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Prove tecniche di ritorno del TTIP in Europa: la denuncia delle associazioni

Oltre 120 organizzazioni di vari Paesi dell’Unione europea, tra cui associazioni ambientaliste e di agricoltori già mobilitate contro il “Trattato”, hanno osservato con attenzione la ripresa del dialogo tra l’Ue e gli Stati Uniti sugli accordi commerciali: il rischio è che l’Europa possa cedere almeno in parte alle richieste degli USA in una trattativa che procede a porte chiuse



Lo spettro del Transatlantic trade and investments partnership (TTIP) continua ad agitarsi per l’Europa. A denunciarlo sono 123 organizzazioni di vari Paesi dell’Unione europea, tra cui associazioni ambientaliste e di agricoltori già mobilitate contro il “Trattato” e che hanno osservato con attenzione la ripresa del dialogo tra l’Ue e gli Stati Uniti sugli accordi commerciali. All’interno di un documento rivolto alle istituzioni comunitarie, il “No TTIP through the backdoor“, le organizzazioni sottolineano che la Commissione sarebbe “pronta a soddisfare le richieste di Trump per una riduzione dei livelli di sicurezza del cibo a danno della salute pubblica, del benessere degli animali e dell’ambiente minacciando anche gli impegni dell’Ue sul cambiamento climatico” e chiedono garanzie affinché “non siano fatte concessioni che abbassino gli standard europei sul cibo e sulla protezione ambientale”.

Naufragato nel 2016 anche grazie a una campagna di opinione internazionale, il Transatlantic trade and investments partnership avrebbe portato alla creazione della più grande area di libera circolazione delle merci a livello globale. Il rischio era l’immissione incontrollata nei mercati europei di prodotti agricoli dagli USA che avrebbero causato impatti pesanti sulla produzione e sul lavoro dei Paesi membri, oltre che sulla sicurezza alimentare e sanitaria vista la diversa regolamentazione in materia, ad esempio, di organismi geneticamente modificati (OGM) e pesticidi.

La trattativa era già ripresa nel 2018 con l’incontro tra l’allora presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, e il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Tramontata l’idea di un accordo globale, la nuova Commissione, insediata nel dicembre 2019, sembra muoversi verso un negoziato su pacchetti specifici di misure. A gennaio il Commissario Ue al Commercio Phil Hogan è andato a Washington per riaprire un dialogo, in un contesto in cui le relazioni transatlantiche sono diventate tese a causa della contesa Airbus-Boeing e dei dazi imposti da Trump all’Ue su acciaio, alluminio e, più recentemente, su prodotti agroalimentari. Solo pochi giorni dopo l’incontro, il Segretario di Stato USA all’agricoltura Sonny Perdue ha visto a Bruxelles alcuni esponenti della Commissione e i ministri dell’agricoltura dei Paesi membri. Ufficialmente nessuna decisione è stata presa. Le divergenze tra i due partner sono ancora molte e l’agricoltura è un campo minato.

I diversi standard di sicurezza alimentare sono uno degli ostacoli a una maggiore circolazione di prodotti statunitensi in Europa. Per gli USA includere nelle trattative il settore agroalimentare è sempre stata una priorità. Secondo Trump, gli USA importano troppo dall’Ue e il deficit commerciale deve essere riequilibrato: assicurare nuovi mercati per gli agricoltori, una fetta non irrilevante del suo elettorato, può essere strategico in vista delle elezioni presidenziali di novembre 2020. L’arma del ricatto è intensificare la guerra commerciale già in atto, minacciando nuovi dazi per l’Europa.

A Bruxelles Sonny Perdue ha ribadito che gli USA vogliono raggiungere un accordo “entro settimane, non mesi”. Riferendosi agli standard europei nel settore agroalimentare, ha parlato di “barriere ingiustificate” e della necessità di “seguire la scienza” senza spaventarsi davanti all’utilizzazione delle nuove biotecnologie agrarie. In Europa, come è noto, la regolamentazione è più restrittiva e una sentenza, molto discussa, della Corte di giustizia europea ha stabilito che gli organismi ottenuti mediante nuove tecniche di mutagenesi sono assimilati alla normativa sugli OGM. Perdue ha anche incontrato a Roma la Ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova, aprendo una fase di maggiore distensione tra i due Paesi. In Italia i dazi introdotti dagli USA nello scorso autunno per 47 prodotti food&wine, tra cui formaggi, salumi e liquori, hanno dato un duro colpo alle esportazioni: la volontà degli operatori del settore è di non peggiorare la situazione.

Il rischio, in conclusione, è che l’Europa possa cedere almeno in parte alle richieste degli USA in una trattativa che, come è stato denunciato, procede a porte chiuse e in un clima di segretezza, fuori dal controllo pubblico. Nel documento No TTIP through the backdoor, le organizzazioni della società civile chiedono a Bruxelles di non abbassare la guardia perché “salute, ambiente e clima non sono negoziabili”. È ribadita la centralità del “principio di precauzione” adottato dall’Ue, che consente un’azione di tutela preventiva per sostanze o prodotti di non accertata ma possibile nocività per la salute o l’ambiente. Secondo il coordinamento STOP TTIP-CETA ITALIA -che aderisce al documento e ha organizzato il 21 febbraio una manifestazione a Roma con Fridays For Future- misure meno restrittive sui prodotti agroalimentari importati potrebbero riguardare, in prospettiva, “carne sterilizzata con acido o cloro o trattata con ormoni, residui di pesticidi negli alimenti e nei mangimi e lo smantellamento delle norme di cautela rispetto agli OGM” .

fonte: https://altreconomia.it

Quel trattato va archiviato

Ricordate il #Ttip, il trattato di liberalizzazione degli scambi e delle regole di produzione e distribuzione tra Europa e Usa? Sembrava morto, grazie anche alla campagna internazionale Stop Ttip: in realtà la Commissione Ue continua a trattare con gli Stati Uniti di Trump: agricoltura, Ogm, ma anche software, film, musica… tutto è soltanto merce





