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Degrowth Day – Prendersi cura del cambiamento: la nostra decrescita è intersezionale!



Il 5 giugno 2021 si svolge la terza Giornata mondiale della decrescita sul tema della cura. Corinna Dengler e Giacomo D’Alisa approfondiscono la centralità dell’assistenza per la decrescita.

La decrescita è una rivendicazione di attivismo e politica, supportata dalla ricerca accademica, che mira a garantire il benessere umano globale entro i confini planetari. La decrescita problematizza l’interconnessione dei sistemi di dominio come le relazioni sociali di sfruttamento con la natura, il patriarcato, la colonialità / razzismo e le relazioni di classe. Nel tentativo di avventurarsi oltre queste relazioni di potere, costruire futuri alternativi e un sistema ecologicamente sano e socialmente giusto, la decrescita è anti-patriarcale, anticapitalista e decoloniale. Un approccio intersezionale di decrescita femminista prevede una società con differenti relazioni e ruoli di genere, diversa distribuzione del lavoro pagato e non retribuito tra tutti i membri della società, differenti interazioni culturali e anche differenti percorsi co-evolutivi tra specie umana e non umana.

La decrescita è un insieme di discorsi e pratiche che mirano a guidare la trasformazione della società mettendo al centro della visione politica la cura per l’uomo e l’ambiente, nonché la vulnerabilità della vita. Gran parte del lavoro socialmente necessario viene svolto in maniera non retribuita dalle donne, ai margini del lavoro formale. Crescere figli, prendersi cura di malati e anziani e fare i lavori domestici – riassunti come lavoro di cura, lavoro riproduttivo o riproduzione sociale – sono, nel nostro attuale sistema economico, femminizzati, invisibilizzati, svalutati e spesso esternalizzati lungo il nesso di classe-razza-genere . La pandemia Covid-19 ha reso ancora più evidente ciò che le femministe hanno sostenuto a lungo, vale a dire che il lavoro di assistenza – in particolare il lavoro di assistenza diretta che implica una relazione tra un caregiver e un assistente – è il fondamento della nostra economia e società.

Il concetto di cura può essere esteso anche alla cura dell’ambiente. Ad esempio, possiamo considerare il ruolo inestimabile che i lavoratori di sussistenza svolgono nel fornire le condizioni biofisiche per la riproduzione umana, mantenendo così in vita il mondo. È necessario riconoscere l’importanza che il lavoro di cura ha per il benessere delle persone e degli ecosistemi in tutte le società. Questo lavoro non è solo domestico o fornito tramite il mercato o lo stato, ma è anche un lavoro comunitario ed ecologico. Il lavoro di cura si differenzia strutturalmente dalle altre forme di lavoro, perché include una relazione interpersonale tra soggetti ed è quindi intrinsecamente relazionale. La relazione interdipendente tra il caregiver e il curante è solitamente caratterizzata dall’emotività ed è spesso basata su relazioni di potere asimmetriche, dipendenza della persona che riceve l’assistenza e quindi anche vulnerabilità.



Adottando un approccio che comprenda l’intero corso della vita, è fondamentale riconoscere che la dipendenza dall’assistenza non è eccezionale, ma piuttosto un denominatore comune con cui tutte le nostre vite iniziano e con cui in maggioranza finiscono. Durante tutto il corso della vita, ci sono fasi in cui avremo bisogno di ricevere o essere in grado di prestare assistenza. Una vita senza dolore e libera da ogni tipo di obbligo di cura è la promessa del moderno mondo capitalista occidentale, ma questa diventa una realtà solo in casi eccezionali e rari, a costo di sfruttamento sistematico e disuguaglianza. Per gli studiosi-attivisti della decrescita, la materialità del corpo si accompagna alla vulnerabilità immanente di ciò che è vivo e mostra la condizione di interdipendenza ed eco-dipendenza dell’esistenza. In linea con ciò, la vita che i decrescenti si impegnano a sostenere non aspira a essere un’emancipazione chimerica dalla natura, dal corpo e / o dalle interdipendenze attente, come fa il progetto coloniale civilizzatore della modernità capitalista. Ciò implica mettere in discussione i confini di un’epistemologia moderna capitalista che concettualizza un agente sempre autonomo, egoista e razionale come suo attore centrale. Piuttosto, come studiosi-attivisti della decrescita, dovremmo riconoscere che la vita dipende da una miriade di relazioni e interdipendenze, e che gli homines oeconomici e gli eroi solitari non sono altro che una finzione andro e antropocentrica.

