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Riciclo e moda nel segno dell'upcycling










Conai e Vogue Talents indicono un concorso rivolto ai creativi che vogliono cogliere le possibilità offerte dai materiali riciclati nello sviluppo di capi di abbigliamento e accessori.

Conai, in collaborazione con Vogue Talents, ha lanciato Upcycling Challenge, iniziativa dedicata ai ...

La nostra casa americana, tutta circolare








Abbiamo provato ad arredare un appartamento scegliendo mobili realizzati con materiali riciclati o upcycled, cercando sul mercato americano le soluzioni più belle ed efficienti

Materiali di scarto trasformati in ...

The Upcycling Challenge, il progetto che sostiene i creativi sostenibili

 

“The Upcycling Challenge” è il progetto dedicato ai creativi che con la loro visione riescono a cogliere le infinite possibilità dei materiali riciclati e a trasformarli in abiti e accessori innovativi e di stile

“The Upcycling Challenge” è il progetto dedicato ai...

Recupero di imballaggi multistrato

Il progetto di ricerca europeo Merlin punta a migliorare qualità e resa nel recupero di packaging difficili da riciclare per via meccanica.









Il centro di ricerca spagnolo Itene (Instituto Tecnológico del Embalaje, Transporte y Logística) coordina il progetto di ricerca Merlin (“Increasing the quality and rate of MultilayER packaging recycLINg waste”), finanziato dalla UE attraverso il programma Horizon 2020 con 4,9 milioni di euro, che vede impegnati 14 partner europei con l'obiettivo di agevolare il riciclo di imballaggi multistrato, migliorandone qualità e resa.

Della durata di 36 mesi, Merlin si propone di lavorare sia a livello di selezione dei rifiuti, sviluppando sensori ottici, intelligenza artificiale e robotica, sia di riciclo vero e proprio, attraverso delaminazione mediante solvente e depolimerizzazione, fino ad arrivare alla polimerizzazione e upcycling del materiale rigenerato e alla validazione del processo in condizioni reali.

Il progetto di ricerca contribuirà alla strategia europea per la plastica, alla Circular Plastics Alliance, al Green Deal dell'UE e al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile.

fonte: www.polimerica.it


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Addio plastica, anche i flaconi di detersivo passano alla carta

Le nuove bottiglia per sapone, realizzate con tecnologia Pulpex, debutteranno in Brasile all’inizio del 2022 con il marchio OMO di Unilever










Plastica addio: anche i flaconi di detersivo preferiscono la carta. La sperimentazione parte dal Brasile primo mercato dove Unilever introdurrà le nuove bottiglie Pulpex. Frutto della collaborazione tra la multinazionale, Diageo, Pilot Lite e altri membri del settore, l’innovativa tecnologia di imballaggio nasce con l’obiettivo di dare una mano all’economia circolare.

Polietilene e polietilentereftalato (PET) sono due dei polimeri termoplastici più ampiamente usati nel packaging dei saponi per il corpo e per la casa. Nonostante si tratti di polimeri riciclabili, non sempre gli impianti di trattamento di questi rifiuti operano in upcycling. Per la maggior parte dei casi, infatti, si tratta ancora di dowcycling. In altre parole il trattamento restituisce una materia prima seconda di qualità più bassa del polimero vergine. Trovare un nuovo eco-materiale per bottiglie e flaconi di detersivo potrebbe rendere più semplice il fine vita. E la tecnologia Pulpex offre un’alternativa in questo senso.

Tecnologia Pulpex, come funziona?

Le bottiglie in carta nascono grazie alla pressurizzazione di polpa di legno, ottenuta da fonti certificate, all’interno di stampi. I contenitori vengono quindi polimerizzati in forni a microonde prima di essere spruzzati internamente con rivestimenti speciali, messi a punto per essere compatibili con i prodotti che contengono, respingendo l’acqua. Gli imballaggi Pulpex sono progettati per essere riciclati come carta e cartone. Ma nel caso in cui non venissero smaltiti correttamente, si biodegraderebbero in maniera naturale.

La capacità di confezionare prodotti liquidi in bottiglie a base di carta sarà un enorme risultato”, spiega Unilever in una nota stampa. “Ma prima che arrivino sugli scaffali, i nostri scienziati del packaging eseguiranno una serie di test per comprenderne il comportamento in situazioni reali, dal trasporto allo stoccaggio in ambienti umidi. È importante che soddisfino i nostri requisiti in termini di durata, esperienza dell’utente e riduzione dell’impatto ambientale”. Il prototipo in fase di sviluppo debutterà nei flaconi di detersivo a marchio OMO in Brasile all’inizio del 2022. Ma la società avverte di star già lavorando con la stessa tecnologia su bottiglie di shampoo.

fonte: www.rinnovabili.it


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Rifiuti marini, il Parlamento UE chiede un piano per ripulire i fiumi

Per i deputati europei ridurre l’impiego della plastica e aumentare il riciclo nel settore della pesca, sono due strumenti irrinunciabile per eliminare il marine litter



L’Unione europea ha bisogno di un piano dedicato alla pulizia dei fiumi dai macro e micro rifiuti che vi confluiscono. Ma anche di alzare gli obiettivi di riciclo e upcycling quando si parla di pesca ed acquacoltura. Questa la posizione del Parlamento europeo i tema di marine litter. Gli eurodeputati hanno votato ieri la risoluzione di Catherine Chabaud (Renew, FR) con cui si chiede di migliorare e rendere più efficaci quadro legislativo e governance in materia di rifiuti marini. E allo stesso di tempo di incrementare ricerca e conosce sul tema accelerando lo sviluppo dell’economia circolare nel settore ittico.

