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#ReCommon: False soluzioni per il clima



Stiamo affidando il nostro futuro ai giganti del fossile, mascherati da paladini dell’ambiente.
Cosa succede quando le grandi multinazionali del petrolio e del gas iniziano a parlare di

Etichetta ambientale, arriva un nuovo logo sostenuto da Nestlé e altri colossi alimentari. Obiettivo 2022























Dopo l’Eco-Score francese, una nuova etichetta ambientale potrebbe presto fare capolino sugli scaffali dei supermercati di tutta Europa e il Regno Unito. O almeno questa è l’intenzione dei suoi promotori e sviluppatori: l’associazione no profit Foundation Earth (creata dal fondatore dell’azienda Finnebrogue Artisan) e una schiera di imprese del settore agroalimentare, che comprende anche i colossi Tyson Foods e Nestlé. Un test pilota è previsto per settembre 2021, quando alcuni marchi metteranno sulle confezioni dei loro prodotti l’etichetta ambientale, con l’obiettivo di portare ufficialmente l’etichetta sul mercato nell’autunno del 2022.

Come nel caso dell’Eco-Score, il logo proposto ricorda molto da vicino il Nutri-Score, ma anche un po’ l’etichetta energetica degli elettrodomestici. Si tratta infatti di un’etichetta a semaforo che unisce una scala di colori – dal verde scuro al rosso – con delle lettere, in questo caso dalla A+ alla G, per comunicare ai consumatori l’impatto ambientale – “Eco Impact” – di un prodotto.

Ma come funziona questa etichetta? Il sistema si basa su un metodo sviluppato da Mondra e derivato da uno studio di due ricercatori dell’Università di Oxford per la valutazione del ciclo di vita (Life Cycle Assessment o Lca). Il sistema considera la produzione, la lavorazione, il confezionamento e il trasporto di un alimento. L’impatto ambientale che ne deriva viene ponderato del 49% per quanto riguarda l’emissione di carbonio e del 17% ciascuno per l’utilizzo dell’acqua, l’inquinamento idrico e la perdita di biodiversità. Questo metodo sarà utilizzato per generare le etichette ambientali durante il test pilota del prossimo autunno. Allo stesso tempo, però, verrà sviluppato, con il supporto economico di Nestlé, un sistema per combinarlo con quello sviluppato dall’Università belga di Leuven e dall’istituto di ricerca spagnolo AZTI grazie a un finanziamento europeo di EIT Food.

Sulla base delle informazioni rese note dai promotori dell’iniziativa, tuttavia il sistema di calcolo sembra essere un po’ meno trasparente rispetto a quello dell’Eco-Score, i cui ideatori hanno pubblicato tutti gli algoritmi utilizzati per calcolare il contributo di ciascun indicatore e correttore considerato insieme alla valutazione del ciclo di vita, basato a sua volta sui dati del programma pubblico Agribalyse dell’Ademe. Ma dato che il sistema è ancora in divenire e che il metodo usato nel test pilota forse non sarà quello definitivo, si può concedere ai promotori del logo il beneficio del dubbio. Per ora.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Sulla plastica il fallimento delle multinazionali

 

A partire dal 2018 più di duecentocinquanta aziende, incluse le più grandi multinazionali degli alimenti, delle bevande e dell’igiene domestica e personale (Coca Cola, Pepsi, Nestlé, Unilever, L’Oreal e Colgate-Palmolive solo per citarne alcune), si sono impegnate volontariamente per una “New Plastics Economy”.
L’iniziativa, promossa dalla Fondazione Ellen MacArtuhr, mira a intervenire su uno dei problemi ambientali dei nostri tempi: l’inquinamento da plastica. L’impegno prevede per esempio di eliminare, entro il 2025, gli imballaggi in plastica non riciclabili e non necessari, fare in modo che tutti gli imballaggi in plastica messi in commercio siano riutilizzabili, riciclabili o compostabili, incrementare l’utilizzo di plastica riciclata fino al 30 per cento.

Ma quali sono stati i risultati raggiunti finora? A nostro avviso insignificanti, e lo certifica proprio il rapporto della fondazione Ellen MacArtuhr che valuta i progressi annuali delle aziende. Un esempio su tutti l’impiego di plastica vergine che è diminuito solo dello 0,1 per cento rispetto all’anno precedente, mentre il ricorso ad imballaggi riutilizzabili è cresciuto pochissimo, praticamente con la stessa variazione percentuale. Meno di un quinto della plastica non necessaria e più problematica per il riciclo è stata eliminata dalle aziende e anche l’uso di plastica riciclabile (che ha raggiunto i due terzi della produzione delle multinazionali) non può essere considerato un traguardo rassicurante per noi e per il Pianeta. Questo perché, anche se un imballaggio è tecnicamente riciclabile, non è detto che venga effettivamente riciclato.

Lo confermano i numeri del riciclo che, nonostante gli sforzi e gli investimenti in tutto il mondo, sono ben distanti dal farci considerate la riciclabilità e il riciclo come una soluzione concreta per risolvere il problema.

Questi risultati certificano, ancora una volta, come le aziende continuino a basare le loro politiche ambientali in fatto di plastica su false soluzioni che permetteranno di perpetuare il loro attuale modello di business, fondato sullo sfruttamento dei combustibili fossili, con cui continuano a riempire di questo materiale le nostre vite e il nostro Pianeta.

Le aziende hanno concentrato i loro interventi sulla riciclabilità degli imballaggi e sull’aumento di materiale riciclabile, tralasciando completamente gli obiettivi più importanti, come il ricorso allo sfuso e l’impiego di contenitori riutilizzabili. E mentre mettono in campo martellanti operazioni di greenwashing i governi decidono di non intervenire. Potrebbero, per esempio, incentivare chi sceglie di adottare modelli di consegna dei prodotti basati sullo sfuso o sulla ricarica, oppure imporre tasse per le aziende meno virtuose e che con il loro modello di business basato sull’usa e getta continuano ad essere la vera causa scatenante dell’inquinamento globale da plastica. E invece poco o nulla.

