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Bisfenolo A nella plastica: una minaccia silenziosa (ma devastante) per la nostra salute e per l’ambiente

È dappertutto, ed è anche causa di problemi di fertilità, sviluppo neurologico e cancro, soprattutto tra i bambini. È il bisfenolo A, una sostanza chimica contenuta nelle plastiche di molti prodotti di consumo. Ma nessuno lo sa, e l’industria nega persino l’evidenza scientifica


Si trova dappertutto: nelle bottiglie d’acqua, nei giocattoli, nei materiali da costruzione, persino nel packaging di molti cibi. Ci veniamo a contatto ogni giorno, pur essendone inconsapevoli. Ma soprattutto, non sappiamo quanto faccia male. Anzi, peggio: lo sappiamo da anni, ma nessuno ha mai fatto niente per toglierlo di mezzo. Sembra la trama di un film distopico, eppure è la realtà.
Parliamo del bisfenolo A, una sostanza chimica usata come ingrediente in diversi tipi di plastiche, dal poliestere al policarbonato, e presente in centinaia di prodotti di consumo, dalle attrezzature sportive ai dispositivi medici, dalle lenti per gli occhiali agli elettrodomestici. Si trova persino nel rivestimento dei biglietti dell’autobus e nei cartoni di carta riciclata della pizza da asporto. Le industrie produttrici di plastica lo utilizzano da più di 50 anni, ma è almeno dagli anni ’30 del secolo scorso che si conoscono i rischi della sua tossicità: le sue proprietà di interferenti endocrini sono infatti responsabili di squilibri ormonali che influenzano la fertilità, lo sviluppo sessuale e intellettivo e provocano lo sviluppo di tumori. Soprattutto tra i bambini: malformazioni alla nascita, malformazioni genitali, problemi dello sviluppo neurologico, ritardi nell’apprendimento, riduzione del quoziente intellettivo e iperattività sono tra i principali disturbi riscontrati in anni di ricerche scientifiche.
Si tratta di effetti devastanti che costituiscono una minaccia per tutti. Eppure, ogni anno milioni di tonnellate di bisfenolo continuano ad essere prodotte soltanto in Europa e ad essere inserite nei prodotti che acquistiamo e consumiamo tutti i giorni. Ora la Corte di giustizia europea ha ufficialmente dichiarato che la mole di ricerche prodotte nel corso degli anni è valida, che il bisfenolo è una sostanza altamente tossica e che dunque i produttori di plastica dovranno chiaramente indicarne la presenza in quelle plastiche che lo contengono. È una buona notizia, se non fosse che si tratta solo della punta dell’iceberg: una sentenza che fa semplicemente il solletico alla reale entità del problema, secondo lo European Environmental Bureau (Eeb), il principale network di organizzazioni ambientali a livello europeo, molto attivo sul fronte delle sostanze chimiche.
«Praticamente abbiamo più ricerca scientifica disponibile sul bisfenolo A che su qualsiasi altro composto chimico sul pianeta, e pur sapendo quanto dannoso sia per l’uomo e per l’ambiente, questo continua ad essere disponibile sul mercato», dice a Linkiesta Tatiana Santos, Policy manager per le sostanze chimiche e le nanotecnologie dell’Eeb. Sì, perché, oltre che all’uomo, naturalmente il bisfenolo è altamente pericoloso anche per l’ambiente: malgrado non presenti la tendenza ad accumularsi, il fatto di essere prodotto in tutto il mondo lo porta a diffondersi nella terra, nell’aria e nei mari. Negli ambienti acquatici, per esempio, diversi studi hanno rilevato come la presenza di bisfenolo abbia portato interi gruppi di pesci a cambiare sesso, “femminilizzandosi”. Una tendenza che, com’è ovvio, mette a repentaglio la stessa sopravvivenza della specie.
Fondamentale sarebbe quindi liberarsi il prima possibile di questa sostanza. Per il momento, la sentenza della Corte europea ha stabilito di inserire il bisfenolo all’interno del cosiddetto “Elenco delle sostanze estremamente preoccupanti candidate all’autorizzazione (Candidate List of substances of very high concern for Authorisation), il che, spiega l’Eeb, di per sé non comporta un divieto o la restrizione immediata. La speranza (e l’aspettativa), però, è che ad un certo punto venga inserito nella lista delle sostanze selezionate per la graduale uscita dal mercato. Com’era intuibile, i rappresentanti dell’industria (riuniti nel network che prende il nome di PlasticsEurope) hanno comunque protestato sonoramente, ed è plausibile che presentino un ricorso. Fino a quel momento, però, l’obbligo da parte delle aziende di indicare esplicitamente la presenza della sostanza nelle materie plastiche che commerciano resta.
