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Move Up 2021

Per il Memorandum No Profit on People and Planet la pandemia non è una calamità naturale e la geoingegneria non è la soluzione per il ripristino del buon funzionamento dei sistemi naturali. Inutile attendere soluzioni dal G20. Sta ai movimenti, alle associazioni e alle persone comuni prendersi cura insieme, ovunque e in tanti modi diversi, di ogni forma di vita, a cominciare dalla rigenerazione dei suoli degradati e dall’agroecologia. Ha scritto Vandana Shiva: “La pandemia è conseguenza della guerra che abbiamo ingaggiato contro la vita”

Tratta da unsplash.com

Bene fa il Memorandum* No Profit on People and Planet – G20-Memorandum_IT-3 – a non considerare la pandemia da Sars-CoV-2 un incidente di percorso e nemmeno una calamità naturale piovuta dal cielo. Ha scritto Vandana Shiva: “La pandemia è conseguenza della guerra che abbiamo ingaggiato contro la vita”. La pandemia è il boomerang che torna indietro. É una delle tante prevedibili reazioni della natura agli sconvolgimenti arrecati dalle attività umane sconsiderate. Esattamente come lo è – con ricadute su altre matrici ambientali – il riscaldamento globale causato dalla emissione di gas climalteranti. Quando si distruggono sistematicamente gli habitat naturali ancora incontaminati (come le foreste primarie, le zone artiche, le lagune, le savane, i boschi e le praterie) non si crea “solo” l’estinzione di massa delle specie viventi (biocidio), ma si creano anche le condizioni affinché virus animali potenzialmente patogeni compiano vari “salti di specie” (spillover) fino a giungere a noi, passando per gli allevamenti intensivi, per i mattatoi e per i mercati di animali selvatici. Una eventualità, questa, ampiamente prevista e inutilmente segnalata dagli scienziati. Ha scritto un virologo: “Perturbare gli ecosistemi è come aprire autostrade ai virus verso il salto di specie”.

Secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente il 75 per cento dell’ambiente terrestre e il 65 per cento di quello marino sono stati gravemente alterati da attività antropiche. Per rimanere a casa nostra, pensiamo solo al “consumo di suolo”: quattordici ettari al giorni vengono asfaltati, cementificati, inertizzati.

La correlazione tra distruzione della biodiversità e malattie di origine zoonotica è conosciuta. Ha scritto in modo esemplare il Giuseppe Ippolito, Direttore scientifico dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive dell’Ospedale Spallanzani di Roma:

“Non è possibile separare la salute degli uomini da quella degli animali e dall’ambiente. L’esperienza di questi anni, con l’emergere di continue zoonosi, ci ricorda che siamo ospiti e non padroni di questo pianeta che ci impone di creare il giusto equilibrio tra le esigenze delle specie umana e della altre specie animali e vegetali che viaggiano insieme a noi in questa arca di Noè chiamata Terra”.

Ben vengano quindi i vaccini, le terapie geniche, le più raffinate cure farmacologiche, i presidi medici. Ma non rimuoviamo dalla nostra mente né le cause primarie di gran parte delle malattie virali, né le interrelazioni biologiche con le condizioni sociali e ambientali che aggravano la vulnerabilità delle persone. Pensiamo all’inquinamento dell’aria e dell’acqua, alla cattiva alimentazione, alle stressanti condizioni di vita e di lavoro che provocano disturbi cardiovascolari, malattie respiratorie croniche, diabete, obesità e altre alterazioni psicofisiche.

Quest’anno è l’anno della COP 26, che si tiene con un anno di ritardo a Glasgow e a Milano. Una conferenza decisiva se si vogliono raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi (2015) di contenimento dell’aumento della temperatura di 1,5 gradi. Quest’anno si svolgerà in Cina anche la 15° Conferenza sulla salvaguardia della diversità biologica. Il ripristino del buon funzionamento dei sistemi naturali, la rigenerazione dei suoli degradati, l’agroecologia sarebbero la soluzione ideale, perché basata sulla natura, anche per riassorbire al suolo l’anidride carbonica. É stato calcolato che risanare il 30 per cento di praterie, zone umide e savane, lasciando che la natura si riprenda i propri spazi, salverebbe il 70 per cento degli animali a rischio di estinzioni e consentirebbe di assorbire la metà delle emissioni la metà delle emissioni di CO2 accumulate nell’atmosfera dall’inizio della rivoluzione industriale. Ma le soluzioni più semplici ed economiche non sono gradite dalle oligarchie mondiali che dominano l’economia che preferiscono giocare al dottor Frankenstein avanzando prepotentemente soluzioni azzardate di geoingegneria come lo sono le tecniche di cattura, confinamento, stoccaggio nel sottosuolo dell’anidride carbonica emessa dalle centrali termoelettriche e dai grandi impianti industriali. Un trucco e un diversivo per non cambiare nulla e per guadagnarci pure.

Attenzione dunque alle furbizie semantiche che si nascondono dietro un mare di retorica “green”. Dire “emissioni zero” (entro, se non prima del 2050) è diverso da “neutralità climatica” o da “emissioni nette negative”. Un conto è smettere di bruciare combustibili fossili, un altro paio di maniche è nascondere sotto terra un gas tossico e corrosivo come la CO2. L’Eni (industria di stato) vuole creare sotto l’Adriatico un gigantesco stoccaggio di anidride carbonica liquefatta. Un pericolo enorme, una bomba ecologica ad orologeria che, per di più, pregiudica le strategie di una vera decarbonizzazione.

Confesso che spesso colgo anche nelle persone più coscienti e impegnate un senso di sconforto e di impotenza. Quali altri disastri devono ancora accadere perché possano saltare quei “lucchetti” (indicati dal Memorandum) che impediscono il cambiamento? Cosa possiamo fare noi, se non sono bastati gli scienziati del clima, i medici, i biologi? Se non è bastata un’enciclica rivoluzionaria come la Ludato si’? Se non sono bastate le parole puree e indignate di una ragazzina che si chiama Greta?

Forse, quel che manca ancora, siamo proprio noi. É la capacità dei movimenti, delle associazioni, dei gruppi della cittadinanza attiva di mettersi assieme e diventare popolo della Terra. Cittadine e cittadini planetari, ma con i piedi ben radicati per terra. Capaci di prendersi cura dei nostri simili e di ogni forma di vita di questo meraviglioso mondo.

*La proposta del “Memorandum dei cittadini” è stata fatta inizialmente dall’Agorà degli Abitanti della Terra (AAT, rete internazionale promossa tra gli altri da Riccardo Petrella) in vista del Vertice Mondiale della Salute del G20 in Italia, e sostenuta da transform.it e transform.eu. Grazie al loro sostegno è stata costituita una piattaforma collaborativa, l’Iniziativa Move UP 2021, cui hanno aderito altre associazioni quali Medicina democratica, la Società della cura, Laboratorio Sud, The Last 20… Il “Memorandum” è stato sottoscritto da circa quaranta persone e associazioni. La redazione finale del documento ha beneficiato di vari contributi individuali e di gruppo in Italia (tra cui quelli di Paolo Cacciari e del Monastero del Bene Comune) e in altre regioni del mondo.

Paolo Cacciari


fonte: comune-info.net/


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REMANUFACTURING: UN ENORME POTENZIALE CIRCOLARE ANCORA DA SFRUTTARE




Negli ultimi mesi politiche e iniziative a livello europeo e mondiale hanno posto l’accento sul potenziale della rigenerazione come modello cruciale per l’economia circolare, utile per l’estensione della vita dei prodotti così come per la conservazione del valore nell’economia.
Ad aprile 2021, con una serie di webinar online, il Reman Day organizzato dal Remanufacturing Industries Council (RIC) ha celebrato una delle R alla base dell’economia circolare: la R di rigenerazione (in inglese remanufacturing). Definita anche la spina dorsale dell’economia circolare, la rigenerazione è una pratica industriale che permette di "riportare un prodotto ad almeno le sue prestazioni originali con una garanzia equivalente o migliore di quella del prodotto di nuova fabbricazione” (fonte Remanufacturing Market Study).
In Europa leader ed esperto del settore, nato sull’esempio dello statunitense RIC, è l’European Remanufacturing Council che annovera tra i suoi membri ENEL. Per capire a fondo le potenzialità e le prospettive della rigenerazione Materia Rinnovabile ha intervistato David Fitzsimons, direttore dell’European Remanufacturing Council, con un’esperienza di oltre 25 anni nel settore.



