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Flussi di materia, più che triplicati in soli cinquant’anni

Su base pro capite, i livelli di consumo di materiali nei paesi ad alto reddito sono superiori del 60% rispetto a quelli a medio-alto paesi a reddito e 13 volte il livello dei paesi a basso reddito




In cinquant’anni i flussi di materia sono più triplicati: ovvero il volume di biomassa, metalli, minerali non metallici e combustibili fossili che estraiamo dalla terra – spiega l’Onu nell’ultimo Global Resources Outlook – sta crescendo rapidamente, ed è una crescita “insostenibile”: l’estrazione globale di materie prime è aumentata di 3,4 volte dal 1970, passando da 27 a 92 miliardi di tonnellate l’anno, mentre la popolazione globale è “solo” raddoppiata, come il Pil procapite. Un trend che alimenta la disuguaglianza.

Gran parte della crescita nel consumo di risorse naturali è stata infatti assorbita dai paesi a reddito medio-alto, che hanno raggiunto una quota globale del 56% del consumo di materiale nel 2017. Su base pro capite, i livelli di consumo di materiali nei paesi ad alto reddito sono superiori del 60% rispetto a quelli a medio-alto paesi a reddito e 13 volte il livello dei paesi a basso reddito (International Resource Panel, Global Resources Outlook, 2019)

Se estraiamo materiali dall’ambiente più velocemente di quanto non li rigeneriamo (biomassa) o riduciamo le riserve di risorse non rinnovabili (combustibili fossili e metalli), non solo questo danneggia il nostro ambiente naturale ma lascia le generazioni future senza le basi per nutrirsi, costruire un riparo e sostenere la vita. Inoltre, più usiamo materiali, più creiamo rifiuti.

Come spiega sempre l’Onu, si tratta di una questione di fondamentale importanza perché è alla base della sostenibilità ambientale. Non c’è sviluppo sostenibile senza una gestione sostenibile delle risorse materiali, al pari o di più di quelle energetiche. Per gestire i rischi posti dall’uso accelerato dei materiali nell’economia globale – sottolinea l’Onu –, molti Paesi hanno quindi bisogno di informazioni affidabili sull’uso dei materiali nelle loro economie, per sviluppare approcci circolari e per disaccoppiare la crescita economica dal degrado ambientale.

Cosa tutt’altro che facile, in quanto più volte nel corso delle varie crisi, si è assistito all’esatto contrario: ovvero anche decrescita economica i materiali consumati hanno continuato a crescere, rendendo ancor più difficile il disaccoppiamento, che vorrebbe una crescita dell’economia a fronte di una riduzione dei flussi di materiali metabolizzati. Possibile solo, come greenreport ha spesso spiegato attraverso le parole di tanti esperti, con una crescita intesa in modo assai diversa da quella del mero Pil. Se il mantra resta il consumo quale che sia, non c’è speranza di gestione sostenibile dei flussi di materia e la terra, come sappiamo, è un mondo finito con risorse finite.

Come spiega l’Onu il disaccoppiamento assoluto nei paesi ad alto reddito può ridurre il consumo medio di risorse, distribuire equamente la prosperità e mantenere un’alta qualità della vita. Il disaccoppiamento relativo nelle economie in via di sviluppo e nelle economie in transizione può aumentare i livelli di reddito medio ed eliminare la povertà, pur aumentando i livelli di consumo di risorse naturali fino al raggiungimento di una qualità di vita socialmente accettabile.

Il disaccoppiamento però non avverrà spontaneamente, ma lo farà attraverso strategie politiche ben progettate e concordate. Ma queste sono intenzioni, giuste, ma intenzioni. Servono azioni – lo diciamo noi e non l’Onu – molto più efficaci.

E l’Italia? L’ultimo report Istat in materia documenta che (anno 2018) consumiamo circa 500 milioni di tonnellate all’anno di risorse naturali. Secondo i dati contenuti nel rapporto Onu, nel periodo 1970-2017, l’estrazione domestica in Italia è aumentata del 3,4%, passando da 482.617.763 kt nel 1970 a 498.961.169 kt nel 2017. I minerali non metallici hanno avuto la quota maggiore di estrazione complessiva di materiali nel 2017 (79,2%), seguita da biomassa (18,9%) e combustibili fossili (1,9%).

