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Gli Obiettivi dell’Agenda 2030 visti da vicino

“Agenda 2030. Un viaggio attraverso gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile”, analizza in modo puntuale gli SDGs per aiutare a comprendere i diversi temi relativi alla sostenibilità ambientale, economica e sociale




Agenda 2030. Un viaggio attraverso gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile è il libro nato dalla collaborazione tra ASviS-Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile e Santa Chiara Lab dell’Università di Siena. I 17 capitoli del volume corrispondono ai 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, un programma d’azione per le persone, il Pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU.

La pubblicazione è nata nell’ambito di un progetto comune di Educazione allo Sviluppo Sostenibile con l’obiettivo di offrire un percorso di apprendimento tematico sui diversi temi relativi alla sostenibilità ambientale, economica e sociale di cui ciascun Goal è espressione.

Agenda 2030. Un viaggio attraverso gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile contiene 25 contributi realizzati da 42 autori e autrici, in cui sono raccolti analisi e spunti di riflessione sui 17 SDGs. La pubblicazione intende fornire uno strumento di supporto a percorsi formativi sui vari temi dello sviluppo sostenibile in un’ottica di multidisciplinarità e di interconnessione tra i diversi argomenti affrontati. Il volume contiene anche riferimenti agli impatti della pandemia da Covid-19 che possono aver condizionato il raggiungimento dell’Agenda 2030.

Nel volume si parla di disuguaglianze e povertà, approfondite nell’ottica dell’equità e della giustizia sociale; sono approfonditi i temi inerenti a una sana alimentazione e nutrizione e alle buone pratiche di agricoltura sostenibile; sono analizzate le interazioni tra economia, felicità e benessere; si spiega, infine, il valore di un’istruzione di qualità e del raggiungimento della parità di genere ai fini dello sviluppo sostenibile.

Il testo esplora anche le tematiche relative alla sostenibilità delle risorse idriche, energetiche ed economiche; indaga gli aspetti caratterizzanti il fenomeno della mobilità e dell’immigrazione, delle disuguaglianze e della decrescita; evidenzia il ruolo rilevante ricoperto dalle imprese nel conseguimento della sostenibilità e nella promozione di modelli di produzione e consumo sostenibili; esamina il legame tra sostenibilità e sviluppo dei centri urbani; affronta il problema delle microplastiche e l’inquinamento dei fondali oceanici; illustra l’applicazione di soluzioni ecocompatibili grazie all’innovazione tecnologica; presenta i fondamenti biofisici e giuridici della sostenibilità, sottolineando infine l’importanza delle partnership globali per un’efficace attuazione dell’Agenda 2030.

Il rettore dell’Università di Siena, Francesco Frati, sottolinea il fatto che la sostenibilità è una delle direttrici strategiche dell’Università da oltre dieci anni. «La pubblicazione sarà sicuramente un utile supporto al nostro impegno per la formazione degli studenti sul tema, un impegno testimoniato da oltre 60 insegnamenti in 25 corsi di laurea di 12 diversi dipartimenti, oltre che da quattro corsi di laurea magistrale interamente dedicati alla sostenibilità in diversi ambiti. Inoltre l’Ateneo organizza, secondo un approccio transdisciplinare, il Corso sulla Sostenibilità, rivolto non solo a tutta la comunità accademica ma anche a partecipanti esterni, che nel 2017 è stato premiato come best practice degli atenei della RUS-Rete delle Università per lo Sviluppo sostenibile».

Gli fa eco Angelo Riccaboni, Presidente di Santa Chiara Lab – Università di Siena: «Promuovere una cultura della sostenibilità soprattutto nell’attuale fase di ripresa post pandemia richiede un impegno concreto per sensibilizzare, educare e formare giovani e adulti sulle sfide dello sviluppo sostenibile. A meno di dieci anni dalla realizzazione dell’Agenda 2030, l’acquisizione di adeguate conoscenze e competenze nell’ambito della sostenibilità riveste un ruolo più che mai decisivo per promuovere una partecipazione attiva, a livello globale, verso uno sviluppo equo, inclusivo e realmente sostenibile».

La pubblicazione è disponibile in versione digitale sulle pagine del sito ASviS (https://bit.ly/3hV3CTn) e del sito Santa Chiara Lab – Università di Siena (https://bit.ly/3xTh5QQ) dove è possibile consultarlo e scaricarlo gratuitamente.

fonte: www.rinnovabili.it


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"L'inquinamento da plastica è un problema di giustizia sociale", avverte il nuovo rapporto

 

L'inquinamento da plastica non è solo una minaccia per la vita non umana come le tartarughe e le balene. È anche un grave problema di giustizia ambientale .


Questa è la conclusione di un nuovo rapporto pubblicato martedì dal Programma ambientale delle Nazioni Unite e Azul senza scopo di lucro per la giustizia oceanica, intitolato Neglected: Environmental Justice Impacts of Plastic Pollution.

"L'inquinamento da plastica è un problema di giustizia sociale", ha detto in un comunicato stampa il coautore del rapporto e fondatore e direttore esecutivo di Azul, Marce Gutiérrez-Graudiņš . "Gli sforzi attuali, limitati alla gestione e alla riduzione dell'inquinamento da plastica, sono inadeguati per affrontare l'intera portata dei problemi che la plastica crea, in particolare i disparati impatti sulle comunità colpite dagli effetti dannosi della plastica in ogni punto, dalla produzione allo spreco".



Il rapporto fornisce diversi esempi di come la plastica danneggia le comunità vulnerabili, secondo UN News .

Produzione: la plastica proviene dal petrolio e l'estrazione del petrolio può essere un processo altamente dannoso e inquinante. Le comunità indigene sono sfollate per trivellazioni petrolifere, il fracking inquina l'acqua potabile e le raffinerie di petrolio rappresentano un rischio per la salute delle comunità afroamericane lungo la costa del Golfo degli Stati Uniti.

