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Move Up 2021

Per il Memorandum No Profit on People and Planet la pandemia non è una calamità naturale e la geoingegneria non è la soluzione per il ripristino del buon funzionamento dei sistemi naturali. Inutile attendere soluzioni dal G20. Sta ai movimenti, alle associazioni e alle persone comuni prendersi cura insieme, ovunque e in tanti modi diversi, di ogni forma di vita, a cominciare dalla rigenerazione dei suoli degradati e dall’agroecologia. Ha scritto Vandana Shiva: “La pandemia è conseguenza della guerra che abbiamo ingaggiato contro la vita”

Tratta da unsplash.com

Bene fa il Memorandum* No Profit on People and Planet – G20-Memorandum_IT-3 – a non considerare la pandemia da Sars-CoV-2 un incidente di percorso e nemmeno una calamità naturale piovuta dal cielo. Ha scritto Vandana Shiva: “La pandemia è conseguenza della guerra che abbiamo ingaggiato contro la vita”. La pandemia è il boomerang che torna indietro. É una delle tante prevedibili reazioni della natura agli sconvolgimenti arrecati dalle attività umane sconsiderate. Esattamente come lo è – con ricadute su altre matrici ambientali – il riscaldamento globale causato dalla emissione di gas climalteranti. Quando si distruggono sistematicamente gli habitat naturali ancora incontaminati (come le foreste primarie, le zone artiche, le lagune, le savane, i boschi e le praterie) non si crea “solo” l’estinzione di massa delle specie viventi (biocidio), ma si creano anche le condizioni affinché virus animali potenzialmente patogeni compiano vari “salti di specie” (spillover) fino a giungere a noi, passando per gli allevamenti intensivi, per i mattatoi e per i mercati di animali selvatici. Una eventualità, questa, ampiamente prevista e inutilmente segnalata dagli scienziati. Ha scritto un virologo: “Perturbare gli ecosistemi è come aprire autostrade ai virus verso il salto di specie”.

Secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente il 75 per cento dell’ambiente terrestre e il 65 per cento di quello marino sono stati gravemente alterati da attività antropiche. Per rimanere a casa nostra, pensiamo solo al “consumo di suolo”: quattordici ettari al giorni vengono asfaltati, cementificati, inertizzati.

La correlazione tra distruzione della biodiversità e malattie di origine zoonotica è conosciuta. Ha scritto in modo esemplare il Giuseppe Ippolito, Direttore scientifico dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive dell’Ospedale Spallanzani di Roma:

“Non è possibile separare la salute degli uomini da quella degli animali e dall’ambiente. L’esperienza di questi anni, con l’emergere di continue zoonosi, ci ricorda che siamo ospiti e non padroni di questo pianeta che ci impone di creare il giusto equilibrio tra le esigenze delle specie umana e della altre specie animali e vegetali che viaggiano insieme a noi in questa arca di Noè chiamata Terra”.

Ben vengano quindi i vaccini, le terapie geniche, le più raffinate cure farmacologiche, i presidi medici. Ma non rimuoviamo dalla nostra mente né le cause primarie di gran parte delle malattie virali, né le interrelazioni biologiche con le condizioni sociali e ambientali che aggravano la vulnerabilità delle persone. Pensiamo all’inquinamento dell’aria e dell’acqua, alla cattiva alimentazione, alle stressanti condizioni di vita e di lavoro che provocano disturbi cardiovascolari, malattie respiratorie croniche, diabete, obesità e altre alterazioni psicofisiche.