Confrontando l’importo estratto in Italia con altri paesi, il livello pro capite è più significativo. A livello globale, con 8,3 tonnellate pro capite nel 2015 l’Italia si è classificata 89esima su 187 paesi. Questo importo era inferiore del 30,4% alla media mondiale, o di 12,0 tonnellate pro capite. Nella categoria “minerali non metallici”, sono dominanti quelli nell’edilizia con il 92,4%, seguiti dai minerali destinati all’industria o all’agricoltura (7,6%). Guardando al secondo gruppo di materiali, biomassa, colture e residui colturali sono stati i due principali gruppi.

Molte delle risorse che consumiamo, naturalmente, provengono da territori al di fuori dei confini nazionali: nel 2016, rispetto ad un consumo interno di materiali stimato in 489 milioni di tonnellate, ben 322 vengono importate: questo significa che per ogni 10 kg di materiale, 6,5 kg sono di provenienza estera.

Non si tratta di curiosità naif, ma di dati fondamentali per poter guidare la transizione ecologica del nostro Paese. I conti dei flussi di materiali a livello economico (EW-AMF) e gli indicatori – si legge nell’Outlook Onu – forniscono infatti una panoramica completa dell’estrazione delle risorse naturali, del commercio di risorse naturali, dello smaltimento dei rifiuti e delle emissioni. Misurano le pressioni ambientali dell’uso delle risorse naturali.

Occorre però un metro omogeneo per misurare. Per questo durante la 15a riunione del Comitato di esperti delle Nazioni Unite sulla contabilità economico-ambientale, il Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP), Eurostat, il Pannello internazionale delle risorse (IRP) e la Divisione statistica delle Nazioni Unite hanno introdotto un manuale globale su contabilità dei flussi di materiali in tutta l’economia (manuale EW-MFA). La pubblicazione intitolata “L’uso delle risorse naturali nell’economia: un manuale globale sulla contabilità del flusso di materiali a livello di economia” è uno strumento di guida pratica che affronta questioni specifiche relative alle economie basate sull’estrazione delle risorse.

L’UNEP e l’IRP – sono le ultime riflessioni del report – giocheranno un ruolo attivo nell’aiutare i paesi a comprendere, applicare e migliorare meglio questo importante approccio contabile a livello nazionale. Ciò – si spera – aumenterà la consapevolezza dei responsabili politici e la capacità di utilizzare i dati e gli indicatori dell’analisi del flusso di materiali nella progettazione, attuazione e valutazione di politiche e obiettivi di consumo e produzione sostenibili.

fonte: www.greenreport.it


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In Italia c’è bisogno di una nuova ecologia popolare



















La comparsa di un nuovo virus è un fatto naturale, la pandemia no: la crisi sanitaria e i suoi effetti economici, sociali e politici “sono la diretta conseguenza di un modello di sviluppo economico e culturale che tiene poco conto del valore della vita”; un modello “nocivo e dannoso per noi individui, per le comunità, per la natura”. Esordisce così il documento intitolato “Per un manifesto di ecologia popolare”, elaborato da un gruppo di attivisti e ricercatori che durante i mesi di sospensione delle attività e degli spostamenti in Italia si sono interrogati sulle origini della crisi che stiamo attraversando, convinti che le premesse del disastro fossero tutte visibili ancora prima che arrivasse il nuovo coronavirus.

“Gli ingredienti di una pandemia sono gli stessi che muovono la crescita illimitata”, scrivono: lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, la crescita a cui si sacrifica la qualità dell’aria, dell’acqua, della terra e degli allevamenti animali; la densità abitativa delle grandi città; la crescente interconnessione di un mondo globalizzato, la spinta verso una produttività sempre più alta, gli standard sanitari e alimentari inadeguati. Insomma: la crisi del covid-19 deve spingerci a ripensare “un modello di crescita autodistruttivo improntato solo al benessere economico”.

Gli autori del manifesto vivono e lavorano per lo più a Napoli, anche se hanno orizzonti più ampi. Il gruppo è eterogeneo: ricercatori universitari, artisti, educatori, giornalisti. Hanno creato la rete Terre in movimento e si presentano con un’identità collettiva. Il nome che ciascuno usa è Ecopop, seguito da un numero per gli uomini e una lettera per le donne: questo perché, spiegano, “vogliamo dare voce a tutti i gruppi che si battono per la giustizia ambientale”. Aggiungono che l’anonimato è anche una sorta di tutela, “perché in molti conflitti ambientali i cittadini non hanno di fronte solo le istituzioni ma anche altre forze, inclusa la criminalità organizzata”.