Uso: le donne hanno maggiori probabilità di essere esposte alle tossine derivanti dall'uso della plastica, che è predominante nei prodotti domestici e femminili.

Smaltimento: la plastica smaltita in modo improprio finisce negli ecosistemi marini, dove minaccia il sostentamento di coloro che si affidano alla pesca per sopravvivere e minaccia la salute di coloro che la consumano per errore nei loro frutti di mare. Inoltre, le persone che si guadagnano da vivere raccogliendo rifiuti sono esposte in modo sproporzionato alle sue tossine.


"L'impatto della plastica sulle popolazioni vulnerabili va ben oltre i sistemi di gestione dei rifiuti inefficienti e talvolta inesistenti", ha dichiarato nel comunicato stampa Juliano Calil, autore principale del rapporto e ricercatore senior presso il Centro per l'economia blu. "Inizia con questioni relative all'estrazione di petrolio, attraverso ambienti tossici ed emissioni di gas serra, e ha anche un impatto sulle politiche di distribuzione dell'acqua".

Gli autori del rapporto hanno notato che l'uso della plastica è aumentato solo dall'inizio della pandemia COVID-19 e sta diventando parte di una "tripla emergenza" insieme alla crisi climatica e alla perdita di biodiversità, ha detto UN News.

Per affrontare questi problemi, la relazione ha privilegiato diverse soluzioni. Questi includevano più studi sugli impatti sulla salute della plastica; migliore monitoraggio dei rifiuti di plastica; divieti di plastica monouso; e maggiori investimenti nella gestione dei rifiuti, nel riciclaggio e nel riutilizzo.

In un invito alla stampa che annunciava il rapporto, gli autori si sono anche espressi a favore di un trattato internazionale per porre fine all'inquinamento e alla produzione di plastica, come riportato da Gizmodo . David Azoulay, il direttore del programma sanitario del Center for International Environmental Law che non ha aiutato a scrivere il rapporto, ha affermato che la sua enfasi sui diritti umani potrebbe aiutare a fornire un quadro per un simile trattato.

"Considerare approcci basati sui diritti", ha detto a Gizmodo, "è un passo molto importante per lo sviluppo di un trattato che sviluppi effettivamente soluzioni".

fonte: www.ecowatch.com


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La cura esiste

C’è una società fatta di relazioni, giustizia sociale, tutela ambientale, l’esatto contrario della visione e dell’agenda di un Governo e di un’Europa troppo intente e rassicurare mercati e investitori, perché il profitto non si tocca e il debito va onorato. Sabato 10 aprile, l’hanno messa in mostra, quella società, oltre 30 manifestazioni-performance tenute in 20 città italiane, da Aosta a Catanzaro, per promuovere le proposte del Recovery Planet. Per il pomeriggio del 26 aprile, in occasione del passaggio parlamentare del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, la Società della Cura sarà in piazza Montecitorio per un nuovo appuntamento. L’obiettivo di questa seconda tappa di una mobilitazione che vuole crescere è far sentire dalla piazza la voce dell’Italia che non ha più voglia di aspettare e di essere considerata un simpatico orpello delle decisioni che contano

Foto tratta dal Fb 

Una cura esiste, per questa società malata di profitto, e il principio attivo sono i volti e le intelligenze di quelle donne e quegli uomini che, nella giornata del 10 aprile, hanno animato le piazze reali e virtuali del nostro Paese.

Oltre 30 presidi, manifestazioni, performance in più di 20 città italiane, da Aosta a Catanzaro, passando per Firenze, Roma, Venezia dove i movimenti italiani che animano la Società della Cura, hanno ricominciato a prendere parola nonostante le limitazioni di una pandemia che sembra non voler mollare la presa.

La cura esiste, ed è una società fatta di relazioni, giustizia sociale, tutela ambientale, l’esatto contrario della visione e dell’agenda di un Governo e di un’Europa troppo intente e rassicurare mercati e investitori, perché il profitto non si tocca e il debito va onorato.

C’è una faglia di Sant’Andrea che divide il Paese legale dal Paese reale, e si coagula in numeri, dati e decisioni politiche. Dal febbraio 2020 quasi un milione di persone hanno perso il posto di lavoro, in gran parte giovani e donne, nella migliore delle tradizioni di un sistema di valori patriarcale, arretrato, senza visione del futuro.

I giovani e le intelligenze dei Fridays for Future e di Extinction Rebellion, anche loro ad animare un’Italia disorientata, ci ricordano che viviamo tutti con un metronomo sopra la testa che si chiama cambiamento climatico, inesorabile, ma non inevitabile se solo si mettessero in campo politiche degne di questo nome.

Alle proposte della società civile e del Recovery Planet, l’agenda di società del futuro redatta grazie al lavoro certosino e continuato di centinaia di persone all’interno della convergenza, il Governo ha risposto con le nuove concessioni estrattive di metano e di petrolio, perché è business, bellezza, e prima di noi e di voi viene Eni, in caso non l’aveste ancora capito.

Quei 190 e rotti miliardi tra prestiti e finanziamenti che stanno sotto al nome pomposo di Recovery and Resilience Facility, di cui il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ne è l’italiana conseguenza, arriveranno sulla base di progetti e investimenti decisi escludendo a priori la società civile, invitata al pranzo di gala degli Stati Generali romani dello scorso luglio come semplice comparsa, e ascoltata come da prassi nelle audizioni alle Camere.



L’ascolto è dovuto, la presa in carico un po’ meno, se è vero che all’interno del PNRR troveranno conforto anche le filiere militari e quelle insostenibili, le infrastrutture e il cemento, perché il PIL deve essere nutrito, e chi se ne importa se il 91% dei Comuni italiani, e decine di milioni di persone, sono a rischio dissesto idrogeologico. Un’ipoteca sul futuro, considerata la frequenza di aumento di eventi atmosferici estremi che colpisce il nostro Paese, se non il mondo intero.