Il Ttip, trattato di liberalizzazione degli scambi e delle regole di produzione e distribuzione tra Europa e Usa, è morto con l’elezione di Donald Trump. E non sfiorerà la nostra agricoltura. Così all’elezione del presidente statunitense si assicurava da Bruxelles agli Stati membri, dopo la massiccia opposizione manifestatasi in tutti i Paesi dell’Unione. Ma la realtà oggi è un’altra: la Commissione Ue continua a trattare con gli Stati Uniti di Trump, stando solo più attenta a far filtrare meno dettagli possibile. Novità allarmanti, però, ci arrivano da Oltreoceano: il Congresso Usa ha votato non solo autorizzando il suo esecutivo a rilanciare il Ttip, ma facendoci anche sapere che se sul tavolo non ci sarà l’agricoltura, non ci potrà essere alcun accordo. A Trump è stata accordata una “corsia preferenziale” (fast track) per raggiungere l’obiettivo, considerato che ha superato metà del suo mandato, ed è stato autorizzato a ottenere dall’Ue non solo l’abbattimento delle barriere doganali sui prodotti agricoli e le bevande, ma anche un accordo quadro sul livellamento delle barriere non tariffarie, quindi gli standard di qualità e sicurezza che caratterizzano la produzione europea, compreso l’abbattimento dei limiti attuali al commercio in Europa dei prodotti a base biotech, vecchi e nuovi (Ogm e NTBs), stando al comunicato ufficiale del Ministero del commercio (Ustr).

La Commissaria europea al Commercio Cecilia Malmstrom ha assicurato, dopo il recente incontro con ministro americano Robert Lighthizer, che l’Ue stante l’equilibrio raggiunto oggi in Consiglio non è intenzionata a mettere sul tavolo l’agricoltura. In realtà già il dialogo informale avvenuto nel luglio tra il presidente della Commissione Claude Junker e il presidente Trump ha portato a un forte aumento delle importazioni di soia Ogm dagli Usa negli ultimi mesi. E in una recente audizione in Congresso delle principali associazioni dei produttori di alimenti e bevande americane i potenti interlocutori hanno chiarito, echeggiati dal presidente della Commissione Finanze del Congresso e protagonista dell’agribusiness in Iowa Chuck Grassley, che non appoggerebbero alcun accordo che non includa i temi di loro interesse.

Trump, d’altronde, considera sin dalla riapertura del tavolo con l’Unione questo scambio agricoltura contro prodotti industriali non negoziabile se l’Europa vuole risparmiare quel 25 per cento di dazio sulle auto e sui ricambi Made in Ue che il presidente americano minaccia di far calare sull’export straniero. Ha puntato il dito sulla tariffa di importazione europea del 10 per cento per le automobili estere che vorrebbe azzerata. Obiettivo strategico degli Usa è anche quello di ottenere da parte dell’Europal’esenzione da tasse e restrizioni legate alla protezione della privacy e alla localizzazione per i download digitali di software, film, musica e altri prodotti statunitensi.

A questo punto sono i governi europei a dover far sentire a Bruxelles le proprie priorità: saranno loro, infatti, a dover precisare il mandato negoziale alla Commissaria Malmstrom, e a dover quindi escludere esplicitamente tutte le materie che non vorranno mettere a disposizione del negoziato o, più coerentemente, a negare il mandato alla Commissione. Per il governo italiano, a un passo dalle elezioni europee, è il momento giusto per dimostrare le proprie vere intenzioni: l’attuale maggioranza, infatti, si è sempre schierata esplicitamente contro il Ttip, considerato il modello di trattato da contrastare anche con la bocciatura nel Parlamento nazionale, che la campagna StopTtip/Ceta Italia chiede avvenga il prima possibile, del trattato-fotocopia di liberalizzazione degli scambi con il Canada Ceta. Dalle parole ai fatti, il prima possibile.

Monica di Sisto

portavoce della Campagna Stop TTIP/CETA Italia

fonte: https://comune-info.net

Jefta: Sovranisti e no. Tutti d’accordo

Qualcuno, tra i più creduloni, se ne potrà stupire, ma quando si tratta di spianare la strada alla “libera” circolazione delle merci, la difesa dei “nostri” interessi, dei prodotti del “suolo patrio”, della salute degli italiani e dei diritti di chi lavora, si piegano ancora come canne al vento. 



A metà dicembre, il Parlamento europeo – con i voti di M5S, Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e di gran parte del Pd – ha dato il via libera allo Jefta, l’accordo di libero scambio tra Ue e Giappone che ha la stessa struttura e gli stessi problemi di CETA e TTIP e che entrerà subito in vigore senza il vaglio dei parlamenti nazionali. Per puro amore di cronaca, c’è da ricordare che prima delle ultime elezioni il M5S, addirittura nella piattaforma on line, e la Lega si erano impegnati a non votare accordi non sottoposti al voto dei parlamenti nazionali e a favorire un’attenta valutazione di costi e benefici. A proposito dei quali, la strenua opposizione di associazioni, movimenti e sindacati si spiega con il rischio elevato di gravi problemi per la protezione dei servizi pubblici, del principio di precauzione, la custodia dei dati personali, i diritti sindacali e del lavoro, la contraffazione dei prodotti italiani e zero tutele contro i cambiamenti climatici. Senza contare che il Giappone è il paese con la maggior parte delle colture Ogm approvate, sia per alimenti che per mangimi animali, e che la soglia per la presenza accidentale di materiale OGM negli alimenti è del 5% contro lo 0,9 europeo. Il Giappone non ha ratificato, inoltre, nessuna delle Convenzioni internazionali sul Lavoro ILO, nemmeno quelle per l’abolizione del lavoro schiavo e della non discriminazione sul lavoro