La crisi dei rifiuti


Per spiegare cosa intendano con “ecologia popolare”, gli autori del manifesto citano la crisi dei rifiuti vissuta dalla Campania per circa un decennio a partire del 2001. “Era un conflitto ambientale tipicamente moderno”, osserva Ecopop 1, “chiamava in causa il ciclo dei rifiuti, la speculazione, i meccanismi illegali che trasferivano gli sversamenti industriali delle regioni più ricche alle zone più povere nel sud dell’Italia, un po’ come si mandavano le navi di rifiuti tossici in Africa. Eppure sui mezzi di informazione non è stato descritto come un conflitto ambientale, soprattutto all’inizio: si parlava di cattiva gestione, di traffici illegali, di camorra, ma la salute di quelle persone e l’ambiente entravano di rado nel discorso”.

Le proteste degli abitanti erano descritte più che altro come “egoismi localisti”. È nato allora il nome Terra dei fuochi. “Si discuteva di inceneritori e di dove collocare le discariche dando per scontato che chi viveva in quei luoghi non avesse una coscienza ambientale”, continua Ecopop 1. “Ma era vero il contrario. Abbiamo visto cittadine e cittadini lottare per difendere il proprio territorio e il proprio diritto alla salute, perché i primi a subire la situazione erano proprio loro. Hanno agito come comunità e in questo percorso hanno acquisito consapevolezza e conoscenze in modo indipendente. Ci sono voluti anni di battaglie perché questo fosse riconosciuto”.

“Le lotte in difesa dell’ambiente spesso non trovano sponde politiche o culturali perché nel nostro paese manca una cultura politica ecologica”, si legge nel manifesto. Si parla di “analfabetismo ecologico”. La sinistra italiana ha una “tradizione industrialista” che l’ha portata anche in tempi recenti a difendere scelte come la Tav, affermano gli autori. Nei programmi politici l’ambiente compare come citazione, “per darsi un volto presentabile”. “Vogliamo che la questione ambientale sia la chiave di lettura per tutti i temi della politica e della società”, dice Ecopop B.

La grande cecità

“Bisogna mettere l’accento sul legame tra il contagio e la cecità del modello di sviluppo”, si legge ancora nel manifesto. La pandemia, il degrado ambientale, le mutazioni del clima “sono tutti prodotti di un modello di crescita improntato al solo benessere economico che nasconde una sistematica volontà autodistruttiva”. Riecheggia quella che lo scrittore Amitav Ghosh ha definito “la grande cecità” di fronte al cambiamento climatico, e in effetti gli autori dichiarano di aver tratto ispirazione da quel saggio: “La grande cecità è quella degli esseri umani che non riconoscono alla natura un ruolo protagonista”, riassume Ecopop 1.



Gli autori del manifesto criticano in particolare l’idea di “sviluppo sostenibile”, che considerano una contraddizione in termini: “Si basa sull’idea di un buon uso delle risorse per una crescita economica compatibile con la natura. È il tentativo delle élites ‘avvedute’ di mediare tra l’ambiente e il capitalismo”, dice Ecopop 1: “Ma è una mediazione impossibile. La logica del capitalismo è la ricerca continua di profitto, non la tutela dell’ambiente o della salute della collettività. Al dunque, profitto e natura sono in conflitto”. E poi, “che mediazione può fare una cultura autodistruttiva?”. Al contrario, per “ribaltare il modello di sviluppo che ci ha portato alla crisi attuale” serve un’ecologia “partecipata e dal basso proprio come era successo nella Terra dei fuochi”. Citano i comitati che si battono per la bonifica nei numerosi siti industriali inquinati in Italia, i movimenti No Tav e quelli No Tap (che si oppongono al gasdotto Trans-Adriatico che dovrebbe approdare in Puglia).

La giustizia ambientale “è il nuovo spartiacque del conflitto sociale”, dicono in definitiva gli autori del manifesto di ecologia popolare. Il documento evoca “pratiche di mutualismo” nelle comunità fondate sul “diritto collettivo al cibo, alla salute, la terra, l’acqua come capisaldi del diritto alla vita”. Vedono un esempio positivo nelle esperienze di mutuo soccorso nate nelle settimane del confinamento, da Scampia a Rosarno. Guardano anche più lontano, alle reti di comunità indigene dell’Amazzonia in difesa della foresta o gli ecovillaggi del Rojava.

