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Move Up 2021

Per il Memorandum No Profit on People and Planet la pandemia non è una calamità naturale e la geoingegneria non è la soluzione per il ripristino del buon funzionamento dei sistemi naturali. Inutile attendere soluzioni dal G20. Sta ai movimenti, alle associazioni e alle persone comuni prendersi cura insieme, ovunque e in tanti modi diversi, di ogni forma di vita, a cominciare dalla rigenerazione dei suoli degradati e dall’agroecologia. Ha scritto Vandana Shiva: “La pandemia è conseguenza della guerra che abbiamo ingaggiato contro la vita”

Tratta da unsplash.com

Bene fa il Memorandum* No Profit on People and Planet – G20-Memorandum_IT-3 – a non considerare la pandemia da Sars-CoV-2 un incidente di percorso e nemmeno una calamità naturale piovuta dal cielo. Ha scritto Vandana Shiva: “La pandemia è conseguenza della guerra che abbiamo ingaggiato contro la vita”. La pandemia è il boomerang che torna indietro. É una delle tante prevedibili reazioni della natura agli sconvolgimenti arrecati dalle attività umane sconsiderate. Esattamente come lo è – con ricadute su altre matrici ambientali – il riscaldamento globale causato dalla emissione di gas climalteranti. Quando si distruggono sistematicamente gli habitat naturali ancora incontaminati (come le foreste primarie, le zone artiche, le lagune, le savane, i boschi e le praterie) non si crea “solo” l’estinzione di massa delle specie viventi (biocidio), ma si creano anche le condizioni affinché virus animali potenzialmente patogeni compiano vari “salti di specie” (spillover) fino a giungere a noi, passando per gli allevamenti intensivi, per i mattatoi e per i mercati di animali selvatici. Una eventualità, questa, ampiamente prevista e inutilmente segnalata dagli scienziati. Ha scritto un virologo: “Perturbare gli ecosistemi è come aprire autostrade ai virus verso il salto di specie”.

Secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente il 75 per cento dell’ambiente terrestre e il 65 per cento di quello marino sono stati gravemente alterati da attività antropiche. Per rimanere a casa nostra, pensiamo solo al “consumo di suolo”: quattordici ettari al giorni vengono asfaltati, cementificati, inertizzati.

La correlazione tra distruzione della biodiversità e malattie di origine zoonotica è conosciuta. Ha scritto in modo esemplare il Giuseppe Ippolito, Direttore scientifico dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive dell’Ospedale Spallanzani di Roma:

“Non è possibile separare la salute degli uomini da quella degli animali e dall’ambiente. L’esperienza di questi anni, con l’emergere di continue zoonosi, ci ricorda che siamo ospiti e non padroni di questo pianeta che ci impone di creare il giusto equilibrio tra le esigenze delle specie umana e della altre specie animali e vegetali che viaggiano insieme a noi in questa arca di Noè chiamata Terra”.

Ben vengano quindi i vaccini, le terapie geniche, le più raffinate cure farmacologiche, i presidi medici. Ma non rimuoviamo dalla nostra mente né le cause primarie di gran parte delle malattie virali, né le interrelazioni biologiche con le condizioni sociali e ambientali che aggravano la vulnerabilità delle persone. Pensiamo all’inquinamento dell’aria e dell’acqua, alla cattiva alimentazione, alle stressanti condizioni di vita e di lavoro che provocano disturbi cardiovascolari, malattie respiratorie croniche, diabete, obesità e altre alterazioni psicofisiche.