Quest’anno è l’anno della COP 26, che si tiene con un anno di ritardo a Glasgow e a Milano. Una conferenza decisiva se si vogliono raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi (2015) di contenimento dell’aumento della temperatura di 1,5 gradi. Quest’anno si svolgerà in Cina anche la 15° Conferenza sulla salvaguardia della diversità biologica. Il ripristino del buon funzionamento dei sistemi naturali, la rigenerazione dei suoli degradati, l’agroecologia sarebbero la soluzione ideale, perché basata sulla natura, anche per riassorbire al suolo l’anidride carbonica. É stato calcolato che risanare il 30 per cento di praterie, zone umide e savane, lasciando che la natura si riprenda i propri spazi, salverebbe il 70 per cento degli animali a rischio di estinzioni e consentirebbe di assorbire la metà delle emissioni la metà delle emissioni di CO2 accumulate nell’atmosfera dall’inizio della rivoluzione industriale. Ma le soluzioni più semplici ed economiche non sono gradite dalle oligarchie mondiali che dominano l’economia che preferiscono giocare al dottor Frankenstein avanzando prepotentemente soluzioni azzardate di geoingegneria come lo sono le tecniche di cattura, confinamento, stoccaggio nel sottosuolo dell’anidride carbonica emessa dalle centrali termoelettriche e dai grandi impianti industriali. Un trucco e un diversivo per non cambiare nulla e per guadagnarci pure.

Attenzione dunque alle furbizie semantiche che si nascondono dietro un mare di retorica “green”. Dire “emissioni zero” (entro, se non prima del 2050) è diverso da “neutralità climatica” o da “emissioni nette negative”. Un conto è smettere di bruciare combustibili fossili, un altro paio di maniche è nascondere sotto terra un gas tossico e corrosivo come la CO2. L’Eni (industria di stato) vuole creare sotto l’Adriatico un gigantesco stoccaggio di anidride carbonica liquefatta. Un pericolo enorme, una bomba ecologica ad orologeria che, per di più, pregiudica le strategie di una vera decarbonizzazione.

Confesso che spesso colgo anche nelle persone più coscienti e impegnate un senso di sconforto e di impotenza. Quali altri disastri devono ancora accadere perché possano saltare quei “lucchetti” (indicati dal Memorandum) che impediscono il cambiamento? Cosa possiamo fare noi, se non sono bastati gli scienziati del clima, i medici, i biologi? Se non è bastata un’enciclica rivoluzionaria come la Ludato si’? Se non sono bastate le parole puree e indignate di una ragazzina che si chiama Greta?

Forse, quel che manca ancora, siamo proprio noi. É la capacità dei movimenti, delle associazioni, dei gruppi della cittadinanza attiva di mettersi assieme e diventare popolo della Terra. Cittadine e cittadini planetari, ma con i piedi ben radicati per terra. Capaci di prendersi cura dei nostri simili e di ogni forma di vita di questo meraviglioso mondo.

*La proposta del “Memorandum dei cittadini” è stata fatta inizialmente dall’Agorà degli Abitanti della Terra (AAT, rete internazionale promossa tra gli altri da Riccardo Petrella) in vista del Vertice Mondiale della Salute del G20 in Italia, e sostenuta da transform.it e transform.eu. Grazie al loro sostegno è stata costituita una piattaforma collaborativa, l’Iniziativa Move UP 2021, cui hanno aderito altre associazioni quali Medicina democratica, la Società della cura, Laboratorio Sud, The Last 20… Il “Memorandum” è stato sottoscritto da circa quaranta persone e associazioni. La redazione finale del documento ha beneficiato di vari contributi individuali e di gruppo in Italia (tra cui quelli di Paolo Cacciari e del Monastero del Bene Comune) e in altre regioni del mondo.

Paolo Cacciari


fonte: comune-info.net/


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Come hanno avvelenato l’Italia

Adesso servirebbero almeno 30 miliardi di euro per ripulire l’Italia dalle devastazioni ambientali prodotte nel Novecento dall’industrializzazione. Sono quelli che, forti di molti silenzi e sistematiche complicità, hanno sempre evitato di pagare le imprese per arginare e, laddove possibile, riparare i danni colossali prodotti dalla sete di profitti da realizzare con ogni mezzo possibile e a qualsiasi prezzo. “Mala terra”, di Marina Forti, racconta l’altra faccia di uno sviluppo che per quasi un secolo ha considerato blasfemo ogni tentativo di critica

