Centrare la cura e la sostenibilità della vita è fondamentale non solo per superare la crisi sociale, ecologica, economica e assistenziale che molte persone affrontano, ma per promuovere una transizione ecosociale verso una società post-carbonio. La sostenibilità della vita è promossa da attività collaborative e relazionali necessarie per sostenere la vita nel tempo, comprese le sue dimensioni materiali e simboliche, le forme di vita umana e non umana e la loro interdipendenza. Questo è il motivo per cui la cura è il principale comune per istituire una società della decrescita che vuole sostenere la vita. In questo contesto, la Giornata mondiale della decrescita di quest’anno proclama: La cura è fondamentale per il futuro della decrescita che prevediamo, e nella cura del cambiamento, la nostra decrescita è intersezionale!

fonte: www.decrescitafelice.it/


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Curare la casa comune

Non abbiamo bisogno soltanto della manutenzione delle cose e dei territori, ma anche delle relazioni sociali, quelle sui cui si fonda la vita di una comunità, per evitare che le persone vengano trasformate in scarti quando non servono più. Per questo servono ovunque artigiani riparatori e conflitti per la tutela dei beni comuni. In realtà si tratta prima di tutto di rivedere la gerarchia che la cultura dominante ha stabilito tra lavoro produttivo, di merci, di valore di scambio, di profitti, e lavoro riproduttivo: “La cura della casa comune – scrive Guido Viale – esige che quella gerarchia venga invertita, messa sottosopra”

Acquapendente (Viterbo). Foto di Antonio Citti

Sulla cura della casa comune è il sottotitolo dell’enciclica Laudato sì di papa Francesco, un documento che l’associazione di cui faccio parte ha adottato come testo di riferimento fondamentale, assumendone anche il nome.

La casa comune è la Terra, il nostro pianeta, l’insieme di tutto ciò che vive, i monti, i fiumi, il mare; ma anche il cielo che è l’immagine di un universo infinito che ci si presenta come firmamento e che, come tale, ha ispirato tutto il pensiero e i sentimenti che in vario modo hanno cercato di “trascendere” le vicende che si svolgono sulla superficie del globo. Ma sono casa comune anche le città, le strade, i porti e gli aeroporti e l’infinita serie di manufatti che riempiono la nostra vita quotidiana, comprese tutte le forme di inquinamento che ci avvelenano. La casa comune è fatta di persone e di cose tra loro indissolubilmente connesse come tutto ciò che fa parte del nostro mondo e questo intreccio lega indissolubilmente la giustizia sociale, cioè la lotta per ridurre o eliminare le mostruose diseguaglianze che separano tra loro gli esseri umani, e la giustizia ambientale: il rispetto per le condizioni che rendono possibile la riproduzione della vita, degli ecosistemi, di tutte le specie di cui l’evoluzione ha dotato il pianeta.

Se i poveri della Terra sono le persone più colpite dal degrado dei territori che abitano e dell’ambiente in cui vivono, sono loro, anche, coloro che sono più interessati a risanarli, a tutelarli, a farli rivivere; e a operare per rendere compatibile e feconda la vita di entrambi.

La cura di cui parla l’enciclica è la manutenzione: delle persone, di tutto il vivente e di tutte le “cose”. Manutenzione innanzitutto delle relazioni tra gli esseri umani; quelle sui cui si fonda la vita di una comunità, per evitare che le persone vengano trasformate in “scarti” quando non servono più.

Ma manutenzione anche dei territori, degli ambienti e delle cose; anche di quelle che non ci piacciono o non ci servono più e di cui vorremmo sbarazzarci, ma di cui dobbiamo invece farci carico comunque, per impedire che continuino a danneggiare la vita.

Dall’operaio all’artigiano manutentore

Il più delle volte manutenzione vuol dire aggiustare, riparare, migliorare: sia un territorio che dei manufatti e delle apparecchiature. Il lavoro di chi è addetto a riparare non è un’attività seriale: ogni oggetto che gli si presenta di fronte è diverso dall’altro.

Per fare il suo mestiere l’artigiano riparatore deve sviluppare tre doti: la prima è una conoscenza tecnica acquisita in processi di istruzione formale o per affiancamento; la seconda è una forte “manualità”: saper mettere le mani dentro gli oggetti che ripara; la terza è un’attenzione, che a volte sconfina con l’amore, per l’oggetto di questa sua attività. Il tutto finalizzato a prolungare la vita delle cose a cui si applica, a dare loro una “seconda vita”, a consentirne il riuso secondo i principi dell’economia circolare, che non esclude innovazione e miglioramento, ma subordina entrambi alla salvaguardia del contesto. Tutte e tre quelle caratteristiche differenziano profondamente l’artigiano manutentore dall’operaio dell’era fordista impegnato alla catena di montaggio in un’attività seriale senza intelligenza, senza passione, senza abilità tecniche; ma anche dall’“uomo flessibile” dell’epoca post-fordista (come altro chiamarla?), totalmente deresponsabilizzato nei confronti di un lavoro precario, in un continuo cambiamento del “posto di lavoro”; ed entrambi impegnati a produrre o generare scarti lungo il percorso del loro prodotto, nel contesto di economia lineare che saccheggia le risorse dell’ambiente per restituirgliele sotto forma di rifiuti. Per questo l’artigiano manutentore è il paradigma di una nuova “civiltà”, di un nuovo modo di rapportarsi con il mondo.