Le oltre 400 pagine del PNRR troveranno posto sugli scranni di Montecitorio e di Palazzo Madama i prossimi 26 e 27 aprile, presentate dal Presidente del Consiglio Draghi, prima del loro invio alla Commissione Europea entro il 30 aprile.

Da lì in poi si aprirà un negoziato con l’Unione Europea, che spulcerà le proposte italiane e dei rimanenti 26 Paesi dell’Unione proponendo cambiamenti, riletture, riscritture.

Il 26 aprile, dalle 15 in poi, proprio in occasione del passaggio parlamentare, la Società della Cura sarà in piazza Montecitorio, per far sentire dalla piazza la voce dell’Italia che non ha più voglia di aspettare e di essere considerata simpatico orpello delle decisioni che contano.

La risposta alle pagine del Recovery Plan saranno i capitoli del Recovery Planet, e alle pretese dei capitani di industria verranno contrapposte le proposte e richieste per una società diversa, capace di cura e di senso.

Il 26 aprile non sarà un punto di arrivo, ma una tappa dopo le mobilitazioni di novembre, dicembre e del 10 aprile verso l’ampliamento di una convergenza di movimenti che non si vedeva da anni, e che guarda al ventennale del G8 genovese e alle piazze del prossimo autunno come passaggi necessari per rimettere le parole conflitto e alternativa al posto giusto nel dizionario della politica italiana.

fonte: comune-info.net



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L’inquinamento da plastica è una questione di giustizia ambientale

Il rapporto di UNEP e dell’ong Azul legge l’impatto dell’inquinamento causato dalla plastica, in tutte le fasi del suo ciclo produttivo, come una questione che colpisce in modo sproporzionato le comunità più vulnerabili









L’inquinamento causato dalla plastica colpisce in modo sproporzionato le comunità più vulnerabili. Un problema di giustizia ambientale che riguarda tutte le fasi del ciclo di vita della plastica. Dall’estrazione delle materie prime necessarie alla produzione, fino al consumo e allo smaltimento. Lo sottolinea l’Unep, l’agenzia per la protezione ambientale delle Nazioni Unite, in un report scritto insieme alla Ong Azul dal titolo Neglected: Environmental Justice Impacts of Plastic Pollution.

“Giustizia ambientale significa istruire coloro che sono in prima linea sull’inquinamento da plastica e sui suoi rischi, includendoli nelle decisioni sulla sua produzione, sull’utilizzo e sullo smaltimento, e garantire loro l’accesso a un sistema giudiziario credibile”, puntualizza Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’Unep.

Una questione, quello dell’inquinamento causato dalla plastica, che ha una geografia particolare. Secondo il rapporto, a essere colpite sono le comunità più vulnerabili a prescindere dal livello socio-economico e gli indici di disuguaglianza di un paese. Così, ad esempio, paesi così distanti e diversi come gli Stati Uniti e il Sudan condividono diversi aspetti legati all’impatto negativo delle materie plastiche. Succede con il fracking, la tecnica di fratturazione idraulica per estrarre idrocarburi da scisto, che contamina l’acqua potabile in entrambi i paesi.

Il rapporto mette poi in guardia sui problemi di salute tra le comunità afroamericane che vivono vicino alle raffinerie di petrolio nel Golfo del Messico, anche queste negli Stati Uniti. Così come sui rischi affrontati da circa due milioni di raccoglitori di rifiuti in India.

“L’inquinamento da plastica è una questione di giustizia sociale”, afferma Marce Gutiérrez-Graudiņš, coautrice e fondatrice e direttrice esecutiva di Azul. “Gli sforzi attuali, limitati alla gestione e alla riduzione dell’inquinamento da plastica, sono inadeguati per affrontare l’intera portata dei problemi che la plastica crea, in particolare i disparati impatti sulle comunità colpite dagli effetti dannosi della plastica in ogni punto, dalla produzione allo spreco”.

Il rapporto affronta il problema anche attraverso il prisma della dimensione di genere. A questo proposito, nota che sono le donne, in particolare, a soffrire del rischio di tossicità correlato alla plastica, a causa della maggiore esposizione complessiva alla plastica a casa e nei prodotti per la cura femminile.

fonte: www.rinnovabili.it


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In Italia c’è bisogno di una nuova ecologia popolare



















La comparsa di un nuovo virus è un fatto naturale, la pandemia no: la crisi sanitaria e i suoi effetti economici, sociali e politici “sono la diretta conseguenza di un modello di sviluppo economico e culturale che tiene poco conto del valore della vita”; un modello “nocivo e dannoso per noi individui, per le comunità, per la natura”. Esordisce così il documento intitolato “Per un manifesto di ecologia popolare”, elaborato da un gruppo di attivisti e ricercatori che durante i mesi di sospensione delle attività e degli spostamenti in Italia si sono interrogati sulle origini della crisi che stiamo attraversando, convinti che le premesse del disastro fossero tutte visibili ancora prima che arrivasse il nuovo coronavirus.

“Gli ingredienti di una pandemia sono gli stessi che muovono la crescita illimitata”, scrivono: lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, la crescita a cui si sacrifica la qualità dell’aria, dell’acqua, della terra e degli allevamenti animali; la densità abitativa delle grandi città; la crescente interconnessione di un mondo globalizzato, la spinta verso una produttività sempre più alta, gli standard sanitari e alimentari inadeguati. Insomma: la crisi del covid-19 deve spingerci a ripensare “un modello di crescita autodistruttivo improntato solo al benessere economico”.

Gli autori del manifesto vivono e lavorano per lo più a Napoli, anche se hanno orizzonti più ampi. Il gruppo è eterogeneo: ricercatori universitari, artisti, educatori, giornalisti. Hanno creato la rete Terre in movimento e si presentano con un’identità collettiva. Il nome che ciascuno usa è Ecopop, seguito da un numero per gli uomini e una lettera per le donne: questo perché, spiegano, “vogliamo dare voce a tutti i gruppi che si battono per la giustizia ambientale”. Aggiungono che l’anonimato è anche una sorta di tutela, “perché in molti conflitti ambientali i cittadini non hanno di fronte solo le istituzioni ma anche altre forze, inclusa la criminalità organizzata”.

