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Il cibo e le risorse per riprodurlo
























Maude Barlow (Council of Canadians) viene arrestata durante una protesta contro l’estrattivismo legato alle sabbie bituminose in Canada nel 2010 (credito: Renée Leahy / IPS, tratta da stephenleahy.net)


Il Governo Italiano si è impegnato a bocciare il CETA per riaprire in Europa e nel mondo una discussione su regole più giuste e stringenti per il commercio e i diritti, e ad approvare una legge per l’acqua pubblica attualmente in discussione in Parlamento: è ora di passare alle parole ai fatti”. Un campanello d’allarme e una sveglia: la suona Maude Barlow, presidente del Council of Canadians,organizzazione ambientalista e dei consumatori canadese che si batte il diritto all’acqua, al cibo e per la giustizia commerciale e contro CETA, NAFTA e gli altri trattati tossici, ospite a Roma del Forum dei Movimenti per l’acqua e della Campagna Stop TTIP/CETA.
Barlow, già relatrice speciale per il diritto all’acqua delle Nazioni Unite e, per il suo impegno, vincitrice nel 2005 del Premio Nobel “alternativo”, è a Roma per il World Food day 2018 che si celebra il 16 ottobre alla Fao, come tutti gli anni, anche se non c’è molto da festeggiare: la stessa Fao ci dice, infatti, che dal 2016 il numero delle persone che nel mondo ha fame è tornato a aumentare. Si stima che le persone che hanno fame siano ormai 821 milioni – circa una 1 persona su nove 9 al mondo.
“Il diritto a un cibo sano, all’acqua pubblica e per tutti, la lotta ai cambiamenti climatici ma anche il sostegno a un’economia ecologica, non estrattiva che includa territori e persone valorizzandoli senza depredarli, rimarranno solo parole senza regole con standard elevati per i sistemi produttivi e commerciali”, spiega Barlow che ha incontrato associazioni e movimenti italiani il 16 ottobre pomeriggio a Roma presso il Nuovo Cinema Palazzo in piazza dei Sanniti 9A.
Anche in Italia il diritto al cibo non è scontato: nel 2017 1 milione e 778 mila famiglie (6,9% del totale), in cui vivono 5 milioni e 58 mila individui (l’8,4% del totale degli italiani residenti), si trovavano in povertà assoluta, secondo l’Istat. Due decimi di punto in più rispetto al 2016. Ci sono ancora 768 milioni di persone che non hanno a disposizione una fonte d’acqua potabile sicura, e 185 milioni di persone che sono costrette ad abbeverarsi alle fonti di superficie, come fiumi e laghi.
Le politiche commerciali promosse in ambito dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO), ma anche dall’Unione Europea in tutti i suoi trattati bilaterali, in primis il trattato di liberalizzazione commerciale con il Canada, CETA, antepongono tutte gli interessi delle grandi aziende al diritto al cibo, alla salute, e alla lotta contro i cambiamenti climatici che aggrava la crisi alimentare.
A Roma in questi giorni alla FAO oltre 300 leader di organizzazioni di contadini, di donne, di popoli indigeni, consumatori e associazioni, che rappresentano più di 12 milioni di abitanti del pianeta di tutti i Paesi del mondo, sono rappresentati nel Meccanismo della società civile (Civil Society Mechanism-CSM) che partecipa all’organo di Governo della FAO (UN Committee on World Food Security  – CFS). Essi hanno spiegato ai propri Governi, in occasione del 45esimo Comitato per la sicurezza alimentare[i], che questa situazione è il risultato dell’impossibilità, per la maggioranza delle persone, di assicurarsi un reddito adeguato per acquistare il cibo necessario per nutrire le loro famiglie in modo dignitoso e per acquisire diritti e accesso alle risorse – acqua, terra, semi, biodiversità – necessarie per produrlo.
L’acqua è uno dei diritti essenziali più a rischio con il CETA: in un fact sheet redatto dalla esperta di commercio del Council of Canadians Sujata Dey in occasione della visita in Italia di Berlow, si chiarisce, infatti, che nel CETA, “sebbene alcune modalità di erogazione del servizio idrico siano protette dall’accesso al mercato e dagli impegni di trattamento nazionale (come la raccolta, la depurazione e la distribuzione dell’acqua), esse non sono completamente escluse dal mercato e non così protette come prevederebbero le legislazioni europee. Mentre alcuni servizi idrici sono protetti dagli obblighi di approvvigionamento, altri non lo sono, come i servizi igienico-sanitari. Ciò induce le aziende a mettere un “piede nella porta” per stabilire ed espandere la consegna privata o il trattamento dell’acqua”, spiegano dalla stotica associazione ambientalista canadese”.
“È importante sottolineare che i servizi idrici sono soggetti all’applicazione dell’ISDS o sistema di risoluzione delle controversie investitore-Stato. Quindi, mentre lo Stato italiano, Compresi i suoi comuni, è libero di impegnarsi nella privatizzazione dei sistemi idrici pubblici, ma questi sistemi saranno difficili da ripubblicizzare perché soggetti a ritorsioni commerciali o a cause arbitrali da parte delle imprese d’oltre Oceano”, ha spiegato Barlow.
Contrariamente a quanto sostenuto e ottenuto rispetto all’acqua come diritto umano essenziale, “una volta che l’acqua lascia il suo ‘stato naturale’ (all’interno di corpi naturali come fiumi o laghi), secondo il CETA – ricordano dal Council – essa è soggetta allo stesso trattamento e regole che si applicano a qualsiasi altro bene commerciale. L’acqua sarebbe quindi soggetta a tutte le protezioni espansive offerte a società e investitori, che potranno influire su tutti gli standard minimi di trattamento e accesso al mercato. Ad esempio, gli investitori potranno estrarre l’acqua dal suo stato naturale per esportarla imbottigliata o in altro mezzo comprese le autobotti, e qualsiasi tentativo di porre limitazioni sulla quantità di acqua esportata potrebbe essere messo in discussione grazie a quanto previsto rispetto alle controversie investitore-Stato[ii]”.
L’invito, dunque, ai movimenti italiani è di “non smettere di premere finché l’impegno ufficiale assunto dal Governo italiano non sia mantenuto”, per impedite che gli interessi delle grandi aziende anche italiane limitino ancora di più il diritto all’acqua e ai servizi essenziali di tutte e tutti noi.