Quest’anno è l’anno della COP 26, che si tiene con un anno di ritardo a Glasgow e a Milano. Una conferenza decisiva se si vogliono raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi (2015) di contenimento dell’aumento della temperatura di 1,5 gradi. Quest’anno si svolgerà in Cina anche la 15° Conferenza sulla salvaguardia della diversità biologica. Il ripristino del buon funzionamento dei sistemi naturali, la rigenerazione dei suoli degradati, l’agroecologia sarebbero la soluzione ideale, perché basata sulla natura, anche per riassorbire al suolo l’anidride carbonica. É stato calcolato che risanare il 30 per cento di praterie, zone umide e savane, lasciando che la natura si riprenda i propri spazi, salverebbe il 70 per cento degli animali a rischio di estinzioni e consentirebbe di assorbire la metà delle emissioni la metà delle emissioni di CO2 accumulate nell’atmosfera dall’inizio della rivoluzione industriale. Ma le soluzioni più semplici ed economiche non sono gradite dalle oligarchie mondiali che dominano l’economia che preferiscono giocare al dottor Frankenstein avanzando prepotentemente soluzioni azzardate di geoingegneria come lo sono le tecniche di cattura, confinamento, stoccaggio nel sottosuolo dell’anidride carbonica emessa dalle centrali termoelettriche e dai grandi impianti industriali. Un trucco e un diversivo per non cambiare nulla e per guadagnarci pure.

Attenzione dunque alle furbizie semantiche che si nascondono dietro un mare di retorica “green”. Dire “emissioni zero” (entro, se non prima del 2050) è diverso da “neutralità climatica” o da “emissioni nette negative”. Un conto è smettere di bruciare combustibili fossili, un altro paio di maniche è nascondere sotto terra un gas tossico e corrosivo come la CO2. L’Eni (industria di stato) vuole creare sotto l’Adriatico un gigantesco stoccaggio di anidride carbonica liquefatta. Un pericolo enorme, una bomba ecologica ad orologeria che, per di più, pregiudica le strategie di una vera decarbonizzazione.

Confesso che spesso colgo anche nelle persone più coscienti e impegnate un senso di sconforto e di impotenza. Quali altri disastri devono ancora accadere perché possano saltare quei “lucchetti” (indicati dal Memorandum) che impediscono il cambiamento? Cosa possiamo fare noi, se non sono bastati gli scienziati del clima, i medici, i biologi? Se non è bastata un’enciclica rivoluzionaria come la Ludato si’? Se non sono bastate le parole puree e indignate di una ragazzina che si chiama Greta?

Forse, quel che manca ancora, siamo proprio noi. É la capacità dei movimenti, delle associazioni, dei gruppi della cittadinanza attiva di mettersi assieme e diventare popolo della Terra. Cittadine e cittadini planetari, ma con i piedi ben radicati per terra. Capaci di prendersi cura dei nostri simili e di ogni forma di vita di questo meraviglioso mondo.

*La proposta del “Memorandum dei cittadini” è stata fatta inizialmente dall’Agorà degli Abitanti della Terra (AAT, rete internazionale promossa tra gli altri da Riccardo Petrella) in vista del Vertice Mondiale della Salute del G20 in Italia, e sostenuta da transform.it e transform.eu. Grazie al loro sostegno è stata costituita una piattaforma collaborativa, l’Iniziativa Move UP 2021, cui hanno aderito altre associazioni quali Medicina democratica, la Società della cura, Laboratorio Sud, The Last 20… Il “Memorandum” è stato sottoscritto da circa quaranta persone e associazioni. La redazione finale del documento ha beneficiato di vari contributi individuali e di gruppo in Italia (tra cui quelli di Paolo Cacciari e del Monastero del Bene Comune) e in altre regioni del mondo.

Paolo Cacciari


fonte: comune-info.net/


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Microplastiche: non solo una minaccia per gli oceani

Nella lotta contro le microplastiche, occorre imparare che si tratta di una gamma complessa di materiali dalle caratteristiche mutevoli. Per questo, gli scienziati del Virginia Institute of Marine Science promuovono approcci più olistici, specie per salvaguardare la nostra salute



















Le microplastiche sono particelle microscopiche prodotte nel momento in cui forze fisiche, chimiche o biologiche rompono pezzi più grandi di detriti di plastica. Esiste, a buona ragione, una diffusa preoccupazione tra gli scienziati e l’opinione pubblica sul fatto che questi piccoli frammenti sintetici stiano influenzando negativamente gli ecosistemi marini. Tuttavia, pare che i mari e gli oceani non siano le sole vittime dell’inquinamento da microplastiche. A mettere in luce questo dato è uno studio condotto da un team di ricerca del Virginia Institute of Marine Science (USA).