In Italia, per esempio, abbiamo un concreto esempio di inazione politica: la Plastic tax la cui entrata in vigore continua a essere procrastinata da parte del governo. Una vicenda emblematica della mancanza di coerenza e assunzione di responsabilità da parte della politica ma anche di aziende che continuano a rinviare un cambiamento necessario.

Eppure, la pandemia che stiamo vivendo avrebbe dovuto spingerci a modificare il rapporto uomo-natura e favorire una riconversione green della nostra economia, in cui la tutela del Pianeta e delle persone venga prima del profitto di pochi. A maggior ragione considerando il contesto attuale in cui abbiamo già dovuto necessariamente aumentare l’uso di plastica monouso per i dispositivi di protezione individuale, indispensabili per proteggerci dal virus.

Questo avrebbe dovuto spingere aziende e governi a diminuire drasticamente la produzione delle altre tipologie di plastica non necessarie e indispensabili. Invece così non è stato. Solo con azioni concrete e incisive, e non di greenwashing, insomma diverse da quelle che le multinazionali continuano a proporre, riusciremo a creare un Pianeta più pulito e più sano.

fonte: www.huffingtonpost.it


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Colpo di scena: Coca-Cola, Pepsi, Nestlé appoggiano un sistema di deposito Europeo



Finalmente dopo decenni di dura opposizione ai sistemi di deposito per i contenitori di bevande le grandi multinazionale del beverage, insieme a dozzine di altri produttori di bevande stanno ora perorando per un’introduzione di sistemi di deposito (DRS: Deposit Return Systems) in tutti gli stati membri. L’Associazione Comuni Virtuosi accoglie con grande soddisfazione questa importante, quanto inevitabile, svolta intrapresa dall’industria delle bevande.
La dichiarazione è arrivata attraverso un comunicato pubblicato ieri sul sito di Euractiv da parte di due associazioni europee del settore : la EFWB che rappresenta più di 500 produttori europei di acqua in bottiglia, e l’UNESDA Soft Drinks Europe, che rappresenta i produttori di bibite che operano in Europa, tra cui Coca-Cola, Pepsico, Danone, Nestlé Waters e Red Bull.

Nella lettera aperta le associazioni dicono di voler massimizzare la raccolta e il riciclaggio di tutti gli imballaggi per bevande: dal vetro, cartone, lattine alle bottiglie in PET. Per queste ultime la direttiva UE sulla plastica monouso (SUP), richiede che ne venga raccolto entro il 2029 il 90% , con un obiettivo intermedio del 77% al 2025. La direttiva SUP stabilisce inoltre che le bottiglie in PET per bevande devono contenere il 25% di contenuto riciclato entro il 2025 e fino al 30% nel 2030.

Per raggiungere questi obiettivi, le due associazioni di categoria rimarcano che l’Europa avrà bisogno di sistemi di raccolta per gli imballaggi altamente efficaci. Se guardiamo alle prestazioni di raccolta e riciclo delle bottiglie per bevande in PET nei paesi membri risulta improbabile che tutti saranno in grado di raggiungere gli obiettivi definiti dalla direttiva.

“La EFWB e l’UNESDA ritengono che sistemi di deposito (DRS) ben progettati potrebbero essere la chiave per un veloce raggiungimento degli obiettivi europei – e un numero crescente di Stati membri dell’UE sta arrivando alla stessa conclusione e sta valutando una loro introduzione. Ha affermato Hans van Bochove, Vicepresidente senior per gli affari pubblici e le relazioni con il governo dei partner europei di Coca-Cola che concorda anche sul fatto che “un DRS ben progettato consentirebbe all’UE di raggiungere i suoi obiettivi di raccolta per le bottiglie per bevande più rapidamente e garantirebbe anche il rPET di qualità alimentare che le nostre le industrie hanno bisogno. Oltre a garantire un riciclo a ciclo chiuso un DRS ridurrebbe anche la quantità di materiali vergini necessari, abbassando così l’impronta di CO2 dell’UE contribuendo così al raggiungimento dei suoi obiettivi per il clima ” .

Le due associazioni affermano che un sistema efficiente di deposito deve soddisfare alcuni importanti criteri di progettazione: dovrebbe avere una portata nazionale, dovrebbe essere il più ampio possibile coprendo tutte le categorie di bevande ed essere istituito e gestito dall’industria coinvolta dal sistema attraverso un’organizzazione no-profit. Inoltre, un DRS dovrebbe essere conveniente per il consumatore, accompagnato da una chiara comunicazione sull’ammontare del deposito/cauzione e relativi scopi e prevedere una rete di facile accesso per la restituzione dei vuoti e relativi depositi. Il meccanismo della cauzione dovrebbero incentivare una cultura del recupero e infine un DRS dovrebbe garantire ai produttori di bevande l’accesso a materiale riciclato per un utilizzo a ciclo chiuso (cioè da bottiglia a bottiglia).




Sempre secondo le due associazioni di categoria la Commissione Europea potrebbe svolgere un ruolo importante nel rendere i sistemi di deposito una realtà sviluppando ad esempio delle linee guida per una loro attuazione.

Sull’esempio di quanto avvenne con la pubblicazione delle linee guida guida sui requisiti minimi per i regimi di EPR (Responsabilità Estesa del Produttore) che sviluppata e adottata nella revisione del 2018 della direttiva quadro sui rifiuti. Questi orientamenti potrebbero essere sviluppati come parte del lavoro della Commissione nei prossimi mesi per l’attuazione del piano d’azione per l’economia circolare e dei fondi di ripresa ( o Recovery Funds) dell’UE.