Il collettivo Terre in movimento si è dato degli obiettivi pratici. Mapperà i conflitti ambientali a cominciare dalle esperienze locali di difesa del territorio e della salute “e qui nel sud ne abbiamo molti casi, dalla Terra dei fuochi alle acciaierie di Taranto”. Avvierà un’inchiesta sul bacino del fiume Sarno, caso esemplare di dissesto e inquinamento: durante il confinamento il fiume si era ripulito e gli abitanti rivendicano una bonifica duratura. Poi un’indagine sul parco dei Camaldoli, 135 ettari di area protetta con un castagneto secolare, vero polmone verde alle porte di Napoli che però resta inspiegabilmente chiuso. L’obiettivo, dicono, è mettere in collegamento esperienze popolari, locali e globali. E diffondere una “vera cultura politica ecologica”.

fonte: www.internazionale.it



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Cos’è una spiaggia ecologica? Lo spiega Ispra in un nuovo cartoon

Rimandato il lancio della campagna di educazione ambientale nelle scuole del litorale romano, online il cartone animato dedicato alla Posidonia oceanica.



















Da rifiuto maleodorante a risorsa naturale. Parliamo delle cosiddette banquette di Posidonia oceanica, spesso rimosse dalle spiagge per rendere i litorali più puliti. Una pratica comune ma scorretta, che può seriamente compromettere l’integrità delle coste, privare le spiagge della loro naturale protezione dalle mareggiate e sottrarre importanti nutrienti agli arenili. Oltre a portar via grandi quantità di sabbia ogni anno.
L’idea di spiaggia ecologica lanciata da Ispra è quella di un habitat dove la Posidonia non viene immediatamente rimossa, ma trattata in modi alternativi. Per questo è stata lanciata la campagna di sensibilizzazione indirizzata agli amministrazioni locali, gestori dei litorali, studenti e residenti. Con l’obiettivo di sensibilizzare all’adozione di un modello alternativo di gestione che eviti il ricorso alla discarica. Nei casi in cui non sia possibile mantenerla in loco, prevederne il riuso nel rispetto degli ecosistemi costieri.
Il cartone animato dal titolo “Banquette alla riscossa!” intende spiegare ai più giovani, e non solo, l’importanza della Posidonia e il fondamentale ruolo ecologico che riveste all’interno degli habitat costieri. A causa della chiusura delle scuole per l’emergenza Covid-19, non è stato possibile lanciare la campagna, come previsto, nelle scuole medie inferiori nei litorali a nord di Roma nelle città di Sabaudia, Cerveteri e Ladispoli.



”BARGAIN” è il nome del progetto realizzato con il contributo della Regione Lazio, insieme all’Università di Tor Vergata e ad ENEA. Obiettivo della campagna è sensibilizzare all’adozione di un modello alternativo di gestione che eviti il ricorso alla discarica. Nei casi in cui non sia possibile mantenerla in loco, prevederne il riuso nel rispetto degli ecosistemi costieri.
Oltre a provocare danni all’equilibrio delle coste, la rimozione della Posidonia spiaggiata porta con sè anche la rimozione di tonnellate di sabbia. Un recente studio condotto nelle Isole Baleari, ha calcolato che per portare via la Posidonia da 19 spiaggie sono stati rimossi 39.000 m3 di sabbia in nove anni, equivalenti a circa 30.000 tonnellate.
fonte: https://www.snpambiente.it

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La pandemia ci aiuterà a migliorare l’approccio alla green economy?

Ronchi: «Si tornerà al punto di partenza precedente come se niente fosse accaduto, o avremo fatto qualche passo avanti per capire meglio le sfide del nostro tempo?»




La pandemia da coronavirus Sars-Cov-2 in corso sta facendo calare i consumi, la produzione di rifiuti, il traffico, le concentrazioni di inquinanti atmosferici e le emissioni di CO2, ma tutto ciò non ha niente a che vedere con la sostenibilità: di fatto si tratta di una decrescita imposta da uno shock esterno all’economia, molto lontana da qualsiasi orizzonte di sviluppo sostenibile. Eppure Covid-19 sta dolorosamente mettendo in discussione il nostro modo di vivere la vita, e da tutto questo potremmo trarre delle lezioni utili per la ripresa. Presentato esattamente ad un mese dall’inizio delle misure di distanziamento sociale dal Green city network e dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, il dossier Pandemia e sfide green del nostro tempo aiuta a capire quali.