La crisi dei rifiuti


Per spiegare cosa intendano con “ecologia popolare”, gli autori del manifesto citano la crisi dei rifiuti vissuta dalla Campania per circa un decennio a partire del 2001. “Era un conflitto ambientale tipicamente moderno”, osserva Ecopop 1, “chiamava in causa il ciclo dei rifiuti, la speculazione, i meccanismi illegali che trasferivano gli sversamenti industriali delle regioni più ricche alle zone più povere nel sud dell’Italia, un po’ come si mandavano le navi di rifiuti tossici in Africa. Eppure sui mezzi di informazione non è stato descritto come un conflitto ambientale, soprattutto all’inizio: si parlava di cattiva gestione, di traffici illegali, di camorra, ma la salute di quelle persone e l’ambiente entravano di rado nel discorso”.

Le proteste degli abitanti erano descritte più che altro come “egoismi localisti”. È nato allora il nome Terra dei fuochi. “Si discuteva di inceneritori e di dove collocare le discariche dando per scontato che chi viveva in quei luoghi non avesse una coscienza ambientale”, continua Ecopop 1. “Ma era vero il contrario. Abbiamo visto cittadine e cittadini lottare per difendere il proprio territorio e il proprio diritto alla salute, perché i primi a subire la situazione erano proprio loro. Hanno agito come comunità e in questo percorso hanno acquisito consapevolezza e conoscenze in modo indipendente. Ci sono voluti anni di battaglie perché questo fosse riconosciuto”.

“Le lotte in difesa dell’ambiente spesso non trovano sponde politiche o culturali perché nel nostro paese manca una cultura politica ecologica”, si legge nel manifesto. Si parla di “analfabetismo ecologico”. La sinistra italiana ha una “tradizione industrialista” che l’ha portata anche in tempi recenti a difendere scelte come la Tav, affermano gli autori. Nei programmi politici l’ambiente compare come citazione, “per darsi un volto presentabile”. “Vogliamo che la questione ambientale sia la chiave di lettura per tutti i temi della politica e della società”, dice Ecopop B.

La grande cecità

“Bisogna mettere l’accento sul legame tra il contagio e la cecità del modello di sviluppo”, si legge ancora nel manifesto. La pandemia, il degrado ambientale, le mutazioni del clima “sono tutti prodotti di un modello di crescita improntato al solo benessere economico che nasconde una sistematica volontà autodistruttiva”. Riecheggia quella che lo scrittore Amitav Ghosh ha definito “la grande cecità” di fronte al cambiamento climatico, e in effetti gli autori dichiarano di aver tratto ispirazione da quel saggio: “La grande cecità è quella degli esseri umani che non riconoscono alla natura un ruolo protagonista”, riassume Ecopop 1.



Gli autori del manifesto criticano in particolare l’idea di “sviluppo sostenibile”, che considerano una contraddizione in termini: “Si basa sull’idea di un buon uso delle risorse per una crescita economica compatibile con la natura. È il tentativo delle élites ‘avvedute’ di mediare tra l’ambiente e il capitalismo”, dice Ecopop 1: “Ma è una mediazione impossibile. La logica del capitalismo è la ricerca continua di profitto, non la tutela dell’ambiente o della salute della collettività. Al dunque, profitto e natura sono in conflitto”. E poi, “che mediazione può fare una cultura autodistruttiva?”. Al contrario, per “ribaltare il modello di sviluppo che ci ha portato alla crisi attuale” serve un’ecologia “partecipata e dal basso proprio come era successo nella Terra dei fuochi”. Citano i comitati che si battono per la bonifica nei numerosi siti industriali inquinati in Italia, i movimenti No Tav e quelli No Tap (che si oppongono al gasdotto Trans-Adriatico che dovrebbe approdare in Puglia).

La giustizia ambientale “è il nuovo spartiacque del conflitto sociale”, dicono in definitiva gli autori del manifesto di ecologia popolare. Il documento evoca “pratiche di mutualismo” nelle comunità fondate sul “diritto collettivo al cibo, alla salute, la terra, l’acqua come capisaldi del diritto alla vita”. Vedono un esempio positivo nelle esperienze di mutuo soccorso nate nelle settimane del confinamento, da Scampia a Rosarno. Guardano anche più lontano, alle reti di comunità indigene dell’Amazzonia in difesa della foresta o gli ecovillaggi del Rojava.

Il collettivo Terre in movimento si è dato degli obiettivi pratici. Mapperà i conflitti ambientali a cominciare dalle esperienze locali di difesa del territorio e della salute “e qui nel sud ne abbiamo molti casi, dalla Terra dei fuochi alle acciaierie di Taranto”. Avvierà un’inchiesta sul bacino del fiume Sarno, caso esemplare di dissesto e inquinamento: durante il confinamento il fiume si era ripulito e gli abitanti rivendicano una bonifica duratura. Poi un’indagine sul parco dei Camaldoli, 135 ettari di area protetta con un castagneto secolare, vero polmone verde alle porte di Napoli che però resta inspiegabilmente chiuso. L’obiettivo, dicono, è mettere in collegamento esperienze popolari, locali e globali. E diffondere una “vera cultura politica ecologica”.

fonte: www.internazionale.it



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Tornare alla terra è l’alternativa

Occorre prendersi cura della casa di tutti e creare giustizia ecologica, sociale ed economica. Non c’è un “pianeta B”. “Il ritorno alla Terra inizia nella nostra mente – scrive Vandana Shiva -, liberandoci dalle illusioni che ci hanno spinto sull’orlo dell’estinzione, che l’1 per cento ha creato e sta creando”

