“Si tratta di una svolta storica“, ha affermato Recycling Netwerk Benelux una delle Ong più attive in Europa nella promozione dei sistemi di deposito, che, come la nostra associazione Comuni Virtuosi, aderisce alla piattaforma europea Reloop per la promozione dell’economia circolare, con particolare focus sui sistemi di riuso. “Cinque anni fa, tutti i produttori di bevande erano ancora tradizionalmente contrari a un deposito sulle bottiglie di plastica. Di conseguenza, alcuni governi europei hanno dimostrato una certa riluttanza ad attuare questa misura ambientale. Ora che le stesse società coinvolte chiedono un sistema di deposito, non c’è più motivo di esitare. Un sistema di deposito con cauzione riduce la quantità di bottiglie di plastica disperse nell’ambiente dal 70 al 90 percento. Per i governi di paesi come Francia, Spagna e Belgio, questo deve essere il segnale di partenza per introdurre finalmente una legislazione nazionale ” ha affermato l’organizzazione ambientale esprimendo .

Non ci sono dubbi sul fatto che senza la pressione esercitata dagli obiettivi imposti dalla Direttiva SUP (Single Use Plastics) che deve essere recepita entro il prossimo 3 luglio, non avremmo assistito a questa “improvvisa” capitolazione di resistenze industriali che hanno dominato gli scenari internazionali per decenni. Questa svolta era d’altronde inevitabile perché non esistono di fatto altri strumenti oltre ai DRS che possono portare in meno di due anni la percentuale di intercettazione oltre al 90%. Lo dimostra il caso lituano , l’ultimo stato europeo ad avere introdotto un sistema di deposito qualche anno fa.

L’ITALIA A CHE PUNTO E’ ?

Venendo all’Italia l’obiettivo di intercettazione del 77% al 2025 per le bottiglie in PET rimane piuttosto sfidante. Questo nonostante l’entrata in campo di Coripet. Senza una legge nazionale che imponga un sistema di deposito con una cauzione che imposta sul prezzo di vendita delle bevande, è tutto più complicato, sia per la parte operativa che richiederebbe l’installazione in tempi brevi e capillarmente su tutto il territorio di un numero sufficiente di macchine di Reverse Vending, che sul versante della sostenibilità economica. Nei sistemi di deposito nazionali ci sono diverse facilitazioni per i partecipanti tra i quali un meccanismo di compensazione dei costi sostenuti che attinge ad un fondo creato dalle fee ricevute dai produttori per i contenitori di bevande che non sono rientrati nel sistema. Questo importo milionario riferito a depositi che non hanno potuto essere restituiti agli utenti (relativi al 10% circa della quantità di contenitori immessi annualmente sul mercato ) viene ripartito ogni anno tra i soggetti che partecipano al sistema.(1) Anche l’importo della cauzione che in Italia non viene applicata non essendoci una legge ha di fatto un peso importante nel successo del sistema. Come si è visto dai paesi dove i sistemi di deposito sono in vigore da anni, se è troppo bassa ci sono meno probabilità che i contenitori vengano restituiti, se è troppo alta può offrire sponda a vari tipi di frodi. Un sistema di deposito è costoso ma i casi dei paesi in cui è stato adottato dimostrano che si ripaga da se’ e che tutti i portatori di interesse ne traggono vantaggi anche economici.

Un requisito di fondamentale importanza (come indicato anche da EFWB e UNESDA) è che un sistema di deposito includa tutti i tipi di contenitori come le bottiglie in vetro e le lattine ( che ormai sono circa 3 volte più numerose delle bottiglie nel littering e cestini stradali). Altrimenti c’è il rischio concreto che i produttori di bevande confezionino una parte dei loro prodotti su tipologie di contenitori non coperte da un DRS, vedi, ad esempio, le sperimentazioni sulla paper bottle di Carlsberg o l’utilizzo di cartoni da parte di alcune marche di acqua in bottiglia.

Ma questo lo vedremo più avanti perché in Italia una discussione e un confronto sui sistemi di deposito non è, sorprendentemente, neanche iniziata. I pochi articoli che si leggono in italiano che entrano un minimo nel dettaglio di questi sistemi si trovano su questo sito.

Mappa dei DRS- Credit : Retorna ES

Tuttavia con questa svolta “epocale” da parte dei produttori di bevande, è necessario che il governo italiano prenda in mano la questione e dia l’incarico all’ISPRA, ad ARERA, o ad altra organizzazione indipendente e accreditata, di redarre un primo studio che delinei costi e benefici di quale potrebbe essere il modello di deposito più adatto per il nostro paese. si può fare partendo da un’analisi di quelli esistenti e di quelli in divenire per quanto riguarda la legislazione e il modello adottato, che serva da base per lo sviluppo di una legge nazionale. Non è più necessario partire da zero, esiste ormai una solida evidenza da cui attingere.

Con una decina di paesi europei che hanno da tempo in vigore un sistema di deposito per bottiglie di plastica e lattine, e 11 governi europei che hanno deciso di introdurre o espandere il proprio sistema nazionale sarebbe il caso di non dormire sugli allori di alcune nostre performance di recupero di materia.

Sempre se non vogliamo correre il rischio di diventare in questa classifica europea il fanalino di coda. Siamo già stati “sorpassati a sinistra” da Romania, Grecia e Turchia.

Silvia Ricci

Immagine in evidenza credit : Deposit Return Systems (DRS) Manifesto ZeroWaste Europe

(1) Video: come funzionano i sistemi di deposito (italiano)

fonte: https://comunivirtuosi.org/


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Se politica e imprese a parole sono sostenibili, green e vogliono salvare il pianeta, come mai la situazione peggiora?

Oggi tutti si riempiono la bocca della parola "sostenibilità" e "ambientalismo", persino chi non solo ha inquinato finora, ma continua bellamente a farlo per non perdere un euro di profitto. Come uscire dal circolo vizioso?



