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Greenpeace: "La lobby dei fossili vuole i soldi del Recovery Found per promuovere l'idrogeno"

Greenpeace: "Grazie a una massiccia attività di lobby a livello nazionale ed europeo, alcune delle aziende che più contribuiscono alla crisi climatica rischiano così di essere tra i principali beneficiari dei fondi europei in Italia, Spagna, Portogallo e Francia".














"Un nuovo rapporto della coalizione Fossil FreePolitics, promossa anche da Greenpeace International, denuncia come l’industria dei combustibili fossili abbia cercato di mettere le mani sui fondi europei per la ripresa economica, che dovrebbero servire a finanziare la transizione ecologica, per promuovere false soluzioni come l’idrogeno ricavato dal gas fossile. Grazie a una massiccia attività di lobby a livello nazionale ed europeo, alcune delle aziende che più contribuiscono alla crisi climatica rischiano così di essere tra i principali beneficiari dei fondi europei in Italia, Spagna, Portogallo e Francia" lo scrive Greenpeace in una nota.
"Nel nostro Paese, le pressioni esercitate sul governo dall’industria dei combustibili fossili erano riuscite a quadruplicare gli investimenti destinati all’idrogeno, lievitati da uno a quattro miliardi di euro attraverso l’inclusione nel PNRR dell’idrogeno “blu”, che a differenza dell’idrogeno “verde” è ricavato dal gas fossile. Questo tentativo di promuovere una falsa soluzione come l’idrogeno è stato sventato solo in parte dall’intervento della Commissione Europea, che nell’ultima versione del PNRR ha imposto una riduzione dei finanziamenti all’idrogeno e stabilito che questi dovranno essere limitati all’idrogeno verde. Ma resta il rischio concreto che progetti analoghi possano essere comunque finanziati con altri fondi europei".
"Il rapporto documenta infatti come da febbraio a oggi la lobby dei combustibili fossili abbia goduto di una corsia preferenziale presso il Ministero della Transizione Ecologica, con una media di tre incontri a settimana. La parte del leone è stata fatta da Eni, seguita da Snam ed Enel, che da soli hanno partecipato alla metà degli incontri. Lo stesso ministro Roberto Cingolani è stato presente a venti incontri, oltre a partecipare a un webinar sull’idrogeno organizzato dall’industria dei combustibili fossili. L’attività di lobby si è estesa a una dozzina di audizioni parlamentari, dove i rappresentanti dell’industria hanno potuto avanzare le loro proposte, pienamente avallate dal Parlamento italiano e integrate nel PNRR che il Governo Draghi aveva presentato alla Commissione Europea".
«Sebbene l’intervento della Commissione Europea abbia evitato che i soldi del Recovery Fund fossero usati per finanziare le false soluzioni di Eni, il PNRR italiano dedica all’idrogeno e al biogas più denaro di quanto stanziato per migliorare le nostre unità di terapia intensiva e rinnovare le attrezzature ospedaliere. Evidentemente l’Italia preferisce dare priorità all’idrogeno e al gas», dichiara Luca Iacoboni, responsabile della campagna Clima ed Energia di Greenpeace Italia.
"Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, ha più volte cercato di convincere i parlamentari italiani che l’idrogeno è la soluzione migliore per decarbonizzare il settore dei trasporti, ma di recente ha ammesso che Eni non intende vendere idrogeno “blu” nel prossimo futuro, che sarà invece usato come carburante nelle raffinerie di petrolio". «È l’ennesimo bluff di Eni», commenta Iacoboni, «che anziché impegnarsi seriamente per decarbonizzare l’economia intende usare l’idrogeno per continuare a produrre benzina e diesel, facendo pagare ai cittadini e alle cittadine italiane un modello di business inquinante e basato su infrastrutture obsolete».

fonte: www.greencity.it


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L’ecologia che serve l’economia

Se è vero, come “teleborsa.it”, alla luce di un’indagine commissionata da Facile.it agli istituti di ricerca MuP Research e Norstat, che oltre il 31 per cento degli interpellati dichiara di non aver affatto compreso quale sia la funzione di un ministero denominato “della transizione ecologica”, delle ragioni ci saranno. Buona parte di esse si deve, probabilmente, a ciò che consiglia a un governo, pur quasi senza opposizione, di non esplicitare con chiarezza il fatto che quella presunta “transizione” deve essere ancora una volta subordinata alle ragioni inamovibili della presunta crescita economica. La minaccia di catastrofe ambientale ha ormai da tempo una portata tale che non consente più l’utilizzo di specchietti per le allodole. Enzo Scandurra ci ricorda, ancora una volta, che in ecologia non esistono scorciatoie: una lezione severa che ci viene dal Secondo Principio della termodinamica. Più ci muoviamo, più trasformiamo, meno energia utile rimane a nostra disposizione e non c’è tecnologia che possa ingannare questo principio della fisica, che è anche alla base del vivente. Non ci resta che ripensare la crescita a partire dalla condanna del consumismo, del consumo (inutile) di suolo, dell’uso dell’auto, del turismo di massa, della produzione di armi e del loro commercio e dell’alta velocità che ha impoverito ulteriormente i territori che attraversa senza fermarsi