Sappiamo ad esempio che la causa profonda della pandemia in corso va cercata nella progressiva invasione e distruzione degli ecosistemi naturali, che espone l’uomo all’assalto di virus presenti in altri animali. Pensare che la colpa stia (solo) nel traffico di specie che trova sbocco nei wet market cinesi sarebbe un abbaglio: difficilmente riflettiamo sul fatto che i prodotti che noi stessi consumiamo ogni giorno sono fatti con risorse naturali prelevate in grandi quantità in diverse parti del mondo. Di fatto però in Italia, rispetto ad un consumo interno di materiali di 489 milioni di tonnellate, ben 322 vengono importate: questo significa che per ogni 10 kg di materiale, 6,5 kg sono di provenienza estera. Al contempo circa la metà delle emissioni totali di gas a effetto serra e più del 90% della perdita di biodiversità e dello stress idrico sono determinati dall’estrazione di risorse e dai processi di trasformazione di materiali, combustibili e alimenti.

La severa lezione impartita dalla pandemia deve dunque spingerci a ripensare il rapporto tra uomo e consumi, a partire da quelli di cibo, in quanto la progressiva trasformazione ed eliminazione di sistemi naturali, unita ad altri fattori quali il commercio incontrollato e spesso illegale di specie di fauna selvatica, contribuisce in maniera rilevante a facilitare il passaggio di organismi patogeni dagli animali all’uomo.

Il dossier richiama, inoltre, la necessità di contenere i danni generati da questa pandemia al sistema di gestione rifiuti e all’economia circolare, in modo che non diventino permanenti perché è necessario preservare il carattere di servizio essenziale strategico della gestione dei rifiuti che non può essere interrotto e che deve funzionare comunque, e funzionare bene, e restare un perno decisivo di un modello circolare di economia.

È necessario riconoscere anche che il crollo dei consumi energetici sta generando una riduzione delle emissioni di CO2 nel breve periodo, ma il trend delle emissioni globali – prima della pandemia da coronavirus – era ben lontano dalla drastica riduzione necessaria. In questo quadro, per il dossier, la decarbonizzazione del settore civile resta una priorità.

Lo stesso si può dire per la mobilità: le città sono praticamente prive di traffico da quando il coronavirus ha costretto tutti a restare a casa, e per evitare che a crisi finita si ritorni al traffico congestionato e inquinante delle nostre città si deve approfittare per aprire una riflessione sul modello di mobilità urbana e su come cambiarlo quando il coronavirus se ne sarà andato. Le misure di confinamento (lockdown) mettono allo stesso tempo in discussione comportamenti e abitudini consolidate: ad esempio l’utilità dello spostamento e le possibili alternative, come lo smart working.

Una riflessione che si collega giocoforza anche a quella dell’abitazione concepita non più come solo dormitorio, ma anche luogo di lavoro, di studio e di cultura, di svago e di socialità. La pandemia ha insegnato l’importanza di spazi per lo smart working ma anche di balconi, terrazzi, cortili e giardini anche condominiali, tutti gli spazi intermedi in generale che possono svolgere ruoli importanti, anche dal punto di vista ambientale, con il green building approach.

«Durante questa pandemia i consumi sono calati, l’attenzione sui consumi alimentari è cresciuta – si domanda Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile – ma dopo si tornerà al punto di partenza precedente, come se niente fosse accaduto, o avremo fatto qualche passo avanti per capire meglio le sfide del nostro tempo?». La risposta è nelle nostre mani, a partire dalla domanda di cambiamento che è necessario esprimere verso istituzioni e politica.

fonte: www.greenreport.it


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Consumati 100 miliardi di tonnellate. Così il Pianeta non può farcela

Nel 2017 per la prima volta l’economia globale ha superato la soglia delle 100 miliardi di tonnellate di materiali consumati

