Monica di Sisto 
Vicepresidente associazione Fairwatch, campagna Stop TTIP Italia
fonte: https://comune-info.net

Bocciare il Ceta per un commercio più giusto
















Un anno fa il governo italiano tentava un blitz estivo, in coda di legislatura, per regalare a Bruxelles la ratifica del Ceta. Ce lo chiede l’Europa, dicevano, per dimostrare che ci teniamo, e che siamo diversi dal protezionista Trump.
Eppure se quel trattato di liberalizzazione degli scambi tra Europa e Canada venisse approvato da tutti i Parlamenti degli Stati europei consentirebbe, tra l’altro, alle imprese di tutto il mondo ma con sede legale in Canada di chiedere ai nostri Paesi (quindi alle nostre tasche) pesanti risarcimenti se qualche nostra regola, legge, standard, anche se buona e giusta, in vigore o ancora da fare, danneggiasse i loro investimenti. Potremmo, per evitarlo, solo difenderci con cause commerciali da 400mila euro in su, oppure rinunciare alla misura.
Con una dura battaglia fuori e dentro il Parlamento, oltre 2.500 Comuni Province e Regioni a darci ragione con mozioni e delibere ufficiali, schierando più di 50 comitati locali e oltre 200 organizzazioni piccole e grandi, da Coldiretti alla Cgil, dall’Arci a Slow Food, da Legambiente al Movimento consumatori, Federconsumatori, Fairwatch, Campagna Amica, Ari, Greenpeace, Attac, l’Usb e i Cobas, siamo riusciti a impedirlo e a ottenere che 3/4 degli eletti che oggi siedono in Parlamento si impegnassero, aderendo al Decalogo #NoCETA #Nontratto, di “bocciare il CETA per riaprire un dibattito in Europa sui contenuti e le regole del commercio tra UE e il resto del mondo a partire da diritti, ambiente e coesione sociale”.
Dopo le conferme del ministro dell’Agricoltura Centinaio e dell’Interno Salvini, il titolare dello Sviluppo economico, responsabile del Commercio estero per l’Italia Luigi Di Maio, ha confermato l’impegno del governo italiano a fermare il Ceta quando arriverà in aula. La dichiarazione arriva a poche ore di distanza dalla scelta del Presidente austriaco Alexander Van der Bellen non controfirmare il trattato, nonostante fosse stato ratificato dal suo Parlamento.
E mentre la Spagna ha detto si, Francia, Germania e Grecia sono alla finestra. Il miracolo dell’export che si sarebbe dovuto verificare, secondo i suoi sostenitori, già dai primi mesi dell’entrata in vigore provvisoria dopo il primo “si” del Parlamento europeo che ha provocato l’abbattimento provvisorio di dazi e dogane, non c’è stato.
Peraltro le province canadesi gli scambi interni, non rinunciano a regolarli e non fanno entrare più merci di prima solo perché glielo chiede il Ceta. Gli altri governi europei, inoltre, sanno che la Commissione, sventolando lo spauracchio “Trump ci isola”, sta chiudendo un pacchetto di accordi che creano mercati comuni con molti grandi esportatori, anche nostri diretti concorrenti: con il Giappone, i Paesi del Mercosur, il Vietnam, Singapore, l’Indonesia, ma anche Tunisia, Marocco e, sullo sfondo, la Cina.
Accordi che, però, non si giocano su dazi e dogane, ma sulle regole: ciascuno, infatti, crea decine di comitati tecnici all’interno dei quali non hanno voce gli eletti, ma esperti incaricati dalla Commissione Ue che, senza alcuna trasparenza, protetti dal segreto commerciale, limeranno procedure, standard e leggi, democraticamente condivise, che proteggono la nostra salute, l’ambiente e il lavoro, e per questo pesano sulle tasche delle imprese rendendo, oggettivamente, più difficile il commercio.
È questa la partita vera, che dobbiamo riaprire, dall’Italia, in Europa: bocciare il Ceta per non permetterlo più, cambiando la struttura del mandato che i nostri Governi affidano all’Ue – cosa possibile fin da subito – per sostenere, con un commercio giusto, le persone, il loro lavoro, la terra, il clima, il futuro. Dobbiamo farlo insieme, con scelte tecniche e atti concreti.

