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Ridare un’anima alle cose. Una nuova cultura della cura per una vera economia circolare

ANNULLATO! Repair Cafe a Narni Artigianato - progetto RIDINARNI - domenica 19 settembre 2021
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Repair Cafe a Narni Artigianato - progetto RIDINARNI - domenica 19 settembre 2021 - dalle 15.30
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Gino Chabod, l’artigiano del legno che insegna ai bambini il “saper fare”
La storia di Gino Chabod, spirito ribelle valdostano, che da quasi trent'anni educa i bambini alla manualità, alla cooperazione e al senso di comunità attraverso le sue due falegnamerie didattiche: una mobile attrezzata su un furgone; l’altra allestita ai Campi di Borla, la splendida fattoria didattica del piacentino dove vive in semplicità volontaria. E dove sogna di poter tramandare il mestiere a un giovane.
Lo incontro in un ventoso pomeriggio di primavera in una delle sue due falegnamerie per bambini: quella fissa, allestita presso la fattoria didattica (e agriturismo) I Campi di Borla, piccola perla sulle colline nei pressi di Salsomaggiore Terme, dove vive praticando la semplicità volontaria e l’autoproduzione assieme alla compagna Donatella Mondin, fondatrice e anima di questo luogo incantato e accogliente, immerso nella verdeggiante natura della Val d’Arda, nel piacentino.



Finché una notte, a metà anni ’90, per dirla con Sepulveda, il richiamo dell’aria diventa improvvisamente più forte della paura di cadere. Quella notte Gino si affaccia al balcone di casa e guarda dall’alto il suo furgone da lavoro, sognante. A quasi 40 anni è finalmente pronto a spiegare le sue ali. Nei giorni successivi allestisce, proprio sul suo furgone, un laboratorio mobile per bambini con tutti i crismi, in grado poi di superare anche le nuove, stringenti norme sulla sicurezza della celebre legge 626.
Nasce così la falegnameria didattica ambulante che negli anni a seguire presenterà e diffonderà, prima nelle scuole della Val d’Aosta e poi, dopo il taglio dei fondi alle scuole, in tutto il Nord Italia, dove in quel periodo iniziano a fiorire eventi e festival dedicati alla sostenibilità e al cambio di paradigma.
Fra questi eventi c’è anche Fa’ la cosa giusta, dove Gino viene invitato tutti gli anni a portare i suoi banchi, gestendo in totale libertà lo spazio che la fiera riserva ai bambini. E dove nel 2010 conosce Donatella, che ha da poco aperto – sola con i sue due figli – una fattoria didattica sulle colline del piacentino. Qualche mese dopo Gino è proprio lì, ai Campi di Borla, con le maniche tirate su, ad attrezzare la sua seconda falegnameria per bambini. più equipaggiata di quella ambulante, fiore all’occhiello di una fattoria che – dopo le chiusure forzate degli ultimi tempi – oggi è tornata ad accogliere bambini e preadolescenti da tutta Italia.
Quando gli chiedo se costruire barche, aeroplanini, bambole e animali da più di 25 anni non sia un po’ come saldare tutti i giorni pezzi d’auto in una catena di montaggio, Gino risponde pacato ma deciso: «Se fra le mansioni di un saldatore ci fosse insegnare il mestiere a dei bambini, forse quel lavoro non sarebbe più considerato alienante». In effetti è proprio il rapporto con i bambini il plus che continua a motivarlo. «Quando metti insieme la manualità e i bambini non hai un problema di ripetitività del lavoro. Le idee nuove vengono da sole, specialmente da loro», chiosa.


Gli chiedo come si spieghi che la possibilità dell’autocostruzione riesca ad appassionare così tanto dei bambini abituati alle cose già pronte, che si possono comprare e utilizzare in un attimo. «Io credo – mi risponde – che ogni umano abbia una tendenza ancestrale verso la ricerca di un equilibrio più naturale tra il pensare a un oggetto e realizzarlo con le proprie mani. Forse è per questo che il cervello riscopre questa possibilità non appena gliene si dà la possibilità. Ho tantissimi ricordi di bambini felici dopo aver costruito da soli, senza spendere un centesimo, oggetti piccoli, semplici, senza alcuna dote magica quale muoversi, emettere suoni o lampeggiare».
A conclusione del nostro incontro, gli domando se si sente più artigiano o artista. Lui però glissa e preferisce confidarmi il suo ultimo sogno. Ora che sta invecchiando gli piacerebbe trovare un erede, un giovane apprendista che non creda solo agli attrezzi che impugnerà, ma soprattutto alla valenza politica del suo messaggio. «Ho imparato una serie di cose legate a un sapere che rischiava di andar perso, ma non l’ho certo fatto per guadagnare più soldi. L’ho fatto nell’attesa di tornare utile a indicare la strada il giorno in cui capiremo che quella che il mondo sta percorrendo ora non ci porta da nessuna parte». E chissà che questo articolo non si trasformi in un piccolo messaggio in bottiglia lanciato nel mare di coloro che, al momento delle scelte decisive sulla propria vita, decideranno di andare anch’essi controcorrente, come ha fatto lui.
Usciti dalla falegnameria, noto che il vento ha cessato di soffiare. Gino insiste mentre mi accompagna alla mia auto. «I ragazzi che hanno solo una formazione universitaria spesso rinunciano a essere protagonisti della loro vita. Finiscono per aggrapparsi alla convinzione che qualcuno debba offrirgli un lavoro. Io invece vorrei trasmettere l’idea che ciascuno di noi può costruirsi la sua strada con le proprie forze, senza dipendere dagli altri».
Entro in macchina con una bizzarra sensazione di incompletezza dall’origine ignota. Metto in moto e inizio a percorrere la sterrata in salita che dalla fattoria mi porterà sulla strada principale. Ma all’improvviso realizzo, richiamato dalla mia curiosità insoddisfatta. Allora tiro il freno a mano, apro la portiera, salgo sul predellino e guardo giù verso Gino, distante non più di venti metri. Gli grido: «Ma quindi, alla fine, ti senti più artigiano o più artista?». Risponde facendo roteare un dito accanto all’orecchio, come a scusarsi per il vento che gli impedisce di sentire. Non faccio in tempo a ribattere “guarda che il vento non c’è più”. Lui è più lesto. Mi saluta con quel suo sorriso calmo, sventolando entrambe le mani. Mani grandi di artigiano abitate dallo spirito ribelle di un artista.
fonte: www.italiachecambia.org
Lo incontro in un ventoso pomeriggio di primavera in una delle sue due falegnamerie per bambini: quella fissa, allestita presso la fattoria didattica (e agriturismo) I Campi di Borla, piccola perla sulle colline nei pressi di Salsomaggiore Terme, dove vive praticando la semplicità volontaria e l’autoproduzione assieme alla compagna Donatella Mondin, fondatrice e anima di questo luogo incantato e accogliente, immerso nella verdeggiante natura della Val d’Arda, nel piacentino.

Gino e Donatella
L’aspetto etereo e quasi stralunato, la barba bianca, la voce felpata, il sorriso pacato, le grandi mani sempre raccolte come per scongiurare la fuga del talento che le abita, Gino è una di quelle persone a cui difficilmente attribuiresti uno spirito ribelle. E invece è proprio questo spirito ad averlo animato fin dall’adolescenza ad andare controcorrente, sebbene con tutti i dubbi e le correzioni di rotta del caso, in un’epoca – quella della provincia italiana degli anni ’60 – caratterizzata da forte espansione economica e (pertanto) da una certa diffidenza per chi si opponeva al flusso prevalente.
Nato nel 1955 in un villaggio di montagna della Val D’Aosta allora popolato da gente semplice, dalla cultura minima, ancora avvezza alla convivenza con gli animali da cortile piuttosto che con altri umani, nemmeno Gino è stato inizialmente insensibile al fascino della modernità. Compiuti i 13 anni, infatti, si iscrive alla scuola per elettrotecnici dell’Olivetti a Ivrea, come tanti giovani di paese negli anni ’60 attratti dal mito del posto fisso in fabbrica e dal sogno di emancipazione che la vita in un’area industriale sembrava garantire.
Nel caso di Gino, tuttavia, questa fase dura poco. Quella che immaginava essere una possibilità di emancipazione, infatti, per lui si rivela ben presto una forma di alienazione. «Sentivo la mancanza della manualità vera, della sensibilità ai materiali che avevo appreso nell’infanzia, quando razzolavo libero sui prati e mi perdevo nei boschi», confessa. E così a 18 anni, finita la scuola, sceglie di “tornare a pascolare le capre”. Si iscrive prima a un corso per diventare casaro ad Aosta e poi, partito per il servizio militare, scopre per puro caso la sua missione di vita.
L’aspetto etereo e quasi stralunato, la barba bianca, la voce felpata, il sorriso pacato, le grandi mani sempre raccolte come per scongiurare la fuga del talento che le abita, Gino è una di quelle persone a cui difficilmente attribuiresti uno spirito ribelle. E invece è proprio questo spirito ad averlo animato fin dall’adolescenza ad andare controcorrente, sebbene con tutti i dubbi e le correzioni di rotta del caso, in un’epoca – quella della provincia italiana degli anni ’60 – caratterizzata da forte espansione economica e (pertanto) da una certa diffidenza per chi si opponeva al flusso prevalente.
Nato nel 1955 in un villaggio di montagna della Val D’Aosta allora popolato da gente semplice, dalla cultura minima, ancora avvezza alla convivenza con gli animali da cortile piuttosto che con altri umani, nemmeno Gino è stato inizialmente insensibile al fascino della modernità. Compiuti i 13 anni, infatti, si iscrive alla scuola per elettrotecnici dell’Olivetti a Ivrea, come tanti giovani di paese negli anni ’60 attratti dal mito del posto fisso in fabbrica e dal sogno di emancipazione che la vita in un’area industriale sembrava garantire.
Nel caso di Gino, tuttavia, questa fase dura poco. Quella che immaginava essere una possibilità di emancipazione, infatti, per lui si rivela ben presto una forma di alienazione. «Sentivo la mancanza della manualità vera, della sensibilità ai materiali che avevo appreso nell’infanzia, quando razzolavo libero sui prati e mi perdevo nei boschi», confessa. E così a 18 anni, finita la scuola, sceglie di “tornare a pascolare le capre”. Si iscrive prima a un corso per diventare casaro ad Aosta e poi, partito per il servizio militare, scopre per puro caso la sua missione di vita.