L’Italia sovranista e in difesa del popolo, e quella strenuamente antisovranista e antipopulista, in pieno accordo cuore a cuore, hanno dato insieme l’ok a Strasburgo all’accordo di liberalizzazione commerciale tra Europa e Giappone JEFTA che, nelle previsioni migliori, pur valendo il 30% dell’intero mercato globale, porterà a un aumento del Pil europeo di un misero 0,14% entro il 2035, a nessun sensibile effetto sull’occupazione, con gravi problemi per i diritti di tutti noi, ma anche per le nostre taschei. Se, infatti, dazi e tariffe sui prodotti europei esportati in Giappone erano già in media bassi, il Jefta comporterà una perdita di dazi per gli Stati membri stimata dalla Commissione Europea in 970 milioni di euro all’entrata in vigore dell’accordo.Dopo che l’accordo sarà stato pienamente applicato, trascorsi 15 anni dalla sua entrata in vigore, la perdita annuale di dazi per le casse pubbliche raggiungerà i 2,084 miliardi di euro l’annoii
Nonostante tutto questo, il Parlamento europeo, con i voti di M5S, Lega, gran parte del Pd, Forza Italia e dell’unico membro eletto da Fdi, ha dato il via libera all’accordo, che ha la stessa struttura e gli stessi problemi di CETA e TTIP e che entrerà subito in vigore senza essere sottoposto al vaglio dei parlamenti nazionali.
Poco è importato che Strasburgo fosse appena stata colpita da un sanguinoso attentato, e che associazioni, sindacati, movimenti, gli stessi che si battono contro CETA e TTIP, dall’inizio del negoziato nel marzo 2013 sostenessero che un accordo con gravi problemi per la protezione dei servizi pubblici, del principio di precauzione, la custodia dei dati personali, i diritti sindacali e del lavoro, la contraffazione dei prodotti italiani e zero tutele contro i cambiamenti climatici, con una potenza commerciale globale come il Giappone, non andasse approvato. Poco importa che il M5S e la Lega si fossero impegnati prima delle elezioni – i primi addirittura nella propria piattaforma online – a non approvare mai più accordi che non fossero sottoposti al voto dei Parlamenti nazionali e che non fossero stati preceduti da un’attenta valutazione costi benefici.
Nulla è importato, in questo caso, che la Commissione abbia cucinato il JEFTA senza che i Parlamentari lo leggessero mai prima della sua firma, cinque anni dopo, e con riunioni che per l’86% hanno coinvolto imprese e corporation, e solo per il 4% sindacati, associazioni e enti locali. Probabilmente ha contato di più la voce dei comitati di affari europei e giapponesi -Japan Business Council, BusinessEurope, Keidanren, SMEunited, Copa Cogeca, Eurochambers and the European Business Council – che pochi giorni fa hanno scritto ai parlamentari di “ratificare l’accordo il più velocemente possibile”iii. E infatti così è stato.
Questo “buon accordo”, come è stato definito da tutti i suoi sostenitori, non è buono per niente. Proprio come il CETA, il JEFTA limita la capacità degli Stati membri di creare, ampliare e regolamentare i servizi pubblici o di invertire (o intervenire) processi di liberalizzazioni falliti. Tutto ciò che non sia specificamente nella lista negativa inclusa nel trattato, è aperto alla concorrenza da parte delle imprese giapponesi e, quindi, potenzialmente disponibile alla privatizzazione. Rispetto all’acqua, in particolarel’Italia non ha previsto una riserva relativa alla gestione futura dei servizi igienico-sanitari (che comprende la gestione delle acque reflue), inclusa la riserva di adottare o mantenere qualsiasi misura relativa all’operazione di monopoli o fornitori pubblici di servizi esclusivi.
Il JEFTA non protegge il principio di precauzione europeo: lo cita nel capitolo sullo Sviluppo sostenibile che non è vincolante ne’ prevede sanzioni nel caso non sia protetto. Come il CETA, inoltre, è un “trattato vivente” che mette al lavoro ben 11 comitati che lavoreranno ad accelerare gli scambi tra Giappone e Europa avendo come principio-chiave quello dell’aumento dei profitti e non del rispetto di diritti e convenzioni.
Il Jefta impone di non ripetere più in Europa i controlli sanitari su alimenti e mangimi in arrivo dal Giappone, nonostante le infrazioni più consistenti alle normative anti-Ogm europee siano a carico di merci giapponesi, da ultimo il caso francese che ha interessato anche l’ItaliaA livello mondiale, il Giappone è il paese con la maggior parte delle colture Ogm approvate sia per alimenti che per mangimi animali, e quindi il rischio di un aumento delle contaminazioni, in presenza di un trattato che abbatte il numero di controlli alle frontiere d’arrivo, è innegabile. In Europa, per di più, la soglia per la presenza accidentale di materiale OGM negli alimenti è fissata allo 0,9 per cento, mentre nei regolamenti giapponesi è prevista una soglia del 5%, che rappresenta uno dei limiti più alti del mondo per l’etichettatura OGM in caso di contaminazione involontaria. I prodotti trasformati in Giappone non richiedono l’etichettatura OGM visto che il DNA modificato o le proteine derivate da tale DNA non possono essere rilevati dopo la trasformazione: anche se c’erano degli OGM tra gli ingredienti originali, nessuno in Giappone lo segnalerà e in Europa essi potranno entrare senza essere individuati.
Anche presenza di “gravi preoccupazioni riguardo alla sicurezza o alla salute dell’uomo, degli animali o delle piante o alle misure proposte o attuate dall’altra Parte, una Parte può richiedere consultazioni tecniche” prima di intervenire con misure urgenti. Di più: si devono “fornire le informazioni necessarie a evitare perturbazioni degli scambi o a raggiungere una soluzione reciprocamente accettabile”.
Il Giappone non ha ratificato nessuna delle Convenzioni internazionali sul Lavoro ILO, nemmeno quelle per l’abolizione del lavoro schiavo e della non discriminazione sul lavoro, ed è difficile che lo faccia, nonostante le pressioni ricevute dal Parlamento europeo, visto che il trattato su questo non pone condizioni vincolanti o sanzioni in caso di violazioni e fino ad oggi le risposte in merito del governo Abe sono state cortesi ma evasive.