Provate a confrontare i contenuti ecologici e il messaggio della Laudato sì di Papa Francesco con i proclami del nuovo Ministero della transizione ecologica. Nel documento papale l’ecologia integrale parte dal creato (biosfera) che abbraccia tutto il vivente in una catena di relazioni senza discontinuità. Non ci può essere transizione ecologica lasciando fuori disuguaglianze, povertà e ingiustizia; questo, in sintesi, l’insegnamento.

Nel Ministero nuovo c’è invece il (solito) tentativo tecnologico delle lobbies di sostituire (invano) l’uso dei fossili con invenzioni fantasmagoriche che comunque ad esso infine riconducono.

Che cosa sono l’idrogeno e la “nuova civiltà” ad idrogeno? Non esistono miniere di idrogeno (esso è solo un vettore capace di trasportare energia), dunque bisogna produrlo e per produrlo occorre energia. Ma quale energia? Quella dei fossili? Si dice che potrebbe essere prodotto con l’uso di energia alternativa. E così siamo tornati al punto di partenza, ovvero produrre energia alternativa.

Altra invenzione: la tecnologia Ccs (Carbon Capture and Sequestration), ovvero ri-catturare la CO2 prodotta e pomparla sotto le viscere del pianeta. Questo è ciò che hanno fatto, in via naturale, per milioni di anni le grandi foreste sottraendo carbonio dall’atmosfera e seppellendolo sotto la crosta terrestre (i rifiuti della terra, ovvero i fossili).

Noi lo abbiamo estratto e utilizzato per tutto il secolo passato e presente, cioè abbiamo utilizzato i rifiuti del pianeta disseppellendoli e modificando così il sottile strato di gas serra che serve a mantenere costante la temperatura (e l’equilibrio) del pianeta.

Ora ci siamo accorti che stavamo mettendo a repentaglio l’equilibrio della biosfera e vogliamo rimettere la CO2 al suo posto (cioè sottoterra). Ma occorre energia: per separare la CO2, per pomparla sotto la crosta. E con quale energia? Anche qui si dirà: l’energia rinnovabile. Già, se ce l’avessimo!

Ancora: le auto elettriche. Sappiamo da studi recenti che allo stato attuale sono più inquinanti di quelle tradizionali per via della batteria. Potremmo migliorare i processi, resta il fatto dei metalli utilizzati per le batterie: dove si prendono e dove si smaltiscono? Ci sono Stati e continenti pattumiere, come l’Asia o l’Africa.

Scavare ancora nel sottosuolo per estrarre metalli per le batterie e poi versare quelle usate, altamente inquinanti, negli stessi territori.



La Laudato sì presupponeva un cambiamento di stile nei comportamenti: più sobri, più solidali, più conviviali (ricordiamo Alex Langer: più lento, più profondo, più dolce).

Ripensare la crescita a partire dalla condanna del consumismo, del consumo (inutile) di suolo, dell’uso dell’auto, del turismo di massa, della produzione di armi e del loro commercio, dell’alta velocità che ha ancora più impoverito i territori che attraversa senza fermarsi.

Fare questo vuol dire rinunciare al progresso? Semmai significa arrestare la folle corsa verso l’instabilità del pianeta e scongiurare la (prossima) fine della specie umana. Quanto al progresso, basta forse rileggere La Ginestra di Leopardi: questo secol superbo e sciocco…, le magnifiche sorte e progressive.

Progresso dovrebbe significare ritrovare l’alleanza con la terra, con le altre specie che, saccheggiate dei loro habitat, hanno trasmesso la grande pandemia che ci sta uccidendo.

Ma questo non è l’obiettivo della transizione ecologia del nuovo Ministero (o Mistero?). Anzi, accanto ad esso c’è quello dello sviluppo del leghista Giorgetti che persegue gli obiettivi opposti.