Fino a ieri l’ambiente era considerato meno di zero e gli ambientalisti venivano ritenuti poveri scemi che facevano le Cassandre; oggi improvvisamente, a parole, sono tutti diventati sostenibili, tutti sono per il cambiamento, tutti sono green e tutti stanno salvando il pianeta. Qualsiasi politico, qualsiasi impresa ormai infila queste parole nei suoi discorsi o pubblicità. Ma utilizzate da coloro che sono i maggiori responsabili della catastrofe, sono parole vuote e insignificanti perché la situazione non sta migliorando di un millimetro e si sta aggravando sempre di più.

Il già blando e insufficiente accordo di Parigi sulla riduzione delle emissioni di gas serra non è nemmeno vicino all’obiettivo. I consumi energetici e la produzione illimitata di merci crescono, le emissioni non calano, anzi aumentano. Se non c’è un reale miglioramento, come mai ci prendono costantemente e pervicacemente in giro? Il perché è presto detto, si vorrebbe mantenere la capra della crescita e i cavoli dell’ambiente, cioè tutti quelli che hanno governato, sfruttato, approfittato, inquinato a più non posso, ora vorrebbero con un colpo di bacchetta magica, fare profitti e avere potere come e più di prima, facendo solo un po’ di “green washing” e con quello abbindolare i gonzi che gli credono.

E così ogni politico si trasforma in green e qualsiasi ditta si inventa una stupidaggine minima, fosse solo perché il packaging è fatto per l’uno per cento di plastica riciclata e automaticamente diventa una azienda green e sostenibile. Tanto questi termini non vogliono dire nulla e non ci sono parametri per determinare chi è veramente sostenibile e chi no. La Ferrari consuma un paio di gocce in meno? Automaticamente è green. La Maserati vuole fare un bolide elettrico? Anche lei è senz’altro green. Elon Musk vende dei carri armati elettrici dai costi stellari e per la cui costruzione servono risorse che devastano mezza Africa? E’ senza dubbio green. Addirittura la moda, che è quanto di più superfluo e legato al continuo cambio di vestiti (altrimenti non sarebbe moda) e conseguente spreco di risorse, si spertica in green di qua e green di là.

Oltre quindi a inventarsi balle colossali pur di vendere o mantenere potere, si procrastina sempre, pensando che la natura ci aspetti e che alle multinazionali dei combustibili fossili, chimiche, alimentari, farmaceutiche gli si dia tutto il tempo di “cambiare”, senza che perdano un solo euro di profitto. Cioè quindi che praticamente cambino in qualche centinaio di anni.

E in questo costante procrastinare l’improcrastinabile, l’Unione Europea fissa al 2050 l’ennesimo lontanissimo traguardo in cui dovremmo azzerare le emissioni, quando ci potremmo arrivare tranquillamente in una decina di anni. Proseguendo così al 2050 il pianeta sarà un inferno, altro che green, sostenibile e pulito. L’unico sistema green e sostenibile è quello che mette al primo posto ambiente e persone. Invece quello che accade e per cui la situazione non può migliorare, è che viene prima il profitto, gli azionisti e poi, forse l’ambiente e le persone.

Stessa cosa per la politica: prima vengono il potere e i voti, poi forse l’ambiente e le persone. In questo modo il cambiamento necessario e urgente non avverrà mai, né ora, né al 2030 o al 2050 che sia. E’ infatti fisicamente impossibile far convivere un pianeta dalle risorse finite con un sistema predatorio e produttore di rifiuti come quello della crescita e del profitto sempre e comunque.

Nessuna politica, nessuna impresa che non cambi radicalmente obiettivi, modo di pensare e agire e lo faccia immediatamente, perché immediatamente si può fare, salverà un bel nulla. Siamo in mano a gente senza scrupoli che ci porterà a fondo per la loro brama di potere e soldi. Unica possibilità che abbiamo è creare da subito zone liberate, in città e campagna che si auto organizzino in maniera completamente differente: dal lavoro all’economia, dall’ambiente alla salute, dall’educazione all’alimentazione, dall’energia alla finanza e costruiscano una società dove persona e ambiente siano al centro, poi viene tutto il resto, ma nei fatti, non nei vuoti slogan. E quando si faranno questi cambiamenti, inevitabilmente politica e imprenditoria seguiranno, se non altro perché non vorranno perdere clienti ed elettori Non si può fare, è utopia, è difficile? Allora auguri a chi ancora si illude che un sistema suicida lo salvi.

Paolo Ermani

fonte: www.ilcambiamento.it

ArticoloRoma, 24 ottobre 2019 Plastica monouso, se ad inquinare gli oceani è una manciata di multinazionali

Coca-Cola, PepsiCo e Nestlé sono responsabili da soli della maggior parte della plastica ritrovata negli oceani. Greenpeace avverte: riciclaggio, carta e bioplastiche non sono la soluzione.






















Le centinaia di migliaia di pezzi di plastica monouso che inquinano il pianeta provengono da una manciata di multinazionali. Questo il “verdetto” emesso lo scorso mercoledì da Break Free from Plastics, gruppo di pressione ambientalista di cui fanno parte più di 1800 organizzazioni, tra cui Greenpeace. Durante la seconda “Giornata mondiale della pulizia”, coordinata lo scorso settembre in 51 paesi del mondo, i volontari della coalizione hanno raccolto quasi mezzo milione di rifiuti in plastica provenienti da circa una decina di multinazionali. 

Per il secondo anno consecutivo, evidenzia il rapporto, Coca-Cola è risultata la peggiore con 11.732 pezzi di plastica monouso raccolti in 37 paesi di quattro continenti. Al secondo e terzo posto si collocano invece PepsiCo e Nestle, seguiti, tra i primi 10, da Mondelez International, Unilever, Mars, P&G, Colgate-Palmolive, Philip Morris e Perfetti Van Mille.
Sebbene Cina, Indonesia, Filippine, Vietnam e Sri Lanka continuino a scaricare la maggior parte della plastica negli oceani, i veri responsabili dell’inquinamento da plastica monouso in Asia  – sottolinea il gruppo ambientalista – sono in realtà società multinazionali con sede in Europa e negli Stati Uniti.
Molti di questi produttori – si legge nel rapporto –  pur promettendo di impegnarsi per rendere i propri prodotti più sostenibili, continuano ad adottare un modello commerciale obsoleto e responsabile  della situazione in cui ci troviamo oggi. Promuovere la pratica del riciclaggio è solo un modo per scaricare le proprie responsabilità verso i consumatori”.