L’attenzione al comparto è fondamentale. Ogni giorno 730 tonnellate di rifiuti vengono scaricati direttamente nel Mediterraneo, a cui si aggiungono annualmente altre 11.200 tonnellate arrivate in mare per vie traverse. Di questi il 27% è costituto da rifiuti della pesca e dell’acquacoltura. Basti pensare alle grandi quantità di attrezzature marine che vengono quotidianamente abbandonate, persi, o buttati in mare, dove “rimangono intatte per mesi o addirittura anni”. Queste cosiddette reti fantasma “hanno un impatto indiscriminato su tutta la fauna marina, compresi gli stock ittici”.

Ovviamente non è solo la spazzatura di grandi dimensioni a preoccupare. Oggi le micro e nano plastiche costituiscono uno degli allarmi ambientali più diffusi. Rappresentano una grave minaccia per molte specie di fauna marina e di conseguenza anche per i consumatori. Oramai non c’è acqua al mondo che risulti non contaminata e il passaggio dal mare al piatto è più rapido di quanto si possa pensare. Si stima che consumatore medio di molluschi del Mediterraneo, spiega Strasburgo in una nota stampa – ingerisca in media 11.000 pezzi di plastica all’anno.

Per contrastare il fenomeno dei piccoli e grandi rifiuti marini, i deputati UE propongono di accelerare lo sviluppo di un’economia circolare nel settore ittico, eliminando gradualmente gli imballaggi in polistirolo espanso e migliorando i canali di raccolta e riciclo. Inoltre, sottolineano l’importanza di identificare nuovi materiali nella progettazione ecocompatibile degli attrezzi da pesca.

La risoluzione esorta gli Stati membri a istituire un “fondo speciale per la pulizia dei mari”, gestito tramite il nuovo Fondo europeo per gli affari marittimi, la pesca e l’acquacoltura (FEAMPA) o altre linee di finanziamento pertinenti, al fine di finanziare una serie di azioni:
la raccolta dei rifiuti marini da parte dei pescherecci;
la fornitura di adeguate strutture di stoccaggio dei rifiuti a bordo e il monitoraggio di quelli pescati passivamente; il rafforzamento della formazione destinata agli operatori;
il finanziamento dei costi del trattamento dei rifiuti e del personale necessario;
investimenti intesi a predisporre nei porti strutture adeguate adibite al deposito e allo stoccaggio della raccolta.

Non solo. I deputati chiedono alla Commissione e ai Paesi UE di adottare le linee guida volontarie dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura per la marcatura degli attrezzi da pesca. Assieme ad un piano d’azione comunitario per ridurre sostanzialmente l’uso della plastica e per affrontare l’inquinamento di fiumi, corsi d’acqua e coste.

“I rifiuti marini – spiega Chabaud – sono una questione trasversale che deve essere affrontata in modo olistico. La lotta contro i rifiuti marini non inizia in mare, ma deve coinvolgere una visione a monte che comprende l’intero ciclo di vita di un prodotto. Ogni rifiuto che finisce in mare è un prodotto uscito dal ciclo dell’economia circolare. Per combattere l’inquinamento, dobbiamo continuare a promuovere modelli di business virtuosi e integrare nuovi settori come la pesca e l’acquacoltura in questi sforzi globali. Non c’è pesca sostenibile senza un oceano sano”.

fonte: www.rinnovabili.it

 

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ScartOff, l’ecobottega artigianale di comunità. “Dai rifiuti ricaviamo bellezza”

Dal 2013 il laboratorio artigianale coinvolge cittadini, artigiani e imprese nella sfida di trovare una nuova vita ai materiali di scarto attraverso il design e la creatività. La sua ideatrice, Michela Raciola, racconta la genesi di un progetto giovane e che guarda al futuro: "Tutto nasce in Serbia"



“Dar valore alla pratica del riuso prima del riciclo” è il principio da cui, nella mente di Michela Rociola, muove i primi passi l’idea di un’ecobottega. Passi fatti su una strada, che parte da una discarica in Serbia e arriva a Barletta. È quella dell’upcycling, che unisce valore artistico e funzionalità attraverso il design ecosostenibile. Michela la intravede dopo una laurea in scenografia e un master in progettazione sostenibile.

“L’ho scelta – racconta – per sentirmi più utile dopo un’esperienza importante sia dal punto di vista umano che ambientale. Sono stata selezionata per un progetto di gemellaggio tra l’Accademia delle Belle Arti di Firenze e quella di Belgrado. Per sei mesi abbiamo lavorato in una discarica a cielo aperto con lo scopo di far uscire bellezza da quel cumulo di rifiuti. Quella è stata la mia prima sfida nell’economia circolare. Un conto è quando lo ascolti dai racconti, un altro quanto lo tocchi con mano”. Così è scattata in Serbia la scintilla che ha dato vita all’associazione culturale ScartOff e alla prima ecobottega di artigianato e riuso creativo in Puglia.

Designer e artigiani per la riduzione dei rifiuti

Niente più scarti perché sono risorse: si evince già dal nome, ScartOff, che apre i battenti a Barletta nel 2013. Il recupero dei sottoprodotti e degli oggetti in disuso attraverso la progettazione creativa fanno di questo laboratorio – censito nell’Atlante Italiano dell’Economia Circolare – un chiaro esempio di economia circolare e rigenerativa che unisce le vecchie tecniche artigianali in via di estinzione al valore ambientale intrinseco alle pratiche di upcycling. Un riconoscimento che, ancora prima, arriva per il progetto Ri_fatti non parole, vincitore nel 2012 del bando della regione Puglia Principi Attivi, con cui Michela Rociola, presidente dell’associazione, ha richiamato artigiani, designers, makers e creativi del territorio che si riconoscono nei suoi stessi principi.