È chiaro che l’ecologia, per citare un suo grande studioso, non può essere beffata e non esistono scorciatoie per aggirarla. Quello che noi pervicacemente tentiamo di fare inventando parole, espressioni, tecniche (e Ministeri) per esorcizzare l’apocalisse ambientale.

fonte: comune-info.net


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Micropolis: Permanente o reversibile di Anna Rita Guarducci

 







































































fonte: Micropolis


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Pressioni segrete dalle Big Oil per divenire sponsor della COP26 sul clima

Culture Unstained porta alla luce almeno 13 incontri tra funzionari governativi UK e compagnie petrolifere. BP, Shell e Equinor cercano un posto al sole nel prossimo vertice sui cambiamenti climatici a Glasgow





BP, Shell ed Equinor vorrebbero un posto in prima fila ai colloqui della prossima COP26 sui cambiamenti climatici, in programma a Glasgow dall’1 al 12 novembre 2012. E’ quello che emerge dalla documentazione ottenuta grazie alla legge sulla libertà d’informazione da Culture Unstained, organizzazione impegnata a fermare la sponsorizzazione della cultura da parte di aziende con interessi nei combustibili fossili. Nell’analisi pubblicata ieri da Culture Unstained si fa riferimento ad almeno 13 incontri segreti ottenuti dalle tre major del petrolio con i responsabili del governo britannico per la preparazione del prossimo summit Unfccc.

Che cosa hanno cercato di ottenere le società? Dai documenti si comprende che l’obiettivo principale è visibilità. Le e-mail e le note delle riunioni rese pubbliche, rivelano come nell’ultimo anno le tre big oil abbiano spinto per influenzare e sponsorizzare la COP26, nonostante gli organizzatori abbiano lanciato la loro richiesta ufficiale di patrocinio solo ad agosto.

In realtà non è la prima volta che si registrano simili ingerenze. Tuttavia per questo vertice, l’unità COP del governo britannico aveva stabilito i criteri più severi per gli sponsor, indicando che i candidati dovessero essere “leader nel loro settore, guidando cambiamenti positivi e innovazione verso un mondo a basse emissioni di carbonio”. Le mail, però, raccontano una storia diversa, mostrando l’esistenza di un canale secondario tra compagnie petrolifere e funzionari che potrebbe compromettere la posizione del Regno Unito come padrone di casa del prossimo summit sui cambiamenti climatici.

Secondo quanto rivelato dal Guardian, BP avrebbe fatto anche un passo in più offrendo espressamente i suoi buoni uffici per fare da tramite fra Londra e altri governi. Offerta che è stata rifiuta dal Governo britannico.

Nonostante ciò la posizione del Regno Unito appare particolarmente controversa. Perché l’incontro internazionale di novembre 2021 sarà l’appuntamento cruciale in cui si definirà la nuova leadership globale sul clima (con l’UE pronta a mettere sul piatto il Green Deal) e dove si deciderà una parte importante dell’economia nel mondo post-covid. La nazione ospitante ha un ruolo fondamentale nell’organizzare e imbastire tutti i lavori preparatori necessari. Ma con una gestione così opaca è difficile che la Gran Bretagna riesca a svolgere il ruolo imparziale di mediatore che servirà per condurre a buon fine i negoziati.

fonte: www.rinnovabili.it

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Sui pesticidi le norme in vigore non bastano a tutelare salute e ambiente

La commissione Pest del Parlamento europeo mette in fila le criticità legate all’autorizzazione e all’uso di queste sostanze, tra cui mancanza di monitoraggio in campo e l’ampio uso di questi prodotti anche a scopo preventivo. Anche in Italia il Piano d’azione resta “largamente inattuato”





Il Parlamento europeo ammette che le regole in vigore per l’autorizzazione dei pesticidi non bastano a garantire la salute dei cittadini e la qualità ambientale. La commissione Pest, creata a febbraio 2018 (poco dopo il rinnovo dell’autorizzazione per il glifosato fino al 2022) ha pubblicato la sua prima bozza di rapporto mettendo in fila le criticità dell’iter autorizzativo. A cui si affianca anche il tema dell’uso dei pesticidi: l’Europa chiede di spargerli in modo sostenibile, ma rimane spesso inascoltata. E i problemi riguardano anche l’Italia: eccellenza dell’agroalimentare nel mondo, ma con un Piano d’azione sul tema (Pan) ancora in gran parte inattuato e casi come la Toscana, dove la norma che dovrebbe tutelare le acque per il consumo potabile è in realtà una deroga mascherata.

Oggi l’autorizzazione dei principi attivi avviene a livello europeo, mentre per i formulati commerciali sono direttamente i Paesi a dare il via libera. Un iter che “è risultato non sufficientemente trasparente trasparente nel corso dell’intera procedura, dalla mancanza di accesso del pubblico agli studi completi e ai dati grezzi fino alla fase di gestione del rischio”, si legge nella prima bozza del rapporto, messa a punto dai relatori Norbert Lins (Partito popolare) e Bart Staes (Verdi europei).