Il rapporto afferma che le aziende dovrebbero allontanarsi dalla promozione di “false soluzioni” – come il riciclaggio e le cosiddette “bioplastiche” – e passare invece ad una nuova economia slegata dalla pratica dell’usa e getta. “Questo lavoro conferma ancora una volta che le multinazionali devono fare molto di più per affrontare la crisi dell’inquinamento da plastica che hanno creato. La loro dipendenza dagli imballaggi in plastica monouso si traduce nell’immissione di quantità crescenti di plastica nell’ambiente, i cui impatti sono già oggi devastanti. Il riciclo da solo non è la soluzione, bisogna ridurre urgentemente la produzione di plastica usa e getta”, ha dichiarato Von Hernandez, coordinatore globale della coalizione Break Free From Plastic. 
Le aziende sopra nominate hanno assunto impegni pubblici per ridurre i rifiuti di plastica monouso e aumentare il riciclaggio: Coca-Cola e PepsiCo e Nestlè, in particolare,  si sono impegnate a rendere i loro imballaggi riciclabili, riutilizzabili o compostabili entro il 2025. Ma non basta: “i recenti impegni di multinazionali come Coca-Cola, Nestlé e PepsiCo promuovono come sostenibili alternative come la carta o le bioplastiche che rischiano di generare ulteriori impatti su risorse naturali già eccessivamente sfruttate, come le foreste e i terreni agricoli. Per risolvere il problema dell’inquinamento da plastica – ha detto Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace – le grandi aziende devono ridurre drasticamente la produzione di usa e getta, investendo in sistemi di consegna dei prodotti basati sul riuso e sulla ricarica e che non prevedano il ricorso a packaging monouso”.

fonte: www.rinnovabili.it

La "crescita verde" è una contraddizione in termini: è impossibile

Le lobby del profitto, del business, i cavalieri del capitalismo sfrenato non si arrendono nemmeno di fronte alla constatazione che la crescita infinita è impossibile. E si inventano la "crescita verde", che di verde e di "green" non ha proprio nulla.

















I malati del profitto, del business, coloro per i quali il denaro è l’alfa e l’omega della vita, le inventano tutte pur di glorificare la sacra trinità: Denaro, PIL e Crescita. Visto che molti si stanno  accorgendo in maniera sempre più chiara che la crescita è un cancro che significa esclusivamente la devastazione del mondo rendendolo una discarica dove le persone sono cavie per le malattie prodotte dal cancro, si cerca in ogni modo di indorare la pillola per continuare imperterriti a guadagnare e fare il proprio comodo.
Si sprecano quindi gli ossimori, le contraddizioni in termini e si parla indifferentemente di economia circolare e crescita oppure addirittura di crescita verde, che sono la negazione l’una dell’altra. Ricordiamo infatti, soprattutto a beneficio di coloro che hanno studiato nelle prestigiose università di economia e quindi sono inconsapevoli delle basi stesse dell’economia, che la crescita presuppone uno sfruttamento infinito di persone e risorse naturali per produrre profitto. Le persone possono essere sfruttate all’infinito, basta metterle in grado di comprare i gadget giusti; ma la natura e le risorse non possono essere sfruttate infinitamente, perché sono finite, per ovvi motivi. Infatti degli squilibrati stanno pensando di colonizzare Marte perché la terra la stiamo già esaurendo.
Come se ciò non bastasse, la crescita produce una quantità di rifiuti che nessuna capacità di riciclo potrà mai ridurre considerevolmente. Capacità di riciclo che non si può spingere più di tanto perchè altrimenti la crescita avrebbe una contrazione, stessa cosa che avverrebbe con l’economia circolare se si applicasse in tutti i settori. Quindi non solo gli apostoli della crescita non vogliono che si ricicli o si riusi granchè, ma la terra non è in grado di assorbire la immensa massa di rifiuti che viene prodotta. Infatti mari, fiumi e terre sono ormai delle discariche. Se ne deduce in maniera ovvia, senza bisogno forse nemmeno della quinta elementare, che una crescita verde è semplicemente impossibile poichè le due cose assieme fanno a pugni. 
La crescita per sua natura non ha nulla di green, perché sfrutta tutto come risorsa o come pattumiera. Ci possono essere una prosperità verde, un futuro verde, magari anche una economia verde se si intende l’accezione etimologica di economia che è la cura della casa, ma è inutile arrampicarsi sugli specchi, fare capriole, giravolte, salti mortali all’indietro, doppi e tripli, non si può barare: la crescita verde è impossibile. Per giustificarla e quindi apparire paladini dell’ambiente, ci si daranno riverniciatine green come fanno i maggiori inquinatori del pianeta a iniziare ad esempio dall’ENI che ci bombarda con campagne pubblicitarie, ma sotto la patina il risultato è sempre lo stesso: devastazione della natura e guerra alla salute delle persone. Questi cantori della crescita verde o meno verde non si fermeranno da soli, non possono per loro natura, quindi vanno fermati; va tolto loro qualsiasi potere, qualsiasi appoggio, con un'obiezione di coscienza sistematica. Allo stesso tempo, occorre costruire luoghi, società, progetti, lavori, formazione, educazione che non abbiano la crescita e il dio denaro come faro, bensì la qualità della vita, il benessere, una vita dignitosa per tutti e la salvaguardia della nostra casa cioè l’ambiente in cui viviamo. Allora sì che avrà senso parlare dell’unica crescita accettabile e sensata che è quella dei valori e della ricchezza personale intesa come spirituale.
fonte: www.ilcambiamento.it