Inizia così la produzione di gadget personalizzabili, accessori, complementi d’arredo e allestimenti con materiali di scarto – legno, alluminio, tessuti, plexiglass, pannelli plastici, PVC in fogli, ceramiche, gomma, sughero, sacchi di iuta provenienti dalle torrefazioni e tutto ciò che si presta per essere recuperato – organizzati in 15 settori nel magazzino dietro il negozio. Come spiega Michela “ci lega la passione per l’artigianato, i lavori manuali e la voglia di votare la nostra esperienza professionale alla conservazione dell’ambiente. Il laboratorio è uno spazio sempre aperto a chi vuole condividere idee, competenze e strumenti o esporre le proprie creazioni”.

Un laboratorio di comunità

Alla produzione si affianca la necessità di farsi conoscere e far comprendere un modello produttivo e di progettazione sostenibile, che si ispira all’economia circolare e mira alla riduzione dei rifiuti per il benessere collettivo. Con questa consapevolezza il gruppo di creativi ha avviato da subito un’azione di coinvolgimento dei concittadini, che è passata nelle scuole e nelle piazze.

“Inizialmente è stato difficile far capire che ScartOff non era un mercatino dell’usato ma un posto in cui le cose vengono trasformate e reinventate per dargli una vita nuova” racconta la presidente dell’associazione. Un vecchio vinile, disco rotto, che diventa un orologio per battere un tempo nuovo. Pneumatici dismessi si trasformano in pezzi di arredamento foderato con ritagli di stoffe variopinte. “Di volta in volta abbiamo spiegato come nasce un oggetto all’interno di queste mura, e il dubbio di fronte alla novità si è trasformato in curiosità – prosegue – C’è stata anche una campagna, attraverso una tessera di raccolta punti, ecopunti, per invitare le persone a portare in laboratorio ciò che non usano più”.

Oggi, dopo sette anni, la relazione è consolidata, “molti cittadini hanno accolto anche l’idea di fare formazione dentro l’ecobottega e tanti, prima di buttare qualcosa, ci fanno la stessa domanda: questo vi può servire?” afferma con orgoglio la giovane designer. L’associazione è un filo rosso che, con le sue iniziative, ha attraversato tutta la città raggiungendo circa 50.000 persone.

I numeri del recupero

Nel 2018 si aggiunge un tassello chiave per la mission di ScartOff, il coinvolgimento delle imprese, “grazie alla Camera di Commercio, abbiamo avuto l’opportunità di entrare nell’elenco sottoprodotti come utilizzatori, ovvero un ente che può recuperare gli scarti e gli sfridi delle imprese prima che vengano classificati come rifiuti. Ancora oggi siamo gli unici nella provincia di Barletta-Andria-Trani (BAT)” spiega l’ideatrice di ScartOff. Un percorso passato per la mappatura delle imprese manifatturiere e che, messo a sistema, ha portato alla collaborazione con circa 20 imprese e a un recupero costante dei materiali di scarto, fino ad arrivare a circa 6 tonnellate all’anno. Un peso importante non solo per l’ambiente ma anche per le aziende che così possono evitare i costi di smaltimento.

L’educazione al riuso e il progetto Loop

Le attività di ScartOff vanno oltre la produzione. Ogni anno vengono realizzati laboratori di educazione ambientale che coinvolgono scuole e altre realtà della città o dedicati alla valorizzazione del talento creativo di soggetti con disabilità. Non mancano i percorsi di formazione per chi vuole imparare il riuso fai da te o per studenti che si incamminano sulla strada dell’eco-design.

Ridurre la produzione dei rifiuti coinvolgendo le nuove generazioni è uno degli obiettivi dell’associazione. E la partnership con le realtà pubbliche e private è stato il trampolino di lancio per partecipare al bando B Circular, fight climate change! – 2 NoPlanetB con il progetto Loop: un circuito virtuoso che porta i progetti di educazione per gli studenti ad avere una ricaduta pratica.

“Loop è stato l’unico selezionato per la Puglia – racconta ancora Rociola – Lo abbiamo realizzato insieme a due partner: l’istituto di istruzione secondaria superiore ‘N. Garrone’ e l’azienda Fabbrica 42, entrambi di Barletta, e con il supporto di Fondazione Con il Sud, Fondazione punto.sud e European Commission – Development & Cooperation – EuropeAid. Abbiamo coinvolto 40 studenti e studentesse dell’indirizzo di grafica e design. Seguendo le linee guida per la realizzazione di oggetti con caratteristiche rispondenti al modello circolare – allungamento alla vita del prodotto, riciclabilità e monomatericità – la classe di design ha progettato gadget ecosostenibili con gli sfridi delle trenta aziende della provincia BAT che hanno aderito all’iniziativa. L’altra anima di Loop è la campagna di sensibilizzazione ideata dalla classe di grafica. I ragazzi e le ragazze hanno elaborato un contest per fotografi, artisti e designer, e una guida al riuso, ricca di consigli e giochi didattici. La campagna si è poi conclusa con un’azione di guerrilla marketing: sotto il palazzo del Comune è stata esposta una clessidra alta tre metri con dentro un mondo che si sgretola diventando rifiuto. Vederli parlare alla città attraverso l’arte e la creatività e spiegare ai passanti incuriositi quale fosse il messaggio di quella installazione è stato coinvolgente”.

Progetti per il futuro

ScartOff è giovane e guarda lontano. “Loop – specifica Rociola – è un progetto pilota che si concluderà con la redazione di un vademecum, grazie anche al supporto dell’albo dei gestori ambientali, utile per rendere l’esperienza replicabile. È stato possibile attuare il progetto perché la regione Puglia, circa due anni fa, ha firmato la Carta Italiana per l’Economia Circolare, anche se poi, di fatto, nulla di simile era ancora stato messo a sistema. Il prossimo passo sarà quello di presentare il vademecum agli enti regionali per estendere l’iniziativa su scala regionale”. L’associazione però, ci confida Michela, insegue anche un altro sogno: aprire un centro del riuso.

fonte: economiacircolare.com


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Abito: scambiare gli indumenti per ricreare vestiti e comunità

A Torino è attivo il progetto “Abito” che, come suggerisce il nome, nasce per “abitare” un vestito ma anche la città: attraverso lo scambio e la trasformazione di vestiti di seconda mano, si occupa di contrastare la povertà e favorire l’integrazione di persone bisognose che, in cambio, mettono a disposizione tempo e competenze a favore della comunità.