Il documento, che sarà modificato da qui a dicembre attraverso gli emendamenti dei vari gruppi politici, parla anche di metodi di valutazione che “non sempre riflettono lo stato attuale delle conoscenze scientifiche e tecniche”, mancanza di dati su sostanze attive (coformulanti e miscele di prodotti), carenze di organico e di finanziamenti sia nelle autorità nazionali, sia in quelle europee. “Mentre Paesi come Gran Bretagna, Germania, Francia e Paesi Bassi hanno delle agenzie nazionali per l’autorizzazione di questi prodotti, in Italia c’è solo una commissione di esperti presso il ministero della Salute -spiega Ettore Capri, docente di Chimica agraria presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, durante la sua audizione di fronte agli eurodeputati-. Manca un punto permanente di valutazione”.

“Oggi nelle loro valutazioni gli Stati si basano sulle ricerche delle aziende e non rendono pubblici gli studi su cui si sono basati per le loro decisioni. Cosa che non fa neanche l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare Efsa. Serve una maggiore indipendenza delle istituzioni dalle lobby, bisogna riconquistare la fiducia dei cittadini”, dice Bart Staes. Il deputato dei Verdi spera che il lavoro possa essere un input per la nuova Commissione in carica dopo le elezioni europee di maggio 2019: “Nel 2020 i produttori richiederanno il rinnovo delle autorizzazioni per il glifosato. Se riusciremo a garantire che quel processo sia trasparente, allora il nostro lavoro sarà stato utile”, aggiunge.

Accanto alle criticità nelle autorizzazioni, però, rimangono anche dei nodi da sciogliere rispetto all’uso dei pesticidi. La stessa commissione Pest denuncia la mancanza di monitoraggio in campo e l’ampio uso di questi prodotti anche a scopo preventivo. Per Ettore Capri, più che nell’iter di autorizzazioni, il problema sta nel fatto che l’uso sostenibile dei pesticidi, richiesto dalla Commissione europea già dal 2009, in molti casi non è diventato realtà: “In Italia il Piano d’azione è largamente inattuato. L’unica parte che si è concretizzata riguarda la lotta integrata, diventata praticamente obbligatoria. Le misure di mitigazione che nel Nord Europa sono diffuse da noi rimangono inesistenti”.

Vedi il caso della Toscana: nella regione simbolo nel mondo di agroalimentare di qualità e paesaggi stupendi. L’amministrazione regionale a luglio 2018 ha varato un provvedimento che apre all’uso dei pesticidi anche in aree a rischio contaminazione idrica. Se infatti pubblicamente non mancano gli annunci del governatore Enrico Rossi (“Noi abbiamo già detto no al glifosato dal 2021 e entro il 2019 lavoriamo per disincentivare l’impiego di questo prodotto”) il suo decreto appena varato consente di spargere l’erbicida e un’altra trentina di pesticidi anche nelle aree di salvaguardia delle falde acquifere ad uso potabile senza nemmeno bisogno di un piano aziendale che valuti le caratteristiche ambientali e dei suoli, come invece chiesto dalla normativa nazionale. Con questo trucco il PUFF (Piano per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari) toscano di cui fa parte il decreto, “diventa un grande ‘BLUFF’ che paradossalmente elimina il divieto d’uso di tutti i pesticidi nel raggio di 200 metri dai punti di captazione dell’acqua per uso potabile in vigore da 12 anni”, è il commento amaro dei Medici per l’ambiente (Isde) e un’altra decina di associazioni.


fonte: https://altreconomia.it

Chi critica il TTIP finisce sotto accusa

Molte associazioni che si sono opposte agli accordi di libero scambio tra America ed Europa sono bersaglio di una campagna di delegittimazione da parte di chi ha interesse che questi accordi vengano siglati. La denuncia di “Corporate Europe Observatory” e “LobbyControl”



















Negli ultimi mesi, multinazionali, lobbisti e think thank hanno cercato di delegittimare quelle Ong, le associazioni e altre espressioni della società civile che si sono opposte al TTIP (i contestati accordi di libero scambio tra Ue e Usa) e il CETA (tra Unione europea e Canada). È la denuncia contenuta nel rapporto “Blaming the Messenger: the corporate attack on the movement for trade justice” curato da “Corporate Europe Observatory” e “LobbyControl” che evidenzia come siano state usate “tattiche per gettare discredito e campagne di delegittimazione” contro associazioni e Ong impegnate nella battaglia contro l’approvazione di questi accordi di commercio. “Un attacco a chi critica il TTIP e il CETA rischia di diventare un attacco alla democrazia – denunciano gli autori del rapporto – nel momento in cui agli argomenti sostanziali esposti si contrappongono campagne di delegittimazione”.
Negli ultimi anni il TTIP e il CETA hanno suscitato un’intensa ondata di critiche da parte di diversi attori della società civile: dagli accademici alle piccole imprese, dai governi locali ai sindacati, passando per le associazioni non governative e i sindacati. Obiettivo congiunto per tutti questi attori: bloccare l’approvazione  questi accordi, che vengono considerati particolarmente vantaggiosi per le grandi aziende multinazionali, ma dannose per l’ambiente e le tutele sociali. Una resistenza efficace, dal momento che il TTIP è stato temporaneamente congelato.
Di fronte a questa battuta d’arresto, le aziende e le lobby che invece potrebbero trarre vantaggio da questi accordi hanno lanciato una campagna di discredito contro le organizzazioni non governative e la società civile. Le accuse più comuni? Quella di suscitare allarmismo o di “manipolare” un pubblico poco istruito. Oppure di agire per lucro o per fini personali. Queste tattiche mirano a sgretolare la credibilità di chi critica il TTIP o il CETA. Chi protesta viene dipinto come “anti-americano”, “nemico della globalizzazione”, “populista” o “ideologico”. Un’altra strategia per spargere il seme del dubbio sulle motivazioni di chi critica gli accordi transnazionali è quello di insinuare accuse sulla scarsa trasparenza dei bilanci o ipotizzare la longa manu della Russia sui finanziamenti. Il tutto nella più completa assenza di prove. “Attaccare in questo modo le Ong sulla raccolta fondi o la trasparenza è una scappatoia per non dover rispondere alle loro critiche”, si legge nel comunicato stampa di presentazione del rapporto.