Se un paesino manda via una corporazione




















Eccoci qui, dopo sei anni di battaglie e batticuore, la fine è arrivata anche per il pozzo proposto dall’Eni e dalla sua socia minoritaria Petroceltic a Carpignano Sesia (Novara), popolazione 2,521 anime. Il pozzo Carisio non s’ha da fare!
Sono felice: per questa piccola comunità nel verde che ha sconfitto il gigante con caparbietà e perseveranza, per il nostro pianeta che cosi ha un pozzo di meno, e per la speranza che questa storia infonde a tutti quelli che non lo vogliono proprio il mostro nelle loro campagne, nei loro mari o nei loro monti. E anche perché per una volta parliamo di una storia bella. Un po’ mi commuovo mentre scrivo queste cose, nel mio ufficio, di pomeriggio e in silenzio perché so davvero la dedizione che ci vuole e perché il mondo sarebbe migliore se tutti ci impegnassimo cosi.
In 2.500 hanno mandato via una corporazione che trivella da decenni a destra e a manca, dall’Alaska alla Nigeria, con appoggi politici di tanti governi passati, con storie di corruzione, di scarsa attenzione ai popoli vicino ai loro impianti, e con nel cuore solo il vile denaro. Ma a Carpignano non ci sono riusciti.
Ora i signori dell’Eni se ne andranno con la coda che gli si attorciglia fra le sei gambe.
Credo allora che qui un grande grazie, un grande “bravi”, vada al Comitato Difesa della Natura e del Territorio di Carpignano che ha lavorato a lungo e con amore. Ci sono stata qui e ne ho parlato varie volte anche quando scrivevo sul Fatto QuotidianoÈ bello vedere un paese intero che si vuole bene e che non si arrende. E credo che ci voglia anche un bravo al M5S e uno a Davide Crippa che hanno scelto di bocciare definitivamente il progetto dichiarando la decadenza del permesso. Non era una decisione scontata, né un atto dovuto. Grazie.
Ormai sono tanti anni che seguo le faccende petrolifere e la storia si ripete sempre secondo lo stesso copione principale: le vittorie hanno bisognano di tempo, sono fatte di passi avanti e di passi indietro, di persone che si scoraggiano ma che poi continuano nonostante tutto. Di persone che cercano di fare qualche cosa ogni giorno con creatività e amore. Di persone che alla fine prevalgono. Da Carpignano al Centro Oli di Ortona, da Sciacca a Bomba, dal parco del Curone ad Arborea, fino ad Ombrina. Il mio augurio è che tutte le comunità d’Italia con lo spettro del petrolio (o di qualsiasi altro mostro ambientale) abbiano la stessa voglia di lavorare, la stessa unità, lo stesso amore e che sappiano mettere da parte il proprio ego per essere a servizio dell’altro, dell’Italia, del pianeta.
Queste battaglie ambientali, cosi difficili, lunghe e snervanti, possono dare un senso alle nostre vite, e possono farci sentire che abbiamo seminato semi buoni, che siamo riusciti a elevarci in alto, più in alto dei nostri piccoli egoismi quotidiani, e verso quell’ad majora a cui in un modo o nell’altro tutti aneliamo. Tanti auguri Carpignano Sesia!
Maria Rita D'Orsogna
fonte: comune-info.net

Jefta: Sovranisti e no. Tutti d’accordo

Qualcuno, tra i più creduloni, se ne potrà stupire, ma quando si tratta di spianare la strada alla “libera” circolazione delle merci, la difesa dei “nostri” interessi, dei prodotti del “suolo patrio”, della salute degli italiani e dei diritti di chi lavora, si piegano ancora come canne al vento. 



A metà dicembre, il Parlamento europeo – con i voti di M5S, Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e di gran parte del Pd – ha dato il via libera allo Jefta, l’accordo di libero scambio tra Ue e Giappone che ha la stessa struttura e gli stessi problemi di CETA e TTIP e che entrerà subito in vigore senza il vaglio dei parlamenti nazionali. Per puro amore di cronaca, c’è da ricordare che prima delle ultime elezioni il M5S, addirittura nella piattaforma on line, e la Lega si erano impegnati a non votare accordi non sottoposti al voto dei parlamenti nazionali e a favorire un’attenta valutazione di costi e benefici. A proposito dei quali, la strenua opposizione di associazioni, movimenti e sindacati si spiega con il rischio elevato di gravi problemi per la protezione dei servizi pubblici, del principio di precauzione, la custodia dei dati personali, i diritti sindacali e del lavoro, la contraffazione dei prodotti italiani e zero tutele contro i cambiamenti climatici. Senza contare che il Giappone è il paese con la maggior parte delle colture Ogm approvate, sia per alimenti che per mangimi animali, e che la soglia per la presenza accidentale di materiale OGM negli alimenti è del 5% contro lo 0,9 europeo. Il Giappone non ha ratificato, inoltre, nessuna delle Convenzioni internazionali sul Lavoro ILO, nemmeno quelle per l’abolizione del lavoro schiavo e della non discriminazione sul lavoro