Più di 1 tonnellata di vestiti raccolti al mese e circa 700 persone sostenute all’anno: sono questi i dati dello storico servizio di distribuzione di abiti donati dai cittadini a Torino, che, dopo più di trent’anni, si è arricchito per trasformarsi in un progetto di inclusione sociale, dove il sostegno materiale è anche relazionale.

Abito” è sì un progetto di scambio di vestiti e attività ma soprattutto è un progetto di inclusione per contrastare la povertà e favorire l’integrazione. È pensato per coinvolge volontari ma anche sostenitori e beneficiari ed enti del territorio per creare una relazione circolare dove ognuno contribuisce con le proprie risorse.

Protagonista di questo progetto è l’associazione San Vincenzo de Paoli, in collaborazione con la Squadra Giovani della Croce Verde di Torino e cofinanziato dall’Unione europea – Fondo Sociale Europeo, nell’ambito del Programma Operativo Città Metropolitane 2014-2020.

Il funzionamento è semplice: i cittadini donano i propri vestiti non più utilizzati al progetto Abito, che vengono ridistribuiti a coloro che ne hanno bisogno e che, in cambio dell’aiuto offerto, si metteranno al servizio della comunità, utilizzando parte del loro tempo e delle loro competenze. «Tutto ha inizio dalla donazione di vestiti di seconda mano e in buono stato da parte dei cittadini. Abito raccoglie i capi, li seleziona e li espone nella Social Factory, un vero showroom dove i beneficiari possono sceglierli, provarli e prenderli gratuitamente grazie a un’apposita tessera a punti».




Per ridurre gli sprechi, una parte dei vestiti viene successivamente rigenerata all’interno della sua sartoria popolare. «I capi di abbigliamento scartati, perché danneggiati o non ridistribuiti, vengono riparati o utilizzati come materia prima dalla sartoria realizzata ad hoc negli spazi di Abito» per dar vita a nuove creazioni di moda etica sostenibile. La sartoria popolare è infatti un laboratorio di promozione del saper fare sartoriale che include nuove formazioni professionali.

Infine, il progetto prevede lo svolgimento di open days ed eventi di raccolta fondi per sensibilizzare sul tema della moda etica. Attraverso questi momenti i partecipanti possono scegliere tra i vestiti selezionati e contribuire i questo modo a dare sostenibilità economica al progetto.

Attraverso un sistema che mira alla sostenibilità sociale, ambientale ed economica, il progetto nasce per stimolare nuove dinamiche partecipative, aiutare le persone bisognose che stanno vivendo situazioni di difficoltà e dar loro maggior dignità. Creando “welfare di comunità”, ogni cittadino contribuisce con le proprie risorse al benessere proprio e delle persone che lo circondano, il tutto superando le dinamiche assistenzialiste e riattivando nuove reti relazionali.




«Gli eventi di raccolta fondi contribuiscono all’autosufficienza del progetto e sensibilizzano i cittadini verso i valori del riuso, dell’upcycling e dell’impegno sociale». E proprio in questo modo, attraverso Abito, si riducono fortemente gli sprechi: attraverso il riuso, la rigenerazione e lo scambio dei capi di abbigliamento usati e di seconda mano, per creare una filiera totalmente a km0.

fonte: www.italiachecambia.org


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Elena e Sara: la rivoluzione degli abiti usati per “riformare” il sistema moda

A Torino Atelier Riforma sta avviando una vera e propria rivoluzione degli abiti usati che, trasformati dalla rete di sartorie del territorio, sta contrastando la cultura dell’usa e getta nell’ambito della moda affinchè sempre più persone possano comprare e utilizzare capi etici e sostenibili. Ora Elena Ferrero e Sara Secondo, fondatrici del progetto, hanno lanciato una campagna di crowdfunding per realizzare un sistema di tracciabilità che garantisca a chi dona i propri capi la trasparenza sulla loro destinazione.




«La trasformazione degli abiti è per noi uno strumento per creare lavoro, crescita e inclusione: in altre parole, attraverso l’upcycling degli abiti usati, vogliamo unire, tutte quelle realtà sartoriali che desiderano impegnarsi nella tutela dell’ambiente e nella costruzione di una società più giusta». È questo il sogno, ormai diventato realtà, di Elena Ferrero e Sara Secondo, fondatrici di Atelier Riforma, oltre che di Davide Miceli e Teresa Di Tria che si sono uniti recentemente al team. Come ci hanno già raccontato in un nostro precedente articolo, Atelier Riforma è una startup innovativa a vocazione sociale affinchè l’abbigliamento etico e sostenibile sia accessibile tutti, riducendo l’impatto ambientale del settore moda attraverso l’economia circolare e la creatività sartoriale.

Dalla nascita del progetto hanno trasformato oltre 1500 capi e creato una rete connessa di sartorie sociali in cui lavorano persone provenienti da condizioni di fragilità, oltre che professionalità variegate come designers, sarte e brand sostenibili, per dimostrare che un’altra moda che tutela l’ambiente, la salute e i diritti umani è possibile.