Dopo l’entrata in vigore del Jefta, ogni regolamento tecnico, le norme e le procedure di valutazione della conformità che Europa, Giappone e i loro Stati membri volessero far entrare in vigore su prodotti alimentari e non di tutti i tipi – dall’etichettatura ai marchi di sicurezza, da procedure qualitative, alle certificazioni agli standard, dovranno essere notificati all’altra parte, non porre in essere indebiti ostacoli agli scambi, e bisognerà obbligatoriamente confrontarsi con il Giappone per “ridurre gli indebiti effetti negativi sugli scambi derivanti dalle misure di questo tipo”. Alla faccia della sovranità nazionale e dell’eccellenza regolatoria europea.
In un momento in cui la comunità internazionale viene richiamata dalla scienza a una lotta più serrata a inquinamento e cambiamenti climatici, il Jefta cita l’Accordo di Parigi come obiettivo condiviso da Europa e Giappone nel capitolo sullo Sviluppo sostenibile, ma non prevede sanzioni per chi ne violi o disattenda le previsioni o aumenti i suoi livelli di inquinamentoA chi sottolinea che il JEFTA non include il meccanismo ISDS per la protezione degli investimenti esteri, va fatto notare che prevede esplicitamente che dopo la firma si avvii un negoziato specifico che lo introdurrà il più rapidamente possibile, nonostante sia pendente un giudizio sulla sua compatibilità con i trattati europei alla Corte europea di Giustiziav
Rispetto alla sicurezza alimentare, il Jefta vincola i suoi membri al Codex Alimentariuse alle prescrizioni generali già garantite in ambito WTO, fallendo l’obiettivo di allineare i livelli di garanzie agli standard più avanzati già presenti in alcuni dei Paesi membri dell’Ue, a partire dall’Italia.
Il trattato va a proteggere solo 19 Indicazioni geografiche relative a prodotti di qualità italiani e 28 su vini e alcolici, su un totale di 205 IG europee protette. Il capitolo sui prodotti d’eccellenza è il più debole di quelli mai letti in un trattato internazionale, e non dovrebbe esserlo visto che il Giappone è tra le principali centrali di smistamento per l’Italian sounding nel mercato asiatico. Si prevede la coesistenza per Asiago, Fontina e Gorgonzola italiani e giapponesi per sette anni. Durante questo periodo l’utilizzo dei nomi deve essere accompagnato dall’indicazione dell’origine in etichetta. ln Giappone dopo il JEFTA qualsiasi persona potrà utilizzare o registrare un marchio contenente il termine “parmesan” o da esso costituito per indicare un formaggio a pasta dura, che coesisterà serenamente con il nostro Parmigiano, a patto che non induca in errore rispetto alla sua origine italiana.
Il “Grana Padano” è tutelato solo come dicitura unica, mentre le diciture “Grana” e “Padano” potranno essere indicate in etichetta da sole senza per questo prevedere il sequestro del prodotto. Anche la “Mortadella Bologna” verrà protetta solo come dicitura unica, mentre “Mortadella” e Grana potranno essere utilizzate separatamente. Non è richiesta dal JEFTA la tutela degli elementi “mozzarella” e “mozzarella di bufala” dell’indicazione geografica composta “Mozzarella di Bufala Campana”, che verrà protetta solo come dicitura unica. Stesso destino tocca ai “Pecorino Toscano” e “Pecorino Romano” e al “Provolone Valpadana”. Storia a sé invece la fa il Prosciutto di Parma al quale, se registrato con marchio giapponese al momento di entrata in vigore del trattato, non si applica la tutela come Indicazione geografica italiana e si procede alla coesistenza.
Il Giappone difende ben 48 IG tra cui una specie di castagne, una specie di pesce palla, una specie di vongola d’acqua dolce, il salmone argentato, la pianta medicinale bardana, il tè verde in polvere Nishio no Matcha, diversi tipi di manzo tra cui il Kobe, un tipo di pesci bianchetti, alcune paste di Miso per condimenti e zuppe e i cachi giapponesi essiccati.
Il trattato prevede la garanzia che le Parti abbiano in vigore una Procedura amministrativa che consenta di verificare la consistenza dell’indicazione geografica, e Procedure di opposizione e cancellazione, per difendere eventuali terziPer sette anni dall’entrata in vigore del trattato, però, anche per i prodotti identificati dalla stessa indicazione geografica di un prodotto protetto, potranno essere “effettuate nel territorio del Giappone operazioni di grattugiatura, affettatura e confezionamento, compresi il taglio in porzioni e l’imballaggio interno, purché il prodotto in questione sia destinato al mercato giapponese e non alla riesportazione. Quando un marchio sia stato registrato in buona fede in Europa o in Giappone prima dell’entrata in vigore del JEFTA, quindi fino al 12 dicembre 2018, il marchio sarà ritenuto ammissibile e la sua registrazione valida come il suo diritto d’uso, anche se fosse identico o simile a una indicazione geografica italiana.
Infine, e solo avendo citato le problematiche più macroscopiche, Una disposizione sui flussi di dati nell’area dei servizi finanziari contenuta nel Jefta all’interno del capitolo dei servizi finanziari stabilisce, forzando il quadro normativo sulla protezione dei dati dell’UE (GDPR), la libertà di cross-border di informazioni e dati nell’ambito delle attività di servizi finanziari a entrambe le parti. Nulla in queste disposizioni limita il diritto delle parti a proteggere i dati personali, la privacy personale e la confidenzialità dei singoli registri e dei conti, si aggiunge, purché tale diritto non limiti il flusso degli scambi dei servizi, mettendo ancora una volta diritti e interessi in diretta competizione.
Anche solo da questi pochi elementi è abbastanza risibile che il JEFTA, come il CETA, venga propagandato come un accordo progressista, avanzato e accettabile, quando contiene le solite, stesse, pericolose pretese che i grandi gruppi industriali europei ripresentano su tutti i tavoli. Chi ha cambiato idea rispetto agli impegni assunti nella campagna elettorale italiana, dovrà chiarire e bene le sue priorità e convinzioni prima delle prossime scadenze elettorali perché il cambiamento si dimostra tale solo non se continua, business as usual, a votare le stesse cose di sempre. E soprattutto se li vota insieme a chi quegli sporchi, vecchi affari li ha sempre sponsorizzati e proposti.
Monica Di Sisto
vicepresidente di Fairwatch, portavoce della campagna Stop TTIP/CETA Italia
i  Copenhagen Economics: Assessment of Barriers to Trade and Investment between the EU and Japan, 2009. http://trade.ec.europa.eu/doclib/html/145772.htm