Mala Terra, scritto dalla giornalista Marina Forti e pubblicato da Laterza, è un libro prezioso, fondamentale, imprescindibile per capire quali sono i pesantissimi strascichi lasciati dal processo di industrializzazione condotto nel secolo scorso nel nostro Paese. Soprattutto spiega alla perfezione come si stia gestendo, molto male, questo pesante lascito.
Grazie a una minuziosa ricostruzione storica e una costante presenza sul campo, uno stile asciutto e incisivo, Forti ci racconta di territori martoriati, comunità che non si arrendono, di una classe imprenditoriale sempre pronta a “socializzare” problemi e difficoltà e di istituzioni spesso assenti, a volte maldestre, non di rado complici.
Sulla scorta di un’esperienza decennale in giro per il mondo anche come inviata del Manifesto, per il quale ha curato a lungo la rubrica Terra Terra, l’autrice riesce a trattare con la giusta sensibilità alcuni passaggi fondamentali della recente storia italiana, in primis il ruolo chiave svolto dal comparto chimico, considerato per anni la panacea di tutti i mali e una fonte inesauribile di posti di lavoro.
Mala Terra è così un susseguirsi di storie ben conosciute, come il dramma di Taranto o la saga infinita di Porto Marghera, di altre scomparse troppo presto nei media nazionali, come i casi di Bagnoli o Portoscuso, o di altre ancora di cui si sa pochissimo, per non dire nulla, perché hanno avuto un po’ di eco solo sui quotidiani a tiratura locale, come la vicenda Caffaro a Brescia.
Certo, nell’età dell’oro dell’industria italiana questi luoghi erano una sorta di oasi felici, come Colleferro, la città-fabbrica della Valle del Sacco, dove la classe operaia locale aveva raggiunto un discreto benessere anche perché tutto era pensato in funzione della produzione aziendale. Non va dimenticato che, per esempio, per il petrolchimico di Priolo sono spariti agrumeti di gran pregio o che a Bagnoli un’embrionale vocazione turistica è stata cancellata dallo sviluppo industriale che ha lasciato solamente macerie.
Per molto tempo i lavoratori sono rimasti beatamente ignari dei rischi per la salute legati a quanto maneggiavano o respiravano in fabbrica. Ma già nella seconda metà degli anni Settanta per molti dei casi esaminati nel libro si iniziò a capire quali erano le conseguenze dell’avere a che fare con sostanze come Pcb o diossine, mercurio o solventi clorurati. E che lo smaltimento di quelle sostanze era e sarebbe sempre stato un grosso problema. Si sono sfiorate immense tragedie. A Porto Marghera, quando un incendio è arrivato a 20 metri da un deposito dove c’erano 12 tonnellate del letale fosgene, si è sfiorata una nuova Bhopal.
Sono stati commessi errori sistemici: alla fine del loro ciclo queste industrie assicuravano pochi posti di lavoro, eppure nessuno ha pensato a pianificare un giusto processo di riconversione, come accaduto con esiti più o meno positivi in altri paesi. Meglio spremere il più possibile l’esistente, senza uno straccio di visione di medio e lungo termine.
Il tutto “scordandosi” poi delle bonifiche, che invece chiedono a gran voce i mille comitati, associazioni e organizzazioni nate nei territori dove si continua a morire e a soffrire per uno sviluppo industriale fuori controllo. Per ripulire l’Italia servirebbero almeno 30 miliardi di euro. Tanti soldi che avrebbero dovuto in buona parte sborsare le compagnie private, che troppo spesso si sono guardate bene dal riparare i danni causati dal profitto a ogni costo.





fonte: https://comune-info.net

A quando la conversione ecologica?

