Monica di Sisto
Fairwatch, portavoce della Campagna StopTTIP/StopCETA
fonte: https://comune-info.net

È ora di seppellire quel trattato

Due terzi dei candidati alle ultime elezioni avevano assunto l’impegno di non ratificare in parlamento il trattato europeo di liberalizzazione con il Canada (Ceta). E’ importante battere un colpo significativo anche in vista del Consiglio europeo del 26 giugno, dove dovrebbe atterrare per l’ok finale degli Stati membri il Jefta, il trattato di liberalizzazione degli scambi tra Ue e Giappone, che in volume vale il doppio del Ceta, un quarto del Pil globale, è stato negoziato in assoluta segretezza come il Ceta, e presenta le medesime criticità. Contiene, infatti, una minima difesa di appena 18 prodotti agroalimentari di qualità e non fa alcun riferimento all’obbligatorietà del rispetto del Principio di precauzione europeo
















Bocciare il trattato di liberalizzazione con il Canada nel Parlamento italiano. E notificare alla Commissione europea il no alla ratifica, che bloccherebbe l’applicazione provvisoria delle misure di abbattimento di dazi e dogane contenute nel Ceta, costringendo l’Unione a riaprire una riflessione più attenta sull’impatto dei trattati commerciali che sta continuando a stringere con sempre più Paesi. E’ l’impegno assunto da circa i due terzi dei candidati alle scorse elezioni politiche con la Campagna “No Ceta, non tratto”, promossa dalla Campagna Stop Ttip Italia insieme a organizzazioni tra cui Coldiretti, Cgil, Arci, Legambiente, Greenpeace, Slow Food, Fairwarch, Ari e un ampio schieramento di associazioni dei consumatoriImpegno che, essendo ormai insediati il nuovo Parlamento e il nuovo Governo, queste stesse organizzazioni chiedono che venga mantenuto.Il neoeletto Governo, attraverso le parole del neoministro all’Agricoltura Gian Marco Centinaio e dell’Interno Matteo Salvini, ha annunciato l’intenzione di chiedere al Parlamento di non ratificare il trattato commerciale tra Ue e Canada e “gli altri simili al Ceta, del resto è tutto previsto nel contratto di governo”, ha affermato Centinaio. Ma la Commissione europea è scettica rispetto alla vera volontà del Governo italiano di voler far cadere l’accordo.In Parlamento, in realtà, i componenti dell’ex Intergruppo No Ceta si sono riattivati in vista della ricomposizione imminente delle commissioni: “Con la nuova legislatura, il capitolo della ratifica degli accordi commerciali tornerà alla ribalta – si legge in una lettera spedita a tutti i colleghi tra Camera e Senato dal deputato di Fi Paolo Russo e dalle senatrici M5S Elena Fattori e di LeU Loredana De Petris, già raccolta dal deputato di LeU Stefano Fassina e dalla presidente di Fdi Giorgia Meloni– e, anche se lascia ben sperare la posizione assunta dal ministro dell’Agricoltura, occorrerà riprendere i fili della questione per non disperdere il lavoro fatto fino ad oggi e soprattutto per fare in modo che emerga a chiare lettere e senza equivoci il motivo per il quale il fronte dell’indisponibilità ad accettare accordi calati dall’alto non si sgretola, anzi si rafforza”.E’ importante battere un colpo significativo anche in vista del Consiglio europeo del 26 giugno 2018 dove dovrebbe atterrare per l’ok finale degli Stati membri il Jefta, il trattato di liberalizzazione degli scambi tra Ue e Giappone, che in volume vale il doppio del Ceta, un quarto del Pil globale, è stato negoziato in assoluta segretezza come il Ceta, e presenta le medesime criticità. Esso contiene, infatti, una minima difesa di appena 18 prodotti agroalimentari di qualità e non fa alcun riferimento all’obbligatorietà del rispetto del Principio di precauzione europeo. Crea, inoltre, dieci tavoli tra i regolatori dell’Ue e del Giappone in cui essi procederanno in autonomia e riservatezza a “semplificare” il commercio tra le due parti anche su questioni che riguardano le competenze nazionali come appalti pubblici, agricoltura, sicurezza alimentare, servizi, investimenti, commercio elettronico. Cosa già avvenuta come abbiamo verificato nel caso della prima riunione del Comitato per la sicurezza sanitaria e fitosanitaria convocato in ambito Ceta poche settimane fa.
Il Jefta, inoltre, semplifica gli iter di approvazione e sdoganamento delle merci, andando a limitare la capacità degli Stati europei di controllare le importazioni giapponesi di alimenti e mangimi, anche se ci sono molti casi già documentati di importazioni di mangimi Ogm illegali dal Giappone, il Paese con il più grande numero di colture Ogm autorizzate al mondo.
Il Jefta non è che il primo di una serie di trattati di cui la Commissione europea sta accelerando l’avvio o la conclusione, come quello con l’Australia e la Nuova Zelanda, che non passeranno dai Parlamenti nazionali. Una mossa che dovrebbe prevenire, nei piani della Commissione, lo stop ai negoziati in corso qualora la Corte europea di Giustizia accogliesse il ricorso del governo belga contro l’istituzione da parte del Ceta proprio grazie alle pagine sugli investimenti, di un “tribunale speciale” arbitrale (il cosiddetto Investor to state dispute settlement – Isds, o la sua versione rimaneggiata Investment court system-Ics) che permette alle imprese di citare in giudizio gli Stati senza tener conto della giustizia ordinaria di ciascun Paese, qualora una legge o decisione faccia problema ai suoi interessi. La prima udienza del processo si terrà a Strasburgo il 26 giugno prossimo, la sentenza si attende entro l’anno e potrebbe invalidare gran parte o parti di essi perché non compatibili con i trattati costitutivi dell’Unione stessa.
Ecco perché è importante fermare questo tipo di trattati commerciali e riaprire la partita delle liberalizzazioni in Europa: non per protezionismo o altra posizione ideologica, ma per decidere una volta per tutte se e come essere o meno coerenti con le regole che si sono scelte a fondamento dell’Unione. Da anni la società civile di tutta Europa, gli imprenditori responsabili, i lavoratori e i sindacati, gli ambientalisti, i cittadini consapevoli, chiedono al nostro Governo di scegliere da che parte stare, se con i diritti e il futuro o con i profitti di pochi. E’ arrivato il momento di dimostrarlo con i fatti.
Monica Di Sisto
Portavoce della Campagna Stop TTIP/Stop CETA Italia
fonte: https://comune-info.net