Lo studio, apparso su Journal of Geophysical Research, mostra che le microplastiche sono un fenomeno globale che non può essere adeguatamente compreso o affrontato solo nel contesto dell’ambiente marino. Le materie plastiche, infatti, vengono prodotte, utilizzate e scartate a terra e si disperdono attraverso il suolo, i fiumi e l’atmosfera. Ma non solo. I ricercatori osservano che l’ambito globale della questione si estende anche alla sfera sociale e quotidiana“Dobbiamo riconoscere che l’inquinamento da microplastica è un problema internazionale che non rispetta i confini politiciafferma Meredith Seeley, co-autrice dello studio. “Come per i cambiamenti climatici e la gestione delle specie, i paesi più sviluppati e quelli emergenti dovranno cooperare per trovare soluzioni eque“. 

A questo proposito, un obiettivo dell’articolo è ottenere un più ampio riconoscimento del fatto che plastica è un termine generico per una gamma complessa di materiali che variano per composizione chimica, dimensioni, consistenza e forma, inclusi pellet, frammenti e fibre. Un ulteriore elemento di complessità è dovuto al fatto che le materie plastiche sono spesso impregnate di additivi, inclusi inibitori UV, che già da soli possono avere impatti ambientali e sulla salute.
“Le persone spesso assumono che tutte le materie plastiche siano uguali e si comportino in modo identico nell’ambiente”, afferma Robert Hale, docente del Virginia Institute of Marine Science, “ma non è affatto così”. I ricercatori, quindi, sottolineano che le caratteristiche delle microplastiche possono cambiare durante e dopo l’uso, e la complessità della gestione dell’inquinamento da microplastiche diventa ancora più complicata quando questi minuscoli frammenti entrano nell’ambiente e iniziano a mescolarsi con i materiali naturali, anche a causa delle condizioni meteorologiche (es. le piogge).

Per capire i comportamenti di questi micromateriali, gli autori raccomandano alla comunità scientifica di andare oltre gli studi di singoli habitat, gamme di dimensioni, tipi di polimeri o forme, ma di impegnarsi in approcci più sistemici e olistici che tengano in conto le mutevoli caratteristiche delle microplastiche e i loro impatti sulla salute e sugli ecosistemi.

Questo significa, dunque, doversi dotare di strumenti di analisi migliori“Per comprendere gli impatti reali delle microplastiche”, afferma Hale, “dobbiamo migliorare le nostre capacità di campionamento e analisi, inclusa la capacità di studiare le nanoplastiche. Le nanoplastiche sono particelle ancora più piccole delle microplastiche, con dimensioni che vanno da 1 nm a 1.000 nm (1 µm). Per avere un’idea della loro grandezza, si pensi che un filamento di DNA è largo circa 2,5 nm.
Hale afferma che gli attuali strumenti all’avanguardia, come i microscopi FTIR e Raman, “forniscono informazioni davvero eccezionali quando si entra in una singola particella di microplastica. Il problema, però, è che molti campioni contengono migliaia di particelle diverse e molte di queste particelle sono molto, molto piccole. Attualmente, la nostra capacità tecnologica non riesce a scendere al di sotto di 10 µm e, in termini di effetti sugli organismi, è piuttosto certo che le particelle più piccole possano essere anche le più tossiche.

Le preoccupazioni dei ricercatori, infatti, riguardano i potenziali impatti delle micro- e nanoplastiche sulla salute umana. “Ci sono preoccupazioni soprattutto sull’ingestione di microplastiche dai frutti di mare, ma gli ambienti chiusi sono la nostra più grande minaccia diretta, afferma Hale. “Molte persone trascorrono quasi tutto il loro tempo al chiuso, in spazi che sono sempre più isolati con materiali quali la schiuma di polistirolo. La nostra esposizione a microplastiche dovuta alla respirazione di polvere può avere conseguenze tossicologiche, ma ci sono ancora pochissime ricerche a riguardo“. Per far fronte a queste preoccupazioni, Hale e colleghi stanno lavorando su uno spettrometro di massa che si spera consentirà di analizzare meglio i contaminanti chimici associati alle microplastiche.

fonte: www.rinnovabili.it

L'agricoltura Industriale È Un Industria Estrattiva Come Quella Dei Combustibili Fossili Ed E' Un Driver Crescente Del Cambiamento Climatico

L'agricoltura industriale incoraggia pratiche che fanno degradare il suolo e aumentare le emissioni lasciando gli agricoltori più vulnerabili ai danni dovuti al pianeta che diventa più caldo. 