È grave che un problema così impellente come la crisi ecologica non sia al centro del dibattito elettorale nel nostro paese. ”Le previsioni catastrofiche- ci ammonisce papa Francesco in Laudato Si’- non si possono più guardare con disprezzo e ironia.Potremo lasciare alle prossime generazioni troppe macerie, deserti e sporcizia”.Siamo oggi sull’orlo del disastro ecologico. Eppure continuiamo a procedere come se nulla fosse. La colpa è di tutti noi. Primo della politica, oggi prigioniera della lobby degli idro-carburi, poi del movimento ambientalista, oggi più che mai frammentato e indebolito, e infine delle comunità cristiane che non hanno ancora colto la sfida lanciata da Francesco con Laudato Si’: la sfida di una “conversione ecologica” (leggi Il Cantico che non c’era di Paolo Cacciari).
Il movimento ambientalista riteneva che l’Accordo di Parigi (COP 21-2015) avrebbe finalmente dato una forte spinta per forzare i governi a prendere drastiche misure per scongiurare la catastrofe ecologica. Ma purtroppo non ci eravamo accorti che Parigi era il frutto avvelenato delle lobby petrolifere Usa, perché è solamente un accordo e non un Trattato; inoltre ogni nazione ha la responsabilità di decidere i suoi impegni che non sono vincolanti.
Ci eravamo illusi che il movimento avrebbe potuto forzare i governi ad implementare l’Accordo: ciò non è avvenuto. L’arrivo poi di Trump, con la decisione di ritirarsi dall’Accordo di Parigi, ha fatto il resto. L’Italia, invece, che ha firmato l’Accordo, ha fatto ben poco per metterlo in pratica. Con Sblocca Italia, il governo Renzi ha rilanciato con forza le trivellazioni per terra e per mare, prevedendo procedure semplificate per il rilancio dei permessi di ricerca e di estrazione. Sia il governo Renzi che il governo Gentiloni hanno poi continuato la politica degli inceneritori, delle discariche, della cementificazione selvaggia del suolo, della Tav, della Tap, delle megastrutture stradali e aeroportuali.
“La questione ambientale – ha detto giustamente il senatore Luigi Manconi – riguarda il Partito democratico e tutta la politica italiana e rimanda a un deficit culturale dell’intera classe dirigente”. Dobbiamo riconoscere che i partiti italiani, in larga parte, sembrano avere un’unica preoccupazione: la crescita.Eppure sappiamo che una crescita costante e illimitata, sia in economia come nei comfort, è alla base della crisi ecologica. Purtroppo dobbiamo anche riconoscere che il movimento in difesa dell’ambiente si è indebolito e annacquato. “Col passare degli anni, i movimenti si sono appiattiti sui valori e le ‘leggi’ dell’economia globalizzata – osserva il noto ambientalista Giorgio Nebbia – Molti sono diventati collaboratori dei governi nelle imprese apparentemente verdi”. In questo indebolimento hanno giocato anche fattori come visibilità, protagonismo, individualismo, ricerca di potere. Purtroppo anche quel forte movimento in Campania (contro discariche, rifiuti tossici, roghi) si è sciolto come neve al sole.
Ma altrettanto deludente per me è il fatto che dalle comunità cristiane non sia nato un forte impegno ecologico in seguito all’enciclica Laudato Si’,un testo straordinario di papa Francesco, ma che trova difficoltà a essere fatto proprio dai fedeli, forse perché anche preti e vescovi non l’hanno fatto proprio. Infatti non è ancora nato un serio movimento in seno alla chiesa in Italia. È un peccato questo perché in questo momento epocale un serio impegno da parte della comunità cristiana potrebbe rafforzare il movimento in difesa dell’ambiente. Solo insieme, credenti e laici, potremo realizzare un grosso movimento popolare per forzare i partiti e il nuovo governo a mettere al centro il problema ecologico. È un compito fondamentale per tutti noi, credenti e laici. Solo insieme ci possiamo salvare.
“L’Accordo di Parigi è totalmente insufficiente per affrontare la problematica del riscaldamento globale – affermano giustamente G. Honty e E. Gudynas di La Via Campesina. La società civile non può restare passiva e deve raddoppiare i propri sforzi per andare oltre questo tipo di accordi e realizzare misure effettive, reali, concrete, contro il cambiamento climatico. Molte saranno costose e dolorose, ma il compito è urgente”. A quando la conversione ecologica?
Alex Zanotelli
fonte: https://comune-info.net