Il 31 maggio, mentre molte persone morivano a causa della pandemia del coronavirus, mentre milioni di famiglie avevano perso i propri mezzi di sussistenza a causa del confinamento forzato, mentre milioni di individui scendevano per le strade delle città degli Stati Uniti per pretestare contro le violenze e la brutalità della polizia dopo l’assassinio di George Floyd, Elon Musk lanciava il suo progetto Space X.
Come ho scritto nel mio libro Il pianeta di tutti (Feltrinelli), l’idea di Musk è di creare città autosufficienti su Marte per un numero esiguo di privilegiati. Nella sua visione del futuro esistono solo due alternative per l’umanità: l’estinzione o la fuga su Marte. Egli non considera che la Terra, Gaia, è l’unico pianeta vivente che conosciamo. Non c’è un “pianeta B”. La sesta estinzione di massa a cui stiamo andando incontro è un fenomeno causato dall’azione umana e da scelte precise di impatto globale, basate sull’avidità di pochi individui, quali l’estrazione incessante delle risorse e del patrimonio naturale, che hanno portato alla distruzione della biodiversità, degli ecosistemi e dei processi ecologici.
Nella visione del mondo di Musk e di altri multimiliardari e in un’economia basata sull’ingordigia di pochi, non esistono alternative all’estrattivismo e allo sfruttamento, perciò l’estinzione diventa l’unico futuro possibile.
Quando le risorse disponibili della Terra vengono sfruttate, quando i limiti planetari” vengono infranti, quando gli ecosistemi che rendono possibile la vita vengono distrutti, non c’è più sopravvivenza, non è più possibile produrre nulla. Solo questo vede un’economia che considera unicamente l’accumulo ed è cieca ai processi ecologici.
Questa visione è presente anche nel caso in cui la si dipinga falsamente di verde. Prediamo il caso del litio, che è una risorsa essenziale per l’industria delle auto elettriche di Musk, che ha visto l’espandersi delle miniere nel nord del Tibet, in Cile e in Bolivia, a causa dell’incremento della richiesta di mercato di auto elettriche, che si prevede raddoppi entro il 2025.
Secondo Evo Morales le cause del colpo di stato subito dalla Bolivia durante il suo mandato presidenziale sono da ricercarsi precisamente nel litio. Il colpo di stato è infatti avvenuto dopo una settimana che Morales aveva nazionalizzato il litio, affermando che questa risorsa apparteneva al popolo boliviano, non alle multinazionali. Nello stesso periodo, egli aveva cancellato anche l’accordo Acisa con la Germania, dopo settimane di proteste da parte degli abitanti della zona di Potosí, dove si trovano dal 50 al 70% delle riserve mondiali di litio, nelle saline di Salar de Uyuni. Acisa fornisce batterie a Tesla. Dopo il colpo di stato, il valore delle azioni Tesla in borsa è aumentato considerevolmente.
Nel passaggio a un’economia post Covid, dobbiamo tenere conto di tutti i costi ecologici, sociali e politici di ciò che ci viene offerto e delle scelte che facciamo. Rendere invisibili i costi alla terra e alle persone è stato il modo attraverso il quale la ricchezza si è accumulata nelle mani di coloro che sfuggono alla responsabilità sociale ed ecologica, lasciando che questi costi siano sostenuti dalla terra e dalle comunità vulnerabili; ecco perché il degrado ecologico e la disuguaglianza economica stanno aumentando.
Invece di prendersi cura della propria casa e di creare giustizia ecologica, sociale ed economica obbedendo alle leggi ecologiche e rispettando i limiti ecologici e condividendo la ricchezza che la terra e le comunità creano, i colonizzatori scappano costantemente dai luoghi e dagli spazi che hanno distrutto e inquinato, per trovare nuove colonie da occupare ed estrarre, altri luoghi e altre persone da dominare e saccheggiare.

Foto tratta dalla pagina fb Semi di Comunità – CSA Roma


Questo modello di colonizzazione della natura e dell’uomo è ormai al limite ed è necessario considerare altre opzioni.
Invece di fare piani per fuggire dal questo pianeta, la strada che dovremmo seguire è quella di ritornare alla Terra, come un’unica comunità che ha il potenziale di creare e coprodurre con la natura per rigenerarla e provvedere ai bisogni di tutti.
Il ritorno alla Terra inizia nella nostra mente, liberandoci dalle illusioni che ci hanno spinto sull’orlo dell’estinzione, che l’1 per cento ha creato e sta creando.
È ancora possibile recuperare il nostro potenziale creativo per plasmare le nostre economie e democrazie dal basso verso l’alto. È ancora presente nelle nostre menti, nei nostri cuori e nelle nostre mani.
Vanadana Shiva
fonte: https://comune-info.net/


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Cinque principi per la ripresa della nostra economia e per la creazione di una società giusta

La pandemia del coronavirus può diventare un’opportunità per portare avanti nuove idee, abbandonare una volta per tutte un sistema economico ecologicamente e socialmente distruttivo e ripartire dalle iniziative e dai modelli alternativi già esistenti. Pubblichiamo la lettera aperta scritta dalla rete internazionale della Decrescita, firmato da oltre 1.000 esperti e 66 organizzazioni di venti Paesi. Nel testo vengono proposti cinque principi per la ripresa della nostra economia e per la creazione di una società giusta.





La pandemia del Coronavirus ha già tolto innumerevoli vite umane ed è incerto come si svilupperà in futuro. Mentre le persone in prima linea nella sanità e nell’assistenza sociale di base combattono contro la diffusione del virus, si prendono cura dei malati e mantengono in funzione le operazioni essenziali, gran parte dell’economia si è fermata. Nonostante questa situazione sia alienante e dolorosa per molti, e generi paura e ansia nei confronti dei nostri cari e delle comunità di cui facciamo parte, è anche un momento per portare avanti collettivamente nuove idee.
La crisi innescata dal Coronavirus ha già messo in luce molte debolezze della nostra economia capitalista ossessionata dalla crescita, come insicurezza per molti e sistemi sanitari paralizzati da anni di austerità e dalla sottovalutazione di alcune delle professioni più essenziali. Questo sistema, radicato nello sfruttamento delle persone e della natura, e gravemente soggetto a crisi, è stato comunque considerato normale.