Dove si concentra maggiormente al momento l’attività di remanufacturing?

Tradizionalmente il 90% dell'attività di remanufacturing si colloca nell'area business to business. Si tratta, quindi, un'attività industriale che si potrebbe definire commerciale. Sta crescendo, però, anche la parte B2C, rivolta al consumatore, in particolare per prodotti come gli smartphone. Spinto dal movimento per il diritto alla riparazione, penso ci sarà un continuo ampliamento dei beni di consumo che vedranno un’estensione del proprio ciclo di vita grazie sia a franchising locali di riparazione su piccola scala che ad ampie fabbriche su scala industriale a livello nazionale e internazionale. Mentre nel primo caso possiamo parlare di rigenerazione come riparazione, nel secondo caso si tratta di rigenerazione come “rifabbricazione”.

Quali elementi hanno il maggior potenziale di accelerare la diffusione delle attività di rigenerazione?

La robotica e le tecnologie digitali hanno un grande potenziale, possono fare incrementare enormemente le possibilità del settore. Grandi opportunità esistono nel settore automobilistico dove il WEF sta lavorando alla Circular Cars Initiative. Il problema è che, spesso, il remanufacturing entra in gioco soltanto in una fase post vendita. Non si pensa che possa, invece, contribuire anche durante la produzione di nuovi veicoli. Se questo dovesse cambiare il potenziale sarebbe enorme. Affinché ciò avvenga serve un cambiamento a livello normativo e alcuni incentivi economici.

A quali cambiamenti si riferisce in particolare?

Alla nuova e imminente iniziativa sui prodotti sostenibili alla quale sto contribuendo in questo momento a Bruxelles. C’è molto da fare a livello legislativo e politico. Abbiamo sviluppato molte politiche nella giusta direzione negli ultimi 20 o 30 anni, ora è il momento di guardare ad una migliore progettazione e all’estensione della vita dei prodotti. La sfida che l’odierna Sustainable Product Initiative della Commissione europea pone è quella di sviluppare una serie di politiche che rendano il remanufacturing un'attività redditizia per le imprese. Ci vorrà tempo, ma penso vedremo un costante trasferimento di conoscenze nel settore, che oggi nell’UE vale circa 30 miliardi di euro. Sembrano molti, ma si tratta soltanto del 2% dell’economia europea. Certamente questo settore crescerà in futuro. Il nostro obiettivo è arrivare a 50 miliardi entro il 2030. Per questo cerchiamo di rendere il settore più attraente per gli investimenti. È fondamentale anche rendere coscienti i responsabili politici della necessità di nuovi incentivi a supporto delle aziende. L’UE e le Nazioni Unite sono molto ambiziose al riguardo come dimostra anche il lancio di GACERE - Global Alliance on Circular Economy and Resource Efficiency lo scorso febbraio. GACERE aiuterà a diffondere le politiche sviluppate nell'UE e il vocabolario utilizzato nell'UE oltre i confini del mercato unico.

Quali sono i settori più interessanti per remanufacturing?

In termini di valore assoluto direi, senza dubbio, l’aviazione, in termini di volumi l'automotive. Il terzo settore più grande è probabilmente quello della difesa, di cui nessuno conosce le reali dimensioni. Seguono a ruota il settore delle attrezzature e dei veicoli fuoristrada come le grandi scavatrici e quello delle apparecchiature informatiche b2b. Poi ci sono una serie di altri settori definiti nel Remanufacturing Market Study dell’European Remanufacturing Network finanziato da Horizon 2020. È un ambito cruciale per le grandi aziende come Michelin e Volvo come per le piccole aziende come Hetzel, azienda tedesca a conduzione familiare, leader nella rigenerazione dei cambi automatici delle automobili.

Quali sono i Paesi più all’avanguardia?

A livello di leadership nazionale sicuramente la Francia. I politici francesi sembrano essere abbastanza preparati a correre rischi. Seguono i Paesi Bassi e i Paesi scandinavi. Dal Regno Unito, avendo appena lasciato l'UE, mi aspetto una politica a tal proposito quest'anno o l'anno prossimo.
Per quanto riguarda le dimensioni del settore sicuramente al primo posto si colloca la Germania, seguita da Italia, Francia, Regno Unito, che cambiano posizionamento in classifica a seconda del tipo di prodotti presi in considerazione. La Polonia, invece, è un paese che abbiamo, in passato, sottovalutato. Abbiamo, tuttavia, notato che molti investimenti vanno verso la Polonia perché ha una buona posizione logistica per rifornire tutta Europa e un'ottima rete stradale. Alcuni nostri membri, come Lexmark per le cartucce rigenerate per stampanti, sono molto soddisfatti degli investimenti fatti in Polonia, dove sono rigenerate anche molte componenti per l’aviazione e per i veicoli agricoli.
Fuori dall’Europa è da tenere sott’occhio il Canada, il cui caso è stato studiato dal recente RemanCan.

Quali sono gli elementi su cui si giocherà il futuro del remanufacturing?

Sicuramente i dati. Vedo che moltissimi dati oggi vengono persi durante il ciclo di vita dei prodotti, dati che non arrivano al produttore, ma che sarebbero cruciali per estendere la vita del prodotto se condivisi. Durante il processo di fabbricazione e fino al momento della vendita si usano tutte le tecniche possibili per ottenere ogni minimo valore aggiunto, anche se spesso si lavora su minimi margini di miglioramento. Dopo la vendita, invece, la perdita di valore nei prodotti è catastrofica e il potenziale per conservare o ripristinare questo valore nel tempo è enorme. Penso che chi inizierà a guardare alle tecnologie digitali in questa direzione otterrà un bel vantaggio competitivo. Non sono per nulla d’accordo con il lavoro che McKinsey sta facendo sulle fabbriche faro. Il Global Lighthouse Network celebra l'uso delle tecnologie digitali e l’industria 4.0 guardando soltanto all’uso efficiente delle risorse negli stabilimenti produttivi. Non si chiede cosa succede dopo che i prodotti hanno lasciato la fabbrica. Non si celebra l'intero ciclo di vita, né la catena di approvvigionamento. Per fortuna, in controtendenza, inizio a vedere aziende che danno valore a questo fattore. Tra di esse ci sono alcune aziende italiane di macchine utensili che vogliono usare la robotica oppure RecoNext che vuole applicare l'intelligenza artificiale per smistare i prodotti pronti per essere rigenerati.

Si creeranno molti posti di lavoro nel settore nei prossimi anni?

Ho visto così tante ipotesi a tal proposito e non credo a nessuna di queste. Il punto di partenza è sbagliato: non dovremmo essere guidati dalla possibilità dei posti di lavoro, ma essere spinti in primo luogo dalla possibilità di investimenti. Gli investimenti genereranno posti di lavoro, molti dei quali non siamo a conoscenza. Potremo costruire grandi fabbriche, con un sacco di attrezzature e pochissimo personale, ma le catene di approvvigionamento intorno si trasformeranno e ci sarà magari molto lavoro creato dentro e intorno ad esse, lavoro che semplicemente non siamo stati in grado di misurare. Non credo si possano fare previsioni davvero concrete in questa direzione.

fonte: www.renewablematter.eu


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Livorno - AAMPS: Centro del riuso creativo… si parte!

 

Si chiama “EVVIVA” ed il Centro del riuso creativo che ha aperto ufficialmente i battenti alla città di Livorno in via Cattaneo 81 nel quartiere La Rosa 

All’inaugurazione erano presenti per il Comune di Livorno Giovanna Cepparello, assessore all’Ambiente, Andrea Raspanti, assessore al Sociale, Raphael Rossi e Raffaele Alessandri, rispettivamente Amministratore Unico e Direttore Generale di AAMPS, Riccardo Bargellini della coop. “Brikke Brakke” e in rappresentanza delle tante associazioni e cooperative locali che hanno ottenuto in gestione la nuova struttura posizionata accanto al Centro di raccolta dei rifiuti.