Fermare l’incendio planetario

L’amministrazione Trump non è mai stata divisa tra quelli che volevano stracciare l’Accordo di Parigi e quelli che volevano rispettarlo. È stata divisa tra quelli che volevano stracciarlo e quello che volevano restarvi ma ignorarlo del tutto. Cosa possiamo fare ora? Un appello maturato tra i movimenti sociali di tutto il mondo propone di applicare sanzioni economiche di fronte al vandalismo climatico di Trump. Ma i governi non sono i soli che possono imporre penali economiche per un comportamento letale e immorale: i movimenti possono farlo direttamente sotto forma di campagne di boicottaggio e disinvestimenti mirate contro governi e imprese


















Ora che pare virtualmente certo che Donald Trump ritirerà gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima e che il movimento sul clima si sta molto giustamente mobilitando di fronte a questo più recente sbandamento, è ora di essere concreti riguardo a una cosa: praticamente tutto ciò che è debole, deludente e inadeguato riguardo a tale accordo è il risultato dell’attività di pressione statunitense a partire dal 2009.
Il fatto che l’accordo impegni unicamente i governi a mantenere il riscaldamento al di sotto di un aumento di due gradi, piuttosto che di un obiettivo molto più sicuro di 1,5 gradi, è stato forzato e ottenuto dagli Stati Uniti.
Il fatto che l’accordo ha lasciato alle singole nazioni decidere quanto sono disposte a fare per raggiungere quella temperatura obiettivo, consentendo loro di venire a Parigi con impegni che collettivamente ci pongono su una via più disastrosa di un riscaldamento di tre gradi, è stato forzato e ottenuto dagli Stati Uniti.
Il fatto che l’accordo tratti persino questi impegni inadeguati come non vincolanti, il che significa che i governi non hanno nulla da temere se ignorano i loro impegni, è un’altra cosa che è stata forzata e ottenuta dagli Stati Uniti.
Il fatto che l’accordo vieti specificamente ai paesi poveri di pretendere i danni per i costi dei disastri climatici è stato forzato e ottenuto dagli Stati Uniti.
Il fatto che si tratti di un “accordo” o “intesa” e non di un trattato – esattamente ciò che rende possibile a Trump mettere in scena il film d’azione al rallentatore del suo ritiro, con il mondo in fiamme dietro di lui – è stato forzato e ottenuto dagli Stati Uniti.
Potrei continuare. E continuare. Spesso gli Stati Uniti hanno avuto, in questo bullismo dietro le quinte, l’aiuto di illustri petro-stati quali l’Arabia Saudita. Quando hanno aggressivamente esercitato pressioni per indebolire l’accordo di Parigi, i negoziatori statunitensi hanno solitamente sostenuto che qualsiasi impegno maggiore sarebbe stato bloccato dalla Camera e dal Senato controllati dai Repubblicani. E ciò era probabilmente vero. Ma parte dell’indebolimento – in particolare le misure concentrare sull’equità tra nazioni ricche e povere – è stato perseguito principalmente per abitudine, perché preoccuparsi degli interessi delle industrie e ciò che gli Stati Uniti fanno nei negoziati internazionali.
Quali che siano le ragioni, il risultato finale è stato un accordo che ha un obiettivo decente riguardo alla temperatura, e un piano dolorosamente debole e meschino per raggiungerlo. Ed è questo il motivo per il quale, quando è stato rivelato per la prima volta, James Hansen, verosimilmente il più rispettato scienziato del clima al mondo, ha definito l’accordo “una frode, davvero, un falso”, poiché “non c’è nessuna azione, solo promesse”.
Ma debole non è sinonimo di inutile. Il potere dell’Accordo di Parigi è sempre stato riposto in quanto i movimenti sociali hanno deciso di farne. Avere un chiaro impegno a mantenere il riscaldamento sotto i due gradi Celsius, perseguendo contemporaneamente “sforzi per limitare l’aumento della temperatura d 1,5 gradi” significa che non rimane spazio perché il bilancio globale del carbonio sfrutti nuove riserve di combustibili fossili.