Sebbene l’economia mondiale sia ai massimi della produzione, essa non riesce a prendersi cura degli esseri umani né del pianeta; al contrario, si accumula ricchezza devastando il pianeta. Milioni di bambini muoiono ogni anno per cause prevenibili, 820 milioni di persone sono sottonutrite, la biodiversità e gli ecosistemi vengono degradati e i gas serra continuano a salire vertiginosamente, portando a violenti cambiamenti climatici di origine antropica: innalzamento del livello del mare, tempeste devastanti, siccità e incendi che divorano intere regioni.
Per decenni, le strategie dominanti contro questi mali sono state quelle di lasciare la distribuzione economica in gran parte alle forze del mercato e di ridurre il degrado ecologico attraverso il cosiddetto “disaccoppiamento” (decoupling) e la crescita verde. Questo non ha funzionato. Ora abbiamo l’opportunità di costruire prendendo spunto dalle esperienze della crisi del Coronavirus: dalle nuove forme di cooperazione e solidarietà che stanno fiorendo, all’apprezzamento diffuso dei servizi sociali di base come il lavoro sanitario e assistenziale, l’approvvigionamento alimentare e la rimozione dei rifiuti. La pandemia ha portato anche ad azioni di governo senza precedenti nel moderno tempo di pace, dimostrando ciò che è possibile quando c’è la volontà di agire: l’indiscusso rimescolamento dei bilanci, la mobilitazione e la ridistribuzione del denaro, la rapida espansione dei sistemi di sicurezza sociale e degli alloggi per i senzatetto.
Allo stesso tempo, dobbiamo essere consapevoli delle problematiche tendenze autoritarie in aumento, come la sorveglianza di massa e le tecnologie invasive, la chiusura delle frontiere, le restrizioni al diritto di riunione, lo sfruttamento della crisi da parte del capitalismo catastrofico. Dobbiamo resistere con fermezza a tali dinamiche, ma non fermarci qui. Per avviare una transizione verso un tipo di società radicalmente diversa, piuttosto che cercare disperatamente di rimettere in moto la macchina di crescita distruttiva, suggeriamo di basarsi sulle lezioni del passato e sull’abbondanza di iniziative sociali e di solidarietà che sono germogliate in tutto il mondo in questi ultimi mesi. A differenza di quanto è avvenuto dopo la crisi finanziaria del 2008, dovremmo salvare le persone e il pianeta piuttosto che salvare le imprese, e uscire da questa crisi con misure di sufficienza invece che di austerità.


Noi, firmatari di questa lettera, proponiamo quindi cinque principi per il risanamento della nostra economia e per creare le basi di una società giusta. Per gettare le fondamenta di un’economia che funzioni per tutti, dobbiamo:
1) Mettere la vita al centro dei nostri sistemi economici. Invece della crescita economica e dello spreco di produzione, dobbiamo mettere la vita ed il benessere al centro dei nostri sforzi. Mentre alcuni settori dell’economia, come la produzione di combustibili fossili, l’esercito e la pubblicità, devono essere abbandonati il più velocemente possibile; altri devono essere promossi, come la sanità, l’istruzione, le energie rinnovabili e l’agricoltura ecologica.
2) Rivalutare radicalmente quanto e quale lavoro è necessario per una buona vita per tutti. Dobbiamo dare più enfasi al lavoro di cura e valorizzare adeguatamente le professioni che si sono rivelate essenziali durante la crisi. I lavoratori delle industrie distruttive hanno bisogno di accedere alla formazione per nuovi tipi di lavoro che siano rigenerativi e più puliti, garantendo una giusta transizione. Nel complesso, dobbiamo ridurre l’orario di lavoro e introdurre sistemi di condivisione del lavoro.
3) Organizzare la società intorno alla fornitura di beni e servizi essenziali. Se da un lato dobbiamo ridurre gli sprechi e gli spostamenti; i bisogni umani primari, come il diritto al cibo, all’alloggio e all’istruzione, devono essere garantiti a tutti attraverso servizi di base universali o schemi di reddito di base universali. Inoltre, un reddito minimo e massimo devono essere definiti e introdotti democraticamente.
4) Democratizzare la società. Ciò significa permettere a tutte le persone di partecipare alle decisioni che riguardano la loro vita. In particolare, significa una maggiore partecipazione per i gruppi emarginati della società e l’inclusione dei principi femministi nella politica e nel sistema economico. Il potere delle corporazioni globali e del settore finanziario deve essere drasticamente ridotto attraverso la proprietà e la supervisione democratica. I settori legati ai bisogni di base come l’energia, il cibo, l’alloggio, la salute e l’istruzione devono essere demercificati e definanzializzati. Bisogna inoltre promuovere le attività economiche basate sulla cooperazione, come ad esempio le cooperative di lavoratori.
5) Basare i sistemi politici ed economici sul principio di solidarietà. La ridistribuzione e la giustizia – transnazionale, intersezionale e intergenerazionale – devono essere la base per la riconciliazione tra le generazioni attuali e future, i gruppi sociali all’interno dei paesi e tra i paesi del Sud e del Nord del mondo. Il Nord del mondo, in particolare, deve porre fine alle attuali forme di sfruttamento e pagari i danni di quelle passate. La giustizia climatica deve essere il principio che guida una rapida trasformazione socio-ecologica.
Finché avremo un sistema economico dipendente dalla crescita, qualsiasi recessione sarà devastante. Ciò di cui il mondo ha invece bisogno è la Decrescita – un ridimensionamento pianificato ma adattivo, sostenibile ed equo dell’economia, che porti a un futuro in cui si possa vivere meglio con meno. La crisi attuale è stata disastrosa per molti, colpendo più duramente i più vulnerabili, ma ci dà anche l’opportunità di riflettere e ripensare. Può farci capire cosa è veramente importante ed ha dimostrato innumerevoli potenzialità sulle quali costruire.
La Decrescita, come movimento e come concetto, riflette su questi temi da oltre un decennio e offre un quadro coerente per ripensare la società sulla base di altri valori, come la sostenibilità, la solidarietà, l’equità, la convivialità, la democrazia diretta e il godimento della vita.
Unisciti a noi in questi dibattiti e condividi le tue idee alla Conferenza sulla Decrescita di Vienna 2020 e alla Giornata Internazionale della Decrescita – per costruire insieme un’uscita intenzionale ed emancipatrice dalle nostre dipendenze di crescita!
In solidarietà, Il gruppo di lavoro alla lettera aperta: Nathan Barlow, Ekaterina Chertkovskaya, Manuel Grebenjak, Vincent Liegey, François Schneider, Tone Smith, Sam Bliss, Constanza Hepp, Max Hollweg, Christian Kerschner, Andro Rilović, Pierre Smith Khanna, Joëlle Saey-Volckrick
Questo testo è il risultato di un processo di collaborazione all’interno della rete internazionale della Decrescita. È stato firmato da oltre 1.000 esperti e 66 organizzazioni di XX paesi. Vedi tutti i firmatari qui.