fonte: https://altreconomia.it

Ecco i bei risultati di un'Italia governata da chi si fa governare dai grandi interessi


La struttura lobbistica che sta liquidando la quinta economia mondiale manifesta le sue esiziali azioni in quasi tutti gli ambiti di questo nostro disgraziato Paese: dalla lobby delle grandi opere pubbliche spartite tra concessionari autostradali ab aeternum a quello dei consorzi dell’alta velocità, dagli intermediari finanziari che tra il 2008 e il 2015 hanno incassato interessi sul debito pubblico per 599 miliardi di euro alle lobby del gas e della energia elettrica.
Della liberalizzazione del mercato elettrico in programma da gennaio prossimo, fino ad oggi se ne sono accorti in pochi, considerato che gli utenti del mercato libero hanno già pagato una bolletta più salata. Vogliamo parlare della pericolosissima (e censurata) questione dello smantellamento delle centrali nucleari non operative da 30 anni e della gestione delle relative scorie, o delle tariffe agevolate alle Ferrovie dello Stato, al Vaticano, a San Marino, o del bonus ai grandi consumatori per finire con gli sconti a chi, fra questi ultimi, si impegna ad accettare l’assurda della “interruzione” di energia elettrica in un Paese che ha il doppio della potenza che gli serve? Dal prossimo gennaio finirà il cosiddetto “servizio di maggior tutela” nell’energia elettrica scelto da 20 milioni di famiglie e 4 milioni di partite Iva, che da nove anni lo hanno preferito alle offerte libere (ma in genere più onerose del 15-20 per cento). Fra i consumatori della maggior tutela, tre su quattro hanno firmato un contratto con Enel, che con il ddl concorrenza potrà aumentare la bolletta associando al servizio di base inutili servizi aggiuntivi. Rischi o meglio certezze di pagare maggiori oneri per foraggiare apparati burocratici a bassa produttività.
Esemplare la poco nota vicenda della Sogin (Società Gestione Impianti Nucleari) di proprietà del Ministero della Economia. La società gestisce lo smantellamento delle vecchie centrali nucleari (decommissioning) e le scorie radioattive prodotte durante il loro funzionamento. Il costo di quest’operazione è pagato – da anni! – in bolletta elettrica attraverso due componenti denominate “A 2” e “MCT”. Da due anni il ministero competente sulla questione, il Mise gestito da uomini di Confindustria (ieri Guidi e oggi Calenda) non intervengono sulla gestione della Sogin, pur sollecitati dal luglio 2014 dalla commissione Industria del Senato. La riduzione di attività di decommissioning sul quadriennio 2014/2017 ammonta a ben 250 milioni di euro. Dodici senatori della Commissione Industria attendono ancora risposte dal Ministro dello Sviluppo su questo gravissimo problema. Questi ritardi determinano un inaccettabile aggravio della bolletta elettrica. Il valore delle attività di decommissioning sul quadriennio (2014/2017), infatti, è pari a circa 100 milioni di euro. Il ritardo potenziale quindi è di 14 mesi nel completamento del decommissioning degli otto siti. I costi di manutenzione e mantenimento in sicurezza dei siti ammontano a 70 milioni l’anno a cui si sommano i costi generali di struttura (45 milioni anno). Il ritardo di 14 mesi determina un costo aggiuntivo di circa 150 milioni che viene automaticamente scaricato sulla nostra bolletta. Un tale costo equivale al 10 per cento del risparmio dei costi energetici delle piccole e medie imprese che il governo ha promosso con il decreto Competitività per il 2015.
Su questo problema il “governo del fare” è completamente afono come altrettanto sulle facilitazioni alle lobby, ovviamente. Questa è l’Italia guidata da governi non espressi dai cittadini. I quali, come al solito, pagano.