Era il 1972 quando il Rapporto del Club di Roma chiarì che le risorse disponibili sul pianeta erano limitate e che la crescita infinita era impossibile. Ebbene, come avverte il rapporto del think tank Circle Economy diffuso a Davos, nel 2017 per la prima volta l’economia globale ha superato la soglia delle 100 miliardi di tonnellate di materiali consumati, con un aumento dell’8,4% rispetto al 2015.
In cinquant’anni l’utilizzo globale di materiali è praticamente quadruplicato (erano «solo» 26,7 miliardi di tonnellate nel 1970), e il rapporto prevede che i consumi cresceranno ancora, attestandosi nel 2050 tra i 170 e i 184 miliardi di tonnellate. Di questa incredibile quantità di minerali, carburanti, metalli, biomassa che «lavoriamo» per far marciare l’economia, nutrire l’umanità, inquinare e accelerare il surriscaldamento globale, soltanto l’8,6% sono risorse recuperate o riciclate.
Dunque, l’economia circolare non tiene il passo di quella tradizionale, che cresce (e distrugge risorse) troppo in fretta. Sembra la ricetta per il disastro. 
fonte: https://www.lastampa.it

Peggiora ancora l’economia circolare nel mondo: siamo fermi all’8,6%

Nel mentre il nostro metabolismo economico è sempre più affamato, arrivando a divorare 100,6 miliardi di tonnellate di materie prime l’anno


















L’economia circolare rappresenta uno dei principali driver da mettere in campo per arrivare a un modello di sviluppo compatibile coi limiti fisici del nostro pianeta: si tratta di un modello economico in cui il valore dei materiali viene il più possibile mantenuto o recuperato e dove gli scarti sono ridotti al minimo, sempre più apprezzato nei convegni e dibattiti di mezzo mondo – Italia compresa – ma praticato ancora troppo poco. Tanto che il Circularity gap report, nato per misurarne la performance a livello globale e lanciato a Davos, mostra il segno meno da due anni a questa parte.
Nel 2018 infatti appena il 9,1% dell’economia globale poteva dirsi circolare, un dato sceso al 9% lo scorso anno e precipitato adesso ancora più in basso, all’8,6%: questo significa che di tutti i minerali, i combustibili fossili, i metalli e la biomassa vengono digeriti ogni anno dal nostro sistema economico, solo l’8,6% viene riciclato. Nel frattempo, il rapporto documenta come le risorse materiali estratte ogni anno dall’ambiente per uso umano non sono mai state così tante.
L’input totale di materiali in ingresso nel nostro sistema economico è arrivato infatti (dati 2017) a 100,6 miliardi di tonnellate l’anno: 92 estratte dall’ambiente, 8,65 di natura circolare. Di queste 100,6 miliardi di tonnellate 32,6 sono state “digerite” dal nostro metabolismo economico e raccolte come rifiuti: di quest’ammontare, solo 8,65 sono state effettivamente riciclate.
«L’economia circolare – commenta Janez Potočnik, ex commissario europeo all’Ambiente e oggi  co-presidente dell’International resource panel dell’Unep – sta diventando un concetto ampiamente riconosciuto e accettato. Ma per renderlo reale, come mostra il rapporto, sono necessari molti sforzi e un cambiamento anche nella nostra comprensione dell’economia circolare. Dobbiamo abbracciare la dematerializzazione, ripensare il concetto di proprietà e passare dall’efficienza delle risorse alla sufficienza delle risorse».
L’attuale modello economico, al contrario, perpetua enormi disuguaglianze a livello globale (i Paesi ricchi consumano circa 10 volte più materie prime l’anno di quelli poveri) e non permette di raggiungere gli obiettivi climatici previsti dall’Accordo di Parigi: circa il 50% delle attuali emissioni mondiali di gas a effetto serra deriva infatti dall’estrazione e dalla lavorazione di risorse naturali, con una domanda di materie prime in uno scenario “business-as-usual” che dovrebbe addirittura raddoppiare entro il 2050.
Un contesto dove anche l’Italia continua a non fare appieno la sua parte, anzi. Il nostro tasso di circolarità, misurato da Eurostat (dati 2016), mostra che solo il 17,1% delle risorse materiali utilizzate nel nostro Paese proviene da prodotti riciclati e materiali di recupero, risparmiando così l’estrazione di materie prime primarie: si tratta di una performance migliore della media Ue (11,7%), che ci vede al quinto posto in Europa ma in progressivo peggioramento nel corso degli ultimi anni.
Come spiega l’ultimo rapporto L’Italia del riciclo «nel periodo 2010-2016 il tasso di utilizzo circolare di materia è cresciuto per la Francia dal 17,5% al 19,5% e per il Regno Unito dal 14,6% al 17,2%, mentre in Italia è diminuito da 18,5 nel 2014 al 17,1% nel 2016, occorre tener presente un trend di circolarità che potrebbe mostrare delle difficoltà. Poiché negli stessi anni i tassi di riciclo dei rifiuti sono aumentati, la riduzione del tasso di circolarità si spiega col fatto che materie prime provenienti dal riciclo hanno sostituito, in parte non corrispondente e inferiore alle quantità riciclate, materie prime vergini impiegate nella realizzazione dei prodotti».
Per migliorare occorre dunque non solo avviare a riciclo un sempre maggior numero di rifiuti, ma garantire anche alle materie prime seconde lo spazio di mercato che meritano, e al contempo prendendo in carico la gestione dei crescenti scarti provenienti dal riciclo oltre a quelli legati alle frazioni non riciclabili.
fonte: www.greenreport.it