Ratifica del Ceta, il ministro all’agricoltura Centinaio chiede lo stop

Soddisfatte le organizzazioni del movimento #stopCeta: “Ora governo ascolti proposte per un commercio migliore per lavoratori, consumatori e ambiente”
















"Non ratificheremo il trattato di libero scambio con il Canada perché protegge solo una piccola parte dei nostri prodotti DOP (Denominazione d’origine protetta) e IGP (Indicazione geografica protetta)”. Così Gian Marco Centinaio (Lega), neo ministro alle politiche agricole annuncia lo stop all’accordo commerciale CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement). Il trattato era entrato in vigore in via provvisoria lo scorso 21 settembre 2017 in attesa di essere approvato da tutti i Parlamenti degli Stati membri dell’Ue. Ma nel dopo elezioni italiano la ratifica era stata rinviata a data da destinarsi. Oggi in un’intervista pubblicata su La Stampa, il ministro ribadisce la linea politica della Lega che ha sempre accusato il trattato di avere un impatto devastante sull’agricoltura italiana. “Chiederemo al parlamento di non ratificare quel trattato e gli altri simili al Ceta – ha aggiunto Centinaio – del resto è tutto previsto nel contratto di governo”.
  
Un annuncio accolto con soddisfazione dalla Campagna Stop TTIP Italia che dal 2014 è impegnata a instaurare, in Italia e in Europa, un serio confronto su quali regole siano necessarie per garantire un commercio più sostenibile ed equo. La campagna, che oggi riunisce centinaia di associazioni e organizzazioni, chiede che venga riaperto al più presto il confronto con il Governo sui trattati di libero scambio “che danneggiano ambiente, diritti e un commercio leale e solidale dentro e fuori dall’Europa”.
 “Questo – si legge in una nota stampa – intervento è urgente perché l’Europa sta negoziando un pacchetto di liberalizzazioni commerciali con blocchi di importanti Paesi esportatori – Mercosur, Giappone Vietnam, Paesi del Mediterraneo – alcuni dei quali non richiedono il passaggio per i Parlamenti nazionali, e che potrebbero cambiare per sempre il modo in cui vengono negoziati e fissati standard importanti di produzione, di protezione dei diritti del lavoro, dell’ambiente e della salute, affidandoli a piccoli comitati tecnici fortemente influenzati da esperti che non rispondono alla volontà dei cittadini democraticamente espressa”.

Nel contempo la Campagna Stop TTIP Italia chiede che i parlamentari eletti sull’impegno della campagna #StopCETA contro la ratifica del trattato di liberalizzazione degli scambi con il Canada e di tutti i trattati riattivino con urgenza l’intergruppo parlamentare #StopCETA No trattati tossici alla Camera e al Senato per istruire insieme l’iter di bocciatura dei trattati sbagliati.

fonte: www.rinnovabili.it

CETA, al via il comitato segreto sui pesticidi - Chiediamo trasparenza al Parlamento

La Campagna Stop TTIP/Stop CETA pubblica documento interno dell'UE con l’agenda dei lavori e lancia un appello: “La prossima settimana a Ottawa i nostri diritti saranno messi in discussione da un comitato tecnico non trasparente. I nuovi parlamentari intervengano subito"