Bocciare il Ceta per un commercio più giusto
















Un anno fa il governo italiano tentava un blitz estivo, in coda di legislatura, per regalare a Bruxelles la ratifica del Ceta. Ce lo chiede l’Europa, dicevano, per dimostrare che ci teniamo, e che siamo diversi dal protezionista Trump.
Eppure se quel trattato di liberalizzazione degli scambi tra Europa e Canada venisse approvato da tutti i Parlamenti degli Stati europei consentirebbe, tra l’altro, alle imprese di tutto il mondo ma con sede legale in Canada di chiedere ai nostri Paesi (quindi alle nostre tasche) pesanti risarcimenti se qualche nostra regola, legge, standard, anche se buona e giusta, in vigore o ancora da fare, danneggiasse i loro investimenti. Potremmo, per evitarlo, solo difenderci con cause commerciali da 400mila euro in su, oppure rinunciare alla misura.
Con una dura battaglia fuori e dentro il Parlamento, oltre 2.500 Comuni Province e Regioni a darci ragione con mozioni e delibere ufficiali, schierando più di 50 comitati locali e oltre 200 organizzazioni piccole e grandi, da Coldiretti alla Cgil, dall’Arci a Slow Food, da Legambiente al Movimento consumatori, Federconsumatori, Fairwatch, Campagna Amica, Ari, Greenpeace, Attac, l’Usb e i Cobas, siamo riusciti a impedirlo e a ottenere che 3/4 degli eletti che oggi siedono in Parlamento si impegnassero, aderendo al Decalogo #NoCETA #Nontratto, di “bocciare il CETA per riaprire un dibattito in Europa sui contenuti e le regole del commercio tra UE e il resto del mondo a partire da diritti, ambiente e coesione sociale”.
Dopo le conferme del ministro dell’Agricoltura Centinaio e dell’Interno Salvini, il titolare dello Sviluppo economico, responsabile del Commercio estero per l’Italia Luigi Di Maio, ha confermato l’impegno del governo italiano a fermare il Ceta quando arriverà in aula. La dichiarazione arriva a poche ore di distanza dalla scelta del Presidente austriaco Alexander Van der Bellen non controfirmare il trattato, nonostante fosse stato ratificato dal suo Parlamento.
E mentre la Spagna ha detto si, Francia, Germania e Grecia sono alla finestra. Il miracolo dell’export che si sarebbe dovuto verificare, secondo i suoi sostenitori, già dai primi mesi dell’entrata in vigore provvisoria dopo il primo “si” del Parlamento europeo che ha provocato l’abbattimento provvisorio di dazi e dogane, non c’è stato.
Peraltro le province canadesi gli scambi interni, non rinunciano a regolarli e non fanno entrare più merci di prima solo perché glielo chiede il Ceta. Gli altri governi europei, inoltre, sanno che la Commissione, sventolando lo spauracchio “Trump ci isola”, sta chiudendo un pacchetto di accordi che creano mercati comuni con molti grandi esportatori, anche nostri diretti concorrenti: con il Giappone, i Paesi del Mercosur, il Vietnam, Singapore, l’Indonesia, ma anche Tunisia, Marocco e, sullo sfondo, la Cina.
Accordi che, però, non si giocano su dazi e dogane, ma sulle regole: ciascuno, infatti, crea decine di comitati tecnici all’interno dei quali non hanno voce gli eletti, ma esperti incaricati dalla Commissione Ue che, senza alcuna trasparenza, protetti dal segreto commerciale, limeranno procedure, standard e leggi, democraticamente condivise, che proteggono la nostra salute, l’ambiente e il lavoro, e per questo pesano sulle tasche delle imprese rendendo, oggettivamente, più difficile il commercio.
È questa la partita vera, che dobbiamo riaprire, dall’Italia, in Europa: bocciare il Ceta per non permetterlo più, cambiando la struttura del mandato che i nostri Governi affidano all’Ue – cosa possibile fin da subito – per sostenere, con un commercio giusto, le persone, il loro lavoro, la terra, il clima, il futuro. Dobbiamo farlo insieme, con scelte tecniche e atti concreti.

Monica di Sisto
Fairwatch, portavoce della Campagna StopTTIP/StopCETA
fonte: https://comune-info.net

Ratifica del Ceta, il ministro all’agricoltura Centinaio chiede lo stop

Soddisfatte le organizzazioni del movimento #stopCeta: “Ora governo ascolti proposte per un commercio migliore per lavoratori, consumatori e ambiente”
















"Non ratificheremo il trattato di libero scambio con il Canada perché protegge solo una piccola parte dei nostri prodotti DOP (Denominazione d’origine protetta) e IGP (Indicazione geografica protetta)”. Così Gian Marco Centinaio (Lega), neo ministro alle politiche agricole annuncia lo stop all’accordo commerciale CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement). Il trattato era entrato in vigore in via provvisoria lo scorso 21 settembre 2017 in attesa di essere approvato da tutti i Parlamenti degli Stati membri dell’Ue. Ma nel dopo elezioni italiano la ratifica era stata rinviata a data da destinarsi. Oggi in un’intervista pubblicata su La Stampa, il ministro ribadisce la linea politica della Lega che ha sempre accusato il trattato di avere un impatto devastante sull’agricoltura italiana. “Chiederemo al parlamento di non ratificare quel trattato e gli altri simili al Ceta – ha aggiunto Centinaio – del resto è tutto previsto nel contratto di governo”.
  
Un annuncio accolto con soddisfazione dalla Campagna Stop TTIP Italia che dal 2014 è impegnata a instaurare, in Italia e in Europa, un serio confronto su quali regole siano necessarie per garantire un commercio più sostenibile ed equo. La campagna, che oggi riunisce centinaia di associazioni e organizzazioni, chiede che venga riaperto al più presto il confronto con il Governo sui trattati di libero scambio “che danneggiano ambiente, diritti e un commercio leale e solidale dentro e fuori dall’Europa”.
 “Questo – si legge in una nota stampa – intervento è urgente perché l’Europa sta negoziando un pacchetto di liberalizzazioni commerciali con blocchi di importanti Paesi esportatori – Mercosur, Giappone Vietnam, Paesi del Mediterraneo – alcuni dei quali non richiedono il passaggio per i Parlamenti nazionali, e che potrebbero cambiare per sempre il modo in cui vengono negoziati e fissati standard importanti di produzione, di protezione dei diritti del lavoro, dell’ambiente e della salute, affidandoli a piccoli comitati tecnici fortemente influenzati da esperti che non rispondono alla volontà dei cittadini democraticamente espressa”.