I Campi di Borla
Siamo nel 1976 e il 21enne Gino viene mandato dal suo reparto ad aiutare i terremotati del Friuli. Assegnato alla realizzazione delle tettoie delle mense per i campi tenda, mentre alcuni volontari intrattengono i bambini della zona, si ritrova – nemmeno si ricorda come – a intagliare improvvisati giochini di legno con i suoi attrezzi di fortuna.
La cosa si ripete nei giorni successivi e così, giochino dopo giochino, l’entusiasmo dei piccoli ospiti del campo non passa inosservato. Se ne accorgono le maestre della scuola del paese, le quali chiedono ai militari che quel ragazzone alto e taciturno continui a regalare sorrisi ai bambini colpiti dalla tragedia anche dopo la fine del lavoro alle mense. Gino ricorda con un pizzico di commozione la determinazione del suo capitano a superare le difficoltà burocratiche: «Dovettero scomodare un generale di corpo d’armata per darmi il permesso di andare ogni giorno nel campo dei bambini».
Da quell’esperienza nasce per la prima volta in Gino l’idea di una falegnameria per bambini attraverso la quale trasmettere loro l’identità collettiva e il senso di comunità che aveva appreso da piccolo nel suo villaggio in montagna, dove ciascun cittadino aveva capacità manuali e cultura della responsabilità tali da potersi occupare del pezzettino di beni comuni (acquedotti, boschi, pascoli, ecc.) che gli veniva assegnato. Non a caso uno dei giochi più replicati in quelle difficili settimane in Friuli era ricostruire il paese distrutto con tutte le case, le attività e le infrastrutture che c’erano prima, utilizzando delle miniature.
Sembra fatta, dunque. E invece no. Perché la paura di volare per il giovane Gino è ancora troppo forte. Dopo la fine del servizio militare, al ritorno in Val d’Aosta, a prevalere è di nuovo il richiamo delle certezze che ancora negli anni ’70 garantiva la vita convenzionale. Gino si associa a un coetaneo che aveva iniziato a fare il tornitore del legno e con lui apre una falegnameria. Eppure, per tutti i successivi 16 anni, fra un mobile personalizzato e l’altro, mentre è al lavoro per fabbricare serramenti, scale e chalet, non passa giorno senza sentire il fuoco sacro della missione che lo chiama a mollare tutto per dedicarsi ai “suoi” bambini.
Siamo nel 1976 e il 21enne Gino viene mandato dal suo reparto ad aiutare i terremotati del Friuli. Assegnato alla realizzazione delle tettoie delle mense per i campi tenda, mentre alcuni volontari intrattengono i bambini della zona, si ritrova – nemmeno si ricorda come – a intagliare improvvisati giochini di legno con i suoi attrezzi di fortuna.
La cosa si ripete nei giorni successivi e così, giochino dopo giochino, l’entusiasmo dei piccoli ospiti del campo non passa inosservato. Se ne accorgono le maestre della scuola del paese, le quali chiedono ai militari che quel ragazzone alto e taciturno continui a regalare sorrisi ai bambini colpiti dalla tragedia anche dopo la fine del lavoro alle mense. Gino ricorda con un pizzico di commozione la determinazione del suo capitano a superare le difficoltà burocratiche: «Dovettero scomodare un generale di corpo d’armata per darmi il permesso di andare ogni giorno nel campo dei bambini».
Da quell’esperienza nasce per la prima volta in Gino l’idea di una falegnameria per bambini attraverso la quale trasmettere loro l’identità collettiva e il senso di comunità che aveva appreso da piccolo nel suo villaggio in montagna, dove ciascun cittadino aveva capacità manuali e cultura della responsabilità tali da potersi occupare del pezzettino di beni comuni (acquedotti, boschi, pascoli, ecc.) che gli veniva assegnato. Non a caso uno dei giochi più replicati in quelle difficili settimane in Friuli era ricostruire il paese distrutto con tutte le case, le attività e le infrastrutture che c’erano prima, utilizzando delle miniature.
Sembra fatta, dunque. E invece no. Perché la paura di volare per il giovane Gino è ancora troppo forte. Dopo la fine del servizio militare, al ritorno in Val d’Aosta, a prevalere è di nuovo il richiamo delle certezze che ancora negli anni ’70 garantiva la vita convenzionale. Gino si associa a un coetaneo che aveva iniziato a fare il tornitore del legno e con lui apre una falegnameria. Eppure, per tutti i successivi 16 anni, fra un mobile personalizzato e l’altro, mentre è al lavoro per fabbricare serramenti, scale e chalet, non passa giorno senza sentire il fuoco sacro della missione che lo chiama a mollare tutto per dedicarsi ai “suoi” bambini.

Finché una notte, a metà anni ’90, per dirla con Sepulveda, il richiamo dell’aria diventa improvvisamente più forte della paura di cadere. Quella notte Gino si affaccia al balcone di casa e guarda dall’alto il suo furgone da lavoro, sognante. A quasi 40 anni è finalmente pronto a spiegare le sue ali. Nei giorni successivi allestisce, proprio sul suo furgone, un laboratorio mobile per bambini con tutti i crismi, in grado poi di superare anche le nuove, stringenti norme sulla sicurezza della celebre legge 626.
Nasce così la falegnameria didattica ambulante che negli anni a seguire presenterà e diffonderà, prima nelle scuole della Val d’Aosta e poi, dopo il taglio dei fondi alle scuole, in tutto il Nord Italia, dove in quel periodo iniziano a fiorire eventi e festival dedicati alla sostenibilità e al cambio di paradigma.
Fra questi eventi c’è anche Fa’ la cosa giusta, dove Gino viene invitato tutti gli anni a portare i suoi banchi, gestendo in totale libertà lo spazio che la fiera riserva ai bambini. E dove nel 2010 conosce Donatella, che ha da poco aperto – sola con i sue due figli – una fattoria didattica sulle colline del piacentino. Qualche mese dopo Gino è proprio lì, ai Campi di Borla, con le maniche tirate su, ad attrezzare la sua seconda falegnameria per bambini. più equipaggiata di quella ambulante, fiore all’occhiello di una fattoria che – dopo le chiusure forzate degli ultimi tempi – oggi è tornata ad accogliere bambini e preadolescenti da tutta Italia.
Quando gli chiedo se costruire barche, aeroplanini, bambole e animali da più di 25 anni non sia un po’ come saldare tutti i giorni pezzi d’auto in una catena di montaggio, Gino risponde pacato ma deciso: «Se fra le mansioni di un saldatore ci fosse insegnare il mestiere a dei bambini, forse quel lavoro non sarebbe più considerato alienante». In effetti è proprio il rapporto con i bambini il plus che continua a motivarlo. «Quando metti insieme la manualità e i bambini non hai un problema di ripetitività del lavoro. Le idee nuove vengono da sole, specialmente da loro», chiosa.

Una creazione dei bambini
Ma le soddisfazioni non vengono solo dalle forme che riesce a prendere il legno una volta sollecitato dalla creatività dei piccoli. Più volte gli è capitato, infatti, che ragazzini problematici delle medie, di quelli che dopo cinque minuti di lezione frontale già cominciano a dare in escandescenze, con lui si siano trasformati in angioletti rispettosi e curiosi.
Pur preferendo lavorare con le scuole materne (bambini di 3-5 anni), paradossalmente è proprio con i più grandi che Gino conserva il suo ricordo più bello. «Era un campo diurno per adulti disabili, durante il quale i partecipanti hanno costruito giochi di società di grandi dimensioni; a un certo punto i disabili hanno iniziato a giocare con tutti i normodotati presenti, sentendosi per una volta protagonisti e spettatori allo stesso tempo».
Mentre le attività possibili nella falegnameria ambulante sono abbastanza circoscritte, ai Campi di Borla Gino può permettersi di lavorare con diverse fasce d’età e per periodi di tempo più lunghi, visto che la fattoria può anche ospitare. Ciò gli permette anche di diversificare le attività proposte, incrementandole con quelle più adatte alla preadolescenza – dal taglio di piccoli alberi alle staccionate per i sentieri, dalla rimozione dei tronchi all’edilizia con terra cruda, fino al lavoro con i mattoni, la costruzione di casette, ecc. – per un’esperienza che si rivela più completa di quella della sola falegnameria.
Gino ci descrive la settimana-tipo ai Campi di Borla. Appena arriva un gruppo, si fa un piccolo calendario con i turni per cucinare, per servire, per fare le pulizie. «Sono attività simboliche, realizzate in maniera leggera e giocosa, ma tutte utilissime per educare alla manualità, alla cooperazione, e a non dare nulla per scontato», ci dice. Poi, ogni mattina dopo la colazione, parte un cerchio in cui si decide la suddivisione in gruppi. Uno dei gruppi si reca con lui in falegnameria, nel bosco o nell’orto (a seconda dell’attività prevista). L’altro gruppo aiuta invece nelle faccende domestiche, specie in cucina, dove Donatella insegna ai ragazzi a preparare un pranzo completo. Poi nel pomeriggio si invertono le attività dei gruppi.
«Quando restano una settimana, i bambini arrivano già con delle idee in testa», continua Gino. «Una bambina una volta ha realizzato il trombone della nonna in legno; una ragazzina ha fatto un piccolo telaio perfettamente funzionante; a un bambino che si era costruito un monopattino di legno scavato in un tronco hanno offerto 500 euro una volta rientrato a Milano, ma lui non l’ha voluto vendere».
Ma le soddisfazioni non vengono solo dalle forme che riesce a prendere il legno una volta sollecitato dalla creatività dei piccoli. Più volte gli è capitato, infatti, che ragazzini problematici delle medie, di quelli che dopo cinque minuti di lezione frontale già cominciano a dare in escandescenze, con lui si siano trasformati in angioletti rispettosi e curiosi.
Pur preferendo lavorare con le scuole materne (bambini di 3-5 anni), paradossalmente è proprio con i più grandi che Gino conserva il suo ricordo più bello. «Era un campo diurno per adulti disabili, durante il quale i partecipanti hanno costruito giochi di società di grandi dimensioni; a un certo punto i disabili hanno iniziato a giocare con tutti i normodotati presenti, sentendosi per una volta protagonisti e spettatori allo stesso tempo».
Mentre le attività possibili nella falegnameria ambulante sono abbastanza circoscritte, ai Campi di Borla Gino può permettersi di lavorare con diverse fasce d’età e per periodi di tempo più lunghi, visto che la fattoria può anche ospitare. Ciò gli permette anche di diversificare le attività proposte, incrementandole con quelle più adatte alla preadolescenza – dal taglio di piccoli alberi alle staccionate per i sentieri, dalla rimozione dei tronchi all’edilizia con terra cruda, fino al lavoro con i mattoni, la costruzione di casette, ecc. – per un’esperienza che si rivela più completa di quella della sola falegnameria.
Gino ci descrive la settimana-tipo ai Campi di Borla. Appena arriva un gruppo, si fa un piccolo calendario con i turni per cucinare, per servire, per fare le pulizie. «Sono attività simboliche, realizzate in maniera leggera e giocosa, ma tutte utilissime per educare alla manualità, alla cooperazione, e a non dare nulla per scontato», ci dice. Poi, ogni mattina dopo la colazione, parte un cerchio in cui si decide la suddivisione in gruppi. Uno dei gruppi si reca con lui in falegnameria, nel bosco o nell’orto (a seconda dell’attività prevista). L’altro gruppo aiuta invece nelle faccende domestiche, specie in cucina, dove Donatella insegna ai ragazzi a preparare un pranzo completo. Poi nel pomeriggio si invertono le attività dei gruppi.
«Quando restano una settimana, i bambini arrivano già con delle idee in testa», continua Gino. «Una bambina una volta ha realizzato il trombone della nonna in legno; una ragazzina ha fatto un piccolo telaio perfettamente funzionante; a un bambino che si era costruito un monopattino di legno scavato in un tronco hanno offerto 500 euro una volta rientrato a Milano, ma lui non l’ha voluto vendere».