ROMA, 21 marzo 2018 – Negare o autorizzare l'utilizzo di alcuni fungicidi, rimettere in discussione i veti nazionali sul glifosato, armonizzare le regole che consentono di importare o esportare alimenti tra Canada e Unione Europea. E il tutto senza il controllo dei Parlamenti, diretta espressione delle cittadine e dei cittadini europei. Accadrà tra pochi giorni, il 26 e il 27 marzo a Ottawa, quando si terrà la prima riunione del Comitato congiunto sulle misure sanitarie e fitosanitarie creato dal CETA, l'accordo di libero scambio concluso tra Unione Europea e Canada e in via di ratifica nei Parlamenti degli Stati membri, Italia compresa. Un comitato composto da rappresentanti della Commissione Europea, del Governo canadese, delle imprese e degli enti regolatori, senza alcuna traccia di organismi eletti.
Per denunciare la scarsa trasparenza di questi meccanismi, la campagna StopTTIP/StopCETA pubblica un documento ad accesso ristretto (“Limided”) trapelato dagli uffici della DG Sante della Commissione UE, che reca l’agenda del meeting a porte chiuse in programma lunedì e martedì prossimo.
Tra i temi all'ordine del giorno ve ne sono molti di stretto interesse per i cittadini e per i produttori agricoli, che però verranno trattati in segreto e fuori dal controllo diretto dei Parlamenti o della società civile. I tecnici europei e canadesi, insieme ai rappresentanti del settore privato, si scambieranno informazioni sulle nuove leggi che riguardano la salute animale e delle piante, così come sulle ispezioni e sui controlli. Discuteranno anche di linee guida che determineranno l’equivalenza tra prodotti europei e nordamericani, così come dell’impatto sulle importazioni causato dai limiti per le sostanze chimiche. All’ordine del giorno c’è poi il mancato rinnovo da parte dell’UE per i prodotti contenenti Picoxystrobin, un fungicida considerato altamente rischioso per animali terrestri e acquatici. Non basta: verranno prese in esame le differenze tra le misure europee sul glifosato e quelle nazionale. Dopo il rinnovo dell’autorizzazione per altri 5 anni da parte della Commissione Europea, infatti, alcuni Paesi hanno deciso, entro i loro confini, di varare norme più stringenti per l’uso di questo diserbante, accusato di essere probabilmente cancerogeno per l’uomo. Regole più dure, in definitiva, sono viste come un problema per il libero commercio, anche se tutelano consumatori ed ecosistemi. Toccherà al comitato tecnico capire come superare l’ostacolo del principio di precauzione. Stesso discorso per il commercio di animali vivi e carni, con la richiesta dei nordamericani di semplificare la certificazione dei loro prodotti.
"Il rischio che abbiamo preannunciato in questi anni di mobilitazione alla fine si realizza", sottolinea Monica Di Sisto, portavoce della Campagna italiana StopTTIP/StopCETA, piattaforma che coordina più di 200 organizzazioni nazionali e 50 comitati locali. Il CETA, nonostante si sia riusciti a fermarne finora la ratifica almeno in Italia grazie a una potente campagna di pressione insieme a organizzazioni come Coldiretti, CGIL , Arci, Arcs, Ari, Assobotteghe, Attac, CGIL, Fairwatch, Greenpeace, Legambiente, Movimento Consumatori, Navdanya International, Slowfood, Terra! e Transform, comincia ad attivare le sue commissioni tecniche inaccessibili a cittadini e eletti. 
“In una di esse, convocata a Ottawa il 26 marzo, si comincia a discutere della modifica di standard e regolamentazioni che difendono i nostri diritti a spese del commercio”, prosegue Di Sisto. “Come si può  leggere chiaramente dal documento ottenuto dalla Campagna StopTTIP/StopCETA, si delega a un gruppo di presunti portatori di interessi ed esperti, scelti non si sa come, il confronto su come armonizzare, abbassare, cancellare standard e regole inerenti la qualità dei prodotti alimentari o l'utilizzo di sostanze chimiche come i fungicidi. Un'ulteriore deriva che allontana le scelte più delicate e impattanti dagli occhi scomodi dei cittadini, nonostante siano proprio questi ultimi a subirne le eventuali conseguenze”.
Per questo, la Campagna Stop TTIP/Stop CETA lancia due richieste urgenti:
·         la prima ai parlamentari europei più impegnati, perché convochino la Commissione UE in audizione chiedendo spiegazioni sui contenuti di questo incontro e la piena trasparenza degli argomenti trattati;
·         la seconda ai neoeletti parlamentari italiani, che prenderanno posto nelle Camere rinnovate il 23 di marzo. Molti di loro hanno firmato il decalogo "#NoCETA - #Nontratto", per la costituzione di un gruppo interparlamentare Stop CETA. Ora esercitino il diritto al controllo in nome e per conto degli italiani, chiedendo conto al Governo ancora in carica e al Ministero dell'Agricoltura di quali indicazioni, richieste ed eventuali veti si è fatto interprete davanti alla Commissione Europea.
Che il loro intervento sia improrogabile lo dimostra il capitolo sui pesticidi dell'ultimo rapporto "Il CETA minaccia gli stati membri dell'UE", pubblicato pochi giorni fa dal centro di studi legali ambientali europeo CIEL (Center for International Environmental Law). Secondo lo studio*, infatti, l'applicazione dell'accordo porterà a una progressiva fluidificazione degli scambi commerciali in agricoltura, attraverso l'armonizzazione o la cancellazione di regole, molte delle quali a protezione dei consumatori e dell'ambiente. Uno scenario che, senza un controllo diretto da parte degli organismi eletti, rischia di diventare realtà. 
Contro questa marginalizzazione dal processo decisionale e contro i rischi del CETA si sono schierate gran parte delle forze politiche che entreranno in Parlamento il 23 marzo. La richiesta di una loro immediata attivazione viene anche da tanti territori. Come in Friuli, dove il giorno dell’insediamento, alle 15,30, in via Savorgnana è prevista una mobilitazione del Comitato StopTTIP/StopCETA, organizzata insieme a Coldiretti.

Monica Di Sisto 


Stop TTIP dà la sveglia ai politici: il 10 febbraio tutti a Milano

In questi anni la campagna Stop TTIP ha visto una vera e propria escalation di visibilità e non certo grazie ai media mainstream. E ha ottenuto risultati importanti, come impedire che il CETA fosse ratificato in Senato. Ora, per rafforzare l'argine contro lo strapotere delle multinazionali e l'azzeramento dei diritti, l'appuntamento è il 10 febbraio a Milano.