Tale semplice fatto, anche senza un vincolo legale a sostenerlo, è stato un potente strumento nelle mani dei movimenti contro nuovi oleodotti, campi di fratturazione idraulica e miniere di carbone, nonché nelle mani di alcuni giovani coraggiosi che hanno portato in tribunale il governo statunitense per proteggere il loro diritto a un futuro sicuro. E in molti paesi, inclusi gli Stati Uniti fino a molto di recente, il fatto che i governi abbiano dato almeno un’adesione di facciata a tale obiettivo della temperatura li ha lasciati vulnerabili a quel tipo di pressione morale e popolare. Come ha detto il giornalista e fondatore di 350.org Bill McKibben il giorno in cui è stato rivelato l’accordo di Parigi, i leader mondiali hanno fissato “un obiettivo di 1,5 gradi e poco ma sicuro che glielo faremo rispettare”.
In molti paesi tale strategia prosegue, indipendentemente da Trump. Alcune settimane fa, ad esempio, una delegazione di nazioni isolane del Pacifico poco sopra il livello  del mare si è recata presso le sabbie bituminose di Alberta per chiedere che il primo ministro Justin Trudeau smetta di espandere la produzione di quella fonte di combustibile ad alta emissione di carbonio, sostenendo che se egli non lo farà violerà lo spirito delle sua belle parole e promesse a Parigi.
E questo è sempre stato il compito del movimento globale per la giustizia climatica quando si è trattato di Parigi: cercare di vincolare i governi al forte spirito, piuttosto che alla debole lettera, dell’accordo. Il problema è che non appena Trump è salito alla Casa Bianca è stato perfettamente chiaro che Washington non era più suscettibile a quel genere di pressione. Il che rende piuttosto sconcertati alcuni degli istrioni di fronte alla notizia che Trump pare ritirarsi ufficialmente. Comunque vada la decisione sull’Accordo di Parigi, tutti già sapevamo che sotto Trump era nelle carte un ritorno al peccato riguardo al clima. Lo abbiamo saputo non appena egli ha nominato Rex Tillerson a capo del Dipartimento di Stato e Scott Pruitt a capo dell’Epa. Ne abbiamo avuto conferma quando nella prima settimana in carica ha firmato i suoi decreti presidenziali sul Keystone XL e sulla Dakota Access Pipeline.
Per mesi abbiamo sentito parlare delle presunte lotte di potere tra quelli che volevano restare nell’accordo (Ivanka, Tillerson) e quelli a favore di abbandonarlo (Pruitt, il capo stratega Steve Banno, lo stesso Trump). Ma il fatto stesso che Tillerson abbia potuto essere la voce del campo del “restiamo” avrebbe dovuto rivelare l’assurdità di questa totale farsa.
Sono state le compagnie petrolifere come quella per la quale Tillerson ha lavorato per 41 anni a esercitare pressioni che hanno contribuito a garantire che gli impegni presi a Parigi fossero privi di qualsiasi meccanismo di imposizione. È per questo che un mese dopo la negoziazione dell’accordo la Exxon Mobil, con Tillerson ancora al timone, se n’è uscita con un rapporto che affermava “ci aspettiamo che petrolio, gas naturale e carbone continueranno a soddisfare circa l’ottanta per cento della domanda globale “ tra ora e il 2040. Era una sfrontata manifestazione di arroganza da parte dei sostenitori del “non è successo niente”. La Exxon sa benissimo che se vogliamo una decente opportunità di mantenere il riscaldamento sotto 1,5 – 2 gradi, l’obiettivo dichiarato dell’Accordo di Parigi, l’economia globale deve abbandonare virtualmente tutti i combustibili fossili entro la metà del secolo. Ma la Exxon ha potuto offrire tali assicurazioni ai suoi investitori – e anche affermare che appoggiava l’accordo – perché sapeva che l’accordo di Parigi non aveva forza vincolante.