“Grazie alle competenze espresse dai nostri uffici e quelli di AAMPS – commenta Cepparello – abbiamo concluso un iter amministrativo particolarmente complesso mettendo insieme numerose cooperative e associazioni che sul nostro territorio si occupano di riutilizzo e recupero di materia e solidarietà. Siamo finalmente giunti al traguardo e possiamo regalare alla città un servizio che valorizza lo scarto come risorsa utile a vivere un’esperienza creativa ed educativa nel rispetto dell’ambiente. Buttare un oggetto apparentemente inutile – continua Cepparello – è un gesto quotidiano che si compie ancora con troppa naturalezza. In realtà possiamo riutilizzare molto di ciò che gettiamo, facendoci contagiare dalla cultura del riciclo e del riuso che a Livorno si sta affermando con sempre maggiore forza”.

“Il Centro del riuso creativo – aggiunge Raspanti – ha un valore anche sul fronte della solidarietà. Gli operatori saranno infatti a disposizione delle famiglie e dei soggetti meno abbienti. Più nello specifico chi ne avesse la necessità potrà chiedere la consegna a titolo gratuito di uno o più oggetti riparati e rigenerati, come il mobilio, oppure il ritiro transitorio di un oggetto/utensile da riconsegnare una volta terminato il lavoro presso il proprio domicilio/giardino”.


“Questa struttura – afferma Rossi – ci permetterà di ridurre in modo considerevole la produzione dei volumi di rifiuti solidi urbani evitando che finiscano in discarica o indirizzati a un trattamento meno sostenibile perché difficilmente riciclabili. Coglieremo anche l’obiettivo di ‘allungare’ la vita dei beni durevoli che, trovando una nuova collocazione, rendono sostenibile l’intera filiera del riuso. Tutto questo in una struttura pubblica gestita da un insieme di associazioni e cooperative ben rappresentative del territorio a disposizione dei cittadini per avvicinarli e sensibilizzarli sull’importanza del riuso e, più in generale, sulla gestione virtuosa dei rifiuti”.

“Il nostro auspicio – spiega Bargellini – è che i livornesi frequentino il centro sia per portare oggetti di cui si vogliono disfare potenzialmente rigenerabili sia per partecipare ad attività ed eventi di valenza culturale e sociale che periodicamente andremo a realizzare. “Dudadé” sarà il contenitore che raccoglierà tutte queste iniziative a partire dalla primissima mostra, coordinata dalla cooperativa sociale “Brikke Brakke”, che ha coinvolto dieci creativi e designer che operano sul territorio livornese e che hanno rielaborato creativamente dieci armadi con scrittoio degli anni ‘60 donati per l’occasione da Arianna e Francesca Orlandi”.

La coop. sociale “Brikke Brakke”, in parternariato con “Arci Livorno”, ass. “Ippogrifo”, “Fondazione Caritas”, coop. “Cuore”, coop. “Pegasonetwork”, coop. “Ulisse”, ass. “Il Mandolino”, invita i cittadini a visitare la mostra ed informa che è attiva la pagina facebook del Centro del riuso creativo dove si potranno visionare tutti gli oggetti donati, rigenerati e messi in vendita, avere informazioni sugli eventi in programma oppure chiedere informazioni sulle varie attività.

Giorni/orari di apertura al pubblico: dal martedì al sabato dalle 8.00 alle 12.00 e dalle 15.00 alle 19.00 (la consegna del materiale potrà avvenire fino alle 17.00).


fonte: www.aamps.livorno.it


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Rigenerare e riutilizzare: i modi migliori per gestire i rifiuti (evitando che diventino tali)

Due dei principali problemi dell'economia lineare sono la scarsità di risorse e la produzione di rifiuti. Azioni circolari come la riparazione, la rigenerazione e la preparazione al riutilizzo di materiali arrivati a fine vita possono essere la soluzione. Ma serve un'organizzazione migliore della filiera e un cambio di approccio



Se si considera che ogni cittadino europeo consuma in media 15 tonnellate di materie prime all’anno e produce circa 4,5 tonnellate di rifiuti, un’economia in grado di massimizzare attività come la preparazione al riutilizzo e il riutilizzo potrebbe abbattere contemporaneamente sia lo spreco di risorse sia la produzione di rifiuti. E cosa c’è di più “circolare” di azioni come la riparazione, la rigenerazione e la preparazione al riutilizzo di materiali arrivati a fine vita? Capace di evitare la produzione di scarti non recuperabili e quindi destinati alla distruzione e alla discarica? E che, infine, è in grado di generare vantaggi economici e ambientali?

La risposta a queste domande (retoriche) è che – ad oggi – non vi è nulla. Scegliere riuso e preparazione al riutilizzo come vie per gestire i rifiuti significa creare le condizioni per:
ridurre la produzione e la movimentazione dei rifiuti, con benefici netti sull’intero ciclo di vita dei prodotti;
incentivare l’innovazione, contribuendo a ridurre l’uso di materie prime vergini, con annessi problemi di accesso ai materiali considerati strategici (si pensi alle cosiddette terre rare);
contribuire ad allungare l’utilità economica dei prodotti e dei servizi;
generare occupazione e di riposizionare competenze e know-how verso produzioni alternative, rimediando almeno in parte agli esiti della delocalizzazione produttiva, in quanto attività labor intensive.

Eppure, benché al vertice della cosiddetta “gerarchia dei rifiuti” (e dunque tra le opzioni preferibili), riuso e preparazione al riutilizzo non hanno goduto di grande considerazione. Collocandosi in una sorta di “terra di mezzo” tra il mondo dei rifiuti e quello dei non rifiuti, hanno sofferto la mancanza di regole chiare, carenza di capacità organizzative e imprenditoriali, per finire relegate a un ruolo di comprimarie.

Non solo. Rispetto alle altre opzioni, queste due attività richiedono qualcosa in più: un vero cambio di approccio, dove l’attenzione si sposta su tutto il ciclo di vita del bene, dalla progettazione fino alla possibilità che attraverso processi di riparazione, rigenerazione, upgrading, disassemblaggio, il prodotto o parti del prodotto possano continuare a svolgere la stessa funzione o funzioni differenti all’interno di un nuovo prodotto.

“Prodotto” o “rifiuto”?

Ma vi è una differenza tra riutilizzo e preparazione per il riutilizzo? Sì e riguarda quel confine che distingue un “prodotto” da un “rifiuto”.

Infatti, se il riutilizzo riguarda un prodotto o una componente che non è rifiuto e si colloca, dunque, nell’ambito della prevenzione, la preparazione per il riutilizzo si riferisce a un prodotto o a una componente diventata rifiuto. E solo quest’ultima può essere considerata a rigore una delle forme di recupero, necessitando quindi di un’autorizzazione al trattamento ai sensi del Testo Unico Ambientale (TUA, Parte IV).

Diverso è il caso delle attività quali la riparazione e il remanufacturing (rigenerazione), che rientrano nell’insieme delle attività di prevenzione rispetto alla produzione di rifiuti, e che non sono codificate nel TUA. Si tratta di operazioni che, come il riutilizzo, riguardano a tutti gli effetti dei prodotti, non dei rifiuti, e che pertanto potrebbero essere collocate nel “gradone” più alto della piramide che configura l’ordine gerarchico nella gestione dei rifiuti (quindi la prevenzione tout court di rifiuti).

Se fino ad ora un vero e proprio cambio di approccio sembra non aver preso piede, le premesse per una prossima diffusione delle pratiche di prevenzione e dei modelli del riutilizzo nel nostro Paese sembrano esserci, e di conseguenza si potrebbe innescare anche un percorso di crescita economica del comparto. In questo senso, il d.lgs. 116 del 2020 ne ha compreso almeno in parte l’importanza e ha provato a disciplinarne meglio alcuni aspetti, anche tramite l’armonizzazione con i diversi modelli organizzativi, tra cui quello della cosiddetta Responsabilità Estesa del Produttore.