Gli chiedo come si spieghi che la possibilità dell’autocostruzione riesca ad appassionare così tanto dei bambini abituati alle cose già pronte, che si possono comprare e utilizzare in un attimo. «Io credo – mi risponde – che ogni umano abbia una tendenza ancestrale verso la ricerca di un equilibrio più naturale tra il pensare a un oggetto e realizzarlo con le proprie mani. Forse è per questo che il cervello riscopre questa possibilità non appena gliene si dà la possibilità. Ho tantissimi ricordi di bambini felici dopo aver costruito da soli, senza spendere un centesimo, oggetti piccoli, semplici, senza alcuna dote magica quale muoversi, emettere suoni o lampeggiare».
A conclusione del nostro incontro, gli domando se si sente più artigiano o artista. Lui però glissa e preferisce confidarmi il suo ultimo sogno. Ora che sta invecchiando gli piacerebbe trovare un erede, un giovane apprendista che non creda solo agli attrezzi che impugnerà, ma soprattutto alla valenza politica del suo messaggio. «Ho imparato una serie di cose legate a un sapere che rischiava di andar perso, ma non l’ho certo fatto per guadagnare più soldi. L’ho fatto nell’attesa di tornare utile a indicare la strada il giorno in cui capiremo che quella che il mondo sta percorrendo ora non ci porta da nessuna parte». E chissà che questo articolo non si trasformi in un piccolo messaggio in bottiglia lanciato nel mare di coloro che, al momento delle scelte decisive sulla propria vita, decideranno di andare anch’essi controcorrente, come ha fatto lui.
Usciti dalla falegnameria, noto che il vento ha cessato di soffiare. Gino insiste mentre mi accompagna alla mia auto. «I ragazzi che hanno solo una formazione universitaria spesso rinunciano a essere protagonisti della loro vita. Finiscono per aggrapparsi alla convinzione che qualcuno debba offrirgli un lavoro. Io invece vorrei trasmettere l’idea che ciascuno di noi può costruirsi la sua strada con le proprie forze, senza dipendere dagli altri».
Entro in macchina con una bizzarra sensazione di incompletezza dall’origine ignota. Metto in moto e inizio a percorrere la sterrata in salita che dalla fattoria mi porterà sulla strada principale. Ma all’improvviso realizzo, richiamato dalla mia curiosità insoddisfatta. Allora tiro il freno a mano, apro la portiera, salgo sul predellino e guardo giù verso Gino, distante non più di venti metri. Gli grido: «Ma quindi, alla fine, ti senti più artigiano o più artista?». Risponde facendo roteare un dito accanto all’orecchio, come a scusarsi per il vento che gli impedisce di sentire. Non faccio in tempo a ribattere “guarda che il vento non c’è più”. Lui è più lesto. Mi saluta con quel suo sorriso calmo, sventolando entrambe le mani. Mani grandi di artigiano abitate dallo spirito ribelle di un artista.
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L’Italia ritorni alla sua vocazione agricola e artigianale

Nel seguire l’impossibile coesistenza di un sistema della crescita infinita in un pianeta dalle risorse finite, l’Italia ha stravolto la sua natura e vocazione. Scimmiottando i paesi anglosassoni si è pensato di competere sul piano della potenza industriale. Una gara che ci ha visto sempre rincorrere affannosamente anche per la mancanza di risorse interne di fonti fossili e ora per l’impossibilità di uscire economicamente vincitori da una competizione con paesi come la Cina.
Inoltre una industrializzazione senza freni e scrupoli, ha il non indifferente contraccolpo della distruzione ambientale, quindi delle nostre risorse e ricchezze. L’Italia infatti è storicamente un paese a vocazione agricola e artigianale. La capacità di produrre con la nostra inventiva e le nostre mani si riflette anche nelle bellezze artistiche che ci sono sulla penisola in una innumerevole quantità.
Non è certo un caso che l’Italia sia meta turistica ambita anche per le sue realizzazioni create da persone di una capacità artigianale eccezionale che erano lo specchio di una conoscenza diffusa nella popolazione. Che gli italiani siano ottimi artigiani dalla grande creatività è un fatto evidente. Inoltre la nostra ricchezza e varietà dal punto di vista agricolo e alimentare è testimoniata anche dal movimento Slow Food diffuso a livello internazionale. Dove se non in Italia una realtà con queste caratteristiche poteva nascere? Un paese dove cresce una varietà e qualità strepitosa di piante commestibili e alberi da frutto, dove in ogni angolo, anche il più remoto, c’è una specialità alimentare.
Tutto questo è stato progressivamente messo in pericolo dalla massiccia e costante importazione di “cinafrusaglie” e di cibo spazzatura prodotto da paesi che hanno una cultura e ricchezza del cibo neanche lontanamente paragonabile a quella italiana. Cibo e altri prodotti realizzati con prezzi ambientali e umani altissimi e quindi conseguentemente con costi irrisori. Come si fa a competere con chi utilizza milioni di lavoratori super sfruttati e pagati miserie e non mette in nessun conto i disastri ambientali che provoca nella realizzazione delle merci?
Tentare di competere su piani che ci vedono sconfitti in partenza, non solo è illusorio ma assai poco intelligente e per nulla lungimirante. Non è certo correndo la corsa alla produzione illimitata di merci, per lo più superflue e dannose per l’ambiente, che faremo un servizio al nostro paese che invece deve necessariamente ritrovare la sua inclinazione, la sua natura che è il saper fare e il saper coltivare. Artigianato, agricoltura e benessere quindi sono la risposta, laddove il nostro “saperci godere la vita” ci è invidiato proprio da quei paesi anglosassoni e non, continuamente protesi alla performance, al segno più, mentre la loro vita si consuma in grafici e numeri. Anche noi però rischiamo di non saperci più godere la vita in questa impossibile rincorsa alla “performance” che con la nostra natura e saggezza mediterranea, hanno ben poco a che vedere.
E se si ritiene che ritrovare la via dell’artigianato e dell’agricoltura sia impossibile, anacronistico, utopico, si valuti se è più realistico proseguire a sfruttare tutte le risorse possibili e immaginabili, produrre quantità incalcolabili e ingestibili di rifiuti, competere con il mondo per vendere qualsiasi cosa, crescere in una corsa sfrenata verso il nulla e con ciò ottenere solo due risultati: una vita impazzita priva di senso e una natura distrutta dal nostro agire che ci porterà all’inevitabile suicidio collettivo.
Quindi volenti o nolenti, anche a causa dell’esaurimento delle risorse e della catastrofe ambientale, bisognerà ritornare a quello che ci contraddistingue e in cui siamo grandi maestri: costruire una società a misura di persona il più possibile autosufficiente e con un forte tessuto artigianale ed agricolo. Agendo in questo modo si possono ridurre drasticamente le importazioni di merci superflue, spesso dannose e ambientalmente impattanti, considerato che tutto quello che arriva da lontano lascia una scia di inquinamento non indifferente. Cosa c’è poi di più bello che creare con le proprie mani o coltivare vedendo crescere e assaporare i propri alimenti? Si può in questa direzione calibrare e pianificare una industria utile e sostenibile, alimentata da fonti rinnovabili, per le quali, a differenza delle fonti fossili, abbiamo potenzialità enormi e che supporti i settori artigianale e agricolo biologico.
L’Italia può ridiventare un giardino fiorito pieno di creatività, saggezza e prelibatezze, dove finalmente vivere e non competere, dove aiutarsi, cooperare e non farsi la guerra, tanto alla fine non ci sarà nessun vincitore e saremo tutti perdenti. Abbiamo il nostro paese che è già potenzialmente un paradiso terrestre, bisogna solo riscoprirlo e riscoprire i nostri talenti e le nostre capacità. Possiamo diventare un faro internazionale per un cambiamento epocale, sta a noi renderlo possibile.
fonte: www.ilcambiamento.it
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Curare la casa comune
Non abbiamo bisogno soltanto della manutenzione delle cose e dei territori, ma anche delle relazioni sociali, quelle sui cui si fonda la vita di una comunità, per evitare che le persone vengano trasformate in scarti quando non servono più. Per questo servono ovunque artigiani riparatori e conflitti per la tutela dei beni comuni. In realtà si tratta prima di tutto di rivedere la gerarchia che la cultura dominante ha stabilito tra lavoro produttivo, di merci, di valore di scambio, di profitti, e lavoro riproduttivo: “La cura della casa comune – scrive Guido Viale – esige che quella gerarchia venga invertita, messa sottosopra”


