento è epocale: numerosi studi hanno indicato infatti la Groenlandia come una terra ricchissima di risorse naturali. Una stima dell’Istituto per gli studi geologici degli Stati Uniti ha valutato in 51 miliardi di barili la quantità di petrolio che potrebbe essere presente nella regione. Ovvero un quinto delle riserve petrolifere non ancora sfruttate nel Pianeta.



Lo sfruttamento del petrolio in Groenlandia rischierebbe di compromettere il complesso ecosistema locale © robas/GettyImages

“Troppi rischi per il clima e scarsa redditività economica”

Dal punto di vista politico, inoltre, si tratta di una scelta diametralmente opposta rispetto a quella assunta nel 2010, quando vennero concesse sette autorizzazioni per l’esplorazione alla ricerca di greggio a diverse grandi imprese petrolifere, tra cui l’inglese Shell e la scozzese Cairn Energy.

Ma il governo, secondo quanto riferito dall’agenzia Afp, è stato chiaro: “Una nuova analisi economica della redditività petrolifera in Groenlandia mostra chiamante che essa è pari alla metà di ciò che era stato previsto dalle compagnie”. La ministra delle Risorse naturali Naaja Nathanielsen ha quindi aggiunto che “si tratta di una tappa logica, poiché per noi la crisi climatica è una questione seria”.

fonte: www.lifegate.it


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Idrogeno e litio dall’acqua di mare, ora è possibile

I ricercatori della King Abdullah University of Science and Technology hanno sviluppato un sistema economicamente fattibile per estrarre il litio ad alta purezza direttamente da mari ed oceani.













Il litio è un elemento vitale per l’odierno accumulo energetico a batterie, ma l’aumento della domanda a cui andremo incontro dovrebbe esaurire le riserve terrestri entro il 2080. La soluzione? Per qualcuno è da cercare in acqua. Gli oceani contengono circa 5.000 volte più litio della terraferma, ma a concentrazioni estremamente basse di circa 0,2 parti per milione (ppm). In altre parole il prelievo marino è sempre stato un processo lungo, complesso e costoso. Una nuova ricerca della King Abdullah University of Science and Technology (KAUST) potrebbe cambiare le carte in tavola. Qui infatti un gruppo di scienziati ha realizzato un nuovo sistema per estrarre il litio dall’acqua di mare.

Il team guidato da Zhiping Lai ha sperimentato un metodo mai utilizzato prima: una cella elettrochimica contenente una membrana ceramica in ossido di litio, lantanio e titanio (LLTO). La struttura possiede pori abbastanza larghi da consentire il passaggio degli ioni di litio. Bloccando nel contempo gli ioni più grandi di sodio, magnesio e potassio, presenti nell’acqua a concentrazioni molto più elevate. “Le membrane LLTO non sono mai state utilizzate prima per estrarre e concentrare gli ioni di litio”, afferma il ricercatore Zhen Li, che ha sviluppato la cella.

Estrarre litio dall’acqua di mare, come funziona?

In un articolo pubblicato sulla rivista Energy & Environmental Science, gli scienziati spiegano il funzionamento del loro sistema. L’unità contiene tre scomparti. L’acqua di mare scorre in una camera di alimentazione centrale; qui gli ioni di litio positivi passano, attraverso la membrana LLTO, in un compartimento laterale contenente una soluzione tampone e un catodo di rame rivestito di platino e rutenio. Nel frattempo, gli ioni negativi escono dalla camera di alimentazione e, attraverso una membrana a scambio anionico, passano in un terzo compartimento contenente una soluzione di cloruro di sodio e un anodo di platino-rutenio.

Il gruppo ha testato l’impianto usando l’acqua del Mar Rosso. Ad una tensione di 3,25V, la cella ha generato gas idrogeno al catodo e gas cloro all’anodo. E indotto il passaggio del litio attraverso la membrana LLTO, accumulandolo nella camera laterale. Ovviamente il risultato non è l’elemento puro, ma una soluzione acquosa arricchita di litio. Ma con altri quattro cicli di lavorazione si raggiunge una concentrazione di oltre 9.000 ppm.