fonte: http://www.vvox.it

Commissione Ue e lobby delle Big Energy, dopo Parigi non è cambiato niente

CEO: la lobby dei fossili sta cucinando il clima insieme a Cañete e Šefčovič
Lobby clima 1 a

Corporate Europe Observatory (CEO) ha pubblicato la nuova ricerca “Commission and Big Energy keep cooking the climate, despite Paris Agreement” che dimostra che «I lobbisti dell’industria dei combustibili fossili godono ancora dell’accesso privilegiato alla Commissione europea, nonostante l’accordo globale per affrontare il cambiamento climatico di sei mesi fa a Parigi».
Lo studio del CEO ha esaminato tutte le riunioni con le lobby che, dal primo dicembre 2015, quando si è tenuta la COP21 Unfccc che ha firmato l’accordo di Parigi, al 2 maggio 2016, hanno coinvolto il commissario europeo al clima e all’energia, Miguel Arias Cañete, e il vicepresidente della Commissione Ue per  Unione energia, Maroš Šefčovič ed è arrivato alla conclusione che «Dei 163 incontri con i lobbisti, il 71% sono stati con l’industria, il 17% con le ONG, l’8% con centri e istituti di ricerca e solo il 5% sono stati fatti con le organizzazioni sindacali».
Pascoe Sabido, un ricercatore e attivista di Corporate Europe Observatory, evidenzia che «Sono passati 6 mesi da quando l’Ue ha firmato l’accordo di Parigi, ma la nostra ricerca dimostra che la Big Energy sta godendo di un alto livello di accesso privilegiato ai commissari top climate. Se l’Ue vuole che il mondo creda che stia seriamente lottando contro il cambiamento climatico, deve porre fine alla stretta relazione con le industri che ne sono il maggior responsabile e lo stanno causando».
Da quando è diventato commissario Ue nel novembre 2014, Cañete – che è di nuovo nei guai in Spagna per i Panama papers e scandali legati all’edilizia – il suo ufficio ha avuto 164 incontri con i rappresentanti delle industrie dei combustibili fossili e solo 20 incontri con i rappresentanti delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica. Cañete ha avuto personalmente 34 incontri con i lobbisti delle fonti fossili e solo 7 con quelli delle rinnovabili, un rapporto di 5 a 1, ma Šefčovič ha fatto anche peggio: ha incontrato 22 volte le Big Energy e solo 2 le industrie delle rinnovabili: un rapporto di oltre 10 a 1 che la dice lunga su quali siano le “simpatie” della Commissione europea.
E lo studio ha rivelato un altro aspetto imbarazzante: gli incontri con le aziende spagnole hanno rappresentato un terzo del totale di 69 incontri tra Cañete e i suoi consiglieri con lobbisti del petrolio e del gas. Ceo dice che Cañete, che aveva forti interessi nell’industria petrolifera, fatica a staccarsi dai suoi vecchi compagni di affari.
Insomma dice Ceo: dopo Parigi poco è cambiato e l’Unione europea che fa ufficialmente la virtuosa poi «Si è impegnata ad ampliare in maniera massiccia le forniture di gas naturale – sia a gas convenzionale che da fracking – e continua a mettere sul tavolo gli accordi di libero scambio, come quello in corso di negoziazione con gli Stati Uniti, il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), prima del clima».


fonte: http://www.greenreport.it

Petrolio, così l’industria ricattava l’Europa

La lobby del petrolio ha minacciato il Commissario all’Energia di delocalizzare se non avesse indebolito le leggi su clima e inquinamento


Petrolio così l'industria ricattava l'Europa

L’industria del petrolio ha ricattato la Commissione europea riuscendo a indebolirne la legislazione sulle emissioni. Lo dimostrano le lettere tra i vertici di British Petroleum e l’ex Commissario al clima e l’energia, Guenther Oettinger finite in mano al Guardian. È l’ennesima prova schiacciante della cortigianeria dimostrata da alti livelli della governance comunitaria nei confronti delle lobby dell’industria.
Grazie ad una richiesta di accesso agli atti, la testata britannica ha potuto leggere uno scambio del 2013 tra il Commissario e un dirigente della BP. Il contenuto delle lettere aiuta a capire molto di quanto è successo in Europa negli anni successivi. L’Ue ha abbandonato o indebolito proposte chiave per aumentare il livello della protezione ambientale dietro il ricatto di una deindustrializzazione del continente da parte delle società petrolifere. Le Big Oil hanno minacciato Bruxelles di delocalizzare la produzione e la raffinazione se le nuove regole fossero state troppo restrittive.
Nelle 10 pagine che la BP ha inviato al Commissario Oettinger, vengono criticati tutti i provvedimenti che l’Unione aveva in mente di adottare per migliorare la qualità dell’aria, il settore dei trasporti e dell’energia.