L'articolo inizia descrivendo una fattoria dell'Iowa di un agricoltore che
diversifica le sue coltivazioni e alleva bestiame. Controlla l'erosione e
l'inquinamento dell'acqua lasciando una parte del terreno permanentemente
coperta da erbe native. Fa pascolare il bestiame sui campi e semina colture
di copertura per mantenere il suolo fertile a suo posto durante gli inverni
duri del midwest. 





Questo tipo di fattoria ormai è un'eccezione, infatti
nell'agricoltura statunitense da decenni c'è stata la tendenza al
consolidamento, ovvero le fattorie diversificate come quella appena
descritta sono state sostituite da fattorie sempre più grandi e meno variate
con l'industrializzazione delle coltivazioni e giganteschi allevamenti di
mucche, maiali e pollame. 




Si mira alla produzione, i sussidi sono legati
alla produzione, le politiche in agricoltura mirano alla produzione, il
consolidamento dell'agricoltura rinforzato dall'enfasi su una o due
coltivazioni principali - mais e soia - hanno portato ad un sistema dove c'è
poco incentivo a coltivare altro. Questo ha profonde implicazioni per il
clima e l'ambiente. Le mega-fattorie incoraggiano pratiche che fanno
deteriorare il suolo, sprecano fertilizzanti e usano male il letame, tutto
questo aumenta le emissioni di gas serra. In parallelo scoraggia pratiche
quali l'agricoltura senza aratura e la rotazione delle coltivazioni che
catturano il gas serra CO2 dall'aria, la immagazzinano nel suolo e
migliorano la salute del suolo. 




Il sistema ha trasformato l'agricoltura in
un business che assomiglia all'industria dei combustibili fossili in quanto
estrae valore dal terreno con efficacia implacabile e lascia inquinamento da
gas serra come conseguenza. Dal punto di vista del clima, della salute del
suolo e per la cattura del carbonio abbiamo bisogno di maggiore diversità. I
sussidi dati dal governo favoriscono poche coltivazioni (mais e soia); i
sussidi dati ai produttori più grandi sono risorse per comprare più terreno,
viene sussidiato il consolidamento. Queste due coltivazioni di mais e soia
fanno pesantemente uso di fertilizzanti azotati che impoveriscono i suoli.
Poi ci sono i mandati governativi che richiedono alle raffinerie di inserire
una percentuale di biocombustibili - compresi etanolo da mais e biodiesel da
soia - nelle miscele di combustibili. Questo ha fatto aumentare la
domanda per queste due coltivazioni, aumentando le pressioni per spostare
terreni a queste produzioni. Con l'arrivo dei mandati governativi per l'uso
di etanolo il mais e la soia geneticamente modificate per resistere
all'erbicida Roundup Ready sono diventati le coltivazioni dominanti negli
USA. Il consolidamento in agricolture si può riassumere con "semplifica e
ingigantisciti": le coltivazioni geneticamente modificate hanno semplificato
l'agricoltura, ma hanno incrementato l'uso di erbicidi e fertilizzanti,
hanno fatto sparire la diversità in agricoltura, questa specializzazione
insieme alla concentrazione aumenta la vulnerabilità del sistema del cibo in
un mondo che è soggetto al riscaldamento globale. Le fattorie che
diversificano le coltivazioni hanno più protezione contro cattivo tempo, il sistema
agricolo semplificato che per maggior efficienza coltiva pochi tipi di piante
(monoculture di mais e soia modificate geneticamente per tollerare
l'erbicida Roundup) perde quella biodiversità che tiene il sistema del cibo
sicuro dalle vicissitudini del cambiamento climatico, è
protetto da assicurazioni e sussidi del governo.


Nadia Simonini


https://insideclimatenews.org/news/25012019/climate-change-agriculture-farming-consolidation-corn-soybeans-meat-crop-subsidies

fonte: Rete Nazionale dei Comitati Rifiuti Zero