Le principali leve che potrebbero favorire la diffusione della prevenzione e del riutilizzo in Italia sono tre:
il nuovo Piano d’Azione per l’Economia Circolare, promosso dalla Commissione UE e approvato dal Parlamento
il nuovo Programma Nazionale di Prevenzione dei Rifiuti, che il Ministero per la Transizione Ecologica dovrà redigere
la regolazione ARERA nel settore dei rifiuti urbani.

Ciascuno dei tre attori, a livello comunitario e nazionale, potrà giocare un ruolo chiave nel tentativo di arrivare all’auspicato sganciamento tra sviluppo economico e produzione di rifiuti/consumo di risorse naturali. Se il Piano d’Azione rappresenta la strategia UE che dovrà indirizzare l’industria verso l’immissione al consumo di prodotti durevoli e più facilmente riutilizzabili e/o riparabili, il Programma di Prevenzione e la regolazione ARERA potranno incentivare la diffusione di buone pratiche a livello regionale e locale, dal punto di vista del cittadino e delle imprese.

Infine, anche misure nazionali di politica fiscale e di incentivazione economica possono svolgere un ruolo trainante sul vertice della gerarchia dei rifiuti, così come i processi di integrazione orizzontale e verticale tra gli operatori coinvolti nella filiera del riuso, in particolare tra i soggetti gestori responsabili della raccolta dei rifiuti urbani e gli operatori professionali attivi sul mercato. La sfida consiste nel trovare l’equilibrio affinché, nel rispetto dei singoli ruoli, i beni possano essere valorizzati, da una parte eliminando i costi di transazione, dall’altra senza scaricare i costi sul sistema tariffario, quindi in bolletta.

Qual è la situazione oggi in Italia? Osservando da un punto di vista della logistica, il limite principale riguarda il mancato input alla costruzione di filiere organizzate del riuso in grado di integrare il lavoro dei soggetti gestori con gli operatori professionali del riuso al fine dell’estrazione del massimo possibile di valore. Intercettare flussi di beni mobili durevoli e in generale potenzialmente riparabili/riutilizzabili rappresenta solo il primo passo, che dovrebbe essere seguito da una catena del valore in cui i diversi attori possano integrarsi al fine di trasformare i mercati dell’usato in mercati davvero competitivi, pienamente regolari e meglio distribuiti territorialmente. E ciò avviene facendo rientrare la professionalità degli operatori dell’usato all’interno del servizio di raccolta e di selezione.

Una recente indagine di ISPRA ha messo in luce come nel 24% dei Comuni oggetto della ricerca vi siano presenti mercatini dell’usato, punti di scambio e/o centri per il riuso. Una quota esigua e fortemente disomogenea, se si considera che 59 Comuni sui 79 nei quali sono presenti tali strutture si trovano in Emilia-Romagna o in Lombardia (tra cui Bologna, Parma, Rimini, Forlì e Milano). Allo stesso modo, i Comuni nei quali sono presenti centri di riparazione e/o preparazione per il riutilizzo sono 22 (6,8% del campione) e quelli dotati di centri di raccolta con appositi spazi finalizzati allo scambio tra privati di beni usati sono il 3,1% del campione.

“Come nuovo”: l’economia del riutilizzo e del remanufacturing

In termini economici, la compravendita di oggetti usati o di “seconda mano” ha raggiunto nel 2019 quota 24 miliardi di euro (l’1,3% del PIL), di cui 10,5 attraverso l’online. Riguardo ai benefici ambientali, secondo i calcoli dell’Istituto Svedese di Ricerca Ambientale (IVL) i soli acquisti effettuati su Subito.it nel 2017 hanno consentito di evitare 4,5 milioni di tonnellate di CO2.

Buoni risultati che, purtroppo, devono fare i conti con un approccio fino ad oggi caratterizzato per mancanza di visione, con i due segmenti preparazione e riutilizzo relegati a una dimensione marginale e con l’aspetto economico ancora troppo sullo sfondo. La sfida da vincere, invece, è quella di trasformare un settore ancora caratterizzato dall’economia informale in una gestione professionale, capace di produrre valore economico e sociale.

Alcuni numeri del fenomeno. Secondo il Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2018, le attività di preparazione e riutilizzo interessano annualmente tra le 600 e le 700mila tonnellate di rifiuti, circa il 2% della produzione di rifiuti urbani e che potrebbero essere sottratti al trattamento e allo smaltimento. Da dati forniti dalla Rete degli operatori nazionali dell’usato, il mercato dell’usato in conto terzi muove circa 850 milioni di euro l’anno e riguarda circa 3mila iniziative stabili, mentre il segmento che impiega più persone è quello dell’ambulantato. Si tratta di un settore economico difficile da censire, sia nella sua parte emersa sia in quella sommersa, che spazia dall’informalità delle strade all’hobbismo e che riguarda, in gran parte, operatori professionali che non trovano spazio nella formalità. Complessivamente ne sono coinvolte circa 50mila micro-attività, con una stima di 80mila addetti.

Una tendenza in forte crescita, che parzialmente rimpiazzerà i mercati “fisici”, è rappresentata dai mercatini per l’usato online. Oltre ad alcuni colossi dell’e-commerce come eBay, che già a metà degli anni Novanta aveva intuito il potenziale della compravendita online di prodotti nuovi e usati, e a Facebook, che dal 2016 ha introdotto un marketplace che coinvolge gli utenti del social network, si moltiplicano le aziende che consentono di vendere e acquistare prodotti usati sul web. La tecnologia ha favorito negli anni lo sviluppo di questo segmento, consentendo attraverso app mobile di semplificare l’incontro tra domanda e offerta. Fra queste rientra Shpock (“Shop in your pocket”), che consente attraverso la geolocalizzazione di trovare prodotti usati in vendita entro un raggio chilometrico impostato dagli utenti. Si pensi a piattaforme come Depop e Vinted, fondati rispettivamente nel 2011 e nel 2012, che stanno suscitando grande curiosità e interesse, soprattutto fra le nuove generazioni.

Alle forme più tradizionali della second hand economy, che riguardano principalmente beni usati pronti per il riuso, si affiancano nuove tendenze e forme di riutilizzo legate in particolar modo al segmento dell’elettronica. Tra queste vi è il remanufacturing, ovvero de-asseamblare un prodotto o un componente già utilizzato, rigenerarlo e reimmetterlo sul mercato. Un’attività che consente di prolungare il ciclo di vita dei beni estendendolo con la riparazione, e spostando quote di valore dall’uso di materie prime alla manodopera, prevalentemente specializzata.

Con la rigenerazione si creano benefici economici su tre fronti. Primo, per i produttori, che ottengono risparmi sui costi di produzione, potendo erogare servizi ai clienti nelle fasi post-vendita e migliorando la fidelizzazione. Secondo, per i consumatori finali, visti i costi inferiori di un bene rigenerato rispetto al nuovo e, terzo per l’occupazione in generale, considerato che il remanufacturing è ancora una attività ad elevato tasso di manodopera, che può permettere di recuperare parte della disoccupazione originata dalla delocalizzazione produttiva e dall’automazione.

Secondo gli scenari ricostruiti dallo European Remanufacturing Network (ERN), il remanufacturing alimenta un mercato che in Europa vale circa 30 miliardi e che potrebbe crescere fino a 100 miliardi entro il 2030, un volume già raggiunto negli USA, dove pare avere trovato radici solide. In termini di settori, l’automotive e il settore della costruzione di macchine industriali rappresentano, ciascuno, circa il 30% del mercato del remanufacturing, il resto si ripartisce per un 27% agli apparecchi elettrici ed elettronici, per un 7% alla componentistica per automezzi pesanti e fuoristrada e un 3% sia all’aerospazio che alle forniture tecnologiche in genere. Lo stesso ERN stima che la rigenerazione consente di risparmiare tra il 60 e l’80% del valore dei prodotti nuovi, soprattutto in termini di minori costi di materie prime, energia, trasporto, distribuzione, etc. Si parla infatti di “substitution strategy”, proprio per indicare la scelta strategica di lavorare su una base più avanzata (non solo tecnologicamente) rispetto ai rifiuti.