I ricercatori stimano che la cella avrebbe bisogno di soli 5 dollari di elettricità per estrarre 1 chilo di litio dall’acqua di mare. Il valore dell’idrogeno e del cloro prodotti nel processo compenserebbe ampiamente questo costo e l’acqua residua potrebbe essere utilizzata negli impianti di desalinizzazione. “Continueremo a ottimizzare la struttura della membrana e il design delle celle per migliorare l’efficienza del processo”, affermano gli scienziati. Il team spera anche di collaborare con l’industria del vetro per produrre la membrana LLTO su larga scala e a costi accessibili.

fonte: www.rinnovabili.it



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Flussi di materia, più che triplicati in soli cinquant’anni

Su base pro capite, i livelli di consumo di materiali nei paesi ad alto reddito sono superiori del 60% rispetto a quelli a medio-alto paesi a reddito e 13 volte il livello dei paesi a basso reddito




In cinquant’anni i flussi di materia sono più triplicati: ovvero il volume di biomassa, metalli, minerali non metallici e combustibili fossili che estraiamo dalla terra – spiega l’Onu nell’ultimo Global Resources Outlook – sta crescendo rapidamente, ed è una crescita “insostenibile”: l’estrazione globale di materie prime è aumentata di 3,4 volte dal 1970, passando da 27 a 92 miliardi di tonnellate l’anno, mentre la popolazione globale è “solo” raddoppiata, come il Pil procapite. Un trend che alimenta la disuguaglianza.

Gran parte della crescita nel consumo di risorse naturali è stata infatti assorbita dai paesi a reddito medio-alto, che hanno raggiunto una quota globale del 56% del consumo di materiale nel 2017. Su base pro capite, i livelli di consumo di materiali nei paesi ad alto reddito sono superiori del 60% rispetto a quelli a medio-alto paesi a reddito e 13 volte il livello dei paesi a basso reddito (International Resource Panel, Global Resources Outlook, 2019)

Se estraiamo materiali dall’ambiente più velocemente di quanto non li rigeneriamo (biomassa) o riduciamo le riserve di risorse non rinnovabili (combustibili fossili e metalli), non solo questo danneggia il nostro ambiente naturale ma lascia le generazioni future senza le basi per nutrirsi, costruire un riparo e sostenere la vita. Inoltre, più usiamo materiali, più creiamo rifiuti.

Come spiega sempre l’Onu, si tratta di una questione di fondamentale importanza perché è alla base della sostenibilità ambientale. Non c’è sviluppo sostenibile senza una gestione sostenibile delle risorse materiali, al pari o di più di quelle energetiche. Per gestire i rischi posti dall’uso accelerato dei materiali nell’economia globale – sottolinea l’Onu –, molti Paesi hanno quindi bisogno di informazioni affidabili sull’uso dei materiali nelle loro economie, per sviluppare approcci circolari e per disaccoppiare la crescita economica dal degrado ambientale.

Cosa tutt’altro che facile, in quanto più volte nel corso delle varie crisi, si è assistito all’esatto contrario: ovvero anche decrescita economica i materiali consumati hanno continuato a crescere, rendendo ancor più difficile il disaccoppiamento, che vorrebbe una crescita dell’economia a fronte di una riduzione dei flussi di materiali metabolizzati. Possibile solo, come greenreport ha spesso spiegato attraverso le parole di tanti esperti, con una crescita intesa in modo assai diversa da quella del mero Pil. Se il mantra resta il consumo quale che sia, non c’è speranza di gestione sostenibile dei flussi di materia e la terra, come sappiamo, è un mondo finito con risorse finite.

Come spiega l’Onu il disaccoppiamento assoluto nei paesi ad alto reddito può ridurre il consumo medio di risorse, distribuire equamente la prosperità e mantenere un’alta qualità della vita. Il disaccoppiamento relativo nelle economie in via di sviluppo e nelle economie in transizione può aumentare i livelli di reddito medio ed eliminare la povertà, pur aumentando i livelli di consumo di risorse naturali fino al raggiungimento di una qualità di vita socialmente accettabile.

Il disaccoppiamento però non avverrà spontaneamente, ma lo farà attraverso strategie politiche ben progettate e concordate. Ma queste sono intenzioni, giuste, ma intenzioni. Servono azioni – lo diciamo noi e non l’Onu – molto più efficaci.

E l’Italia? L’ultimo report Istat in materia documenta che (anno 2018) consumiamo circa 500 milioni di tonnellate all’anno di risorse naturali. Secondo i dati contenuti nel rapporto Onu, nel periodo 1970-2017, l’estrazione domestica in Italia è aumentata del 3,4%, passando da 482.617.763 kt nel 1970 a 498.961.169 kt nel 2017. I minerali non metallici hanno avuto la quota maggiore di estrazione complessiva di materiali nel 2017 (79,2%), seguita da biomassa (18,9%) e combustibili fossili (1,9%).

Confrontando l’importo estratto in Italia con altri paesi, il livello pro capite è più significativo. A livello globale, con 8,3 tonnellate pro capite nel 2015 l’Italia si è classificata 89esima su 187 paesi. Questo importo era inferiore del 30,4% alla media mondiale, o di 12,0 tonnellate pro capite. Nella categoria “minerali non metallici”, sono dominanti quelli nell’edilizia con il 92,4%, seguiti dai minerali destinati all’industria o all’agricoltura (7,6%). Guardando al secondo gruppo di materiali, biomassa, colture e residui colturali sono stati i due principali gruppi.