L’Italia sovranista e in difesa del popolo, e quella strenuamente antisovranista e antipopulista, in pieno accordo cuore a cuore, hanno dato insieme l’ok a Strasburgo all’accordo di liberalizzazione commerciale tra Europa e Giappone JEFTA che, nelle previsioni migliori, pur valendo il 30% dell’intero mercato globale, porterà a un aumento del Pil europeo di un misero 0,14% entro il 2035, a nessun sensibile effetto sull’occupazione, con gravi problemi per i diritti di tutti noi, ma anche per le nostre taschei. Se, infatti, dazi e tariffe sui prodotti europei esportati in Giappone erano già in media bassi, il Jefta comporterà una perdita di dazi per gli Stati membri stimata dalla Commissione Europea in 970 milioni di euro all’entrata in vigore dell’accordo.Dopo che l’accordo sarà stato pienamente applicato, trascorsi 15 anni dalla sua entrata in vigore, la perdita annuale di dazi per le casse pubbliche raggiungerà i 2,084 miliardi di euro l’annoii
Nonostante tutto questo, il Parlamento europeo, con i voti di M5S, Lega, gran parte del Pd, Forza Italia e dell’unico membro eletto da Fdi, ha dato il via libera all’accordo, che ha la stessa struttura e gli stessi problemi di CETA e TTIP e che entrerà subito in vigore senza essere sottoposto al vaglio dei parlamenti nazionali.
Poco è importato che Strasburgo fosse appena stata colpita da un sanguinoso attentato, e che associazioni, sindacati, movimenti, gli stessi che si battono contro CETA e TTIP, dall’inizio del negoziato nel marzo 2013 sostenessero che un accordo con gravi problemi per la protezione dei servizi pubblici, del principio di precauzione, la custodia dei dati personali, i diritti sindacali e del lavoro, la contraffazione dei prodotti italiani e zero tutele contro i cambiamenti climatici, con una potenza commerciale globale come il Giappone, non andasse approvato. Poco importa che il M5S e la Lega si fossero impegnati prima delle elezioni – i primi addirittura nella propria piattaforma online – a non approvare mai più accordi che non fossero sottoposti al voto dei Parlamenti nazionali e che non fossero stati preceduti da un’attenta valutazione costi benefici.
Nulla è importato, in questo caso, che la Commissione abbia cucinato il JEFTA senza che i Parlamentari lo leggessero mai prima della sua firma, cinque anni dopo, e con riunioni che per l’86% hanno coinvolto imprese e corporation, e solo per il 4% sindacati, associazioni e enti locali. Probabilmente ha contato di più la voce dei comitati di affari europei e giapponesi -Japan Business Council, BusinessEurope, Keidanren, SMEunited, Copa Cogeca, Eurochambers and the European Business Council – che pochi giorni fa hanno scritto ai parlamentari di “ratificare l’accordo il più velocemente possibile”iii. E infatti così è stato.
Questo “buon accordo”, come è stato definito da tutti i suoi sostenitori, non è buono per niente. Proprio come il CETA, il JEFTA limita la capacità degli Stati membri di creare, ampliare e regolamentare i servizi pubblici o di invertire (o intervenire) processi di liberalizzazioni falliti. Tutto ciò che non sia specificamente nella lista negativa inclusa nel trattato, è aperto alla concorrenza da parte delle imprese giapponesi e, quindi, potenzialmente disponibile alla privatizzazione. Rispetto all’acqua, in particolarel’Italia non ha previsto una riserva relativa alla gestione futura dei servizi igienico-sanitari (che comprende la gestione delle acque reflue), inclusa la riserva di adottare o mantenere qualsiasi misura relativa all’operazione di monopoli o fornitori pubblici di servizi esclusivi.
Il JEFTA non protegge il principio di precauzione europeo: lo cita nel capitolo sullo Sviluppo sostenibile che non è vincolante ne’ prevede sanzioni nel caso non sia protetto. Come il CETA, inoltre, è un “trattato vivente” che mette al lavoro ben 11 comitati che lavoreranno ad accelerare gli scambi tra Giappone e Europa avendo come principio-chiave quello dell’aumento dei profitti e non del rispetto di diritti e convenzioni.
Il Jefta impone di non ripetere più in Europa i controlli sanitari su alimenti e mangimi in arrivo dal Giappone, nonostante le infrazioni più consistenti alle normative anti-Ogm europee siano a carico di merci giapponesi, da ultimo il caso francese che ha interessato anche l’ItaliaA livello mondiale, il Giappone è il paese con la maggior parte delle colture Ogm approvate sia per alimenti che per mangimi animali, e quindi il rischio di un aumento delle contaminazioni, in presenza di un trattato che abbatte il numero di controlli alle frontiere d’arrivo, è innegabile. In Europa, per di più, la soglia per la presenza accidentale di materiale OGM negli alimenti è fissata allo 0,9 per cento, mentre nei regolamenti giapponesi è prevista una soglia del 5%, che rappresenta uno dei limiti più alti del mondo per l’etichettatura OGM in caso di contaminazione involontaria. I prodotti trasformati in Giappone non richiedono l’etichettatura OGM visto che il DNA modificato o le proteine derivate da tale DNA non possono essere rilevati dopo la trasformazione: anche se c’erano degli OGM tra gli ingredienti originali, nessuno in Giappone lo segnalerà e in Europa essi potranno entrare senza essere individuati.
Anche presenza di “gravi preoccupazioni riguardo alla sicurezza o alla salute dell’uomo, degli animali o delle piante o alle misure proposte o attuate dall’altra Parte, una Parte può richiedere consultazioni tecniche” prima di intervenire con misure urgenti. Di più: si devono “fornire le informazioni necessarie a evitare perturbazioni degli scambi o a raggiungere una soluzione reciprocamente accettabile”.
Il Giappone non ha ratificato nessuna delle Convenzioni internazionali sul Lavoro ILO, nemmeno quelle per l’abolizione del lavoro schiavo e della non discriminazione sul lavoro, ed è difficile che lo faccia, nonostante le pressioni ricevute dal Parlamento europeo, visto che il trattato su questo non pone condizioni vincolanti o sanzioni in caso di violazioni e fino ad oggi le risposte in merito del governo Abe sono state cortesi ma evasive.