La spinta verso la rigenerazione dei beni richiede di irrobustire l’osmosi industriale, mettendo a sistema la cura dei prodotti anche dopo la fase della vendita. Ciò ha particolare valore in Italia, secondo paese manifatturiero d’Europa, attraverso l’impulso verso la dematerializzazione della produzione e affidando maggiore spazio alla connettività e all’elaborazione dei dati. Un modo per provare ad arginare le delocalizzazioni produttive di cui è stata vittima la manifattura italiana.

La via del remanufacturing appare dunque propizia, sia a causa delle difficoltà (non solo economiche) per l’approvvigionamento delle materie prime (insieme al contestuale livellamento su scala internazionale del costo del lavoro) sia per le periodiche crisi geopolitiche, soprattutto per l’accesso alle terre rare e/o a materiali considerati strategici, come il litio, il berillio, etc.

Un primo passo avanti nel nostro Paese è stato fatto, nell’ambito di Industria 4.0. Il 28 maggio 2020 è stato deliberato dal MISE il decreto attuativo del Piano Transizione 4.0, che destina un credito di imposta del 10% alle attività oggetto di innovazione tecnologica finalizzate al raggiungimento di obiettivi di transizione ecologica.
Questo approfondimento è stato scritto da Donato Berardi, Antonio Pergolizzi e Nicolò Valle, componenti del Laboratorio Ref Ricerche

fonte: economiacircolare.com



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Riciclare impegno da cui dipende nostro futuro, non sprecare e rigenerare in logica sviluppo

Il ministro della Transizione energetica Roberto Cingolani in occasione della Giornata mondiale del riciclo. “Grazie al Recovery plan faremo di tutto per supportare la transizione circolare soprattutto nei centri urbani” per “rafforzare e digitalizzare i sistemi di raccolta differenziata e colmare i gap impiantistici”. Avviato l’aggiornamento della Strategia nazionale sull’economia circolare del 2017, a settembre consultazione pubblica


“Il riciclo dei materiali è un impegno fondamentale per una gestione consapevole del nostro futuro: non sprecare, riutilizzare tutto ciò che è possibile, anche trasformandolo o rigenerandolo, nella logica di uno sviluppo sempre più sostenibile, giusto, inclusivo”. E’ il pensiero del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani sui rifiuti espresso in occasione della Giornata mondiale del riciclo, istituita nel 2018 dalla Global recycling foundation per sensibilizzare la comunità internazionale.

“L’attuale crisi pandemica – osserva Cingolani – ha evidenziato il ruolo fondamentale delle nostre città come ambienti resilienti. Ho potuto lavorare per diversi anni su tecnologie e materiali relativi alla seconda vita della plastica. Sono stati anni entusiasmanti: forse in nessun altro settore ho avuto modo di vedere come in così poco tempo alcune delle idee nate nei laboratori siano diventate realisticamente utili. Grazie al Recovery plan – spiega il ministro – faremo di tutto per supportare la transizione circolare soprattutto nei centri urbani, con progettualità innovative che consentano di rafforzare e digitalizzare i sistemi di raccolta differenziata e colmare i gap impiantistici per favorire il riciclo e il recupero di materia. Tutti temi portati nel G20, del quale abbiamo la presidenza”.

Il ministero – viene spiegato – in collaborazione con il ministero dello Sviluppo economico e con il supporto dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e dell’Enea, ha avviato l’aggiornamento della Strategia nazionale sull’economia circolare del 2017. Il nuovo Piano revisionato sarà messo a consultazione pubblica a settembre. All’interno della Strategia saranno comprese le azioni dell’Italia in coerenza con il Piano europeo di azione sull’economia circolare.

“Un grande lavoro sta riguardando anche il comparto tessile, per supportare il settore nel percorso di transizione ecologica e nel raggiungimento degli obiettivi europei di raccolta e il riciclo pre e post consumo – dice Laura D’Aprile, direttrice generale per l’Economia circolare dell’ex ministero dell’Ambiente – il riciclo e la rigenerazione dei materiali sono pratiche fondamentali per salvaguardare il Pianeta”. Poi, annuncia che “entro aprile verrà avviata la consultazione degli operatori pubblici e privati sul recepimento delle Direttive sulle plastiche monouso e sui rifiuti portuali”.

fonte: www.rinnovabili.it

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Il Wwf lancia una nuova campagna, 10 anni per rigenerare la natura italiana

Si chiama ‘ReNature Italy’. E’ un grande progetto per la natura del nostro Paese in un’ottica ambiziosa sulle cose da fare da qui al 2030. Quattro le parole chiave: connessione, ripristino, protezione, e ritorno in natura di specie importanti









L’Italia ha 10 anni di tempo per rigenerare la sua natura, e ricomporre il suo grande mosaico di biodiversità. Questo lo spirito con cui il Wwf lancia una nuova campagna, ‘ReNature Italy‘; si tratta di un grande progetto per la natura del nostro Paese che tiene insieme la visione ambiziosa su come dovremo trasformare l’Italia di qui al 2030. Sono quattro i capisaldi e le parole chiave: connessione, ripristino, protezione e rewild, cioè il ritorno in natura di specie importanti.

Secondo  Alessandra Prampolini, direttore di Wwf Italia, “in un momento in cui abbiamo la possibilità di tradurre in azione quello che ci ha insegnato la pandemia, ovvero che gli ecosistemi naturali sono cruciali per il nostro benessere e le nostre vite, dobbiamo fare il possibile per ridare spazio alla natura, ricostruendo quello che abbiamo distrutto. Il nostro messaggio è semplice: dobbiamo rigenerare l’Italia, passando da un sistema ‘nature negative’ ad una sfida ‘nature positive’”.

La campagna ‘ReNature Italy’ è la risposta concreta agli allarmi sulla perdita di biodiversità a livello globale e nazionale: una specie su due di vertebrati in Italia è minacciata d’estinzione, l’86% degli habitat europei è in cattivo stato di conservazione, perdiamo ogni giorno 16 ettari di territorio naturale sotto la pressione di cemento e degrado. Suolo fertile, ecosistemi con i loro servizi, piccoli e grandi habitat vengono trasformati e distrutti – osserva il Wwf – centinaia di tessere naturali si perdono quotidianamente, e silenziosamente, in ogni angolo del paese, e si erodono poco per volta le connessioni vitali di un ecosistema sempre piu’ fragile e il nostro capitale di natura.

La prima richiesta che viene rivolta alle istituzioni dal Wwf è quella di riportare al centro della politica il ruolo della natura, dedicando fondi significativi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) alla conservazione e al ripristino della natura. In questo modo si potrebbe cogliere la sfida della Strategia europea per la biodiversità e avviare la nuova Strategia nazionale per la Biodiversità al 2030.

Il grande progetto ‘ReNature Italy’ permetterà di migliorare l’efficacia delle aree protette esistenti, arrivando a proteggere il 30% di territorio nazionale, con un 10% tutelato integralmente, e mettendo in sicurezza tutte le foreste vetuste e più naturali d’Italia. Bisognerà ricostruire e completare la rete ecologica nazionale puntando su tre grandi corridoi ecologici principali – alpino, appenninico e della valle del Po – capaci di connettere le aree protette e sostenere la biodiversità anche a fronte degli impatti dei cambiamenti climatici e custodire il capitale naturale. Un salto di qualità è possibile soprattutto rigenerando almeno il 15% del territorio nazionale, rinaturando almeno 1.600 chilometri di fiumi, a cui negli ultimi 50 anni abbiamo tolto circa 2mila chilometri quadrati di spazio vitale, e rigenerando la natura in almeno il 10% della superficie agricola, soprattutto per gli impollinatori.