«Come molti di voi sapranno, ad oggi il settore della moda è tra quelli più inquinanti al mondo. Siamo al corrente, però, che la chiave per renderla più sostenibile stia nella durata della vita di utilizzo dei vestiti: allungare anche solo di 9 mesi la vita di un capo, può ridurre il suo impatto ambientale dal 20 al 30%». Come ci spiegano Elena e Sara, attualmente, se una persona desidera essere una consumatrice attenta all’ambiente ha fondamentalmente queste possibilità:

– Donare i propri abiti usati, con la possibilità, però, che vengano dirottati nel traffico illegale: in generale c’è poca trasparenza sulla destinazione della donazione e non esiste un sistema che assicuri che i capi donati vadano davvero a beneficio di persone in difficoltà;

– Acquistare abiti usati anche se nei negozi si trovano abiti talvolta rovinati, difettosi o con un basso rapporto qualità-prezzo, mentre sulle piattaforme e-commerce si trovano soprattutto abiti vintage di lusso che quindi non sono accessibili a tutti;

– Acquistare capi d’abbigliamento «eco-friendly», che però ad oggi hanno prezzi non a tutti accessibili. Inoltre, esiste anche il cosiddetto «green-washing», ossia il fenomeno per cui le industrie della moda si professano “green”, salvo poi nella pratica continuare a produrre la maggior parte dei propri prodotti con gli stessi processi.

Atelier Riforma vuole superare questi limiti e sognare ancora più in grande, realizzando un sistema di tracciabilità che garantisca a chi dona i propri capi la trasparenza sulla loro destinazione. Allo stesso tempo, vuole permettere al consumatore di scoprire chi ha realizzato il lavoro sartoriale sul capo che ha acquistato e vedere concretamente il proprio impatto positivo sull’ambiente.




«Trasformare un abito usato può sembrare più economico di produrne uno da zero, ma non è esattamente così. Ci vogliono creatività, inventiva, professionalità e tempo per realizzare un upcycling di successo» ci viene spiegato e, a fronte della situazione che spesso rende la sostenibilità un lusso per pochi, Atelier Riforma intende consentire a sempre più persone di acquistare capi etici e sostenibili.

Trattandosi di un obiettivo ambizioso, è stata lanciata una prima campagna di crowdfunding per raggiungere i primi 8.000 euro, che permetteranno di iniziare a investire sul sistema di tracciabilità e sulla misurazione dell’impatto ambientale. In questo modo, ci raccontano, «daremo la possibilità a chi ci dona i propri capi di scoprire la loro destinazione, inserendo sul nostro sito un codice».



Scegliendo di donare sarà possibile ricevere in omaggio prodotti derivati dalla trasformazione di indumenti usati, contribuendo con questa azione a rendere la moda più sostenibile: bracciali ricavati da vecchie t-shirts, maglioni di filo rigenerato, zaini e astucci in jeans trasformati dalle sarte e dai sarti della rete di Atelier Riforma.

In questo modo sarà possibile dare il proprio contributo a un progetto che non solo promuove l’economia circolare e la creatività sartoriale locale, ma che mette in atto una nuova “riforma” collettiva, dove ognuno e ognuna di noi può fare la differenza.

fonte: www.italiachecambia.org


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MyReplast Upcycling, così NextChem trasforma i rifiuti in risorse preziose

NextChem ribalta il tradizionale approccio nel riciclo della plastica partendo dalle esigenze dell’industria e realizzando un impianto di Upcycling tra i più avanzati d’Europa. La tecnologia MyReplast permette di chiudere il gap tra polimeri riciclati e polimeri vergini





“Se vogliamo raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, preservare il nostro ambiente naturale e rafforzare la competitività della nostra economia, la nostra economia deve diventare pienamente circolare”. Così a marzo 2020, il Vicepresidente esecutivo responsabile per il Green Deal, Frans Timmermans, annunciava l’adozione del nuovo Piano d’Azione UE per la circular economy. In questo rinnovato sforzo europeo per “chiudere il cerchio”, uno degli imperativi sarà inevitabilmente ridurre i rifiuti. Il piano dell’esecutivo europeo intende mettere l’accento, tra le altre cose, sulla necessità di convertire gli scarti in risorse di elevata qualità che beneficino di un mercato delle materie prime secondarie efficiente.

In Italia c’è già chi si è portato avanti su questo fronte, con una nuova soluzione “circolare” e orientata alla domanda del mercato. Parliamo di NextChem, società del Gruppo Maire Tecnimont, che opera nel campo della chimica verde e delle tecnologie per la transizione energetica.

L’azienda è proprietaria di una tecnologia che trasforma i rifiuti di plastica in nuovi prodotti con caratteristiche meccaniche e chimico-fisiche tali che siano in grado di sostituire polimeri vergini di origine fossile.

Il procedimento è chiamato “Upcycling”. A differenza del riciclo semplice che si limita a dare ai rifiuti una forma che ne permette il riutilizzo (“Downcycling”) in prodotti più “poveri”, l’Upcycling restituisce alla plastica ricuperata le caratteristiche originali di un materiale vergine, aumentandone così il valore sia ambientale che economico.

L’obiettivo di NextChem è ribaltare l’approccio tradizionale nella gestione rifiuti partendo dalle esigenze del mercato a valle, per arrivare ad una materia prima seconda ad alta sostenibilità e in grado di soddisfare le esigenze del mercato.

MyReplast Upcycling: il futuro della plastica riciclata

Molte delle attuali tecnologie per il riciclo della plastica hanno infatti un problema non indifferente: il prodotto finale non ha più le proprietà della materia prima originale. Pertanto, i nuovi polimeri non possono essere impiegati per fabbricare beni sofisticati o pezzi con particolari caratteristiche meccaniche.

Per risolvere questi problemi NextChem ha brevettato la tecnologia MyReplast, un processo che permette di migliorare le prestazioni del materiale in uscita attraverso una fase di compounding in cui prodotti vengono formulati in base alle richieste del cliente.