Si terrà il 10 febbraio prossimo a Milano l'assemblea nazionale di tutti i comitati Stop TTIP della campagna. L'appuntamento è dale 11 alle 18 in corso Giuseppe Garibaldi (QUI tutte le informazioni) e non è stato organizzato "per caso". A due settimane dalle elezioni politiche che stanno scaldando gli animi e preoccupando non poco certi partiti, i promotori della campagna per dire no ai trattati transnazionale che calpestano i diritti di Stati e cittadini si raccolgono insieme per programmare e progettare le prossime azioni. E per capire bene da che parte stanno i politici in corsa...
«Nel 2017 insieme abbiamo compiuto un'impresa: impedire che il CETA, il trattato economico e commerciale tra UE e Canada, fosse ratificato in Senato - spiegano dalla Campagna - Nel 2018 vogliamo spingerci ancora più in là, chiedendo fin da subito al prossimo Parlamento di schierarsi contro gli accordi tossici che minacciano la nostra agricoltura, l'ambiente, i diritti del lavoro, la privacy e i servizi pubblici. Abbiamo le forze di sollevare una nuova ondata di pressioni su tutti i candidati alle prossime elezioni del 4 marzo. Per questo, invitiamo tutti i Comitati locali e le organizzazioni che hanno sempre supportato questa campagna a partecipare all'Assemblea nazionale di Stop TTIP Italia il prossimo 10 febbraio presso il Centro di Aggregazione Multifunzionale in corso Garibaldi 27 a Milano. L'invito è a partecipare numerosi, per ritrovarci dopo questi mesi e anni di battaglie comuni e rilanciare con forza le istanze che questo movimento nato dal basso ha saputo portare in primo piano sulla scena politica nazionale».
Grande è stata la soddisfazione a dicembre 2017 quando le Camere sono state sciolte prima della ratifica del Ceta. «I trattati commerciali iniqui diventano argomento di campagna elettorale. Grazie a tutte le persone, i comitati, le associazioni, i sindacati, i partiti e le imprese che hanno lottato, resistito, cambiato una storia che volevano già scritta» hanno detto dalla Campagna Stop TTIP. Un grazie è andato anche agli oltre 100 eletti tra Camera e Senato che hanno detto "no" alla ratifica.
Per facilitare l'organizzazione da parte del comitato di Milano, chi partecipa invii una e-mail di conferma a stopttipitalia@gmail.com entro venerdì 26 gennaio.
Per saperne di più...
Che cos’è il TTIP?
Il TTIP è un trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico che ha l’intento dichiarato di modificare regolamentazioni e standard (le cosiddette “barriere non tariffarie”) e di abbattere dazi e dogane tra Europa e Stati Uniti rendendo il commercio più fluido e penetrante tra le due sponde dell’oceano.
L’idea sembrerebbe buona. Perché qualcuno lo definisce “pericoloso”?
Condividiamo la definizione perché, in realtà questo trattato, che viene negoziato in segreto tra Commissione UE e Governo USA, vuole costruire un blocco geopolitico offensivo nei confronti di Paesi emergenti come Cina, India e Brasile creando un mercato interno tra noi e gli Stati Uniti le cui regole, caratteristiche e priorità non verranno più determinate dai nostri Governi e sistemi democratici, ma modellate da organismi tecnici sovranazionali sulle esigenze dei grandi gruppi transnazionali.
I soliti “tecnici” che “rubano” il potere alla politica.
Infatti. Il Trattato prevede l’introduzione di due organismi tecnici potenzialmente molto potenti e fuori da ogni controllo da parte degli Stati e quindi dei cittadini. Il primo, un meccanismo di protezione degli investimenti (Investor-State Dispute Settlement – ISDS), consentirebbe alle imprese italiane o USA di citare gli opposti governi qualora democraticamente introducessero normative, anche importanti per i propri cittadini, che ledessero i loro interessi passati, presenti e futuri.
Le aziende citerebbero gli Stati in tribunale.
Non solo; le vertenze non verrebbero giudicate da tribunali ordinari che ragionano in virtù di tutta la normativa vigente, come è già possibile oggi, ma da un consesso riservato di avvocati commerciali superspecializzati che giudicherebbero solo sulla base del trattato stesso se uno Stato – magari introducendo una regola a salvaguardia del clima, o della salute – sta creando un danno a un’impresa. Se venisse trovato colpevole, quello stato o comune, o regione, potrebbe essere costretto a ritirare il provvedimento o ad indennizzare l’impresa. Pensiamo ad un caso come quello dell’Ilva a Taranto, o della diossina a Seveso, e l’ingiustizia è servita.
Una giustizia “privatizzata”, insomma.
Non è l’unica questione. Un altro organismo di cui viene prevista l’introduzione è il Regulatory Cooperation Council: un organo dove esperti nominati della Commissione UE e del ministero USA competente valuterebbero l’impatto commerciale di ogni marchio, regola, etichetta, ma anche contratto di lavoro o standard di sicurezza operativi a livello nazionale, federale o europeo. A sua discrezione sarebbero ascoltati imprese, sindacati e società civile. A sua discrezione sarebbe valutato il rapporto costi/benefici di ogni misura e il livello di conciliazione e uniformità tra USA e UE da raggiungere, e quindi la loro effettiva introduzione o mantenimento. Un’assurdità antidemocratica che va bloccata, a mio avviso, il prima possibile.
Per chi è allora vantaggioso il TTIP?
Il ministero per lo Sviluppo economico ha commissionato a Prometeia s.p.a. una prima valutazione d’impatto mirata all’Italia, alla base di molte notizie di stampa e interrogazioni parlamentari. Scorrendo dati e previsioni apprendiamo che i primi benefici delle liberalizzazioni si manifesterebbero nell’arco di tre anni dall’entrata in vigore dell’accordo: il 2018, al più presto. Il TTIP porterebbe, entro i tre anni considerati, da un guadagno pari a zero in uno scenario cauto, ad uno +0,5% di PIL in uno scenario ottimistico: 5,6 miliardi di euro e 30mila posti di lavoro grazie a un +5% dell’export per il sistema moda, la meccanica per trasporti, un po’ meno da cibi e bevande e da uno scarso +2% per prodotti petroliferi, prodotti per costruzioni, beni di consumo e agricoltura. L’Organizzazione mondiale del Commercio ci dice che le imprese italiane che esportano sono oltre 210mila, ma è la top ten che si porta a casa il 72% delle esportazioni nazionali (ICE – Sintesi Rapporto 2012-2013: “L’Italia nell’economia internazionale”). Secondo l’ICE, in tutto nel 2012 le esportazioni di beni e servizi dell’Italia sono cresciute in volume del 2,3%, leggermente al di sotto del commercio mondiale. La loro incidenza sul PIL ha sfiorato il 30% in virtù dell’austerity e della crisi dei consumi che hanno depresso il prodotto interno. L’Italia è dunque riuscita a rosicchiare spazi di mercato internazionale contenendo i propri prezzi, senza generare domanda interna né nuova occupazione. Quindi prima di chiudere i conti potremmo trovarci invasi da prodotti USA a prezzi stracciati che porterebbero danni all’economia diffusa, e soprattutto all’occupazione, molto più ingenti di questi presunti guadagni per i soliti noti. Danni potenziali che né la ricerca condotta da Prometeia né il nostro Governo al momento hanno quantificato o tenuto in considerazione.