“Nessun Recovery fund ci traghetterà fuori dalla crisi in maniera duratura se non affrontiamo le radici dei problemi che stiamo vivendo, tra cui la distruzione della natura gioca un ruolo prominente – continua il Wwf – capitale naturale, biodiversità, servizi degli ecosistemi, devono entrare nei fatti e concretamente nei fondi per la ripresa e la resilienza. Cogliamo questo momento del nostro Paese, oggi abbiamo l’opportunità di ripensare il nostro modello di sviluppo anche grazie ai fondi e investimenti che nascono come Next Generation EU”. Ed è nella “profonda revisione” del Pnrr promessa dal governo Draghi che sarà possibile costruire un’occasione per delineare il futuro dell’Italia.

fonte: www.rinnovabili.it


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Dai ricambi rigenerati al riciclo delle batterie: le case automobilistiche sperimentano la circolarità

Renault, Volkswagen, Toyota, Audi, FCA, Peugeot, Skoda, Mercedes, BMW: il mondo dell'automotive alla ricerca di soluzioni sostenibili e circolari per ridurre il proprio impatto ambientale










I leader del settore automobilistico stanno già investendo in un futuro sostenibile, molto più che altri comparti industriali. Lo certifica uno studio del Capgemini Research Institute (uno dei leader mondiale nei servizi di consulenza) dal titolo “The Automotive Industry in the Era of Sustainability”. Tuttavia, secondo lo studio, le aziende automobilistiche hanno ancora molta strada da fare per essere totalmente parte di un’economia circolare.

I livelli di investimento, implementazione e governance in tema di sostenibilità non sembrano ancora sufficienti per stare al passo con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Solo il 9% delle 500 aziende automobilistiche analizzate può essere infatti classificato come “high-performing sustainability leader”, mentre il restante 91% deve ancora raggiungere la maturità, con un 26% che appare in forte ritardo.

Ad esempio, nonostante il 74% dei produttori del comparto automobilistico abbia una strategia per i veicoli elettrici, solo per il 56% di loro questa è parte integrante della strategia di sostenibilità. Il report afferma che l’industria automobilistica dovrebbe incrementare i propri investimenti attuali almeno del 20% per poter raggiungere gli obiettivi definiti a livello internazionale.

Approccio sistemico

Uno dei modi più efficaci per rendere le aziende automobilistiche più sostenibili è quello di adottare un approccio sistemico orientato all’economia circolare.

Importanti marchi del settore hanno portato avanti dei progetti estremamente interessanti in tal senso. Pensiamo a Michelin, che riutilizza l’85% dei vecchi pneumatici, trattandoli nel proprio stabilimento nel Regno Unito e risparmiando 60 kg di emissioni di carbonio per pneumatico. O General Motors, che ha generato un miliardo di dollari dalla vendita di rifiuti riciclabili.

Su diversi aspetti sono stati fatti già importanti passi in avanti: dallo studio emerge, ad esempio, che il 75% degli intervistati ricicla “una quantità significativa” di rifiuti e rottami industriali e il 71% incentiva gli utenti finali a utilizzare parti e componenti ricondizionati. Le aziende intervistate hanno dichiarato però che solo il 32% della loro supply chain contribuisce attualmente all’economia circolare e appena il 36% di loro realizza partnership per garantire un secondo ciclo di vita alle batterie dei veicoli elettrici.

C’è ancora da lavorare dunque per poter essere totalmente parte di un’economia circolare. Come spiega Andrea Falleni, Amministratore Delegato di Capgemini Business Unit Italy, “per recuperare il ritardo e diventare un settore più rispettoso dell’ambiente, le aziende devono concentrarsi su due priorità chiave: collegare più saldamente le proprie strategie in ambito di sostenibilità con quelle riguardanti lo sviluppo di veicoli elettrici, e aumentare gli investimenti in iniziative di economia circolare”.

Il modello di business

Abbracciare un modello di business circolare influisce sulla sostenibilità di molte aree chiave, dalla supply chain al riciclaggio, dall’approvvigionamento al post-vendita. Per un futuro circolare, l’industria automobilistica ha bisogno di puntare forte su tre aspetti chiave: la crescita di modelli ad alto utilizzo di veicoli (Mobility as a service e car sharing), la conversione della rete di distribuzione e manutenzione in centri di raccolta, rigenerazione e riciclaggio. E, infine, l’adozione di design modulari e materiali circolari a basso tenore di carbonio durante la progettazione del veicolo.

Molti ci stanno già lavorando. Renault, ad esempio, ha annunciato che convertirà il suo più antico stabilimento di assemblaggio a Flins, vicino a Parigi, per la creazione di una RE-Factory, incentrata interamente sull’economia circolare, con l’obiettivo di creare 3 mila posti di lavoro e raggiungere un bilancio di CO2 negativo entro il 2030.

Quasi tutti i costruttori poi, hanno centri per il remanufacturing. La stessa Renault è molto attiva da tempo nel recupero dei veicoli e dei componenti fuori uso e a fine vita. È stata la prima infatti, ad aver realizzato una fabbrica specializzata a Choisy-le-Roi, nella periferia di Parigi, dove offre una seconda vita ai ricambi da ben 70 anni, generando entrate per circa 250 milioni di euro l’anno. A questo scopo Renault controlla una rete di società specializzate nel settore come Indra, che gestisce 400 demolitori in Francia che trattano il 25% delle auto fuori uso di tutte le marche, di cui viene garantito il 95% del riciclaggio sulla massa totale dei veicoli.

C’è anche la Mercedes, che nel suo Core Consolidation Center di Offenbach riceve dai rivenditori nel mondo tutte le parti che i clienti hanno utilizzato e restituito, che vengono poi ricondizionate e spedite al centro ricambi usato vicino a Stoccarda.

Ecco una breve carrellata delle iniziative più significative.

Renault

Apriamo proprio con la casa francese, che tra riciclaggio dei tessuti, ricondizionamento dei ricambi, riutilizzo delle batterie dei veicoli elettrici, sviluppo di offerte di car sharing sempre più sostenibili, è in prima linea in tema di economia circolare.

Detto di RE-Factory, primo stabilimento europeo dedicato all’economia circolare nella mobilità, che verrà realizzato entro il 2024 per affiancare i veicoli per tutto il loro ciclo di vita – dall’approvvigionamento alla manutenzione, dalla sostenibilità delle batterie alla fase di rigenerazione e riciclo – e della fabbrica di Choisy-le-Roi, Renault sta lavorando anche per raddoppiare il suo consumo globale di plastica riciclata.

“Di fronte alla sfida della transizione energetica, le industrie svolgono un ruolo di primaria importanza per far evolvere le loro modalità di produzione e ridurre l’impatto ambientale”, ha spiegato Jean-Philippe Hermine, Direttore strategia e Piano ambientale del Gruppo Renault. “Con il sostegno dei nostri partner Filatures du Parc ed Adient Fabrics France, dimostriamo che è possibile realizzare modelli di sviluppo circolari e competitivi incentrati sulle risorse, dotandosi al tempo stesso di un vantaggio competitivo prezioso in un momento in cui la disponibilità e il costo delle materie prime diventa una vera e propria sfida strategica”. Prossimo step: ridurre gli impatti ambientali dei veicoli per l’intero ciclo di vita e diminuire del 25% la propria carbon footprint a livello mondiale nel 2022 rispetto al 2010.

Volkswagen

Entro il 2050 il Gruppo Volkswagen intende diventare carbon neutral, ovvero a impatto zero in termini di CO2 con tutte le proprie attività. Il primo passo, da concretizzare entro il 2025, è ridurre le emissioni delle auto e dei veicoli commerciali leggeri – lungo l’intera catena del valore – del 30% rispetto al 2015.

Nell’ottica di una riduzione sistematica delle emissioni lungo l’intero ciclo di vita di ogni veicolo, la casa tedesca sta portando avanti un grande lavoro in materia di impianti sostenibili. Ad esempio, lo stabilimento di Zwickau, in Germania (dove è stata avviata la produzione della nuova elettrica ID 3), diventerà non solo il più grande impianto in Europa dedicato alle auto elettriche, ma anche il più efficiente e sostenibile. La produzione verrà assicurata attraverso il consumo di energia proveniente esclusivamente da fonti rinnovabili. Grazie all’elettricità generata da centrali eoliche, idroelettriche e fotovoltaiche, si ha una riduzione delle emissioni di CO2 pari a 106 mila tonnellate ogni anno.