Quelle caratteristiche, che è facile rilevare nell’attività dell’artigiano riparatore – anche se pochi vi prestano attenzione – sono le stesse che dovrebbero presiedere alla manutenzione delle relazioni; anch’essa richiede conoscenza, studio del contesto, visione, basi di ogni vera politica; poi buone pratiche, frequentazione effettiva delle persone, soprattutto di quelle diverse da noi, che mettono alla prova la nostra capacità di comprenderle e relazionarci con loro; infine attenzione (se non amore) per la vicenda umana di ciascuno: ognuna diversa da tutte le altre, tanto da richiedere ogni volta di cambiare il nostro modo di rapportarci con loro.

Manutenzione delle cose, e di un territorio, e manutenzione delle relazioni tra le persone si rafforzano reciprocamente: una comunità si costituisce solo in un rapporto aperto e non esclusivo con un territorio dato, con il suo patrimonio di risorse naturali e di lasciti storici, sia fisici (monumenti e opere d’arte) che immateriali, cultura e tradizioni. Ma ogni territorio rinasce e si riqualifica solo se una comunità – non il singolo individuo, e nemmeno un’impresa o un gruppo di imprese a scopo di lucro – lo prende in carico, ne fa la condizione della propria costituzione.

Bene comune beni comuni non sono la stessa cosa

La casa comune è un bene comune – anzi, un insieme di beni comuni – che non appartiene a nessuno e di cui ciascuno ha ricevuto in prestito una parte, grande o piccola, o anche minima, che dovrà comunque restituire in buone condizioni, o possibilmente migliorata, alla “generazione futura”.

“Bene comune” – al singolare e con la maiuscola – e beni comuni non sono la stessa cosa. Il primo è un concetto etico di cui ciascuno dà una interpretazione in base ai suoi principi; il secondo è un concetto giuridico, se regolato da una norma, o politico, se reso operativo dall’iniziativa di un raggruppamento sociale più o meno ampio. Il primo rimanda alla ricerca di un’armonia di cui si presuppone la realizzabilità; il secondo rimanda al conflitto per impedire l’appropriazione privata – o anche pubblica, nel senso di statuale – di una risorsa, o per rivendicarne la condivisione.

Senza conflitto non possono esserci beni comuni: nessuno, secoli fa, pensava che l’acqua, o l’aria, o il cielo, potessero essere contesi; oggi di fronte al tentativo di appropriarsene (privatizzando l’acqua, mettendo sul mercato il diritto di inquinare l’aria, o occupando un’orbita terrestre con un satellite), il conflitto contro queste pratiche le trasforma in beni comuni. Tutto ciò fa sì che il confine tra i beni comuni e quelli che non lo sono ancora, o non lo sono più, sia mobile e non possa essere fissato una volta per sempre.

La cura della casa comune ci porta anche a rivedere la gerarchia che la cultura dominante ha stabilito – da parecchi secoli a questa parte; sicuramente dall’avvento della modernità, ovvero dalla nascita del capitalismo – tra lavoro produttivo, di merci, di valore di scambio, di profitti, e lavoro riproduttivo: non solo della vita biologica, ma anche delle relazioni sociali, della comunità. Il lavoro riproduttivo è cura: cura della casa comune; o di quella parte di essa che ci è dato di raggiungere, sempre che la visione che presiede ad essa sia aperta, proiettata verso l’esterno, l’altro, e verso l’avvenire, la “generazione futura”. Il lavoro produttivo, invece, è per lo più improntato all’incuria: della salute e della vita di chi vi è forzosamente impegnato; delle persone che subiscono gli impatti negativi dei processi produttivi o dei prodotti a cui essi mettono capo; dell’ambiente e della vita. La cura della casa comune esige che quella gerarchia venga invertita; messa sottosopra.

fonte: comune-info.net


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La cura esiste

C’è una società fatta di relazioni, giustizia sociale, tutela ambientale, l’esatto contrario della visione e dell’agenda di un Governo e di un’Europa troppo intente e rassicurare mercati e investitori, perché il profitto non si tocca e il debito va onorato. Sabato 10 aprile, l’hanno messa in mostra, quella società, oltre 30 manifestazioni-performance tenute in 20 città italiane, da Aosta a Catanzaro, per promuovere le proposte del Recovery Planet. Per il pomeriggio del 26 aprile, in occasione del passaggio parlamentare del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, la Società della Cura sarà in piazza Montecitorio per un nuovo appuntamento. L’obiettivo di questa seconda tappa di una mobilitazione che vuole crescere è far sentire dalla piazza la voce dell’Italia che non ha più voglia di aspettare e di essere considerata un simpatico orpello delle decisioni che contano

Foto tratta dal Fb 

Una cura esiste, per questa società malata di profitto, e il principio attivo sono i volti e le intelligenze di quelle donne e quegli uomini che, nella giornata del 10 aprile, hanno animato le piazze reali e virtuali del nostro Paese.