Nel contempo la Campagna Stop TTIP Italia chiede che i parlamentari eletti sull’impegno della campagna #StopCETA contro la ratifica del trattato di liberalizzazione degli scambi con il Canada e di tutti i trattati riattivino con urgenza l’intergruppo parlamentare #StopCETA No trattati tossici alla Camera e al Senato per istruire insieme l’iter di bocciatura dei trattati sbagliati.

fonte: www.rinnovabili.it

Stop TTIP dà la sveglia ai politici: il 10 febbraio tutti a Milano

In questi anni la campagna Stop TTIP ha visto una vera e propria escalation di visibilità e non certo grazie ai media mainstream. E ha ottenuto risultati importanti, come impedire che il CETA fosse ratificato in Senato. Ora, per rafforzare l'argine contro lo strapotere delle multinazionali e l'azzeramento dei diritti, l'appuntamento è il 10 febbraio a Milano.




Si terrà il 10 febbraio prossimo a Milano l'assemblea nazionale di tutti i comitati Stop TTIP della campagna. L'appuntamento è dale 11 alle 18 in corso Giuseppe Garibaldi (QUI tutte le informazioni) e non è stato organizzato "per caso". A due settimane dalle elezioni politiche che stanno scaldando gli animi e preoccupando non poco certi partiti, i promotori della campagna per dire no ai trattati transnazionale che calpestano i diritti di Stati e cittadini si raccolgono insieme per programmare e progettare le prossime azioni. E per capire bene da che parte stanno i politici in corsa...
«Nel 2017 insieme abbiamo compiuto un'impresa: impedire che il CETA, il trattato economico e commerciale tra UE e Canada, fosse ratificato in Senato - spiegano dalla Campagna - Nel 2018 vogliamo spingerci ancora più in là, chiedendo fin da subito al prossimo Parlamento di schierarsi contro gli accordi tossici che minacciano la nostra agricoltura, l'ambiente, i diritti del lavoro, la privacy e i servizi pubblici. Abbiamo le forze di sollevare una nuova ondata di pressioni su tutti i candidati alle prossime elezioni del 4 marzo. Per questo, invitiamo tutti i Comitati locali e le organizzazioni che hanno sempre supportato questa campagna a partecipare all'Assemblea nazionale di Stop TTIP Italia il prossimo 10 febbraio presso il Centro di Aggregazione Multifunzionale in corso Garibaldi 27 a Milano. L'invito è a partecipare numerosi, per ritrovarci dopo questi mesi e anni di battaglie comuni e rilanciare con forza le istanze che questo movimento nato dal basso ha saputo portare in primo piano sulla scena politica nazionale».
Grande è stata la soddisfazione a dicembre 2017 quando le Camere sono state sciolte prima della ratifica del Ceta. «I trattati commerciali iniqui diventano argomento di campagna elettorale. Grazie a tutte le persone, i comitati, le associazioni, i sindacati, i partiti e le imprese che hanno lottato, resistito, cambiato una storia che volevano già scritta» hanno detto dalla Campagna Stop TTIP. Un grazie è andato anche agli oltre 100 eletti tra Camera e Senato che hanno detto "no" alla ratifica.
Per facilitare l'organizzazione da parte del comitato di Milano, chi partecipa invii una e-mail di conferma a stopttipitalia@gmail.com entro venerdì 26 gennaio.
Per saperne di più...
Che cos’è il TTIP?
Il TTIP è un trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico che ha l’intento dichiarato di modificare regolamentazioni e standard (le cosiddette “barriere non tariffarie”) e di abbattere dazi e dogane tra Europa e Stati Uniti rendendo il commercio più fluido e penetrante tra le due sponde dell’oceano.
L’idea sembrerebbe buona. Perché qualcuno lo definisce “pericoloso”?
Condividiamo la definizione perché, in realtà questo trattato, che viene negoziato in segreto tra Commissione UE e Governo USA, vuole costruire un blocco geopolitico offensivo nei confronti di Paesi emergenti come Cina, India e Brasile creando un mercato interno tra noi e gli Stati Uniti le cui regole, caratteristiche e priorità non verranno più determinate dai nostri Governi e sistemi democratici, ma modellate da organismi tecnici sovranazionali sulle esigenze dei grandi gruppi transnazionali.
I soliti “tecnici” che “rubano” il potere alla politica.
Infatti. Il Trattato prevede l’introduzione di due organismi tecnici potenzialmente molto potenti e fuori da ogni controllo da parte degli Stati e quindi dei cittadini. Il primo, un meccanismo di protezione degli investimenti (Investor-State Dispute Settlement – ISDS), consentirebbe alle imprese italiane o USA di citare gli opposti governi qualora democraticamente introducessero normative, anche importanti per i propri cittadini, che ledessero i loro interessi passati, presenti e futuri.
Le aziende citerebbero gli Stati in tribunale.
Non solo; le vertenze non verrebbero giudicate da tribunali ordinari che ragionano in virtù di tutta la normativa vigente, come è già possibile oggi, ma da un consesso riservato di avvocati commerciali superspecializzati che giudicherebbero solo sulla base del trattato stesso se uno Stato – magari introducendo una regola a salvaguardia del clima, o della salute – sta creando un danno a un’impresa. Se venisse trovato colpevole, quello stato o comune, o regione, potrebbe essere costretto a ritirare il provvedimento o ad indennizzare l’impresa. Pensiamo ad un caso come quello dell’Ilva a Taranto, o della diossina a Seveso, e l’ingiustizia è servita.
Una giustizia “privatizzata”, insomma.
Non è l’unica questione. Un altro organismo di cui viene prevista l’introduzione è il Regulatory Cooperation Council: un organo dove esperti nominati della Commissione UE e del ministero USA competente valuterebbero l’impatto commerciale di ogni marchio, regola, etichetta, ma anche contratto di lavoro o standard di sicurezza operativi a livello nazionale, federale o europeo. A sua discrezione sarebbero ascoltati imprese, sindacati e società civile. A sua discrezione sarebbe valutato il rapporto costi/benefici di ogni misura e il livello di conciliazione e uniformità tra USA e UE da raggiungere, e quindi la loro effettiva introduzione o mantenimento. Un’assurdità antidemocratica che va bloccata, a mio avviso, il prima possibile.
Per chi è allora vantaggioso il TTIP?
Il ministero per lo Sviluppo economico ha commissionato a Prometeia s.p.a. una prima valutazione d’impatto mirata all’Italia, alla base di molte notizie di stampa e interrogazioni parlamentari. Scorrendo dati e previsioni apprendiamo che i primi benefici delle liberalizzazioni si manifesterebbero nell’arco di tre anni dall’entrata in vigore dell’accordo: il 2018, al più presto. Il TTIP porterebbe, entro i tre anni considerati, da un guadagno pari a zero in uno scenario cauto, ad uno +0,5% di PIL in uno scenario ottimistico: 5,6 miliardi di euro e 30mila posti di lavoro grazie a un +5% dell’export per il sistema moda, la meccanica per trasporti, un po’ meno da cibi e bevande e da uno scarso +2% per prodotti petroliferi, prodotti per costruzioni, beni di consumo e agricoltura. L’Organizzazione mondiale del Commercio ci dice che le imprese italiane che esportano sono oltre 210mila, ma è la top ten che si porta a casa il 72% delle esportazioni nazionali (ICE – Sintesi Rapporto 2012-2013: “L’Italia nell’economia internazionale”). Secondo l’ICE, in tutto nel 2012 le esportazioni di beni e servizi dell’Italia sono cresciute in volume del 2,3%, leggermente al di sotto del commercio mondiale. La loro incidenza sul PIL ha sfiorato il 30% in virtù dell’austerity e della crisi dei consumi che hanno depresso il prodotto interno. L’Italia è dunque riuscita a rosicchiare spazi di mercato internazionale contenendo i propri prezzi, senza generare domanda interna né nuova occupazione. Quindi prima di chiudere i conti potremmo trovarci invasi da prodotti USA a prezzi stracciati che porterebbero danni all’economia diffusa, e soprattutto all’occupazione, molto più ingenti di questi presunti guadagni per i soliti noti. Danni potenziali che né la ricerca condotta da Prometeia né il nostro Governo al momento hanno quantificato o tenuto in considerazione.