fonte: https://www.italiachecambia.org/


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Gratis i Costi di Giustizia per gli Ambientalisti

Una sentenza fissa un precedente importante per le associazioni che difendono il territorio: le associazioni ambientaliste non devono pagare i costi di accesso alla giustizia
















Marco Preve su la Repubblica

È una sentenza che segna un punto e un importantissimo precedente a favore delle onlus ambientaliste quella con cui la Commissione Tributaria regionale della Liguria ha accolto il ricorso dell’associazione Vas (Verdi, Ambiente Società) annullando una disposizione della segreteria del Tar che obbligava il Vas a pagare il cosiddetto contributo unificato relativo all’instaurazione di una causa davanti allo stesso Tribunale amministrativo regionale …
I giudici tributari regionali hanno accolto il ricorso del Vas presentato dall’avvocato Daniele Granara ribaltando così la sentenza di primo grado della Commissione Tributaria Provinciale che era invece favorevole all’obbligo di pagamento.
La sentenza si basa sul rispetto della Convenzione di Aarhus (firmata nella cittadina di Aarhus, in Danimarca, nel 1998) “ratificata – spiegano i giudici – dalla Repubblica Italiana con la legge 108 del 2001, impegna gli stati membri a prevedere l’adeguato riconoscimento e sostegno delle organizzazioni che promuovono la tutela dell’ambiente e a provvedere affinché l’ordinamento si conformi a tale obbligo, specie in materia di accesso alla giustizia, negare l’esenzione dal pagamento del contributo unificato per atti quali i ricorsi giurisdizionali finalizzati alla difesa di interessi collettivi diffusi in materia ambientale, porterebbe ad un evidente contrasto tra il diritto interno e le norme europee di pari rango, in quanto recepite nella legislazione nazionale, le quali mettono chiaramente in evidenza che il costo dei procedimenti giurisdizionali sopra indicati debba essere gratuito o non eccessivamente oneroso”.
Negli ultimi anni proprio questi costi sono aumentati e in passato l’ex presidente del Tar Liguria Santo Balba aveva spiegato come tale scelta scoraggiasse di fatto molti cittadini impossibilitati a versare alcune migliaia di euro solo per avviare la causa.
Nel caso in questione i Vas avevano impugnato davanti al Tar una deliberazione della Regione del 2014 che riguardava il “Progetto di coltivazione congiunta e recupero ambientale delle cave Gneo, Giunchetto e Vecchie Fornaci”.
Poiché il contributo unificato muta a seconda del valore della causa, per il business in ballo i questa vicenda i Vas avrebbero dovuto sborsare seimila euro in partenza.

È evidente che proprio tali costi siano un fortissimo deterrente per molte associazioni che si battono sul territorio per la difesa dell’ambiente e del paesaggio. La sentenza della Commissione Tributaria fissa un precedente importante che faciliterà l’azione delle associazioni di difesa del territorio.


fonte: http://www.casolenostra.org/


Linee guida UE per facilitare l'accesso dei cittadini alla giustizia in campo ambientale

Quando le autorità pubbliche non rispettano i diritti e gli obblighi previsti dalle leggi ambientali.

















La Commissione europea ha adottato un documento di orientamento sull'accesso alla giustizia in materia ambientale, che chiarisce come i singoli cittadini e le associazioni possono contestare le decisioni, gli atti e le omissioni da parte delle pubbliche autorità relative alla normativa ambientale dell'UE presso i tribunali nazionali.
La Commissione ha fatto un passo avanti con la pubblicazione di questi orientamenti, fornendo la guida necessaria ai cittadini per un migliore accesso ai sistemi giudiziari nazionali.
La Corte di giustizia dell'Unione europea ha emanato una serie di decisioni che chiariscono i requisiti in materia di accesso alla giustizia in materia ambientale. Gli esempi includono:

  • come i tribunali nazionali debbano affrontare i casi nei quali i piani di azione comunale per la qualità dell'aria non prevedono misure sufficientemente efficaci per raggiungere gli standard stabiliti dalla legislazione dell'UE;
  • il ruolo delle organizzazioni non governative ambientali nel contribuire a garantire che gli obblighi derivanti dalla normativa comunitaria in materia ambientale siano rispettati negli Stati membri;
  • criteri di valutazione che i giudici nazionali dovrebbero impiegare per evitare che costi eccessivi per il ricorso alla giustizia impediscano ai cittadini e alle associazioni di esercitare il loro ruolo nel rispettare la legislazione comunitaria in materia ambientale a livello nazionale.
La nuova nota di orientamento riunisce tutte queste regole in un unico documento completo, rendendo più semplice per tutti capirne le implicazioni.
L'adozione della nota di orientamento sarà seguita da discussioni con gli Stati membri che non rispettano ancora pienamente i loro obblighi in materia, anche nell'ambito del processo in corso di revisione della normativa ambientale europea.