Petrolio così l'industria ricattava l'Europa 2

Ad esempio i vertici BP, come tutta l’industria del petrolio, erano fortemente critici verso la bozza di direttiva sulla qualità dei carburanti, che avrebbe scoraggiato l’importazione di petrolio da sabbie bituminose. Questo provvedimento, ha scritto BP a Oettinger, «rischia di costringere le industrie ad alta intensità energetica, come la raffinazione e petrolchimica, a trasferirsi fuori dall’Ue, con un impatto altrettanto dannoso sulla sicurezza dell’approvvigionamento, i posti di lavoro e la crescita».
Risultato? Nel 2014, la direttiva sulla qualità dei carburanti è stata stravolta. Stesso discorso per le rinnovabili: BP era contraria ad ogni forma di sussidio, soprattutto in Germania, così come al tetto per i biocarburanti di prima generazione, inquinanti e nocivi. L’anno successivo, l’Ue ha eliminato le sovvenzioni alle rinnovabili e alzato la soglia dei biofuel.
Questo documento, in sostanza, traccia un quadro preoccupante della capacità delle multinazionali di sovvertire il processo democratico, di influenzare la Commissione europea e minacciare la transizione energetica.
Nella sua risposta, Oettinger ha detto di condividere le aspettative dell’azienda riguardo alla garanzia che il TTIP, l’accordo di libero scambio tra USA e Ue, comprendesse esportazioni illimitate di greggio e gas.

fonte: www.rinnovabili.it

L'indice carbon free rende il 60% in più: disinvestire dalle fossili conviene

Disinvestire dalle fossili conviene. Lo dicono i risultati degli indici ACWI di MSCI. Intanto una ricerca su 14 grandi fondi di investimento mostra che se questi avessero scaricato le azioni “sporche” avrebbero guadagnato miliardi. Anche Piketty e Jackson a sostegno di "divest fossil fuel".
Alla vigilia della Cop21 di Parigi, arriva un nuovo appello a disinvestire dalle fonti fossili da due economisti molto popolari: Thomas Piketty,  autore del best seller internazionale Il capitale nel XXI secolo e Tim Jackson che di recente ha pubblicato il libro Prosperità senza crescita.
Quasi a fare eco ai due, una nuova ricerca mostra che scaricare gli asset fossili può essere una scelta economicamente conveniente per gli investitori anche sul breve termine. Analizzando le performance di 14 grandi fondi di investimento negli ultimi tre anni, la società di ricerca canadese Corporate Knights ha infatti scoperto che se questi si fossero liberati dalle partecipazioni nelle fonti sporche ci avrebbero guadagnato non poco.
Una conclusione che sembra rispecchiare quanto emerge dal risultato annuale del primo indice “carbon free”  redatto  da  MSCI, che ha battuto di netto, in quanto a rendimento annuale, l'indice globale “normale”.
“Questo è un momento raro e decisivo nella storia. Scienza, etica ed economia convergono nel dare un segnale chiaro al mercato: verso i negoziati sul clima della Cop21 gli investitori responsabili dovrebbero disinvestire dai combustibili fossili”, si legge in una lettera che Picketty e Jackson hanno inviato al Guardian, quotidiano in prima fila nella battaglia sul fossil fuel divestment.
“In un contesto di estremi climatici ed eventi meteorologici da record, il capitale continua a riversarsi nell'esplorazione e nella futura estrazione di energia sporca. Questi investimenti sono una scommessa in un futuro in cui vaste riserve di carbonio potranno essere sfruttate, una scommessa contro il benessere pubblico”, continuano i due economisti.
Nella lettera, Piketty e Jackson citano la crescita del movimento globale per il disinvestimento dalle fossili, che è arrivato a coinvolgere 400 istituzioni e 2000 individui, spostando capitali per 2.600 miliardi di dollari.
È solo l'ultima presa di posizione di economisti famosi contro gli investimenti in petrolio, carbone e gas: negli ultimi mesi abbiamo sentito pronunciarsi a favore del fossil fuel divestment il premio Nobel Joseph Stiglitz e moniti sono arrivati dalla Banca Mondiale (che a dire il vero predica bene ma razzola male), dalla Banca d'Inghilterra, da voci importanti del mondo della finanza come HSBC, Goldman Sachs e Standard and Poor's oltre che – last but not least – dall'Onu.
A convincere altri investitori a 'scaricare' le fossili potrebbero essere la ricerca di Corporate Knights e i risultati degli indici di MSCI che anticipavamo.
L'All Country World Index ex fossil fuels di MSCI, indice azionario globale, dal quale vengono escluse 124 società del carbone, del petrolio, a fine ottobre 2015, un anno dopo la sua creazione ha fatto registrare un rendimento annuale del 6,5% contro il 4,1%, cioè quasi il 60% più alto, dell'ACWI ordinario, l'indice globale che include anche le fonti fossili (grafico sotto e allegato in basso).
L'analisi di Carbon Knights (lin in basso), invece, ha monitorato le performance di 14 grandi fondi di investimento, confrontando i loro risultati attuali con quelli che avrebbero avuto se, a partire da ottobre 2012, avessero escluso dal loro portafoglio le azioni delle 100 compagnie più grandi dell'oil & gas, delle 100 più importanti del carbone e delle compagnie elettriche che contano sul carbone per oltre il 30% della produzione e avessero sostituito queste azioni con partecipazioni in aziende “verdi” già presenti nel portafoglio dei fondi stessi.
Quindi, i 14 fondi, disinvestendo, non solo non ci avrebbero perso, ma, anzi, avrebbero guadagnato nel complesso 23 miliardi di dollari. Ad esempio la Bill and Melinda Gates Foundation avrebbe ora 1,9 miliardi di dollari in più, Wellcome Trust ci avrebbe guadagnato 353 milioni di $, il fondo pensione danese ABP avrebbe 9 miliardi in più, mentre il canadese avrebbe guadagnato 7 miliardi.
Questi segnali non hanno solo carattere economico-finanziario, ma avrebbero forti impatti geopolitici, rallentando la pressione sulle riserve di idrocarburi, uno delle chiavi di lettura della crisi del Medio Oriente, che dopo gli attentati di Parigi ora stiamo toccando sempre più da vicino.
fonte: www.qualenergia.it