È vero che, nonostante l’enorme importanza della questione, il Parlamento europeo non abbia accesso a tutte le informazioni sul modo in cui si svolgono gli incontri e sullo stato di avanzamento delle trattative?
Il Parlamento europeo, dopo aver votato nel 2013 il mandato a negoziare esclusivo alla Commissione – come richiede il Trattato di Lisbona – potrà soltanto porre dei quesiti circostanziati, cui la Commissione può rispondere ma nel rispetto della riservatezza obbligatoria in tutti i negoziati commerciali bilaterali, sempre secondo il Trattato, e poi avrà diritto di voto finale “prendi o lascia”, quando il negoziato sarà completato. Nel frattempo non ha diritto né di accesso né di intervento sul testo. I Governi stessi dell’Unione, se vorranno avere visione delle proposte USA, dovranno – a quanto sembra al momento – accedere a sale di sola lettura approntate nelle ambasciate USA (non si capisce se in quelle di tutti gli Stati UE o solo a Bruxelles, e non potranno nemmeno prendere appunti o farne copia. Un assurdo, considerata la tecnicità e complessità dei testi negoziali.
Quali effetti potrà produrre l’accordo se verrà approvato nella sua forma attuale?
Tutti i settori di produzione e consumo come cibo, farmaci, energia, chimica, ma anche i nostri diritti connessi all’accesso a servizi essenziali di alto valore commerciale come la scuola, la sanità, l’acqua, previdenza e pensioni, sarebbero tutti esposti a ulteriori privatizzazioni e alla potenziale acquisizione da parte delle imprese e dei gruppi economico-finanziari più attrezzati, e dunque più competitivi. Senza pensare che misure protettive, come i contratti di lavoro, misure di salvaguardia o protezione sociale o ambientale, potrebbero essere spazzati via a patto di affidarsi allo studio legale giusto e ben accreditato.
Il TTIP produrrà dei rischi per i cittadini?
Tom Jenkins della Confederazione sindacale europea (ETUC), nell’incontro con la Commissione del 14 gennaio scorso, ha ricordato che gli Stati Uniti non hanno ratificato diverse convenzioni e impegni internazionali ILO e ONU in materia di diritti del lavoro, diritti umani e ambiente. Questo rende, ad esempio, il loro costo del lavoro più basso e il comportamento delle imprese nazionali più disinvolto e competitivo, in termini puramente economici, anche se più irresponsabile. A sorvegliare gli impatti ambientali e sociali del TTIP, ha rassicurato la Commissione, come nei più recenti accordi di liberalizzazione siglati dall’UE, ci sarà un apposito capitolo dedicato allo Sviluppo sostenibile che metterà in piedi un meccanismo di monitoraggio specifico, partecipato da sindacati e società civile d’ambo le regioni.
È il primo caso del genere? O c’è qualche “antenato”?
Un meccanismo simile è entrato in vigore da meno di un anno tra UE e Korea, con la quale l’Europa ha sottoscritto un trattato di liberalizzazione commerciale molto simile anche strutturalmente al TTIP, facendo finta di non ricordare che come gli USA la Korea si è sottratta a gran parte delle convenzioni ILO e ONU. Imprese, sindacati e ONG che fanno parte dell’analogo organo creato per monitorare la sostenibilità sociale e ambientale del trattato UE-Korea, hanno protestato con la Commissione affinché avvii una procedura di infrazione contro la Korea per comportamento antisindacale, e ancora aspettano una risposta. Perché dovremmo pensare che gli USA, molto più potenti e contrattualmente forti si dovrebbero piegare alle nostre esigenze, considerando che sono tra i pochi Paesi che non si sono mai piegati a impegni obbligatori a salvaguardia della salute, o dell’ambiente come il Protocollo di Kyoto appena archiviato anche grazie alla loro ferma opposizione?
Il TTIP può produrre danni per la salute?
Faccio un solo esempio, basato sulla storia. Nel 1988 l’UE ha vietato l’importazione di carni bovine trattate con certi ormoni della crescita cancerogeni. Per questo è stata obbligata a pagare a USA e Canada dal Tribunale delle dispute dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) oltre 250 milioni di dollari l’anno di sanzioni commerciali nonostante le evidenze scientifiche e le tante vittime. Solo nel 2013 la ritorsione è finita quando l’Europa si è impegnata ad acquistare dai due concorrenti carne di alta qualità fino a 48.200 tonnellate l’anno, alla faccia del libero commercio. Sarà una coincidenza, ma in un documento congiunto dell’ottobre 2012 BusinessEurope e US Chamber of Commerce, le due più potenti lobby d’impresa delle due sponde dell’oceano, avevano chiesto ai propri Governi proprio di avviare una “cooperazione sui meccanismi di regolazione”, che consentisse alle imprese di contribuire alla loro stessa stesura (http://goo.gl/HlqhTc).
Esistono alternative al TTIP? A cosa potrebbero aspirare i cittadini del mondo afflitti dall’attuale crisi economica?
Da molti anni non solo movimenti, associazioni, reti sindacali ma anche istituzioni internazionali come FAO e UNCTAD, le agenzie ONU che lavorano su Agricoltura, Commercio e Sviluppo, richiamano l’attenzione sul fatto che rafforzare i mercati locali, con programmazioni territoriali regionali e locali più attente basate su quanto ci resta delle risorse essenziali alla vita e quanti bisogni essenziali dobbiamo soddisfare per far vivere dignitosamente più abitanti della terra possibili, potrebbe aiutarci ad uscire dalla crisi economica, ambientale, ma soprattutto sociale che stiamo vivendo, prevedibilmente, da tanti anni. Stiamo facendo finta di niente, continuando a percorrere strade, come quella della iperliberalizzazione forzata stile TTIP, che fanno male non solo al pianeta e alle comunità umane, ma allo stesso commercio che è in contrazione dal 2009 e non si sta più espandendo. Da quando la piena occupazione europea e statunitense, che con redditi veri e capienti sosteneva produzione e consumi globali, sono diventate un miraggio, anche la crescita dei popolatissimi Paesi emergenti, che hanno fatto la propria fortuna grazie alla commercializzazione del loro capitale ambientale e umano a prezzi stracciati e ad alti costi ambientali e sociali, non è riuscita più a sostenere il paradigma della crescita infinita che si è rivelato per quello che era: falso e insensato. I poveri, che crescono a vista d’occhio e devono lavorare oltre le 10 ore al giorno per un pugno di spiccioli, consumano prodotti poveri e sempre meno; i ricchi, che sono sempre più ricchi ma anche sempre meno, consumano tanto e malissimo, e non creano benessere diffuso. Abbiamo la grande opportunità di voltare pagina, e di tentare di dare a questo pianeta ancora un po’ di futuro, rimettendo al centro della politica i beni comuni e i diritti. Col TTIP, al contrario, ci chiuderemo le poche finestre di possibilità ancora aperte. Con la Campagna Stop TTIP, che raccoglie solo in Italia oltre 60 tra associazioni, sindacati, enti pubblici, cittadini e comunità, vogliamo fermare questa deriva e diffondere tutte le alternative possibili e più efficaci delle vecchie ricette fallimentari che continuiamo a subire.
fonte: http://www.ilcambiamento.it