L’adeguamento delle strutture porterà a una riduzione delle emissioni di CO2 dei siti produttivi tedeschi di Braunschweig, Emden, Hannover, Kassel, Salzgitter e Wolfsburg pari al 50%, mentre quelle degli impianti del Gruppo Volkswagen nel mondo scenderanno del 15%. Ma non è tutto: saranno significativamente ridotti, in media del 50%, anche il consumo di acqua e la produzione di scarti. Entro il 2025 le emissioni di tutti gli stabilimenti saranno dimezzate rispetto al 2010: l’impianto Audi di Bruxelles è un esempio virtuoso in tal senso: già oggi è carbon neutral.

Gruppo Volkswagen sta lavorando anche sulla fase del riciclo. Dopo aver lanciato nel 2009 il progetto di ricerca LithoRec, che ha come obiettivo il riciclo delle batterie agli ioni di litio, ora sta lavorando alla realizzazione di un impianto pilota all’interno dello stabilimento di Salzgitter per ottimizzare il processo e utilizzare le materie prime recuperate per ridurre ulteriormente la sua impronta ambientale.

Audi

Come anticipato, anche Audi – che fa sempre parte del gruppo Volkswagen – sta portando avanti la sua rivoluzione verde. Solo per fare un esempio, i rivestimenti dei sedili della nuova A3 sono realizzati grazie a un processo di trasformazione che interessa circa 45 bottiglie di plastica da 1,5 litri. Ogni sedile è composto per l’89% da bottiglie di plastica riciclata.

Anche Audi mira a ridurre le proprie emissioni del 30% nei prossimi cinque anni e portarle a zero entro il 2050. Una parte importante di questo processo è rappresentata dall’elettrificazione della gamma. Obiettivo: portare sul mercato trenta modelli elettrificati entro il 2025.

Audi poi sta lavorando anche sull’approvvigionamento: ogni fornitore è valutato secondo un indice di sostenibilità che ne certifica l’idoneità. Inoltre, collabora con partner esterni per creare un sistema di riciclo completo. Il brand costruisce le auto in modo che possano essere disassemblate rapidamente e facilmente negli impianti di raccolta ufficiali, alla fine del proprio ciclo di vita.

Infine, attraverso l’applicazione dei concetti dell’economia circolare e dell’efficienza nella produzione, gli stabilimenti stanno progressivamente riducendo le emissioni di CO2, i consumi di energia e di acqua, l’uso di solventi organici e la creazione di rifiuti. Entro il 2025, l’obiettivo è raggiungere emissioni nette di carbonio pari a zero in tutti gli impianti Audi.

Skoda

Il brand ceco – anch’esso fa parte del gruppo Volkswagen – è costantemente impegnato nella riduzione dell’impatto ambientale delle proprie auto con una strategia a 360 gradi: dall’estrazione delle materie prime alla fine del ciclo di vita.

Škoda racchiude tutte le proprie attività in favore dell’ambiente nella strategia “GreenFuture”, basata su tre pilastri: “GreenProduct” ha l’obiettivo di creare vetture più sostenibili in termini di consumi, materiali impiegati e riciclabilità; “GreenRetail”, che promuove i comportamenti virtuosi nelle concessionarie e nei Service Partner; “GreenFactory”, che mette insieme tutte le attività volte alla conservazione delle risorse durante i processi produttivi.

Tutti i parametri chiave, come il consumo di energia, di acqua e la quantità di scarti generata, sono costantemente monitorati e ottimizzati. Lo stesso principio si applica alle emissioni di CO2 e alle cosiddette particelle volatili (VOCs) che sono generate durante le fasi di verniciatura. L’obiettivo a lungo termine è rendere completamente carbon neutral il consumo di energia degli impianti di produzione di veicoli e componentistica entro la fine di questo decennio.

Il brand dall’inizio dell’anno ha riciclato in modo pressoché totale tutti i rifiuti prodotti utilizzati durante i cicli produttivi, negli impianti e stabilimenti. In questo senso, un vero modello per tutti gli altri costruttori. “Abbiamo raggiunto un traguardo importante nella strategia GreenFuture e, nello specifico, nell’area GreenFactory”, spiega Michael Oeljeklaus, membro del Board Škoda per produzione e logistica. “Siamo in grado di riciclare al 100% tutti gli scarti generati durante la produzione di un’auto. Questo è un importante passo in avanti e dimostra il nostro impegno verso il rafforzamento della cosiddetta economia circolare”.

FCA

Anche Fiat-Chrysler Automobiles (FCA) ha deciso di investire nell’economia circolare. Lo stabilimento di Cassino, dove si producono le Alfa Romeo Giulietta, Giulia e Stelvio, è “zero waste” dal 2000. Neanche un grammo di scarti o rifiuti industriali viene inviato a discarica. Dato che il 100% dell’energia elettrica utilizzata dallo stabilimento proviene da fonti rinnovabili e il 100% delle emissioni legate all’uso di energia termica sono compensate, lo stabilimento di Cassino è anche “zero CO2 emission”.

Il gruppo italo-statunitense sta portando avanti una vera e propria strategia di design di processo circolare puntando su numerosi elementi. Come la scelta di materiali per alcuni veicoli bio-based (cioè di origine naturale), facilmente riciclabili, fibre naturali come il kenaf e la juta, o materia rinnovata come il nylon riciclato oppure la riduzione del consumo di acqua nella filiera (-27,5% dal 2010) e di scarti (-18,7%), con taglio delle emissioni di quasi un decimo. Il remanufacturing si concentra soprattutto per i ricambi, riducendone così i costi per i consumatori e il volume di scarti destinati alla discarica.

Peugeot

La casa francese, da poco unita in matrimonio con FCA per dare vita a Stellantis, punta sull’allungamento della vita della componentistica. La casa del Leone offre infatti ai proprietari di auto la possibilità far riparare le proprie vetture Peugeot con pezzi di ricambio originali rigenerati: l’esatto opposto dell’obsolescenza programmata. In catalogo ci sono 2 milioni di pezzi di ricambio, ognuno con un anno di garanzia. Inoltre, dopo la riparazione Peugeot, col progetto My Tree, si impegna a piantare un albero nell’ambito di un progetto di riforestazione in Senegal

Mercedes-Benz

Mercedes-Benz, o meglio il Gruppo Daimler AG, ha dato il via a un nuovo piano di sostenibilità per la mobilità del futuro, chiamato “Ambition 2039”. Entro quella data la marca tedesca intente rendere l’intera gamma neutrale in quanto a emissioni di carbonio.

Il processo di neutralizzazione delle emissioni di CO2, già iniziato, riguarderà però anche le fabbriche del Gruppo Daimler. La cosiddetta “Factory 56”, nata all’interno degli stabilimenti di Sindelfingen, utilizza energie rinnovabili ed è stata concepita sin dall’inizio per avere zero emissioni di CO2. Lo stesso concetto sarà poi, man mano, esportato a tutti gli impianti industriali del gruppo in Europa entro il 2022.

Daimler punta anche sul riciclaggio, oltre ad esigere ai propri fornitori lo stesso rigore ecologico. Una visione circolare che coinvolge tutto il processo produttivo e che cercherà di essere trasmessa anche ai clienti, attraverso il programma “Mercedes Me Charge” che, come sostiene la stessa azienda, permetterà di “caricare le proprie vetture ecologiche utilizzando corrente ecologica”. In sostanza, sarà possibile ricaricare i veicoli in stazioni pubbliche in tutta Europa, con energia prodotta attraverso fonti rinnovabili.

Bmw Group

Il brand tedesco mira ad avere più di sette milioni di veicoli elettrificati sulle strade entro il 2030, due terzi dei quali completamente elettrici.

Parallelamente alla forte crescita della mobilità elettrica, il gruppo Bmw sta espandendo costantemente le sue attività sostenibili. Gli investimenti si concentrano su tre aree principali: il rispetto degli standard ambientali e sociali, la protezione delle risorse naturali e la riduzione delle emissioni di CO2 nella catena di approvvigionamento.