Acquapendente (Viterbo). Foto di Antonio Citti
Sulla cura della casa comune è il sottotitolo dell’enciclica Laudato sì di papa Francesco, un documento che l’associazione di cui faccio parte ha adottato come testo di riferimento fondamentale, assumendone anche il nome.
La casa comune è la Terra, il nostro pianeta, l’insieme di tutto ciò che vive, i monti, i fiumi, il mare; ma anche il cielo che è l’immagine di un universo infinito che ci si presenta come firmamento e che, come tale, ha ispirato tutto il pensiero e i sentimenti che in vario modo hanno cercato di “trascendere” le vicende che si svolgono sulla superficie del globo. Ma sono casa comune anche le città, le strade, i porti e gli aeroporti e l’infinita serie di manufatti che riempiono la nostra vita quotidiana, comprese tutte le forme di inquinamento che ci avvelenano. La casa comune è fatta di persone e di cose tra loro indissolubilmente connesse come tutto ciò che fa parte del nostro mondo e questo intreccio lega indissolubilmente la giustizia sociale, cioè la lotta per ridurre o eliminare le mostruose diseguaglianze che separano tra loro gli esseri umani, e la giustizia ambientale: il rispetto per le condizioni che rendono possibile la riproduzione della vita, degli ecosistemi, di tutte le specie di cui l’evoluzione ha dotato il pianeta.
Se i poveri della Terra sono le persone più colpite dal degrado dei territori che abitano e dell’ambiente in cui vivono, sono loro, anche, coloro che sono più interessati a risanarli, a tutelarli, a farli rivivere; e a operare per rendere compatibile e feconda la vita di entrambi.
La cura di cui parla l’enciclica è la manutenzione: delle persone, di tutto il vivente e di tutte le “cose”. Manutenzione innanzitutto delle relazioni tra gli esseri umani; quelle sui cui si fonda la vita di una comunità, per evitare che le persone vengano trasformate in “scarti” quando non servono più.
Ma manutenzione anche dei territori, degli ambienti e delle cose; anche di quelle che non ci piacciono o non ci servono più e di cui vorremmo sbarazzarci, ma di cui dobbiamo invece farci carico comunque, per impedire che continuino a danneggiare la vita.
Dall’operaio all’artigiano manutentore
Il più delle volte manutenzione vuol dire aggiustare, riparare, migliorare: sia un territorio che dei manufatti e delle apparecchiature. Il lavoro di chi è addetto a riparare non è un’attività seriale: ogni oggetto che gli si presenta di fronte è diverso dall’altro.
Per fare il suo mestiere l’artigiano riparatore deve sviluppare tre doti: la prima è una conoscenza tecnica acquisita in processi di istruzione formale o per affiancamento; la seconda è una forte “manualità”: saper mettere le mani dentro gli oggetti che ripara; la terza è un’attenzione, che a volte sconfina con l’amore, per l’oggetto di questa sua attività. Il tutto finalizzato a prolungare la vita delle cose a cui si applica, a dare loro una “seconda vita”, a consentirne il riuso secondo i principi dell’economia circolare, che non esclude innovazione e miglioramento, ma subordina entrambi alla salvaguardia del contesto. Tutte e tre quelle caratteristiche differenziano profondamente l’artigiano manutentore dall’operaio dell’era fordista impegnato alla catena di montaggio in un’attività seriale senza intelligenza, senza passione, senza abilità tecniche; ma anche dall’“uomo flessibile” dell’epoca post-fordista (come altro chiamarla?), totalmente deresponsabilizzato nei confronti di un lavoro precario, in un continuo cambiamento del “posto di lavoro”; ed entrambi impegnati a produrre o generare scarti lungo il percorso del loro prodotto, nel contesto di economia lineare che saccheggia le risorse dell’ambiente per restituirgliele sotto forma di rifiuti. Per questo l’artigiano manutentore è il paradigma di una nuova “civiltà”, di un nuovo modo di rapportarsi con il mondo.
Quelle caratteristiche, che è facile rilevare nell’attività dell’artigiano riparatore – anche se pochi vi prestano attenzione – sono le stesse che dovrebbero presiedere alla manutenzione delle relazioni; anch’essa richiede conoscenza, studio del contesto, visione, basi di ogni vera politica; poi buone pratiche, frequentazione effettiva delle persone, soprattutto di quelle diverse da noi, che mettono alla prova la nostra capacità di comprenderle e relazionarci con loro; infine attenzione (se non amore) per la vicenda umana di ciascuno: ognuna diversa da tutte le altre, tanto da richiedere ogni volta di cambiare il nostro modo di rapportarci con loro.
Manutenzione delle cose, e di un territorio, e manutenzione delle relazioni tra le persone si rafforzano reciprocamente: una comunità si costituisce solo in un rapporto aperto e non esclusivo con un territorio dato, con il suo patrimonio di risorse naturali e di lasciti storici, sia fisici (monumenti e opere d’arte) che immateriali, cultura e tradizioni. Ma ogni territorio rinasce e si riqualifica solo se una comunità – non il singolo individuo, e nemmeno un’impresa o un gruppo di imprese a scopo di lucro – lo prende in carico, ne fa la condizione della propria costituzione.
Bene comune beni comuni non sono la stessa cosa
La casa comune è un bene comune – anzi, un insieme di beni comuni – che non appartiene a nessuno e di cui ciascuno ha ricevuto in prestito una parte, grande o piccola, o anche minima, che dovrà comunque restituire in buone condizioni, o possibilmente migliorata, alla “generazione futura”.
“Bene comune” – al singolare e con la maiuscola – e beni comuni non sono la stessa cosa. Il primo è un concetto etico di cui ciascuno dà una interpretazione in base ai suoi principi; il secondo è un concetto giuridico, se regolato da una norma, o politico, se reso operativo dall’iniziativa di un raggruppamento sociale più o meno ampio. Il primo rimanda alla ricerca di un’armonia di cui si presuppone la realizzabilità; il secondo rimanda al conflitto per impedire l’appropriazione privata – o anche pubblica, nel senso di statuale – di una risorsa, o per rivendicarne la condivisione.
Senza conflitto non possono esserci beni comuni: nessuno, secoli fa, pensava che l’acqua, o l’aria, o il cielo, potessero essere contesi; oggi di fronte al tentativo di appropriarsene (privatizzando l’acqua, mettendo sul mercato il diritto di inquinare l’aria, o occupando un’orbita terrestre con un satellite), il conflitto contro queste pratiche le trasforma in beni comuni. Tutto ciò fa sì che il confine tra i beni comuni e quelli che non lo sono ancora, o non lo sono più, sia mobile e non possa essere fissato una volta per sempre.
La cura della casa comune ci porta anche a rivedere la gerarchia che la cultura dominante ha stabilito – da parecchi secoli a questa parte; sicuramente dall’avvento della modernità, ovvero dalla nascita del capitalismo – tra lavoro produttivo, di merci, di valore di scambio, di profitti, e lavoro riproduttivo: non solo della vita biologica, ma anche delle relazioni sociali, della comunità. Il lavoro riproduttivo è cura: cura della casa comune; o di quella parte di essa che ci è dato di raggiungere, sempre che la visione che presiede ad essa sia aperta, proiettata verso l’esterno, l’altro, e verso l’avvenire, la “generazione futura”. Il lavoro produttivo, invece, è per lo più improntato all’incuria: della salute e della vita di chi vi è forzosamente impegnato; delle persone che subiscono gli impatti negativi dei processi produttivi o dei prodotti a cui essi mettono capo; dell’ambiente e della vita. La cura della casa comune esige che quella gerarchia venga invertita; messa sottosopra.
fonte: comune-info.net
Sulla cura della casa comune è il sottotitolo dell’enciclica Laudato sì di papa Francesco, un documento che l’associazione di cui faccio parte ha adottato come testo di riferimento fondamentale, assumendone anche il nome.
La casa comune è la Terra, il nostro pianeta, l’insieme di tutto ciò che vive, i monti, i fiumi, il mare; ma anche il cielo che è l’immagine di un universo infinito che ci si presenta come firmamento e che, come tale, ha ispirato tutto il pensiero e i sentimenti che in vario modo hanno cercato di “trascendere” le vicende che si svolgono sulla superficie del globo. Ma sono casa comune anche le città, le strade, i porti e gli aeroporti e l’infinita serie di manufatti che riempiono la nostra vita quotidiana, comprese tutte le forme di inquinamento che ci avvelenano. La casa comune è fatta di persone e di cose tra loro indissolubilmente connesse come tutto ciò che fa parte del nostro mondo e questo intreccio lega indissolubilmente la giustizia sociale, cioè la lotta per ridurre o eliminare le mostruose diseguaglianze che separano tra loro gli esseri umani, e la giustizia ambientale: il rispetto per le condizioni che rendono possibile la riproduzione della vita, degli ecosistemi, di tutte le specie di cui l’evoluzione ha dotato il pianeta.
Se i poveri della Terra sono le persone più colpite dal degrado dei territori che abitano e dell’ambiente in cui vivono, sono loro, anche, coloro che sono più interessati a risanarli, a tutelarli, a farli rivivere; e a operare per rendere compatibile e feconda la vita di entrambi.
La cura di cui parla l’enciclica è la manutenzione: delle persone, di tutto il vivente e di tutte le “cose”. Manutenzione innanzitutto delle relazioni tra gli esseri umani; quelle sui cui si fonda la vita di una comunità, per evitare che le persone vengano trasformate in “scarti” quando non servono più.
Ma manutenzione anche dei territori, degli ambienti e delle cose; anche di quelle che non ci piacciono o non ci servono più e di cui vorremmo sbarazzarci, ma di cui dobbiamo invece farci carico comunque, per impedire che continuino a danneggiare la vita.
Dall’operaio all’artigiano manutentore
Il più delle volte manutenzione vuol dire aggiustare, riparare, migliorare: sia un territorio che dei manufatti e delle apparecchiature. Il lavoro di chi è addetto a riparare non è un’attività seriale: ogni oggetto che gli si presenta di fronte è diverso dall’altro.
Per fare il suo mestiere l’artigiano riparatore deve sviluppare tre doti: la prima è una conoscenza tecnica acquisita in processi di istruzione formale o per affiancamento; la seconda è una forte “manualità”: saper mettere le mani dentro gli oggetti che ripara; la terza è un’attenzione, che a volte sconfina con l’amore, per l’oggetto di questa sua attività. Il tutto finalizzato a prolungare la vita delle cose a cui si applica, a dare loro una “seconda vita”, a consentirne il riuso secondo i principi dell’economia circolare, che non esclude innovazione e miglioramento, ma subordina entrambi alla salvaguardia del contesto. Tutte e tre quelle caratteristiche differenziano profondamente l’artigiano manutentore dall’operaio dell’era fordista impegnato alla catena di montaggio in un’attività seriale senza intelligenza, senza passione, senza abilità tecniche; ma anche dall’“uomo flessibile” dell’epoca post-fordista (come altro chiamarla?), totalmente deresponsabilizzato nei confronti di un lavoro precario, in un continuo cambiamento del “posto di lavoro”; ed entrambi impegnati a produrre o generare scarti lungo il percorso del loro prodotto, nel contesto di economia lineare che saccheggia le risorse dell’ambiente per restituirgliele sotto forma di rifiuti. Per questo l’artigiano manutentore è il paradigma di una nuova “civiltà”, di un nuovo modo di rapportarsi con il mondo.
Quelle caratteristiche, che è facile rilevare nell’attività dell’artigiano riparatore – anche se pochi vi prestano attenzione – sono le stesse che dovrebbero presiedere alla manutenzione delle relazioni; anch’essa richiede conoscenza, studio del contesto, visione, basi di ogni vera politica; poi buone pratiche, frequentazione effettiva delle persone, soprattutto di quelle diverse da noi, che mettono alla prova la nostra capacità di comprenderle e relazionarci con loro; infine attenzione (se non amore) per la vicenda umana di ciascuno: ognuna diversa da tutte le altre, tanto da richiedere ogni volta di cambiare il nostro modo di rapportarci con loro.
Manutenzione delle cose, e di un territorio, e manutenzione delle relazioni tra le persone si rafforzano reciprocamente: una comunità si costituisce solo in un rapporto aperto e non esclusivo con un territorio dato, con il suo patrimonio di risorse naturali e di lasciti storici, sia fisici (monumenti e opere d’arte) che immateriali, cultura e tradizioni. Ma ogni territorio rinasce e si riqualifica solo se una comunità – non il singolo individuo, e nemmeno un’impresa o un gruppo di imprese a scopo di lucro – lo prende in carico, ne fa la condizione della propria costituzione.
Bene comune beni comuni non sono la stessa cosa
La casa comune è un bene comune – anzi, un insieme di beni comuni – che non appartiene a nessuno e di cui ciascuno ha ricevuto in prestito una parte, grande o piccola, o anche minima, che dovrà comunque restituire in buone condizioni, o possibilmente migliorata, alla “generazione futura”.
“Bene comune” – al singolare e con la maiuscola – e beni comuni non sono la stessa cosa. Il primo è un concetto etico di cui ciascuno dà una interpretazione in base ai suoi principi; il secondo è un concetto giuridico, se regolato da una norma, o politico, se reso operativo dall’iniziativa di un raggruppamento sociale più o meno ampio. Il primo rimanda alla ricerca di un’armonia di cui si presuppone la realizzabilità; il secondo rimanda al conflitto per impedire l’appropriazione privata – o anche pubblica, nel senso di statuale – di una risorsa, o per rivendicarne la condivisione.
Senza conflitto non possono esserci beni comuni: nessuno, secoli fa, pensava che l’acqua, o l’aria, o il cielo, potessero essere contesi; oggi di fronte al tentativo di appropriarsene (privatizzando l’acqua, mettendo sul mercato il diritto di inquinare l’aria, o occupando un’orbita terrestre con un satellite), il conflitto contro queste pratiche le trasforma in beni comuni. Tutto ciò fa sì che il confine tra i beni comuni e quelli che non lo sono ancora, o non lo sono più, sia mobile e non possa essere fissato una volta per sempre.
La cura della casa comune ci porta anche a rivedere la gerarchia che la cultura dominante ha stabilito – da parecchi secoli a questa parte; sicuramente dall’avvento della modernità, ovvero dalla nascita del capitalismo – tra lavoro produttivo, di merci, di valore di scambio, di profitti, e lavoro riproduttivo: non solo della vita biologica, ma anche delle relazioni sociali, della comunità. Il lavoro riproduttivo è cura: cura della casa comune; o di quella parte di essa che ci è dato di raggiungere, sempre che la visione che presiede ad essa sia aperta, proiettata verso l’esterno, l’altro, e verso l’avvenire, la “generazione futura”. Il lavoro produttivo, invece, è per lo più improntato all’incuria: della salute e della vita di chi vi è forzosamente impegnato; delle persone che subiscono gli impatti negativi dei processi produttivi o dei prodotti a cui essi mettono capo; dell’ambiente e della vita. La cura della casa comune esige che quella gerarchia venga invertita; messa sottosopra.
fonte: comune-info.net
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Proxima: una sartoria sociale dove ricucire tessuti e vite
Persone che hanno alle spalle un vissuto difficile e doloroso, vittime di tratta e sfruttamento, si ritrovano in questo laboratorio nel cuore della Sicilia per dare nuovo senso alla propria esistenza. Grazie a Proxima si incontrano, imparano un mestiere, vengono aiutate e formate dando corpo a un futuro che sembrava irrimediabilmente compromesso.