Il problema, però, rimane a monte, e va oltre alla sostanza in sé. Di fatto, per anni l’industria chimica ha impedito la regolamentazione della sostanza attraverso l’adozione di studi che contraddicevano l’evidenza di rischi per la salute, instillando il “dubbio” nella comunità scientifica. Un po’ come ha fatto per anni anche l’industria del tabacco. E ha potuto farlo in tutta libertà, essendo deputata essa stessa alla produzione di studi che certificassero la sicurezza dell’utilizzo del bisfenolo. «Le aziende sono responsabili di produrre i test di sicurezza sulle sostanze chimiche, ma posto che esse stesse non hanno un reale interesse a individuarne il livello di rischio, c’è un evidente conflitto di interessi», spiega Santos. «In più, l’industria ha creato un sistema che rigetta automaticamente gli studi provenienti da università e istituti di ricerca indipendenti, perché questi sono basati su peer review invece che sul sistema “GLA - Good Laboratory Practices”, che è molto costoso e che quindi solo l’industria utilizza, sebbene non sia più valido degli altri, perché non misura la qualità dello studio», dice ancora Santos. «Di fatto, hanno creato le proprie regole. Io, che di professione sono un chimico, ero scioccata quando l’ho scoperto».
Ciò nonostante, l’Agenzia europea delle sostanze chimiche, l'istituzione che dovrebbe verificare la validità e l’esaustività degli studi, non è ricettiva sull’argomento: «Dato che gli studi fatti con il metodo delle Good Laboratory Practices seguono tutti la stessa struttura, l’Echa ha risposto che erano più velocemente valutabili». Un approccio decisamente discutibile, che porta ad una sola conclusione: c’è da cambiare l’intero sistema.
In occasione dell’ultima conferenza sul futuro delle politiche chimiche, l’Eeb ha chiesto che i test sulla sicurezza delle sostanze vengano svolti unicamente da laboratori indipendenti, obbligando le aziende chimiche a versare quote all’Echa, per poi distribuire i fondi tra i vari istituti. Ma ci sarebbe da fare ancora di più: dato che la regolamentazione e l’uscita definitiva di una sostanza dal mercato richiede anni, l’industria chimica potrebbe facilmente sostituire il bisfenolo A (Bpa) con il bisfenolo S (Bps), «una sostanza che fa parte della stessa famiglia di componenti chimici, che presenta le stesse proprietà chimiche e che di fatto ha un impatto molto simile sulla salute umana», spiega l’esperta. Posto che occorrerebbero 50 o 60 anni per vietare l’utilizzo anche di quella sostanza, l’industria ha una via di fuga estremamente facile. «Bisognerebbe agire su tutto il gruppo dei bisfenoli», dice l’esperta. Anche perché le alternative ci sarebbero: esiste ad esempio un’azienda che ha scoperto che la vitamina C può essere un valido sostituto per impregnare i biglietti dei mezzi con l’inchiostro della scritta.
L’Eeb e le sue organizzazioni stanno spingendo nella direzione di un cambiamento serio e radicale, ma poiché si tratta di un tema poco alla portata del pubblico (a differenza del tabacco, sui prodotti in plastica che contengono bisfenolo non è presente una scritta del tipo “provoca il cancro”), la gente non è per nulla consapevole dei rischi a cui va incontro. Né tantomeno avrebbe possibilità di scelta, posta la vastità del numero di prodotti di cui fa uso quotidianamente. È proprio per questo che sono in primis le aziende e le istituzioni a doversi fare carico del problema.
«Io spero che il bisfenolo A sia presto designato all’uscita dal mercato e che i suoi usi principali siano vietati il prima possibile. È ancora troppo utilizzato e la posta in gioco è troppo alta. L’evidenza scientifica mostra che per queste sostanze non esiste un livello sicuro di esposizione, quindi non possiamo essere sicuri che anche in concentrazioni contenute le persone, e soprattutto i bambini, non subiscano danni permanenti», conclude Santos. «L’eliminazione dei bisfenoli deve essere presa come priorità e il sistema di valutazione deve essere cambiato in maniera più efficiente. Infine, l’industria deve smettere di negare l’evidenza e assumersi la responsabilità delle sostanze che deliberatamente inserisce nei prodotti di consumo».
fonte: https://www.linkiesta.it