Bmw si è posta l’obiettivo di aumentare in modo significativo la percentuale di materie prime riciclate utilizzate entro il 2030 e di utilizzare più volte le materie prime in un’ottica circolare. Inoltre, per la stessa data, si vogliono ridurre le emissioni di CO2 della catena di fornitura del 20% per veicolo rispetto ai livelli del 2019. Senza misure correttive, le emissioni di CO2 della catena di fornitura aumenterebbero di oltre un terzo: attraverso l’utilizzo di energie rinnovabili nella produzione delle celle della batteria della BMW iX c’è stata invece significativa riduzione delle emissioni.

Toyota

Il colosso nipponico pioniere dell’ibrido, con milioni di vetture vendute nel mondo, ha stretto un accordo con Panasonic per dare una seconda vita alle sue batterie. Inoltre, ha appena attivato una joint-venture con Subaru per realizzare una piattaforma elettrica destinata alla produzione di nuove autovetture 100% green. Quella dell’elettrificazione è l’obiettivo primario di Toyota: per favorire la transizione elettrica e potenziare le infrastrutture di ricarica ha sottoscritto una partnership in Italia con Edison, per installare oltre 300 colonnine di ricarica, ad accesso pubblico e alimentate da energia rinnovabile, presso tutti i concessionari e centri assistenza Toyota e Lexus.

Le sfide ambientali di Toyota per il 2050 comprendono anche l’azzeramento delle emissioni di CO2 nel ciclo di vita delle auto, il raggiungimento delle zero emissioni di CO2 negli impianti di produzione e di una gestione efficiente delle acque di scarico e dei consumi idrici durante la produzione.

fonte: economiacircolare.com

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Smartphone e computer rigenerati: ecco quanto si risparmia e perché fanno bene all’ambiente

Dai computer agli smartphone (iphone inclusi), dalle stampanti agli elettrodomestici: sono tanti i dispositivi elettronici reimmessi nel mercato



Riparare, ammodernare e rimettere in circolo è un perfetto esempio di economia circolare.

Con l’espressione inglese “refurbished” – traducibile in italiano con “rigenerato” o “ricondizionato” – si indicano tutti quei prodotti elettronici usati – come computer fissi, laptop, smartphone, tablet e stampanti – che, dopo essere stati controllati, eventualmente riparati, aggiornati e testati sia a livello hardware che software, sono pronti per essere rivenduti.

Da dove provengono i prodotti da rigenerare

Non esiste una regola unica, ma riportiamo alcune tra le casistiche più frequenti.

Possono essere, ad esempio, i prodotti resi dai clienti nell’arco temporale offerto da alcuni negozi per esercitare il “diritto al ripensamento” o altrimenti modelli con piccoli difetti estetici ma non funzionali, prodotti con danni agli imballaggi originali (ma non al prodotto). Vi sono poi quelli restituiti in garanzia e riparati dai centri di assistenza o i device restituiti alla scadenza di un leasing o di un noleggio.

Dove acquistare computer e smartphone refurbished

Sono molte le realtà che mettono a disposizione prodotti ricondizionati. Vi sono dei negozi o delle attività specializzate proprio in refurbished come Reware, cooperativa sociale che intercetta i computer dismessi prima che diventino rifiuti prematuri. Pensate che, solo nel 2015, la cooperativa ha rigenerato quasi 6 tonnellate di apparecchiature informatiche (circa 1.500 computer) e stima di averne raddoppiato la vita utile facendola passare da una media di 4 anni a una media di 8 anni. “Vivendo il doppio” di fatto se ne riduce della metà l’impatto ambientale visto che, riutilizzando i prodotti rigenerati, si evita l’acquisto di nuovi esemplari equivalenti.

L’altro consiglio è poi quello di contattare i negozi di informatica della propria città. Sono molti quelli che, assieme ai nuovi esemplari, offrono la possibilità di acquistare i prodotti rigenerati. Spesso vi è poi un’apposita sezione anche nei negozi e negli e-commerce dei megastore.

Il caso dei ricondizionati Apple

Quali sono i prodotti ricondizionati maggiormente ricercati dalle persone? Andando ad interrogare uno dei software che registrano le ricerche effettuate sulla rete, tra le risposte più frequenti troviamo i prodotti Apple come Iphone e Mac. L’azienda di Cupertino ha una sezione dedicata proprio ai rigenerati sul proprio portale ufficiale.

Come indicato sul sito, assicurano che il dispositivo sarà “come nuovo” con uno sconto del 15%, sarà coperto da garanzia, assistenza della casa madre e con possibilità di restituzione entro 14 giorni. Visitando il portale è possibile trovare diversi modelli di iPhone, MacPro e iPad. Ovviamente non sono disponibili tutti i modelli ma, considerati gli sconti, ci si potrebbe accontentare…
Quanto si risparmia scegliendo apparecchi ricondizionati

Perché acquistare un prodotto rigenerato? Sicuramente per il risparmio ambientale considerato che, con molta probabilità, si ridurrebbe il numero di device che verrebbero buttati e quelli che sarebbe necessario costruire ex novo.

Il vantaggio che, probabilmente, viene percepito con maggiore interesse è innanzitutto quello economico: acquistando un apparecchio rigenerato si spende mediamente meno. Quanto? Dipende da molteplici varianti: sull’ecommerce di Apple lo sconto è del 15%, ma, se visitiamo l’apposita sezione sul sito di Mediaworld, noteremo che gli sconti variano dal 10 al 30%. Navigando su vari portali poi, a seconda dei modelli, si arriva a sconti ancora più alti. Ovviamente vi consigliamo di informarvi approfonditamente sulle condizioni meccanico-funzionali ed estetiche dei prodotti che vi interessano prima di procedere all’acquisto!

Quali prodotti si possono comprare rigenerati?

Fino ad ora ci siamo occupati soprattutto di computer e smartphone, ma qualsiasi apparecchio elettronico – dalle cuffie alle fotocamere, dai robot da cucina ai frigoriferi – può essere ricondizionato.
Che differenza c’è tra ricondizionati e usati?

Il prodotto usato è venduto nello stato di usura in cui si trova e non viene revisionato nella parte hardware e software. Uno rigenerato, sebbene non sia nuovo (è bene sottolinearlo), viene rimesso sul mercato “pari al nuovo” salvo eventuali difetti estetici dichiarati. In merito alla garanzia, per l’usato vale solo se residua quella originale mentre per i refurbished è prevista per legge: il vostro laptop o smartphone ricondizionato sarà garantito per 12 mesi.
Quanto vale il mercato refurbished?

È difficile tracciare una linea unica a riguardo ma riportiamo alcuni dati di recenti ricerche. In termini monetari, secondo il report Deloitte, nel 2018 il valore del mercato dei prodotti ricondizionati può essere stimato in 17 miliardi di dollari.

In un periodo in cui si registra una contrazione del mercato degli smartphone nuovi, si stima che gli esemplari usati e ricondizionati nel 2020 abbiano superato quota di 225 milioni di vendite con un +9% rispetto al 2012. Secondo il report IDC, nel 2024 arriveranno a superare i 351 milioni di transazioni per un valore di 65 miliardi di dollari.

Cosa sono le “rigenerazioni solidali”?

In alcuni casi la rigenerazione nasce per fini solidali e i dispositivi vengono raccolti grazie alle donazioni di chi possiede apparecchi funzionanti ma inutilizzati.

A seguito della pandemia, ad esempio, è nato “Device4all” – un progetto ideato da Nonna Roma, Rimuovendo gli Ostacoli e Informatici senza Frontiere – per contrastare la disuguaglianza educativa e dare supporto ai giovani che debbono seguire le lezioni in DaD ma non sono in possesso di pc o tablet adeguati.

I dispositivi elettronici donati, sottoposti alla cancellazione sicura dei dati ivi presenti e all’installazione del software, sono quindi pronti per essere consegnati alle famiglie beneficiarie.

fonte: economiacircolare.com

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