Persone ad alta vulnerabilità che hanno un vissuto di grave sfruttamento, con il dovuto sostegno maturano competenze personali importanti per il proprio percorso di autonomia, rafforzando anche l’integrazione e la collaborazione all’interno di un gruppo.
Sono loro le protagoniste delle attività di Proxima, una cooperativa sociale che in Sicilia lavora ogni giorno per aiutare gli ultimi, dando loro una seconda possibilità attraverso la valorizzazione del “saper fare”, del lavoro manuale, capace di unire, far sognare e ridare speranza.
La Cooperativa sociale Proxima nasce alla fine degli anni ’90 in provincia di Ragusa, gestendo un servizio per minori rivolto ai figli dei profughi Kosovari. Dal 2003 realizza progetti rivolti a vittime di tratta, offrendo un’opportunità di fuga, cambiamento, relazione, crescita personale e dando loro la possibilità di frequentare luoghi sicuri e adeguati.
Due sono i progetti principali sui quali la cooperativa fonda la propria attività: una sartoria e un orto, entrambi sociali. Già, perché la socialità e la condivisione di esperienze sono una risorsa fondamentale per ricominciare a sperare. Letizia Blandino, referente del progetto, comincia a raccontarci la storia del laboratorio sartoriale.

Ci sono stati ragazzi o ragazze che, pur uscendo dai progetti della cooperativa, hanno portato avanti lavori e passioni che si avvicinano alla vostra mission?
C’è stato qualche caso di ragazzi che una volta usciti dai nostri programmi di protezione hanno deciso di acquistare in autonomia una macchina da cucire e portare avanti la propria passione creando dei prodotti tessili in proprio. Ad ogni modo, l’attività di sartoria, oltre a offrire una formazione relativa al settore sartoriale, è organizzata mediante un regolamento specifico pensato anche per fornire ai beneficiari dei nostri progetti delle linee guida da seguire nella vita di tutti i giorni ed in particolar modo in ambiente lavorativo. Pertanto, credo che i ragazzi che fuori escono dai nostri progetti hanno comunque la possibilità di mettere in pratica i nostri insegnamenti e così soddisfare a pieno la nostra mission.
Quali progetti avete in mente per il futuro?
Per il futuro, speriamo di poter ampliare la nostra attività continuando a soddisfare sempre al meglio le richieste che ci arrivano, riuscire a cambiare location creando un punto vendita in sinergia con il laboratorio e magari specializzarci anche nel settore delle riparazioni sartoriali e degli indumenti e accessori personalizzati.
Puoi raccontarci qualcosa anche dell’orto sociale?
Questo progetto nasce nel 2017 ed è una tra le più recenti attività di Proxima. È un luogo dove terre, energie, tradizioni e innovazioni si fondono dando vita a un progetto ambizioso, che si pone l’obiettivo di riqualificare un terreno in totale stato d’abbandono, dove la cittadinanza ragusana può acquistare e assaporare prodotti carichi di passione che rispettano ogni ciclo stagionale. Frutta e verdura vengono selezionate con la massima cura e le eccedenze di produzione non vengono sprecate ma trasformate in golosissime conserve.
fonte: www.italiachecambia.org
#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897. Grazie!