Per approfondimenti:



fonte: http://www.arpat.toscana.it

Un mondo diverso













Il corpo umano ha la sua estensione naturale nell’ambiente, originario o artificiale, in cui è inserito, così come ogni essere umano è una efflorescenza particolare dell’ambiente in cui vive. La condizione umana, intesa come esistenza particolare di ogni singolo uomo o di ogni singola donna, o di ogni comunità territorialmente situata, e non di un astratto “essere umano”, è indissolubilmente legata alle condizioni in cui si svolge la sua esistenza. Condizioni che possono essere determinate tanto dalle dinamiche che interessano un determinato territorio, quanto dalla mobilità che contraddistingue l’individuo, la comunità o il gruppo sociale a cui l’individuo appartiene.
Quanto al primo punto, un determinato territorio può essere caratterizzato sia da una relativa invarianza – restare più o meno uguale a se stesso nei secoli o nei millenni – quanto da una elevata varietà che può essere provocata sia da eventi naturali che da interventi migliorativi o devastanti di origine antropica; interventi che possono a loro volta provocare sia progressi o regressi del benessere dei suoi abitanti, sia catastrofi che richiedono un radicale ri-orientamento di molti dei loro comportamenti, fino al completo abbandono di un territorio.
Quanto alla mobilità, e innanzitutto alle migrazioni che dall’origine hanno accompagnato l’evoluzione della specie umana e la differenziazione delle sue culture, oggi è uno dei fattori più rilevanti della stratificazione sociale.
Grosso modo, nel mondo globalizzato di oggi, possiamo distinguere il vertice di una piramide, costituita da una élite internazionale (il famigerato 1 per cento; ma probabilmente molti meno), sempre meno legata a un territorio particolare perché impegnata in investimenti e operazioni che spaziano su tutto il globo, e quindi scarsamente interessata alla qualità di un ambiente particolare, perché in grado in ogni momento di scegliersene uno più gradevole. Mentre al fondo della piramide sociale, intere comunità sono costrette ad abbandonare, tutti insieme o un po’ per volta, il territorio in cui sono nati e cresciuti sia loro che le loro famiglie, perché reso inospitale e inabitabile da qualche catastrofe naturale o, sempre più, dai cambiamenti climatici in corso; oppure da progetti di “sviluppo” o da accaparramenti di risorse locali, per lo più promossi e gestiti da chi quel territorio non lo abita e non lo frequenta mai.

In mezzo a questi estremi, c’è una folta schiera di abitanti di questo pianeta che vivono in ambienti (aria, acque, suolo e alimenti) sempre meno naturali e sempre più non solo antropizzati, ma anche e soprattutto inquinati; e che tentano, perché ne hanno la possibilità, di sottrarsi al loro impatto per brevi periodi, come il week-end o le vacanze, alla ricerca di aria, acque e paesaggi meno compromessi. Ma la maggioranza degli abitanti di questa terra questa possibilità non ce l’ha; come non ha la possibilità di scegliere gli alimenti, l’acqua o la casa e si deve accontentare di ciò che è, quando lo è, alla sua portata.
Le diseguaglianze mostruose che affliggono la popolazione mondiale e che pregiudicano il suo futuro non sono sicuramente riconducibili soltanto al fattore ambiente; ma l’ambiente incide su di esse, e sulle dinamiche che le caratterizzano, molto più di quanto ci abbia insegnato a individuarle l’approccio ai problemi sociali sganciato dall’analisi di quelli ambientali proprio della cultura affermatasi prima in occidente, e poi in tutto il mondo, fondata sulla contrapposizione, e non sulla integrazione, tra uomo e natura.

















In questa cultura il concetto di giustizia – e ingiustizia – ambientale è entrato di recente, ed è stato sviluppato contestualmente alle proteste e alle rivolte di comunità urbane emarginate o discriminate per ragioni economiche o razziali, che vedevano i territori in cui erano state relegate dallo sviluppo urbano venir scelte come sede degli interventi più impattanti: fabbriche inquinanti, discariche, inceneritori, depuratori, autostrade urbane, ecc. Lì il contrasto tra l’ambiente curato e, per quanto possibile, salvaguardato in cui avevano la loro residenza i ceti più privilegiati, da un lato, e le aree elette a discariche tanto degli “scarti umani” che di quelli industriali, dall’altro, era evidente e diventava sempre più intollerabile.
Ma in altre culture, che avevano mantenuto per secoli o millenni un rapporto più stretto con l’ambiente naturale in cui e di cui vivevano, la convinzione che la convivenza sociale tra i membri di una comunità su basi paritarie, cioè la giustizia sociale, fosse indissolubilmente legata al rispetto della natura e dei suoi cicli non era mai venuta meno. Questo approccio sta diventando oggi sentire comune tra un numero crescente di uomini e donne impegnate nelle battaglie più diverse contro le diseguaglianze sociali, lo sfruttamento e l’oppressione. E non a caso è il centro del più importante documento politico di questo inizio di secolo: l’enciclica Laudato sì di papa Francesco.
La connessione tra giustizia ambientale (il rispetto della natura e dei suoi cicli) e giustizia sociale (la lotta contro le diseguaglianze, lo sfruttamento è l’oppressione) è un paradigma destinato a cambiare dalle radici la cultura sociale e il progetto di un mondo diverso. Qualcosa di questi temi, il rapporto tra le diseguaglianze sociali e il degrado ambientale, la traduzione in iniziative e progetti concreti la lotta contro i cambiamenti climatici che a parole tutti condividono, il rispetto dell’ambiente di tutti, e soprattutto di quello degli ultimi sta ispirando l’agire politico dell’establishment economico, politico o mediatico europeo?
Neanche parlarne.

Guido Viale

fonte:  https://comune-info.net/