È lo stesso motivo per cui la fazione di Tillerson nell’amministrazione Trump ha ritenuto di poter conciliare l’essere a Parigi e contemporaneamente smantellare il nucleo centrale dell’impegno statunitense in base all’accordo, il Pianto Energia Pulita. Tillerson, meglio di chiunque altro sul pianeta, sa quanto legalmente debole è l’accordo. Da amministratore delegato della Exxon ha contribuito ad assicurare che lo fosse.
Così quando cerchiamo di dare un senso a quest’ultima commedia, non sbagliamoci: l’amministrazione Trump non è mai stata divisa tra quelli che volevano stracciare l’Accordo di Parigi e quelli che volevano rispettarlo. È stata divisa tra quelli che volevano stracciarlo e quello che volevano restarvi ma ignorarlo del tutto. La differenza è di ottica; in un modo o nell’altro viene emessa la stessa quantità di carbonio.
Alcuni dicono che non è quello il punto, che il rischio vero del ritiro degli Stati Uniti è che incoraggerà tutti gli altri a ridurre le loro ambizioni e presto tutti abbandoneranno Parigi. Forse, ma non necessariamente. Proprio come il disastro di Trump riguardo all’assistenza sanitaria sta incoraggiando stati a considerare un’assicurazione unica più seriamente di quanto abbiano fatto da decenni, l’incendio climatico di Trump ha sinora alimentato unicamente l’ambizione climatica in stati come la California e New York. Anziché gettare la spugna, coalizioni come New York Renews, che sta premendo con forza perché lo stato passi interamente all’energia rinnovabile entro il 2050, stanno diventando ogni giorno più forti e più audaci.
Anche fuori dagli Stati Uniti i segnali non sono malvagi. La transizione alle energie rinnovabili sta già procedendo così rapidamente in Germania e in Cina, e i prezzi stanno calando così notevolmente, che forze di gran lunga maggiori di Trump stanno oggi stanno spingendo la svolta. Ovviamente è ancora possibile che il ritiro di Trump provochi un ritorno all’indietro globale. Ma è anche possibile che accada l’opposto, che altri paesi, sotto la pressione delle loro popolazioni arrabbiate per le azioni di Trump praticamente a ogni livello, diventino più ambiziosi se gli Stati Uniti tralignano. Potrebbero persino decidere di rinforzare l’accordo senza negoziatori statunitensi che li rallentino ogni momento.
E c’è ancora un altro appello che sempre più si sente da movimenti sociali di tutto il mondo: a sanzioni economiche di fronte al vandalismo climatico di Trump. Poiché ecco l’idea folle: che sia o no scritto nell’Accordo di Parigi, quando si decide unilateralmente di bruciare il mondo, dovrebbe esserci un prezzo da pagare. E ciò dovrebbe valere sia che si tratti del governo degli Stati Uniti, della Exxon Mobil o di qualche fusione alla Frankenstein dei due.

Un anno fa nei circoli dirigenziali si rideva del suggerimento che gli Stati Uniti dovessero subire una punizione tangibile per il fatto di mettere a rischio il resto dell’umanità: certamente nessuno avrebbe messo in pericolo le proprie relazioni commerciali per qualcosa di così frivolo come un pianeta vivibile. Ma giusto questa settimana Martin Wolf, scrivendo sul Financial Times ha dichiarato: “Se gli Stati Uniti si ritirassero dall’accordo di Parigi il resto del mondo dovrebbe prendere in considerazione sanzioni”.
Probabilmente siamo ben lungi da un passo simile da parte di partner commerciali degli Stati Uniti, ma i governi non sono i soli che possono imporre penali economiche per un comportamento letale e immorale. I movimenti possono farlo direttamente sotto forma di campagne di boicottaggio e disinvestimenti mirate contro governi e imprese, sul modello sudafricano. E non soltanto le imprese dei combustibili fossili ma anche l’impero di marca Trump. La persuasione morale non funziona con Trump. La pressione economica potrebbe riuscirci. È arrivata l’ora delle sanzioni popolari.

Naomi Klein

fonte: http://comune-info.net