Persone ad alta vulnerabilità che hanno un vissuto di grave sfruttamento, con il dovuto sostegno maturano competenze personali importanti per il proprio percorso di autonomia, rafforzando anche l’integrazione e la collaborazione all’interno di un gruppo.
Sono loro le protagoniste delle attività di Proxima, una cooperativa sociale che in Sicilia lavora ogni giorno per aiutare gli ultimi, dando loro una seconda possibilità attraverso la valorizzazione del “saper fare”, del lavoro manuale, capace di unire, far sognare e ridare speranza.
La Cooperativa sociale Proxima nasce alla fine degli anni ’90 in provincia di Ragusa, gestendo un servizio per minori rivolto ai figli dei profughi Kosovari. Dal 2003 realizza progetti rivolti a vittime di tratta, offrendo un’opportunità di fuga, cambiamento, relazione, crescita personale e dando loro la possibilità di frequentare luoghi sicuri e adeguati.
Due sono i progetti principali sui quali la cooperativa fonda la propria attività: una sartoria e un orto, entrambi sociali. Già, perché la socialità e la condivisione di esperienze sono una risorsa fondamentale per ricominciare a sperare. Letizia Blandino, referente del progetto, comincia a raccontarci la storia del laboratorio sartoriale.
Quali sono le attività in cui sono coinvolte le persone che seguite?
La sartoria è un luogo di formazione, produzione, apprendimento e scambio continuo di esperienze. Attraverso il riciclo tessile, con la supervisione di una sarta specializzata, i ragazzi trasformano questo hobby creativo in una competenza sempre più professionalizzante, costruendosi così un’opportunità di lavoro e riscatto personale. La tecnica maggiormente usata in laboratorio è quella del patchwork, grazie al quale si ottengono creazioni artigianali uniche che spaziano da accessori per la persona ad oggettistica per la casa, con un occhio sempre attento all’etica ed all’ecologia. Dando vita nuova a questi tessuti, con la realizzazione di oggetti unici, questi ragazzi tessono i fili per un nuovo percorso di rinascita, dove le ferite passate si trasformano in autodeterminazione.
Come nasce l’idea di un laboratorio di Sartoria Sociale all’interno della cooperativa Proxima?
L’idea di avviare un laboratorio di Sartoria Sociale è nata per assecondare un particolare interesse dimostrato nei confronti dell’attività sartoriale da parte dei beneficiari dei progetti della Cooperativa Sociale Proxima, vittime di tratta e grave sfruttamento, con il fine di offrire un opportunità di riscatto sociale, integrazione ed autonomia.
In che modo, attraverso il cucito e all’interno di un gruppo, i ragazzi accrescono la propria autonomia e proseguono lungo il loro percorso?
Il laboratorio si configura simbolicamente come mezzo per “RI-CUCIRE le ferite”. Infatti, durante l’attività, i partecipati hanno la possibilità di confrontarsi, condividere idee ed esperienze e crescere insieme attraverso un costante apprendimento e formazione sulle tecniche sartoriali utilizzate per creare manufatti artigianali che poi vengono immessi nel mercato mediante e-commerce e punto vendita.
La sartoria è un luogo di formazione, produzione, apprendimento e scambio continuo di esperienze. Attraverso il riciclo tessile, con la supervisione di una sarta specializzata, i ragazzi trasformano questo hobby creativo in una competenza sempre più professionalizzante, costruendosi così un’opportunità di lavoro e riscatto personale. La tecnica maggiormente usata in laboratorio è quella del patchwork, grazie al quale si ottengono creazioni artigianali uniche che spaziano da accessori per la persona ad oggettistica per la casa, con un occhio sempre attento all’etica ed all’ecologia. Dando vita nuova a questi tessuti, con la realizzazione di oggetti unici, questi ragazzi tessono i fili per un nuovo percorso di rinascita, dove le ferite passate si trasformano in autodeterminazione.
Come nasce l’idea di un laboratorio di Sartoria Sociale all’interno della cooperativa Proxima?
L’idea di avviare un laboratorio di Sartoria Sociale è nata per assecondare un particolare interesse dimostrato nei confronti dell’attività sartoriale da parte dei beneficiari dei progetti della Cooperativa Sociale Proxima, vittime di tratta e grave sfruttamento, con il fine di offrire un opportunità di riscatto sociale, integrazione ed autonomia.
In che modo, attraverso il cucito e all’interno di un gruppo, i ragazzi accrescono la propria autonomia e proseguono lungo il loro percorso?
Il laboratorio si configura simbolicamente come mezzo per “RI-CUCIRE le ferite”. Infatti, durante l’attività, i partecipati hanno la possibilità di confrontarsi, condividere idee ed esperienze e crescere insieme attraverso un costante apprendimento e formazione sulle tecniche sartoriali utilizzate per creare manufatti artigianali che poi vengono immessi nel mercato mediante e-commerce e punto vendita.

Ci sono stati ragazzi o ragazze che, pur uscendo dai progetti della cooperativa, hanno portato avanti lavori e passioni che si avvicinano alla vostra mission?
C’è stato qualche caso di ragazzi che una volta usciti dai nostri programmi di protezione hanno deciso di acquistare in autonomia una macchina da cucire e portare avanti la propria passione creando dei prodotti tessili in proprio. Ad ogni modo, l’attività di sartoria, oltre a offrire una formazione relativa al settore sartoriale, è organizzata mediante un regolamento specifico pensato anche per fornire ai beneficiari dei nostri progetti delle linee guida da seguire nella vita di tutti i giorni ed in particolar modo in ambiente lavorativo. Pertanto, credo che i ragazzi che fuori escono dai nostri progetti hanno comunque la possibilità di mettere in pratica i nostri insegnamenti e così soddisfare a pieno la nostra mission.
Quali progetti avete in mente per il futuro?
Per il futuro, speriamo di poter ampliare la nostra attività continuando a soddisfare sempre al meglio le richieste che ci arrivano, riuscire a cambiare location creando un punto vendita in sinergia con il laboratorio e magari specializzarci anche nel settore delle riparazioni sartoriali e degli indumenti e accessori personalizzati.
Puoi raccontarci qualcosa anche dell’orto sociale?
Questo progetto nasce nel 2017 ed è una tra le più recenti attività di Proxima. È un luogo dove terre, energie, tradizioni e innovazioni si fondono dando vita a un progetto ambizioso, che si pone l’obiettivo di riqualificare un terreno in totale stato d’abbandono, dove la cittadinanza ragusana può acquistare e assaporare prodotti carichi di passione che rispettano ogni ciclo stagionale. Frutta e verdura vengono selezionate con la massima cura e le eccedenze di produzione non vengono sprecate ma trasformate in golosissime conserve.
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ScartOff, l’ecobottega artigianale di comunità. “Dai rifiuti ricaviamo bellezza”
Dal 2013 il laboratorio artigianale coinvolge cittadini, artigiani e imprese nella sfida di trovare una nuova vita ai materiali di scarto attraverso il design e la creatività. La sua ideatrice, Michela Raciola, racconta la genesi di un progetto giovane e che guarda al futuro: "Tutto nasce in Serbia"

“Dar valore alla pratica del riuso prima del riciclo” è il principio da cui, nella mente di Michela Rociola, muove i primi passi l’idea di un’ecobottega. Passi fatti su una strada, che parte da una discarica in Serbia e arriva a Barletta. È quella dell’upcycling, che unisce valore artistico e funzionalità attraverso il design ecosostenibile. Michela la intravede dopo una laurea in scenografia e un master in progettazione sostenibile.
“L’ho scelta – racconta – per sentirmi più utile dopo un’esperienza importante sia dal punto di vista umano che ambientale. Sono stata selezionata per un progetto di gemellaggio tra l’Accademia delle Belle Arti di Firenze e quella di Belgrado. Per sei mesi abbiamo lavorato in una discarica a cielo aperto con lo scopo di far uscire bellezza da quel cumulo di rifiuti. Quella è stata la mia prima sfida nell’economia circolare. Un conto è quando lo ascolti dai racconti, un altro quanto lo tocchi con mano”. Così è scattata in Serbia la scintilla che ha dato vita all’associazione culturale ScartOff e alla prima ecobottega di artigianato e riuso creativo in Puglia.
Designer e artigiani per la riduzione dei rifiuti
Niente più scarti perché sono risorse: si evince già dal nome, ScartOff, che apre i battenti a Barletta nel 2013. Il recupero dei sottoprodotti e degli oggetti in disuso attraverso la progettazione creativa fanno di questo laboratorio – censito nell’Atlante Italiano dell’Economia Circolare – un chiaro esempio di economia circolare e rigenerativa che unisce le vecchie tecniche artigianali in via di estinzione al valore ambientale intrinseco alle pratiche di upcycling. Un riconoscimento che, ancora prima, arriva per il progetto Ri_fatti non parole, vincitore nel 2012 del bando della regione Puglia Principi Attivi, con cui Michela Rociola, presidente dell’associazione, ha richiamato artigiani, designers, makers e creativi del territorio che si riconoscono nei suoi stessi principi.
Inizia così la produzione di gadget personalizzabili, accessori, complementi d’arredo e allestimenti con materiali di scarto – legno, alluminio, tessuti, plexiglass, pannelli plastici, PVC in fogli, ceramiche, gomma, sughero, sacchi di iuta provenienti dalle torrefazioni e tutto ciò che si presta per essere recuperato – organizzati in 15 settori nel magazzino dietro il negozio. Come spiega Michela “ci lega la passione per l’artigianato, i lavori manuali e la voglia di votare la nostra esperienza professionale alla conservazione dell’ambiente. Il laboratorio è uno spazio sempre aperto a chi vuole condividere idee, competenze e strumenti o esporre le proprie creazioni”.
Un laboratorio di comunità
Alla produzione si affianca la necessità di farsi conoscere e far comprendere un modello produttivo e di progettazione sostenibile, che si ispira all’economia circolare e mira alla riduzione dei rifiuti per il benessere collettivo. Con questa consapevolezza il gruppo di creativi ha avviato da subito un’azione di coinvolgimento dei concittadini, che è passata nelle scuole e nelle piazze.
“Inizialmente è stato difficile far capire che ScartOff non era un mercatino dell’usato ma un posto in cui le cose vengono trasformate e reinventate per dargli una vita nuova” racconta la presidente dell’associazione. Un vecchio vinile, disco rotto, che diventa un orologio per battere un tempo nuovo. Pneumatici dismessi si trasformano in pezzi di arredamento foderato con ritagli di stoffe variopinte. “Di volta in volta abbiamo spiegato come nasce un oggetto all’interno di queste mura, e il dubbio di fronte alla novità si è trasformato in curiosità – prosegue – C’è stata anche una campagna, attraverso una tessera di raccolta punti, ecopunti, per invitare le persone a portare in laboratorio ciò che non usano più”.
Oggi, dopo sette anni, la relazione è consolidata, “molti cittadini hanno accolto anche l’idea di fare formazione dentro l’ecobottega e tanti, prima di buttare qualcosa, ci fanno la stessa domanda: questo vi può servire?” afferma con orgoglio la giovane designer. L’associazione è un filo rosso che, con le sue iniziative, ha attraversato tutta la città raggiungendo circa 50.000 persone.
I numeri del recupero
Nel 2018 si aggiunge un tassello chiave per la mission di ScartOff, il coinvolgimento delle imprese, “grazie alla Camera di Commercio, abbiamo avuto l’opportunità di entrare nell’elenco sottoprodotti come utilizzatori, ovvero un ente che può recuperare gli scarti e gli sfridi delle imprese prima che vengano classificati come rifiuti. Ancora oggi siamo gli unici nella provincia di Barletta-Andria-Trani (BAT)” spiega l’ideatrice di ScartOff. Un percorso passato per la mappatura delle imprese manifatturiere e che, messo a sistema, ha portato alla collaborazione con circa 20 imprese e a un recupero costante dei materiali di scarto, fino ad arrivare a circa 6 tonnellate all’anno. Un peso importante non solo per l’ambiente ma anche per le aziende che così possono evitare i costi di smaltimento.
L’educazione al riuso e il progetto Loop
Le attività di ScartOff vanno oltre la produzione. Ogni anno vengono realizzati laboratori di educazione ambientale che coinvolgono scuole e altre realtà della città o dedicati alla valorizzazione del talento creativo di soggetti con disabilità. Non mancano i percorsi di formazione per chi vuole imparare il riuso fai da te o per studenti che si incamminano sulla strada dell’eco-design.
Ridurre la produzione dei rifiuti coinvolgendo le nuove generazioni è uno degli obiettivi dell’associazione. E la partnership con le realtà pubbliche e private è stato il trampolino di lancio per partecipare al bando B Circular, fight climate change! – 2 NoPlanetB con il progetto Loop: un circuito virtuoso che porta i progetti di educazione per gli studenti ad avere una ricaduta pratica.
“Loop è stato l’unico selezionato per la Puglia – racconta ancora Rociola – Lo abbiamo realizzato insieme a due partner: l’istituto di istruzione secondaria superiore ‘N. Garrone’ e l’azienda Fabbrica 42, entrambi di Barletta, e con il supporto di Fondazione Con il Sud, Fondazione punto.sud e European Commission – Development & Cooperation – EuropeAid. Abbiamo coinvolto 40 studenti e studentesse dell’indirizzo di grafica e design. Seguendo le linee guida per la realizzazione di oggetti con caratteristiche rispondenti al modello circolare – allungamento alla vita del prodotto, riciclabilità e monomatericità – la classe di design ha progettato gadget ecosostenibili con gli sfridi delle trenta aziende della provincia BAT che hanno aderito all’iniziativa. L’altra anima di Loop è la campagna di sensibilizzazione ideata dalla classe di grafica. I ragazzi e le ragazze hanno elaborato un contest per fotografi, artisti e designer, e una guida al riuso, ricca di consigli e giochi didattici. La campagna si è poi conclusa con un’azione di guerrilla marketing: sotto il palazzo del Comune è stata esposta una clessidra alta tre metri con dentro un mondo che si sgretola diventando rifiuto. Vederli parlare alla città attraverso l’arte e la creatività e spiegare ai passanti incuriositi quale fosse il messaggio di quella installazione è stato coinvolgente”.
Progetti per il futuro
ScartOff è giovane e guarda lontano. “Loop – specifica Rociola – è un progetto pilota che si concluderà con la redazione di un vademecum, grazie anche al supporto dell’albo dei gestori ambientali, utile per rendere l’esperienza replicabile. È stato possibile attuare il progetto perché la regione Puglia, circa due anni fa, ha firmato la Carta Italiana per l’Economia Circolare, anche se poi, di fatto, nulla di simile era ancora stato messo a sistema. Il prossimo passo sarà quello di presentare il vademecum agli enti regionali per estendere l’iniziativa su scala regionale”. L’associazione però, ci confida Michela, insegue anche un altro sogno: aprire un centro del riuso.
fonte: economiacircolare.com