Oltre 30 presidi, manifestazioni, performance in più di 20 città italiane, da Aosta a Catanzaro, passando per Firenze, Roma, Venezia dove i movimenti italiani che animano la Società della Cura, hanno ricominciato a prendere parola nonostante le limitazioni di una pandemia che sembra non voler mollare la presa.

La cura esiste, ed è una società fatta di relazioni, giustizia sociale, tutela ambientale, l’esatto contrario della visione e dell’agenda di un Governo e di un’Europa troppo intente e rassicurare mercati e investitori, perché il profitto non si tocca e il debito va onorato.

C’è una faglia di Sant’Andrea che divide il Paese legale dal Paese reale, e si coagula in numeri, dati e decisioni politiche. Dal febbraio 2020 quasi un milione di persone hanno perso il posto di lavoro, in gran parte giovani e donne, nella migliore delle tradizioni di un sistema di valori patriarcale, arretrato, senza visione del futuro.

I giovani e le intelligenze dei Fridays for Future e di Extinction Rebellion, anche loro ad animare un’Italia disorientata, ci ricordano che viviamo tutti con un metronomo sopra la testa che si chiama cambiamento climatico, inesorabile, ma non inevitabile se solo si mettessero in campo politiche degne di questo nome.

Alle proposte della società civile e del Recovery Planet, l’agenda di società del futuro redatta grazie al lavoro certosino e continuato di centinaia di persone all’interno della convergenza, il Governo ha risposto con le nuove concessioni estrattive di metano e di petrolio, perché è business, bellezza, e prima di noi e di voi viene Eni, in caso non l’aveste ancora capito.

Quei 190 e rotti miliardi tra prestiti e finanziamenti che stanno sotto al nome pomposo di Recovery and Resilience Facility, di cui il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ne è l’italiana conseguenza, arriveranno sulla base di progetti e investimenti decisi escludendo a priori la società civile, invitata al pranzo di gala degli Stati Generali romani dello scorso luglio come semplice comparsa, e ascoltata come da prassi nelle audizioni alle Camere.



L’ascolto è dovuto, la presa in carico un po’ meno, se è vero che all’interno del PNRR troveranno conforto anche le filiere militari e quelle insostenibili, le infrastrutture e il cemento, perché il PIL deve essere nutrito, e chi se ne importa se il 91% dei Comuni italiani, e decine di milioni di persone, sono a rischio dissesto idrogeologico. Un’ipoteca sul futuro, considerata la frequenza di aumento di eventi atmosferici estremi che colpisce il nostro Paese, se non il mondo intero.

Le oltre 400 pagine del PNRR troveranno posto sugli scranni di Montecitorio e di Palazzo Madama i prossimi 26 e 27 aprile, presentate dal Presidente del Consiglio Draghi, prima del loro invio alla Commissione Europea entro il 30 aprile.

Da lì in poi si aprirà un negoziato con l’Unione Europea, che spulcerà le proposte italiane e dei rimanenti 26 Paesi dell’Unione proponendo cambiamenti, riletture, riscritture.

Il 26 aprile, dalle 15 in poi, proprio in occasione del passaggio parlamentare, la Società della Cura sarà in piazza Montecitorio, per far sentire dalla piazza la voce dell’Italia che non ha più voglia di aspettare e di essere considerata simpatico orpello delle decisioni che contano.

La risposta alle pagine del Recovery Plan saranno i capitoli del Recovery Planet, e alle pretese dei capitani di industria verranno contrapposte le proposte e richieste per una società diversa, capace di cura e di senso.

Il 26 aprile non sarà un punto di arrivo, ma una tappa dopo le mobilitazioni di novembre, dicembre e del 10 aprile verso l’ampliamento di una convergenza di movimenti che non si vedeva da anni, e che guarda al ventennale del G8 genovese e alle piazze del prossimo autunno come passaggi necessari per rimettere le parole conflitto e alternativa al posto giusto nel dizionario della politica italiana.

fonte: comune-info.net



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LA CURA DELLA CASA COMUNE


Due giorni alla scuola estiva "Human Ecology - La cura della casa comune", tra le nebbie alpine di Champorcher, nel parco del Mont Avic (Aosta): un gruppo di una ventina di partecipanti molto competenti e coinvolti, docenti di scuole e università, ma pure con la curiosità e i punti di vista di professioni variegate. Ne è nato questo video breve ma intenso, sul nostro futuro.



Luca Mercalli