In Italia, lo stabilimento industriale di riferimento per questa tecnologia si trova a Bedizzole, in provincia di Brescia. L’impianto è gestito da MyReplast Industries, controllata di NextChem, ed è attualmente uno dei più grandi e avanzati in Europa. Vanta una capacità produttiva di circa 40.000 tonnellate di polimeri riciclati l’anno, un quantitativo pari al consumo di plastica di un milione di persone. Ma, soprattutto, permette di risparmiare 270milabarili di petrolio all’anno, evitando di emettere in atmosfera 8.500 tonnellate di CO2 nello stesso periodo.


Credits: NextChem

All’interno della struttura, l’Upcycling della plastica avviene attraverso un processo a tappe che parte dalla selezione. I rifiuti in entrata sono suddivisi in frazioni separate a seconda della tipologia di polimero, in modo da avere un flusso controllato che faciliti le fasi successive. Seguono macinazione, lavaggio e selezione cromatica. Le scaglie finali vengono quindi trasformate attraverso tecnologie di estrusione e compounding dotate di sistemi di filtrazione e degassaggio. In questo modo è possibile ottenere la massima purezza e qualità delle materie plastiche.
I vantaggi della tecnologia MyReplast di Upcycling

Vi sono pochi ma fondamentali punti che fanno di MyReplast Upcycling un gioiello delle moderne “tecnologie circolari”. Innanzitutto, l’elevata flessibilità. Il processo consente di trattare varie tipologie di rifiuto plastico in ingresso, sia nell’ambito del post-consumo industriale che di quello urbano (raccolta differenziata).

Altra caratteristica degna di nota: l’efficienza di riciclo, pari a circa il 95 per cento. Il segreto per ottenere una resa così elevata consiste anche nella “selezione avanzata” dei rifiuti in ingresso, attraverso sensori ottici potenziati.

Infine, la qualità del prodotto finale. I polimeri riciclati possiedono eccellenti proprietà chimico-fisiche e sono disponibili in scaglie di colore selezionato e in granuli colorabili o personalizzabili. Si tratta di caratteristiche essenziali per avvicinarsi ai mercati “premium” ad alto valore aggiunto, colmando l’attuale divario qualitativo tra plastica riciclata e plastica vergine. Inoltre, potendo gestire l’intero processo, dal rifiuto proveniente dai centri selezione al compound finale, MyReplast Industries è in grado di garantire anche la perfetta tracciabilità della materia prima seconda.

“Il riciclo della plastica richiede un profondo know-how di processo e un livello alto di competenze nel campo della chimica, per poter garantire uno standard elevato di qualità e dei prodotti fatti su misura per applicazioni specifiche” dichiara Vincenzo Accurso, Chief Operating Officer di NextChem. “L’alleanza con un fornitore leader di tecnologie è fondamentale per ottenere processi e impianti che soddisfano esigenze specifiche. Collaborazioni ed alleanze sono la chiave per accelerare la transizione alla circolarità della plastica e per sprigionare il massimo del valore dai rifiuti plastici. Lo sviluppo congiunto facilita l’accelerazione dello sviluppo di tecnologie mentre allo stesso tempo ne socializza i costi ed i rischi”.

Credits: NextChem

Secondo NextChem sono circa 40 gli impianti di questo tipo, con capacità intorno ai 40mila tonnellate annue ciascuno, che servirebbero in Italia per reimmettere nel sistema produttivo in una logica circolare i volumi di rifiuti plastici di questa tipologia che attualmente non vengono riciclati. 200 quelli che servirebbero in Europa.

L’approccio di NextChem è totalmente innovativo in quanto è un “full recycling” economicamente efficiente. Un approccio che consente di applicare una visione imprenditoriale, non ancorata a interventi di sostegno pubblico, ma volta a considerare il rifiuto come risorsa, che ha un valore. Il modello di business di NextChem sull’Upcycling prevede infatti un acquisto del rifiuto a monte e una vendita del prodotto a valle, in un quadro economico profittevole. Un sistema in cui l’economia circolare diventa economia di mercato, a tutti gli effetti, che produce valore per chi la pratica.

fonte: www.rinnovabili.it



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Laboratorio Linfa: l’impresa artigiana che recupera il legno usato

Recuperare e ridar vita al legno usato per realizzare mobili, allestimenti e installazioni anche per luoghi pubblici e attraverso la progettazione partecipata. Nato per iniziativa di alcuni giovani designer attenti all’ambiente, il Laboratorio Linfa è un’impresa artigiana che promuove l’economia circolare, l’educazione ambientale e la valorizzazione delle risorse e del territorio.













“Noi siamo il risultato di una serie di imperfezioni che hanno avuto successo. (…) Sono le strutture imperfette a farci capire in che modo funziona l’evoluzione: non come un ingegnere che ottimizza sistematicamente le proprie invenzioni, ma come un artigiano che fa quel che può con il materiale a disposizione, trasformandolo con fantasia, arrangiandosi e rimaneggiando”
Da “Imperfezione. Una storia naturale” di Telmo Pievani
Tutto ha inizio nel ritiro del materiale: mobili vecchi, serramenti, imballaggi, scarti di produzione. Ogni oggetto, che di solito non è nato con il criterio sostenibile di essere facile da disassemblare, viene smantellato e ogni suo materiale correttamente differenziato. Questa fase è difficile e lunga, se si vuol salvare quanto più legno possibile. Successivamente inizia la fase di recupero delle qualità estetiche e funzionali, le vere e proprie lavorazioni di falegnameria e tarsia; il criterio è sempre quello del minimo scarto, che prevale ed essenzialmente fissa i parametri estetici del manufatto.
L’uso di colle, e quindi di sistemi di fissaggio permanenti, è minimizzato; tutto, anche l’energia consumata dagli utensili, va nella direzione dell’efficientamento e del minimo impatto. Si conclude con i trattamenti di finitura, operati con cere naturali e mai sostanze tossiche; in questo modo ogni loro opera potrà essere un giorno smantellata e il legno riusato senza paura di inquinare, Mettere e togliere la cera, anche se può sembrare solo una citazione, è l’operazione che ridona vita al materiale; le venature, i pori così come i colori tornano splendere. É l’olio di gomito, e non le innovative vernici “protettive”, a fare la differenza.