“Dar valore alla pratica del riuso prima del riciclo” è il principio da cui, nella mente di Michela Rociola, muove i primi passi l’idea di un’ecobottega. Passi fatti su una strada, che parte da una discarica in Serbia e arriva a Barletta. È quella dell’upcycling, che unisce valore artistico e funzionalità attraverso il design ecosostenibile. Michela la intravede dopo una laurea in scenografia e un master in progettazione sostenibile.
“L’ho scelta – racconta – per sentirmi più utile dopo un’esperienza importante sia dal punto di vista umano che ambientale. Sono stata selezionata per un progetto di gemellaggio tra l’Accademia delle Belle Arti di Firenze e quella di Belgrado. Per sei mesi abbiamo lavorato in una discarica a cielo aperto con lo scopo di far uscire bellezza da quel cumulo di rifiuti. Quella è stata la mia prima sfida nell’economia circolare. Un conto è quando lo ascolti dai racconti, un altro quanto lo tocchi con mano”. Così è scattata in Serbia la scintilla che ha dato vita all’associazione culturale ScartOff e alla prima ecobottega di artigianato e riuso creativo in Puglia.
Designer e artigiani per la riduzione dei rifiuti
Niente più scarti perché sono risorse: si evince già dal nome, ScartOff, che apre i battenti a Barletta nel 2013. Il recupero dei sottoprodotti e degli oggetti in disuso attraverso la progettazione creativa fanno di questo laboratorio – censito nell’Atlante Italiano dell’Economia Circolare – un chiaro esempio di economia circolare e rigenerativa che unisce le vecchie tecniche artigianali in via di estinzione al valore ambientale intrinseco alle pratiche di upcycling. Un riconoscimento che, ancora prima, arriva per il progetto Ri_fatti non parole, vincitore nel 2012 del bando della regione Puglia Principi Attivi, con cui Michela Rociola, presidente dell’associazione, ha richiamato artigiani, designers, makers e creativi del territorio che si riconoscono nei suoi stessi principi.
Inizia così la produzione di gadget personalizzabili, accessori, complementi d’arredo e allestimenti con materiali di scarto – legno, alluminio, tessuti, plexiglass, pannelli plastici, PVC in fogli, ceramiche, gomma, sughero, sacchi di iuta provenienti dalle torrefazioni e tutto ciò che si presta per essere recuperato – organizzati in 15 settori nel magazzino dietro il negozio. Come spiega Michela “ci lega la passione per l’artigianato, i lavori manuali e la voglia di votare la nostra esperienza professionale alla conservazione dell’ambiente. Il laboratorio è uno spazio sempre aperto a chi vuole condividere idee, competenze e strumenti o esporre le proprie creazioni”.
Un laboratorio di comunità
Alla produzione si affianca la necessità di farsi conoscere e far comprendere un modello produttivo e di progettazione sostenibile, che si ispira all’economia circolare e mira alla riduzione dei rifiuti per il benessere collettivo. Con questa consapevolezza il gruppo di creativi ha avviato da subito un’azione di coinvolgimento dei concittadini, che è passata nelle scuole e nelle piazze.
“Inizialmente è stato difficile far capire che ScartOff non era un mercatino dell’usato ma un posto in cui le cose vengono trasformate e reinventate per dargli una vita nuova” racconta la presidente dell’associazione. Un vecchio vinile, disco rotto, che diventa un orologio per battere un tempo nuovo. Pneumatici dismessi si trasformano in pezzi di arredamento foderato con ritagli di stoffe variopinte. “Di volta in volta abbiamo spiegato come nasce un oggetto all’interno di queste mura, e il dubbio di fronte alla novità si è trasformato in curiosità – prosegue – C’è stata anche una campagna, attraverso una tessera di raccolta punti, ecopunti, per invitare le persone a portare in laboratorio ciò che non usano più”.
Oggi, dopo sette anni, la relazione è consolidata, “molti cittadini hanno accolto anche l’idea di fare formazione dentro l’ecobottega e tanti, prima di buttare qualcosa, ci fanno la stessa domanda: questo vi può servire?” afferma con orgoglio la giovane designer. L’associazione è un filo rosso che, con le sue iniziative, ha attraversato tutta la città raggiungendo circa 50.000 persone.
I numeri del recupero
Nel 2018 si aggiunge un tassello chiave per la mission di ScartOff, il coinvolgimento delle imprese, “grazie alla Camera di Commercio, abbiamo avuto l’opportunità di entrare nell’elenco sottoprodotti come utilizzatori, ovvero un ente che può recuperare gli scarti e gli sfridi delle imprese prima che vengano classificati come rifiuti. Ancora oggi siamo gli unici nella provincia di Barletta-Andria-Trani (BAT)” spiega l’ideatrice di ScartOff. Un percorso passato per la mappatura delle imprese manifatturiere e che, messo a sistema, ha portato alla collaborazione con circa 20 imprese e a un recupero costante dei materiali di scarto, fino ad arrivare a circa 6 tonnellate all’anno. Un peso importante non solo per l’ambiente ma anche per le aziende che così possono evitare i costi di smaltimento.
L’educazione al riuso e il progetto Loop
Le attività di ScartOff vanno oltre la produzione. Ogni anno vengono realizzati laboratori di educazione ambientale che coinvolgono scuole e altre realtà della città o dedicati alla valorizzazione del talento creativo di soggetti con disabilità. Non mancano i percorsi di formazione per chi vuole imparare il riuso fai da te o per studenti che si incamminano sulla strada dell’eco-design.
Ridurre la produzione dei rifiuti coinvolgendo le nuove generazioni è uno degli obiettivi dell’associazione. E la partnership con le realtà pubbliche e private è stato il trampolino di lancio per partecipare al bando B Circular, fight climate change! – 2 NoPlanetB con il progetto Loop: un circuito virtuoso che porta i progetti di educazione per gli studenti ad avere una ricaduta pratica.
“Loop è stato l’unico selezionato per la Puglia – racconta ancora Rociola – Lo abbiamo realizzato insieme a due partner: l’istituto di istruzione secondaria superiore ‘N. Garrone’ e l’azienda Fabbrica 42, entrambi di Barletta, e con il supporto di Fondazione Con il Sud, Fondazione punto.sud e European Commission – Development & Cooperation – EuropeAid. Abbiamo coinvolto 40 studenti e studentesse dell’indirizzo di grafica e design. Seguendo le linee guida per la realizzazione di oggetti con caratteristiche rispondenti al modello circolare – allungamento alla vita del prodotto, riciclabilità e monomatericità – la classe di design ha progettato gadget ecosostenibili con gli sfridi delle trenta aziende della provincia BAT che hanno aderito all’iniziativa. L’altra anima di Loop è la campagna di sensibilizzazione ideata dalla classe di grafica. I ragazzi e le ragazze hanno elaborato un contest per fotografi, artisti e designer, e una guida al riuso, ricca di consigli e giochi didattici. La campagna si è poi conclusa con un’azione di guerrilla marketing: sotto il palazzo del Comune è stata esposta una clessidra alta tre metri con dentro un mondo che si sgretola diventando rifiuto. Vederli parlare alla città attraverso l’arte e la creatività e spiegare ai passanti incuriositi quale fosse il messaggio di quella installazione è stato coinvolgente”.
Progetti per il futuro
ScartOff è giovane e guarda lontano. “Loop – specifica Rociola – è un progetto pilota che si concluderà con la redazione di un vademecum, grazie anche al supporto dell’albo dei gestori ambientali, utile per rendere l’esperienza replicabile. È stato possibile attuare il progetto perché la regione Puglia, circa due anni fa, ha firmato la Carta Italiana per l’Economia Circolare, anche se poi, di fatto, nulla di simile era ancora stato messo a sistema. Il prossimo passo sarà quello di presentare il vademecum agli enti regionali per estendere l’iniziativa su scala regionale”. L’associazione però, ci confida Michela, insegue anche un altro sogno: aprire un centro del riuso.
fonte: economiacircolare.com
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Laboratorio Linfa: l’impresa artigiana che recupera il legno usato
Recuperare e ridar vita al legno usato per realizzare mobili, allestimenti e installazioni anche per luoghi pubblici e attraverso la progettazione partecipata. Nato per iniziativa di alcuni giovani designer attenti all’ambiente, il Laboratorio Linfa è un’impresa artigiana che promuove l’economia circolare, l’educazione ambientale e la valorizzazione delle risorse e del territorio.