Molte delle risorse che consumiamo, naturalmente, provengono da territori al di fuori dei confini nazionali: nel 2016, rispetto ad un consumo interno di materiali stimato in 489 milioni di tonnellate, ben 322 vengono importate: questo significa che per ogni 10 kg di materiale, 6,5 kg sono di provenienza estera.

Non si tratta di curiosità naif, ma di dati fondamentali per poter guidare la transizione ecologica del nostro Paese. I conti dei flussi di materiali a livello economico (EW-AMF) e gli indicatori – si legge nell’Outlook Onu – forniscono infatti una panoramica completa dell’estrazione delle risorse naturali, del commercio di risorse naturali, dello smaltimento dei rifiuti e delle emissioni. Misurano le pressioni ambientali dell’uso delle risorse naturali.

Occorre però un metro omogeneo per misurare. Per questo durante la 15a riunione del Comitato di esperti delle Nazioni Unite sulla contabilità economico-ambientale, il Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP), Eurostat, il Pannello internazionale delle risorse (IRP) e la Divisione statistica delle Nazioni Unite hanno introdotto un manuale globale su contabilità dei flussi di materiali in tutta l’economia (manuale EW-MFA). La pubblicazione intitolata “L’uso delle risorse naturali nell’economia: un manuale globale sulla contabilità del flusso di materiali a livello di economia” è uno strumento di guida pratica che affronta questioni specifiche relative alle economie basate sull’estrazione delle risorse.

L’UNEP e l’IRP – sono le ultime riflessioni del report – giocheranno un ruolo attivo nell’aiutare i paesi a comprendere, applicare e migliorare meglio questo importante approccio contabile a livello nazionale. Ciò – si spera – aumenterà la consapevolezza dei responsabili politici e la capacità di utilizzare i dati e gli indicatori dell’analisi del flusso di materiali nella progettazione, attuazione e valutazione di politiche e obiettivi di consumo e produzione sostenibili.

fonte: www.greenreport.it


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Eni si prepara alla transizione investendo ancora sui combustibili fossili

A fine febbraio l’amministratore delegato della multinazionale, Claudio Descalzi, ha presentato il nuovo piano strategico dell’azienda. Su 32 miliardi di euro di investimenti previsti, ben 24 riguarderanno nuove esplorazioni ed estrazione di petrolio e gas. L’obiettivo è infatti quello di aumentare la produzione complessiva del 3,5% ogni anno fino al 2025. “Fino a quando continuerà il business delle nuove scoperte?”
