È vero che, nonostante l’enorme importanza della questione, il Parlamento europeo non abbia accesso a tutte le informazioni sul modo in cui si svolgono gli incontri e sullo stato di avanzamento delle trattative?
Il Parlamento europeo, dopo aver votato nel 2013 il mandato a negoziare esclusivo alla Commissione – come richiede il Trattato di Lisbona – potrà soltanto porre dei quesiti circostanziati, cui la Commissione può rispondere ma nel rispetto della riservatezza obbligatoria in tutti i negoziati commerciali bilaterali, sempre secondo il Trattato, e poi avrà diritto di voto finale “prendi o lascia”, quando il negoziato sarà completato. Nel frattempo non ha diritto né di accesso né di intervento sul testo. I Governi stessi dell’Unione, se vorranno avere visione delle proposte USA, dovranno – a quanto sembra al momento – accedere a sale di sola lettura approntate nelle ambasciate USA (non si capisce se in quelle di tutti gli Stati UE o solo a Bruxelles, e non potranno nemmeno prendere appunti o farne copia. Un assurdo, considerata la tecnicità e complessità dei testi negoziali.
Quali effetti potrà produrre l’accordo se verrà approvato nella sua forma attuale?
Tutti i settori di produzione e consumo come cibo, farmaci, energia, chimica, ma anche i nostri diritti connessi all’accesso a servizi essenziali di alto valore commerciale come la scuola, la sanità, l’acqua, previdenza e pensioni, sarebbero tutti esposti a ulteriori privatizzazioni e alla potenziale acquisizione da parte delle imprese e dei gruppi economico-finanziari più attrezzati, e dunque più competitivi. Senza pensare che misure protettive, come i contratti di lavoro, misure di salvaguardia o protezione sociale o ambientale, potrebbero essere spazzati via a patto di affidarsi allo studio legale giusto e ben accreditato.
Il TTIP produrrà dei rischi per i cittadini?
Tom Jenkins della Confederazione sindacale europea (ETUC), nell’incontro con la Commissione del 14 gennaio scorso, ha ricordato che gli Stati Uniti non hanno ratificato diverse convenzioni e impegni internazionali ILO e ONU in materia di diritti del lavoro, diritti umani e ambiente. Questo rende, ad esempio, il loro costo del lavoro più basso e il comportamento delle imprese nazionali più disinvolto e competitivo, in termini puramente economici, anche se più irresponsabile. A sorvegliare gli impatti ambientali e sociali del TTIP, ha rassicurato la Commissione, come nei più recenti accordi di liberalizzazione siglati dall’UE, ci sarà un apposito capitolo dedicato allo Sviluppo sostenibile che metterà in piedi un meccanismo di monitoraggio specifico, partecipato da sindacati e società civile d’ambo le regioni.
È il primo caso del genere? O c’è qualche “antenato”?
Un meccanismo simile è entrato in vigore da meno di un anno tra UE e Korea, con la quale l’Europa ha sottoscritto un trattato di liberalizzazione commerciale molto simile anche strutturalmente al TTIP, facendo finta di non ricordare che come gli USA la Korea si è sottratta a gran parte delle convenzioni ILO e ONU. Imprese, sindacati e ONG che fanno parte dell’analogo organo creato per monitorare la sostenibilità sociale e ambientale del trattato UE-Korea, hanno protestato con la Commissione affinché avvii una procedura di infrazione contro la Korea per comportamento antisindacale, e ancora aspettano una risposta. Perché dovremmo pensare che gli USA, molto più potenti e contrattualmente forti si dovrebbero piegare alle nostre esigenze, considerando che sono tra i pochi Paesi che non si sono mai piegati a impegni obbligatori a salvaguardia della salute, o dell’ambiente come il Protocollo di Kyoto appena archiviato anche grazie alla loro ferma opposizione?
Il TTIP può produrre danni per la salute?
Faccio un solo esempio, basato sulla storia. Nel 1988 l’UE ha vietato l’importazione di carni bovine trattate con certi ormoni della crescita cancerogeni. Per questo è stata obbligata a pagare a USA e Canada dal Tribunale delle dispute dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) oltre 250 milioni di dollari l’anno di sanzioni commerciali nonostante le evidenze scientifiche e le tante vittime. Solo nel 2013 la ritorsione è finita quando l’Europa si è impegnata ad acquistare dai due concorrenti carne di alta qualità fino a 48.200 tonnellate l’anno, alla faccia del libero commercio. Sarà una coincidenza, ma in un documento congiunto dell’ottobre 2012 BusinessEurope e US Chamber of Commerce, le due più potenti lobby d’impresa delle due sponde dell’oceano, avevano chiesto ai propri Governi proprio di avviare una “cooperazione sui meccanismi di regolazione”, che consentisse alle imprese di contribuire alla loro stessa stesura (http://goo.gl/HlqhTc).
Esistono alternative al TTIP? A cosa potrebbero aspirare i cittadini del mondo afflitti dall’attuale crisi economica?
Da molti anni non solo movimenti, associazioni, reti sindacali ma anche istituzioni internazionali come FAO e UNCTAD, le agenzie ONU che lavorano su Agricoltura, Commercio e Sviluppo, richiamano l’attenzione sul fatto che rafforzare i mercati locali, con programmazioni territoriali regionali e locali più attente basate su quanto ci resta delle risorse essenziali alla vita e quanti bisogni essenziali dobbiamo soddisfare per far vivere dignitosamente più abitanti della terra possibili, potrebbe aiutarci ad uscire dalla crisi economica, ambientale, ma soprattutto sociale che stiamo vivendo, prevedibilmente, da tanti anni. Stiamo facendo finta di niente, continuando a percorrere strade, come quella della iperliberalizzazione forzata stile TTIP, che fanno male non solo al pianeta e alle comunità umane, ma allo stesso commercio che è in contrazione dal 2009 e non si sta più espandendo. Da quando la piena occupazione europea e statunitense, che con redditi veri e capienti sosteneva produzione e consumi globali, sono diventate un miraggio, anche la crescita dei popolatissimi Paesi emergenti, che hanno fatto la propria fortuna grazie alla commercializzazione del loro capitale ambientale e umano a prezzi stracciati e ad alti costi ambientali e sociali, non è riuscita più a sostenere il paradigma della crescita infinita che si è rivelato per quello che era: falso e insensato. I poveri, che crescono a vista d’occhio e devono lavorare oltre le 10 ore al giorno per un pugno di spiccioli, consumano prodotti poveri e sempre meno; i ricchi, che sono sempre più ricchi ma anche sempre meno, consumano tanto e malissimo, e non creano benessere diffuso. Abbiamo la grande opportunità di voltare pagina, e di tentare di dare a questo pianeta ancora un po’ di futuro, rimettendo al centro della politica i beni comuni e i diritti. Col TTIP, al contrario, ci chiuderemo le poche finestre di possibilità ancora aperte. Con la Campagna Stop TTIP, che raccoglie solo in Italia oltre 60 tra associazioni, sindacati, enti pubblici, cittadini e comunità, vogliamo fermare questa deriva e diffondere tutte le alternative possibili e più efficaci delle vecchie ricette fallimentari che continuiamo a subire.
fonte: http://www.ilcambiamento.it