Dopo l’entrata in vigore del Jefta, ogni regolamento tecnico, le norme e le procedure di valutazione della conformità che Europa, Giappone e i loro Stati membri volessero far entrare in vigore su prodotti alimentari e non di tutti i tipi – dall’etichettatura ai marchi di sicurezza, da procedure qualitative, alle certificazioni agli standard, dovranno essere notificati all’altra parte, non porre in essere indebiti ostacoli agli scambi, e bisognerà obbligatoriamente confrontarsi con il Giappone per “ridurre gli indebiti effetti negativi sugli scambi derivanti dalle misure di questo tipo”. Alla faccia della sovranità nazionale e dell’eccellenza regolatoria europea.
In un momento in cui la comunità internazionale viene richiamata dalla scienza a una lotta più serrata a inquinamento e cambiamenti climatici, il Jefta cita l’Accordo di Parigi come obiettivo condiviso da Europa e Giappone nel capitolo sullo Sviluppo sostenibile, ma non prevede sanzioni per chi ne violi o disattenda le previsioni o aumenti i suoi livelli di inquinamentoA chi sottolinea che il JEFTA non include il meccanismo ISDS per la protezione degli investimenti esteri, va fatto notare che prevede esplicitamente che dopo la firma si avvii un negoziato specifico che lo introdurrà il più rapidamente possibile, nonostante sia pendente un giudizio sulla sua compatibilità con i trattati europei alla Corte europea di Giustiziav
Rispetto alla sicurezza alimentare, il Jefta vincola i suoi membri al Codex Alimentariuse alle prescrizioni generali già garantite in ambito WTO, fallendo l’obiettivo di allineare i livelli di garanzie agli standard più avanzati già presenti in alcuni dei Paesi membri dell’Ue, a partire dall’Italia.
Il trattato va a proteggere solo 19 Indicazioni geografiche relative a prodotti di qualità italiani e 28 su vini e alcolici, su un totale di 205 IG europee protette. Il capitolo sui prodotti d’eccellenza è il più debole di quelli mai letti in un trattato internazionale, e non dovrebbe esserlo visto che il Giappone è tra le principali centrali di smistamento per l’Italian sounding nel mercato asiatico. Si prevede la coesistenza per Asiago, Fontina e Gorgonzola italiani e giapponesi per sette anni. Durante questo periodo l’utilizzo dei nomi deve essere accompagnato dall’indicazione dell’origine in etichetta. ln Giappone dopo il JEFTA qualsiasi persona potrà utilizzare o registrare un marchio contenente il termine “parmesan” o da esso costituito per indicare un formaggio a pasta dura, che coesisterà serenamente con il nostro Parmigiano, a patto che non induca in errore rispetto alla sua origine italiana.
Il “Grana Padano” è tutelato solo come dicitura unica, mentre le diciture “Grana” e “Padano” potranno essere indicate in etichetta da sole senza per questo prevedere il sequestro del prodotto. Anche la “Mortadella Bologna” verrà protetta solo come dicitura unica, mentre “Mortadella” e Grana potranno essere utilizzate separatamente. Non è richiesta dal JEFTA la tutela degli elementi “mozzarella” e “mozzarella di bufala” dell’indicazione geografica composta “Mozzarella di Bufala Campana”, che verrà protetta solo come dicitura unica. Stesso destino tocca ai “Pecorino Toscano” e “Pecorino Romano” e al “Provolone Valpadana”. Storia a sé invece la fa il Prosciutto di Parma al quale, se registrato con marchio giapponese al momento di entrata in vigore del trattato, non si applica la tutela come Indicazione geografica italiana e si procede alla coesistenza.
Il Giappone difende ben 48 IG tra cui una specie di castagne, una specie di pesce palla, una specie di vongola d’acqua dolce, il salmone argentato, la pianta medicinale bardana, il tè verde in polvere Nishio no Matcha, diversi tipi di manzo tra cui il Kobe, un tipo di pesci bianchetti, alcune paste di Miso per condimenti e zuppe e i cachi giapponesi essiccati.
Il trattato prevede la garanzia che le Parti abbiano in vigore una Procedura amministrativa che consenta di verificare la consistenza dell’indicazione geografica, e Procedure di opposizione e cancellazione, per difendere eventuali terziPer sette anni dall’entrata in vigore del trattato, però, anche per i prodotti identificati dalla stessa indicazione geografica di un prodotto protetto, potranno essere “effettuate nel territorio del Giappone operazioni di grattugiatura, affettatura e confezionamento, compresi il taglio in porzioni e l’imballaggio interno, purché il prodotto in questione sia destinato al mercato giapponese e non alla riesportazione. Quando un marchio sia stato registrato in buona fede in Europa o in Giappone prima dell’entrata in vigore del JEFTA, quindi fino al 12 dicembre 2018, il marchio sarà ritenuto ammissibile e la sua registrazione valida come il suo diritto d’uso, anche se fosse identico o simile a una indicazione geografica italiana.
Infine, e solo avendo citato le problematiche più macroscopiche, Una disposizione sui flussi di dati nell’area dei servizi finanziari contenuta nel Jefta all’interno del capitolo dei servizi finanziari stabilisce, forzando il quadro normativo sulla protezione dei dati dell’UE (GDPR), la libertà di cross-border di informazioni e dati nell’ambito delle attività di servizi finanziari a entrambe le parti. Nulla in queste disposizioni limita il diritto delle parti a proteggere i dati personali, la privacy personale e la confidenzialità dei singoli registri e dei conti, si aggiunge, purché tale diritto non limiti il flusso degli scambi dei servizi, mettendo ancora una volta diritti e interessi in diretta competizione.
Anche solo da questi pochi elementi è abbastanza risibile che il JEFTA, come il CETA, venga propagandato come un accordo progressista, avanzato e accettabile, quando contiene le solite, stesse, pericolose pretese che i grandi gruppi industriali europei ripresentano su tutti i tavoli. Chi ha cambiato idea rispetto agli impegni assunti nella campagna elettorale italiana, dovrà chiarire e bene le sue priorità e convinzioni prima delle prossime scadenze elettorali perché il cambiamento si dimostra tale solo non se continua, business as usual, a votare le stesse cose di sempre. E soprattutto se li vota insieme a chi quegli sporchi, vecchi affari li ha sempre sponsorizzati e proposti.
Monica Di Sisto
vicepresidente di Fairwatch, portavoce della campagna Stop TTIP/CETA Italia
i  Copenhagen Economics: Assessment of Barriers to Trade and Investment between the EU and Japan, 2009. http://trade.ec.europa.eu/doclib/html/145772.htm