Ambiente è priorità per più di un giovane su tre

Per più di un giovane italiano su tre (38%) l’ambiente rappresenta l’emergenza principale subito dopo il lavoro, tanto che nell’ultimo anno ha modificato profondamente i propri comportamenti: i risultati dell'indagine sulla svolta green delle giovani generazioni.


















Per più di un giovane italiano su tre (38%) l’ambiente rappresenta l’emergenza principale subito dopo il lavoro, tanto che nell’ultimo anno ha modificato profondamente i propri comportamenti iniziando ad acquistare abiti o accessori usati, utilizzando il carsharing per i piccoli spostamenti, condividendo spazi di lavoro con altre persone o l’auto per i lunghi tragitti. E’ quanto emerge dalla prima indagine Coldiretti-Ixe’ su “La svolta green delle nuove generazioni” presentata in occasione della consegna degli Oscar Green, il premio all’innovazione per le imprese che creano sviluppo e lavoro con i giovani veri protagonisti italiani del Green Deal.
Tra i comportamenti che gli under 35 sono pronti ad adottare pur di tutelare l’ecosistema c’è in testa il mangiare cibi a km zero, indicato dal 77% secondo Coldiretti-Ixe’, seguito dall’andare a piedi invece che in macchina o in moto (64%), dalla rinuncia all’utilizzo dei condizionatori (56%), dallo spendere di più per acquistare solo prodotti alimentari biologici (56%), fino addirittura a rinunciare a vacanze che prevedono viaggi aerei (33%). Non è un caso che le tematiche ambientali siano spesso o addirittura spessissimo al centro delle conversazioni del 64% dei giovani sotto i 25 anni, contro una media generale del 48%.
Una così elevata attenzione per la sostenibilità porta quasi 1 giovane su 2 (48%) a chiedere le manette per i responsabili di danni ambientali come sversamento di petrolio in mare o inquinamento dei terreni, mentre un 52% vorrebbe una grossa multa e il ripristino a sue spese e solo un 2% eviterebbe di punire gli autori del misfatto con la scusa che ciò metterebbe a rischio posti di lavoro. Al contrario, secondo Coldiretti-Ixe’, per quasi sei giovani su 10 (59%) proprio il rispetto della natura e della sostenibilità crea nuova occupazione.
Nella classifica green dei settori che inquinano di meno – continua Coldiretti - i giovani mettono in testa l’agricoltura, che precede l’edilizia, il comparto energetico e i trasporti, con l’industria fanalino di coda. Proprio la campagna viene indicata inoltre dall’80% degli under 35 come una risorsa per l’ambiente, poiché contrasta i cambiamenti climatici e il consumo di suolo e protegge le risorse naturali.
“La nuova attenzione dei giovani per le tematiche ambientali rappresenta una base importante da cui partire per modernizzare e trasformare l’economia italiana ed europea – sottolinea il presidente della Coldiretti Ettore Prandini - orientandola verso una direzione più sostenibile in grado di combinare sviluppo economico, inclusione sociale e ambiente”.
Ecco i risultati di alcuni dei quesiti posti
COSA SARESTI DISPOSTO A FARE PER TUTELARE L’AMBIENTE?
mangiare solo prodotti a km zero e di stagione 77%
rinunciare o ridurre drasticamente spostamenti in auto, scooter, motocicletta 64%
rinunciare all'aria condizionata 56%
spendere di piu' per acquistare solo prodotti alimentari biologici 56%
rinunciare a vacanze che prevedono viaggi aerei 33%
fonte: www.ilcambiamento.it

Tutela del capitale naturale? In Italia sono in vigore 37 sussidi dannosi per la biodiversità