È questo il ciclo di lavoro che si svolge quotidianamente nel Laboratorio Linfa, un’impresa artigiana che progetta e produce mobili di design, allestimenti e installazioni, impiegando legno usato quindi, non abbattendo alberi. Il laboratorio nasce nel 2004 come gruppo informale, dall’incontro di alcuni giovani designer preoccupati per le conseguenze che il proprio lavoro avrebbe avuto sull’ambiente. Scelgono così di progettare oggetti a basso impatto e sistemi comunicativi che sensibilizzano l’uomo all’adozione di principi ecologici.
Attualmente Laboratorio Linfa conta due laboratori artigianali, uno a Orte, in provincia di Viterbo, e l’altro a Montemarciano, in provincia di Ancona, gestiti rispettivamente da Luigi Cuppone e Raul Sciurpa. Grazie anche all’insegnamento in scuole di design, come l’ISIA e lo IED di Roma, il Poliarte ad Ancona, tentano di diffondere le buone prassi ecologiche ed economiche alle nuove generazioni. Hanno instaurato ottimi rapporti con enti pubblici e imprese virtuose, e le attività partecipate di green thinking da loro intraprese in questi anni hanno permesso di costruire una rete capillare di avamposti collaborativi sul territorio nazionale.
Laboratorio Linfa si occupa anche di grafica e comunicazione; elabora contenuti per allestimenti e prodotti editoriali e di comunicazione riguardanti i temi della sostenibilità. Per l’impegno nel settore dell’ecodesign, nel 2014 è stato premiato dalla Commissione europea con il primo premio per l’Italia, consegnato dall’allora commissario europeo all’ambiente Janez Potocnik.
Sul fronte dell’economia circolare, obiettivo primario di Laboratorio Linfa è innescare circuiti virtuosi sostenibili: reintegrare materiali di scarto, provenienti da aziende locali e privati, in nuove catene produttive. Linfa lavora in upcycling, ossia seguendo processi artigianali che puntano a donare maggior valore al materiale. L’estetica delle sue creazioni è subordinata alla funzione e alle risorse disponibili; una sorta di «adattamento», come il comportamento che l’uomo dovrebbe assumere nei confronti della Terra. Si punta quindi a ridurre l’impronta antropica con oggetti duraturi, realizzati con il minimo sfrido e che stoccano CO2.
Laboratorio Linfa ha una forte propensione a lavorare per luoghi pubblici, come musei, parchi, biblioteche, coworking. Attraverso la progettazione partecipata o affiancando le pubbliche amministrazioni, si producono allestimenti in grado di testimoniare l’impegno verso un cambiamento culturale e di maggior attenzione per l’ambiente. Un esempio è il Centro di documentazione del SAC – Sistemi ambientali e culturali di Andrano, in provincia di Lecce, sviluppato in progettazione partecipata; qui, agli arredi si affiancano le installazioni, che raccontano il territorio e il suo capitale naturale.
Particolare attenzione è posta anche al mondo dei bambini, dagli arredi ai giochi. Sul piano dell’estetica, le installazioni dedicate ai più piccoli sono un modo per spezzare il ritmo dagli arredi convenzionali, un modo per uscire da schemi compositivi archetipici e poco creativi.

Per potenziare le iniziative no-profit, Luigi Cuppone e Raul Sciurpa, hanno fondato anche l’associazione di promozione sociale, culturale e ambientale Linfa, che coinvolge dal 2008 centinaia di giovani motivati alla difesa della natura. Realizzano azioni capaci di valorizzare il territorio secondo i principi della sostenibilità, attraverso workshop di ecodesign gratuiti e percorsi di educazione ambientale in scuole e università. Nei workshop i ragazzi sono invitati a progettare e realizzare mobili, giochi, installazioni, utilizzando materiali di recupero. Queste iniziative sono itineranti, si svolgono ogni anno in un luogo diverso, in aree verdi pubbliche dove si allestisce un’esclusiva falegnameria en plain air, una cucina da campo, tende e docce, per vivere una settimana full-immersion tra design ed ecologia.
Grazie ai giovani che hanno partecipato a una o più edizioni del workshop, questa best-practice si è diffusa in modo esponenziale in piazze importanti, come: Torino, Verona, Pescara, Perugia, Terni, Latina, Bari, Roma, Rio de Janeiro, in piazze scomode come Rosarno (Rc) e in piazze piccole come: Sannicola (Le), Morciano di Leuca (Le), Andrano (Le), Salisano (RI), Calcata (Vt), Montemarciano (An), Piticchio di Arcevia (An). Questo a significare che la strada del cambiamento va trovata con metodi e visioni globali, ma con applicazioni locali e integrate sui singoli casi.
fonte: www.italiachecambia.org

Ecodesign: Intervista a Diego Marinelli















Diego Marinelli è anche esperto di UpCycling che ha realizzato all’interno degli incontri di Contest-Azioni 2019, laboratori in cui si possono progettare oggetti di design.

Oggi nell’intervista di Contest-Azioni conosciamo meglio Diego Marinelli, Artista del Riciclo e fondatore di DimLab.
Diego Marinelli è anche esperto di UpCycling, ed ha realizzato all’interno degli incontri di Contest-Azioni 2019, laboratori in cui si possono progettare oggetti di design illustrando inoltre i contenuti dell’Eco-Design, e presentando le sue tante diverse opere.




fonte: www.rinnovabili.it

Teneri bulloni, i robot di Massimo Sirelli maestro dell’arte con riciclo

Massimo Sirelli, artista di riferimento per l'upcycling e il riuso creativo, si racconta in concomitanza con la mostra al museo Marca di Catanzaro che lo vede protagonista fino al 30 agosto.