Chi critica il TTIP finisce sotto accusa

Molte associazioni che si sono opposte agli accordi di libero scambio tra America ed Europa sono bersaglio di una campagna di delegittimazione da parte di chi ha interesse che questi accordi vengano siglati. La denuncia di “Corporate Europe Observatory” e “LobbyControl”



















Negli ultimi mesi, multinazionali, lobbisti e think thank hanno cercato di delegittimare quelle Ong, le associazioni e altre espressioni della società civile che si sono opposte al TTIP (i contestati accordi di libero scambio tra Ue e Usa) e il CETA (tra Unione europea e Canada). È la denuncia contenuta nel rapporto “Blaming the Messenger: the corporate attack on the movement for trade justice” curato da “Corporate Europe Observatory” e “LobbyControl” che evidenzia come siano state usate “tattiche per gettare discredito e campagne di delegittimazione” contro associazioni e Ong impegnate nella battaglia contro l’approvazione di questi accordi di commercio. “Un attacco a chi critica il TTIP e il CETA rischia di diventare un attacco alla democrazia – denunciano gli autori del rapporto – nel momento in cui agli argomenti sostanziali esposti si contrappongono campagne di delegittimazione”.
Negli ultimi anni il TTIP e il CETA hanno suscitato un’intensa ondata di critiche da parte di diversi attori della società civile: dagli accademici alle piccole imprese, dai governi locali ai sindacati, passando per le associazioni non governative e i sindacati. Obiettivo congiunto per tutti questi attori: bloccare l’approvazione  questi accordi, che vengono considerati particolarmente vantaggiosi per le grandi aziende multinazionali, ma dannose per l’ambiente e le tutele sociali. Una resistenza efficace, dal momento che il TTIP è stato temporaneamente congelato.
Di fronte a questa battuta d’arresto, le aziende e le lobby che invece potrebbero trarre vantaggio da questi accordi hanno lanciato una campagna di discredito contro le organizzazioni non governative e la società civile. Le accuse più comuni? Quella di suscitare allarmismo o di “manipolare” un pubblico poco istruito. Oppure di agire per lucro o per fini personali. Queste tattiche mirano a sgretolare la credibilità di chi critica il TTIP o il CETA. Chi protesta viene dipinto come “anti-americano”, “nemico della globalizzazione”, “populista” o “ideologico”. Un’altra strategia per spargere il seme del dubbio sulle motivazioni di chi critica gli accordi transnazionali è quello di insinuare accuse sulla scarsa trasparenza dei bilanci o ipotizzare la longa manu della Russia sui finanziamenti. Il tutto nella più completa assenza di prove. “Attaccare in questo modo le Ong sulla raccolta fondi o la trasparenza è una scappatoia per non dover rispondere alle loro critiche”, si legge nel comunicato stampa di presentazione del rapporto.

fonte: https://altreconomia.it