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Realacci, Rutelli e Fioroni: "Lobbisti per Cerroni" Processo rifiuti: con Ama e Acea per i fondi pubblici

All'ormai "processino" su 40 anni di gestione della monnezza romana, l'accusa chiama in causa Acea, Ama e Pontina Ambiente per il progetto del gassificatore di Albano. Le spinte della politica per rientrare nei fondi "Cip6". Stravolto il calendario delle udienze

Realacci  

Pressioni su politici e istituzioni per spianare la strada alla costruzione di un nuovo impianto di gassificazione ad Albano. Un'azione che il patron di Malagrotta, Manlio Cerroni, avrebbe esercitato attraverso una vera e propria strategia di lobbing e relazioni con politici di alto livello per assicurare alla Regione Lazio un impianto  di trattamento dei rifiuti da realizzare con Ama e Acea.
E' la tesi accusatoria emersa durante l'udienza del maxiprocesso sui rifiuti iniziato ormai nel giugno 2014 e che so appresta ad entrare nel vivo dell'accusa di associazione a delinquere. Per la terza volta consecutiva è tornato sul banco dei testimoni il maresciallo dei carabinieri del Nucleo Tutela Ambiente, Massimo Lelli, che ha continuato a snocciolare l'iter delle operazioni investigative e dei relativi dati emersi, confluiti nell'informativa del 27 dicembre 2010: un fascicolo da 1200 pagine con centinaia di telefonate e conversazioni intercettate.
Ermete Realacci, Francesco Rutelli, Giuseppe Fioroni: sarebbero stati loro, secondo l'accusa guidata da Alberto Galanti, i tre nomi chiave che avrebbero dovuto aiutare Cerroni e il Consorzio Co.e.ma, nato nel 2007 dall'unione della Pontina Ambiente, con Ama e Acea, a costruire le condizioni per poter realizzare un impianto di incenerimento su un terreno della stessa Pontina Ambiente. Sempre secondo il piemme Galanti, la “lobby” orchestrata dal potente Cerroni, avrebbe dato una mano al Consorzio per usufruire, nell'ambito della gestione dell'mpianto dei contributi pubblici denominati “CIP 6” erogati dallo Stato ad aziende produttrici di energia derivante da fonti rinnovabili. Funzionari pubblici e politici regionali si sarebbero insomma dati da fare per fare emettere un'ordinanza del presidnte della Regione Lazio (che all'epoca era Piero Marrazzo) che avrebbe consentito di anticipare i tempi per l'autorizzazione alla costruzione dell'impianto, in modo tale da rientrare nella griglia dei finanziamenti.
Con la terza sessione del lunghissimo esame del maresciallo Lelli, il piemme Alberto Galanti, ha così spaziato dal filone di indagine relativo a gassificatore di Albano a quello, più spinoso ma anche più “volatile” dell'associazione a delinquere che di udienza in udienza, perde efficacia. La deposizione del militare continuerà ancora nella prossima sessione prevista per il 9 dicembre. La data del 18 novembre è infatti misteriosamente saltata per indisponibilità delle aule, nonostante fosse stata calendarizzata prima dell'estate. Quello che si era preannunciato come il max

fonte: http://www.affaritaliani.it