Sono quelli censiti dal ministero dell’Ambiente. Nel mentre le imposte che hanno come basi imponibili l’inquinamento o l’uso delle risorse naturali sono solo l’1%
























Il ministero dell’Ambiente ha pubblicato la terza edizione del Rapporto sullo stato del capitale naturale in Italia, un prezioso documento che attraverso la contabilizzazione dei beni naturali punta a superare il paradosso della “invisibilità economica della natura”: ci ostiniamo a osservare l’incremento (o più spesso lo stallo) della nostra economia, dimenticando che per sostenerla consumiamo 8,7 tonnellate di risorse naturali l’anno a testa, e che per ottenere mille euro di Pil servono 0,31 tonnellate di queste risorse: nel 2016 (ultimo dato disponibile) il Consumo materiale interno ha raggiunto le 493.538.000 tonnellate a livello nazionale.
Non solo: secondo le precedenti edizioni del report la natura ci regala 338 miliardi di euro in servizi ecosistemici, ma attraverso la nostra pressione sull’ambiente mettiamo a rischio beni assai più preziosi. Acqua e aria pulite, cibo, il piacere di passeggiare in un bosco. La natura ci dà la vita ma «pur essendo indubbiamente fonte primaria di tutti i valori d’uso e di scambio, non si vede riconosciuto alcun merito e alla sua protezione sono allocate quote irrisorie del prodotto sociale. L’idea di fondo è che, adottando un’unità di riferimento e un sistema di misurazione comune (e al quale i vari portatori di interesse sono più abituati), si possa meglio comprendere e far comprendere il valore della natura e persino proteggerla e conservarla con più efficacia».
Nonostante il ministero dell’Ambiente sia arrivato al terzo rapporto di questa serie, i progressi nella tutela del capitale naturale però scarseggiano. Ad ogni nuovo documento si aggiunge anzi un altro aspetto su cui è necessario migliorare.
In questo caso emerge il tema della fiscalità: una disamina dei sussidi dannosi per la biodiversità, ovvero un sottoinsieme dei sussidi ambientalmente dannosi individuati nella seconda edizione del Catalogo elaborato sempre dal ministero (la terza edizione per legge avrebbe dovuto vedere la luce lo scorso giugno, ma ancora non è nota), arrivando a individuare 19,3 miliardi di euro in sussidi ambientalmente dannosi (Sad) contro 15,2 miliardi di euro stanziati per sussidi ambientalmente favorevoli. Tra i Sad censiti dal dicastero, il rapporto individua ben 37 – qui l’elenco completo – dannose per la biodiversità nazionale.
Non a caso la prima delle raccomandazioni contenute nel documento sottolinea la necessità di “studiare forme di fiscalità orientata alla protezione del capitale naturale”. Ad oggi (dato 2017) il gettito legato alle tasse ambientali – ovvero quelle dove la base impositiva “è costituita da una grandezza fisica (eventualmente sostituita da una proxy) che ha un impatto negativo provato e specifico sull’ambiente” – arriva a livello nazionale a 57,4 miliardi di euro (il 3,3% del Pil), ma per «la quasi totalità» non sono tasse di scopo. Ovvero, sono imposte il cui gettito non è utilizzato per finanziare le spese per la protezione ambientale. Solo l’1% circa delle imposte ambientali è soggetto ad un vincolo di destinazione riguardante il finanziamento delle spese per la protezione dell’ambiente.
«Un’imposizione fiscale maggiormente orientata alla razionalizzazione dell’uso delle risorse del capitale naturale – conclude nel merito il rapporto – dovrebbe veder aumentare in termini assoluti questa componente; contribuirebbe anche a contrastare la riduzione delle risorse finanziarie disponibili per gli investimenti nella protezione dell’ambiente, evidenziata nell’Ecorendiconto». Ovvero?
L’Ecorendiconto datato settembre 2019, e riguardante l’esercizio finanziario 2018, mostra che «le risorse destinate dallo Stato alla spesa primaria per la protezione dell’ambiente e per l’uso e la gestione delle risorse naturali ammontano nel 2017 a circa 4,7 miliardi di euro, pari allo 0,7% della spesa primaria complessiva del bilancio dello Stato. Questo volume di risorse rappresenta la massa spendibile per la spesa primaria ambientale», un’inezia rispetto ai 338 miliardi di euro che ogni anno ci regala la natura.
fonte: www.greenreport.it