Massimo Sirelli è il punto di riferimento in Italia per l’arte applicata al concetto di upcycling, quella speciale forma di creatività attraverso la quale materiali di scarto vengono trasformati in oggetti di valore esponenziale.
La sua ricerca artistica, che affonda le radici nel mondo del writing, ha finito per scontrarsi nel corso degli anni col suo eterno spirito fanciullesco. Hanno così preso forma i suoi incredibili robot: creature assemblate con oggetti provenienti dai mercati, dagli scaffali, dalle strade di tutto il mondo, ognuno dotato di una sua personalissima identità e una storia da raccontare.
Sirelli è talmente affezionato a queste sue creature fantastiche, da aver ideato la prima casa al mondo per adozioni di robot da compagnia al mondo. Un progetto nato dalla voglia di sperimentare una forma di creatività consapevole che mette in primo piano l’aspetto emozionale della materia attraverso la cultura del riuso applicata al design.









Teneri bulloni rappresenta la consacrazione finale di questo ambizioso progetto, in mostra a partire dal 7 giugno e fino al 30 agosto al museo Marca di Catanzaro, sotto l’egida del direttore artistico Rocco Guglielmo. Massimo Sirelli racconta in questa intervista il mondo di questi simpaticissimi robot.
Come nasce l’idea di realizzare questi robot?L’idea nasce dalla mia passione per i giocattoli e gli oggetti più strani a cui ero affezionato da piccolo. Ho messo tutto insieme, aggiungendo passione e divertimento.
Raccontaci del tuo passato da street artist e delle fonti di ispirazione che alimentano la tua arte?Più che di street artist, il mio è un passato da vero e proprio writer. Negli anni Novanta scrivevo il mio nome ovunque fosse possibile: treni, muri, tetti e tunnel. Chiaramente questa lunga parentesi della mia vita è stata un palestra creativa non indifferente, che ha influenzato prima il mio lavoro in pubblicità e poi ogni mia opera artistica successiva.














Il progetto della casa per adozioni porta avanti due istanze in parallelo. Da un lato sviluppa un’idea creativa per riciclare e dare nuova vita a materiali di scarto, dall’altro conferisce un’anima a questi robot, rendendoli quasi umani. Come hai mantenuto in equilibrio questi due temi portanti?È difficile spiegare quello che si riesce a fare in maniera inconsapevole. Io lavoro a questi robot con amore e divertimento, e quando fai una cosa che ti piace curi ogni dettaglio fino all’estremo: questo fa sì che loro abbiano anima. Il lavoro di riuso è sicuramente nobile, ma penso che lo sia ancor di più il riciclo di storia e di vita. Grazie a questi robot rivivono storie e persone.
Hai usato molta letteratura fantastica e fumetto di fantascienza. Possiamo dire che i robot vivono in un mondo fiabesco?Sì, è proprio così. Quando scrivo le storie dei miei robot mi piace creare collegamenti sottili tra tante cose: musica, arte, attualità, fumetti, cartoni animati, storia antica e cultura moderna. Loro sono vivi perché parlano come noi e di quello che viviamo e conosciamo, solo che lo fanno con un linguaggio più semplice e divertente.
Quale immaginario artistico ti ha dato maggiori spunti?Di sicuro tutta la cinematografia che si rifà alla robotica fantastica. Compaiono robot animati da sempre e sono loro che rivivono nelle mie creature.














È vero che ogni pezzo, ogni materiale usato per costruirli ha una sua storia?Ogni pezzo ha una storia. Ogni storia è un pezzo di vita. Ad esempio, Lento Piano come testa ha una sveglia rimasta sul comodino di mia mamma per oltre 30 anni. La storia di questa sveglia viene raccontata con grande sincerità sulla scheda del robot.
Cosa deve aspettarsi chi visita la mostra?La mostra è un progetto molto grande. Ci sono oltre sessanta sculture esposte. Da piccoli robot che stanno nel palmo di una mano fino ad animali che superano le dimensioni umane. Questa mostra è ricchissima di suggestioni, riferimenti, scrittura, pensieri e centinaia di componenti uniti insieme. Il gioco per chi osserva è anche provare a capirne la provenienza.
Il tema del riuso e del recupero è da molti anni una priorità per molti artisti. Quali percorsi si potrebbero ancora esplorare e quali sono i tuoi futuri progetti in questo senso?Tutta la mia produzione artistica si basa sul riuso. Anche quando dipingo, solitamente uso come superfici qualunque cosa mi ispiri: lamiere, arredi urbani, poster pubblicitari o carta stampata. Nel mio futuro vedo opere di dimensione monumentale fatte per il grande pubblico e realizzate come sempre utilizzando materiale di recupero.











Com’è la situazione ambientale in Italia e nel resto del mondo vista da un artista che ha vissuto nelle grandi città?
Credo che dovremmo fermarci a riflettere sulle cose essenziali di cui realmente abbiamo bisogno. Siamo pieni di cose inutili che ci rubano tempo, soldi e attenzione. Tutte queste cose stanno distruggendo le nostre vite e il pianeta. Da tempo ho avviato un percorso per vivere con meno: poche cose belle ed essenziali. Pochi vestiti, pochi oggetti in casa e così vivo meglio. Da tre anni ormai non ho più nemmeno l’auto e uso solo la sharing mobility e i mezzi di trasporto. Forse è arrivato il momento di chiudere, o aprire, gli occhi e smetterla di essere vittime di tutti questi falsi bisogni indotti dalla macchina del consumismo. Allora dico “viva i robot” che hanno un’anima e fanno bene al cuore.
fonte: www.lifegate.it