Chi di noi nelle ultime settimane non si è imbattuto nella campagna pubblicitaria martellante quanto innovativa di Eni? Il cane a sei zampe è sempre più green perché la società agisce insieme a Chiara, Silvia, Luca che ogni giorno si dedicano a pratiche virtuose e grazie alle loro azioni possono così garantire a tutto il Pianeta una maggiore sostenibilità. È indubbio che in Italia tanti individui cercano di darsi da fare per la salvare la Terra dall’emergenza climatica, inclusi i ragazzi dei Fridays For Future. Per altro tutti gli italiani sono azionisti di Eni dal momento che il 30 per cento del capitale della società è in mani pubbliche, tramite il ministero dell’Economia e Cassa depositi e prestiti. E allora come cittadini ha senso guardare di nuovo dentro i numeri di Eni, oltre gli slogan e le animazioni pubblicitarie.
L’occasione ce l’ha offerta proprio l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, che a fine febbraio ha presentato il nuovo piano strategico dell’azienda -2020-2023- e per la prima volta un piano di lungo termine al 2050. Atto forse dovuto, date le pressioni della società civile e di diversi investitori internazionali affinché le grandi oil majors si pongano il problema di come il loro business di estrarre e bruciare combustibili fossili debba diventare compatibile con la sfida climatica, che richiederebbe invece di mantenere gas e petrolio nel sottosuolo. Una sfida quasi esistenziale per il settore, dimostrata dal fatto che per la prima volta i profitti delle grandi società petrolifere iniziano a calare al punto che alcuni broker recentemente hanno dato addirittura ordine di vendere azioni, a partire dalla stessa  Exxon-Mobil, la più ricca multinazionale petrolifera. La stessa Eni ha chiuso i bilanci del 2019 con un calo dei profitti del 37 per cento, anche se, con un buy-back sostanzioso delle azioni, il management cercherà di ridurre i danni per gli investitori e per il loro dividendo, in primis lo Stato.
Di fronte ad una possibile crisi esistenziale la risposta di Descalzi sembra essere duplice: nel breve termine non si cambia affatto, anzi puntiamo su più petrolio e gas, raggiungendo un picco di produzione al 2025, mentre nel lungo termine riduciamo le emissioni anche dell’80 per cento, facendo solo gas e renderemo questo combustibile compatibile con il clima grazie all’assorbimento di una parte dell’anidride carbonica con vari espedienti.
Andando in ordine e guardando agli investimenti previsti da Eni per il 2020-2023, del totale di 32 miliardi di euro, ben tre quarti, quindi 24 miliardi, continueranno ad andare in nuove esplorazioni ed estrazioni di petrolio e gas, perché l’obiettivo è quello di aumentare la produzione complessiva del 3,5 per cento ogni anno fino al 2025. Insomma nuove riserve che una volte estratte saranno bruciate e che nei prossimi anni contribuiranno a “infiammare” ancora di più il Pianeta. Una recente analisi del Wall Street Journal ha messo in luce come negli ultimi anni Eni abbia avuto un tasso di successo nelle esplorazioni del 45 per cento, superiore di ben dieci punti rispetto a tutti i principali competitor mondiali. E così di fatto ha scoperto il doppio di riserve rispetto alla media degli altri. Insomma, Eni apre la strada non solo all’Italia ma al mondo verso un aumento significativo delle riserve sfruttabili di petrolio e gas proprio nei prossimi decenni, con buona pace del Pianeta e del clima. La comunità scientifica internazionale ci dice che sin da oggi non è tollerabile espandere la frontiera del petrolio e del gas se vogliamo rimanere sotto il riscaldamento medio del Pianeta di 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali ed evitare così il caos climatico. Per “fare le cose bene”, bisognerebbe addirittura ridurre l’uso dei combustibili fossili dell’80 per cento, almeno nelle economie avanzate, in meno di dieci anni. Una sfida davverro titanica.
Probabilmente per questo i giovani dei Fridays For future hanno recentemente definito Descalzi ed Eni nei loro manifesti, che prendevano in giro la pubblicità patinata della società, come “climate killer”. Ma questo business nel breve termine genera molta liquidità per la società, che dopo le scoperte vende subito quote dei nuovi mega-giacimenti ai competitor. Plusvalenze che aiutano i bilanci in una fase difficile, come segnalato negli obiettivi per i prossimi anni.
Fino a quando continuerà il business delle nuove scoperte? Eni ammette che dovrà investire massicciamente nelle rinnovabili soprattutto aumentando la sua presenza nel retail, ovvero nella vendita di energia elettrica, possibilmente da fonti più green. È sorprendente come Descalzi metta nero su bianco che al 2050 l’85 per cento per cento della produzione e del business di Eni ruoterà intorno al gas naturale, con l’assunzione che la sua combustione non abbia impatti sul clima del Pianeta. Eppure l’idea che il gas sia il combustibile pulito per la transizione energetica è stata smascherata da molti e da molto tempo, ed in ogni caso se nel 2050 il gas peserà ancora così tanto nel modello di business di Eni, una vera trasformazione, se possibile, sarà di fatto abbondantemente rimandata nel tempo. Infatti al 2050 ben 40 milioni di tonnellate di COemesse da Eni ogni anno saranno assorbite da foreste, finanziariamente mantenute dalla società. In realtà le foreste esistono già e assorbono CO2, a meno che qualcuno non le voglia devastare. Una logica perversa di compensazioni che le oil majors, come Eni, comprano per poi continuare nel loro business di estrazione e combustione di gas. E se non sono foreste, saranno fantomatici progetti tecnologici di cattura, assorbimento e utilizzo della CO2 (CCSU) che ad oggi nessuno è riuscito a realizzare mai su grande scala, nonostante lo spreco di sussidi pubblici negli ultimi vent’anni.
Infine, ancora una volta Eni promette di abbattere la combustione in torcia dei gas associati al greggio estratto, il famigerato e inquinantissimo gas flaring. Ma non si era già impegnata a farlo una decina di anni fa, di fronte ai leader delle comunità nigeriane arrivati a Roma?
In sintesi, la riduzione dell’80 per cento delle emissioni non corrisponderà a un ridimensionamento del business dei combustibili fossili, e in particolare del gas, che continuerà ad essere estratto e bruciato, alimentando così i cambiamenti climatici. Nel 2050, Chiara, Silvia e Luca saranno anziani e assisteranno probabilmente a quotidiane sciagure climatiche. Allora capiranno che a poco servivano le loro azioni virtuose se la “green” Eni sarà stata quella annunciata da Descalzi.