Chi critica il TTIP finisce sotto accusa

Molte associazioni che si sono opposte agli accordi di libero scambio tra America ed Europa sono bersaglio di una campagna di delegittimazione da parte di chi ha interesse che questi accordi vengano siglati. La denuncia di “Corporate Europe Observatory” e “LobbyControl”



















Negli ultimi mesi, multinazionali, lobbisti e think thank hanno cercato di delegittimare quelle Ong, le associazioni e altre espressioni della società civile che si sono opposte al TTIP (i contestati accordi di libero scambio tra Ue e Usa) e il CETA (tra Unione europea e Canada). È la denuncia contenuta nel rapporto “Blaming the Messenger: the corporate attack on the movement for trade justice” curato da “Corporate Europe Observatory” e “LobbyControl” che evidenzia come siano state usate “tattiche per gettare discredito e campagne di delegittimazione” contro associazioni e Ong impegnate nella battaglia contro l’approvazione di questi accordi di commercio. “Un attacco a chi critica il TTIP e il CETA rischia di diventare un attacco alla democrazia – denunciano gli autori del rapporto – nel momento in cui agli argomenti sostanziali esposti si contrappongono campagne di delegittimazione”.
Negli ultimi anni il TTIP e il CETA hanno suscitato un’intensa ondata di critiche da parte di diversi attori della società civile: dagli accademici alle piccole imprese, dai governi locali ai sindacati, passando per le associazioni non governative e i sindacati. Obiettivo congiunto per tutti questi attori: bloccare l’approvazione  questi accordi, che vengono considerati particolarmente vantaggiosi per le grandi aziende multinazionali, ma dannose per l’ambiente e le tutele sociali. Una resistenza efficace, dal momento che il TTIP è stato temporaneamente congelato.
Di fronte a questa battuta d’arresto, le aziende e le lobby che invece potrebbero trarre vantaggio da questi accordi hanno lanciato una campagna di discredito contro le organizzazioni non governative e la società civile. Le accuse più comuni? Quella di suscitare allarmismo o di “manipolare” un pubblico poco istruito. Oppure di agire per lucro o per fini personali. Queste tattiche mirano a sgretolare la credibilità di chi critica il TTIP o il CETA. Chi protesta viene dipinto come “anti-americano”, “nemico della globalizzazione”, “populista” o “ideologico”. Un’altra strategia per spargere il seme del dubbio sulle motivazioni di chi critica gli accordi transnazionali è quello di insinuare accuse sulla scarsa trasparenza dei bilanci o ipotizzare la longa manu della Russia sui finanziamenti. Il tutto nella più completa assenza di prove. “Attaccare in questo modo le Ong sulla raccolta fondi o la trasparenza è una scappatoia per non dover rispondere alle loro critiche”, si legge nel comunicato stampa di presentazione del rapporto.

fonte: https://altreconomia.it