“Noi siamo il risultato di una serie di imperfezioni che hanno avuto successo. (…) Sono le strutture imperfette a farci capire in che modo funziona l’evoluzione: non come un ingegnere che ottimizza sistematicamente le proprie invenzioni, ma come un artigiano che fa quel che può con il materiale a disposizione, trasformandolo con fantasia, arrangiandosi e rimaneggiando”
Da “Imperfezione. Una storia naturale” di Telmo Pievani
Da “Imperfezione. Una storia naturale” di Telmo Pievani
Tutto ha inizio nel ritiro del materiale: mobili vecchi, serramenti, imballaggi, scarti di produzione. Ogni oggetto, che di solito non è nato con il criterio sostenibile di essere facile da disassemblare, viene smantellato e ogni suo materiale correttamente differenziato. Questa fase è difficile e lunga, se si vuol salvare quanto più legno possibile. Successivamente inizia la fase di recupero delle qualità estetiche e funzionali, le vere e proprie lavorazioni di falegnameria e tarsia; il criterio è sempre quello del minimo scarto, che prevale ed essenzialmente fissa i parametri estetici del manufatto.
L’uso di colle, e quindi di sistemi di fissaggio permanenti, è minimizzato; tutto, anche l’energia consumata dagli utensili, va nella direzione dell’efficientamento e del minimo impatto. Si conclude con i trattamenti di finitura, operati con cere naturali e mai sostanze tossiche; in questo modo ogni loro opera potrà essere un giorno smantellata e il legno riusato senza paura di inquinare, Mettere e togliere la cera, anche se può sembrare solo una citazione, è l’operazione che ridona vita al materiale; le venature, i pori così come i colori tornano splendere. É l’olio di gomito, e non le innovative vernici “protettive”, a fare la differenza.
È questo il ciclo di lavoro che si svolge quotidianamente nel Laboratorio Linfa, un’impresa artigiana che progetta e produce mobili di design, allestimenti e installazioni, impiegando legno usato quindi, non abbattendo alberi. Il laboratorio nasce nel 2004 come gruppo informale, dall’incontro di alcuni giovani designer preoccupati per le conseguenze che il proprio lavoro avrebbe avuto sull’ambiente. Scelgono così di progettare oggetti a basso impatto e sistemi comunicativi che sensibilizzano l’uomo all’adozione di principi ecologici.
Attualmente Laboratorio Linfa conta due laboratori artigianali, uno a Orte, in provincia di Viterbo, e l’altro a Montemarciano, in provincia di Ancona, gestiti rispettivamente da Luigi Cuppone e Raul Sciurpa. Grazie anche all’insegnamento in scuole di design, come l’ISIA e lo IED di Roma, il Poliarte ad Ancona, tentano di diffondere le buone prassi ecologiche ed economiche alle nuove generazioni. Hanno instaurato ottimi rapporti con enti pubblici e imprese virtuose, e le attività partecipate di green thinking da loro intraprese in questi anni hanno permesso di costruire una rete capillare di avamposti collaborativi sul territorio nazionale.
Laboratorio Linfa si occupa anche di grafica e comunicazione; elabora contenuti per allestimenti e prodotti editoriali e di comunicazione riguardanti i temi della sostenibilità. Per l’impegno nel settore dell’ecodesign, nel 2014 è stato premiato dalla Commissione europea con il primo premio per l’Italia, consegnato dall’allora commissario europeo all’ambiente Janez Potocnik.
Sul fronte dell’economia circolare, obiettivo primario di Laboratorio Linfa è innescare circuiti virtuosi sostenibili: reintegrare materiali di scarto, provenienti da aziende locali e privati, in nuove catene produttive. Linfa lavora in upcycling, ossia seguendo processi artigianali che puntano a donare maggior valore al materiale. L’estetica delle sue creazioni è subordinata alla funzione e alle risorse disponibili; una sorta di «adattamento», come il comportamento che l’uomo dovrebbe assumere nei confronti della Terra. Si punta quindi a ridurre l’impronta antropica con oggetti duraturi, realizzati con il minimo sfrido e che stoccano CO2.
Laboratorio Linfa ha una forte propensione a lavorare per luoghi pubblici, come musei, parchi, biblioteche, coworking. Attraverso la progettazione partecipata o affiancando le pubbliche amministrazioni, si producono allestimenti in grado di testimoniare l’impegno verso un cambiamento culturale e di maggior attenzione per l’ambiente. Un esempio è il Centro di documentazione del SAC – Sistemi ambientali e culturali di Andrano, in provincia di Lecce, sviluppato in progettazione partecipata; qui, agli arredi si affiancano le installazioni, che raccontano il territorio e il suo capitale naturale.
Particolare attenzione è posta anche al mondo dei bambini, dagli arredi ai giochi. Sul piano dell’estetica, le installazioni dedicate ai più piccoli sono un modo per spezzare il ritmo dagli arredi convenzionali, un modo per uscire da schemi compositivi archetipici e poco creativi.
Per potenziare le iniziative no-profit, Luigi Cuppone e Raul Sciurpa, hanno fondato anche l’associazione di promozione sociale, culturale e ambientale Linfa, che coinvolge dal 2008 centinaia di giovani motivati alla difesa della natura. Realizzano azioni capaci di valorizzare il territorio secondo i principi della sostenibilità, attraverso workshop di ecodesign gratuiti e percorsi di educazione ambientale in scuole e università. Nei workshop i ragazzi sono invitati a progettare e realizzare mobili, giochi, installazioni, utilizzando materiali di recupero. Queste iniziative sono itineranti, si svolgono ogni anno in un luogo diverso, in aree verdi pubbliche dove si allestisce un’esclusiva falegnameria en plain air, una cucina da campo, tende e docce, per vivere una settimana full-immersion tra design ed ecologia.
Grazie ai giovani che hanno partecipato a una o più edizioni del workshop, questa best-practice si è diffusa in modo esponenziale in piazze importanti, come: Torino, Verona, Pescara, Perugia, Terni, Latina, Bari, Roma, Rio de Janeiro, in piazze scomode come Rosarno (Rc) e in piazze piccole come: Sannicola (Le), Morciano di Leuca (Le), Andrano (Le), Salisano (RI), Calcata (Vt), Montemarciano (An), Piticchio di Arcevia (An). Questo a significare che la strada del cambiamento va trovata con metodi e visioni globali, ma con applicazioni locali e integrate sui singoli casi.
fonte: www.italiachecambia.org
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I Volti del Riuso - Venerdì 16 giugno dalle ore 15:30 - Casa del Quartiere via Oddino Morgari 14, 10125 Torino
Dal calzolaio al lattoniere, dall’antiquario all’intermediario dei mercatini, dal robivecchi ai centri di riuso fino alle piattaforme on line, sono tutte attività, artigianali e commerciali che lavorano, guadagnano, forniscono servizi, utilizzando roba usata.
Il tavolo del riuso, gruppo di associazioni e cooperative torinesi, il 16 giugno 2017 alla Casa del Quartiere di San Salvario, in via Oddino Morgari 14, Torino, dedica un giorno di approfondimento e convivialità al riuso.
Dopo il workshop a inviti del mattino (riservato a persone qualificate sul tema), dalle 15,30 alle 17,30 presentazione pubblica degli esiti e confronto pubblico.
IL RIUSO COME VALORE: come viene comunicato e percepito attualmente e come si potrebbe ridefinire la questione?
Animato da Roberto Tognetti, Architetto, coautore con Giovanni Campagnoli di “Riusiamo l’Italia. Da spazi vuoti a start up culturali e sociali”;
CENTRI DEL RIUSO E LAVORO: quali sono le condizioni necessarie affinché possano nascerne di nuovi e sopravvivere quelli esistenti? Come si possono misurare e valorizzare gli impatti economici e sociali?
Animato da Vania de Preto, Presidente della cooperativa Insieme di Vicenza, che gestisce il più grande centro di riuso presente in Italia;
IL RIUSO E L’ECONOMIA CIRCOLARE: come si pone il riuso nel contesto più ampio dell’economia circolare e come può evolvere all’interno di questo sistema?
Animato da Amina Pereno, Politecnico di Torino, ricercatrice nel progetto Re-Trace, che studia la connessione tra approccio sistemico ed economia circolare in 5 regioni europee, con l’obiettivo di contribuire alle prossime linee guida strategiche della Regione Piemonte;
Nello stesso giorno del workshop verrà esposta la mostra “I volti del riuso”, a cura di Federico Botta e Chiara Allione, che animeranno anche un set fotografico nel corso della giornata.
Il Tavolo del Riuso è composto da Triciclo Eco Dalle Città Casa dell'Ambiente Greenews.info Greencommerce Cooperativa Isola Officine Creative Torino Cecchi Point Officina Informatica Libera Arcobaleno Cooperativa Sociale | Torino Vivi Balon Mirafiori Social Green Agenzia Sviluppo San Salvario onlus
Media partner Giacimenti Urbani
Con il sostegno di Compagnia di San Paolo
Tavolo del Riuso
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