Una rivoluzione ci salverà

Non è “l’inerzia” dei governi il nostro principale nemico per i cambiamenti climatici, ma il fatto che sia loro che noi continuiamo a bombardare il pianeta con ciò che provoca la catastrofe. Alcuni passi per cambiare strada subito
















Nella ricorrenza, troppo spesso puramente formale, della Giornata della Terra, possiamo considerare un grosso passo avanti il fatto che il movimento ormai mondiale Friday for future, cresciuto intorno alle comparse mediatiche di Greta Thunberg, insieme al più recente Extinction Rebellion, hanno posto all’ordine del giorno del pubblico – in gran parte tenuto all’oscuro da media, politici e accademia della gravità e dell’urgenza del problema, soprattutto in Italia – il tema dei cambiamenti climatici, ormai prossimi a una deriva irreversibile e catastrofica per la vita umana sul nostro pianeta. Una specie di “lettera scarlatta” del nostro tempo che, come quella del racconto di Poe, non riusciamo a vedere proprio perché ce l’abbiamo davanti a noi.
Non c’è più tempo”: mancano pochi anni al punto di non ritorno: dodici per gli scienziati dell’IPCC, solo cinque per James Anderson che analizza l’evoluzione dei ghiacci sulla Terra. L’umanità tutta, i suoi governi, il suo establishment, i suoi membri arrivano completamente impreparati a questa scadenza, nota da decenni. Non è “l’inerzia” dei governi il nostro principale nemico, bensì il fatto che sia loro che noi continuiamo a bombardare il pianeta con tutte le cose che ci stanno portando alla catastrofe. Invece dovremmo tutti considerarci in guerra: non “contro il clima”, ma contro le cose che facciamo o subiamo tutti i giorni. Ma per andare in guerra occorre riconvertire in tempi rapidi sia la produzione che il nostro stile di vita, dotandoci da subito delle armi necessarie a combatterla e vincerla. Lo avevano fatto in tempi strettissimi tutte le potenze impegnate nella Seconda guerra mondiale. Lo si può e deve fare anche adesso, con una mobilitazione generale.
In mezzo a tante cose giuste Greta fa un errore, più volte ripreso dai suoi giovani seguaci: “I politici sanno che cosa bisogna fare, ma non lo fanno”. Non è vero; i politici non sanno assolutamente che cosa fare, non ci hanno mai veramente pensato (pensano ad altro, al PIL, alla crescita, alle grandi opere e ai grandi eventi, al loro elettorato, alle tangenti) perché i problemi da affrontare sono troppo grandi per loro; per questo preferiscono nascondere la testa sotto la sabbia.
Certo, gli scienziati sono ormai (quasi) tutti d’accordo sull’origine antropica e l’imminenza del disastro e le tecnologie necessarie a decarbonizzare il pianetasono ormai disponibili. Ma la transizione comporta sconvolgimenti radicali di tutti gli assetti sociali che né i politici, né il mondo delle imprese e meno che mai la generalità dei cittadini sanno come affrontare. Ma è ora di cominciare a delineare a grandi linee i passi da compiere; la loro definizione non può essere affidata solo ai tecnici, come quelli che l’economista liberista Jeffrey Sachs ha convocato a Milano il 2 e 3 aprile per discutere di come decarbonizzare il mondo. Manca in tutto questo la politica, quella vera, cioè il coinvolgimento e l’autogoverno dei cittadini in un rapporto dialettico tra alto (i Governi) e basso (le comunità locali). Manca una road map che occorre mettere in discussione senza lasciarsene spaventare. Qui si prova a indicarne almeno alcuni passi:
  1. Dichiarare, come hanno già fatto alcune città e università, lo stato di emergenza climatica. Vuol dire bloccare il più rapidamente possibile tutte le attività che producono gas climalteranti, dando la priorità a tutte quelle che concorrono alla decarbonizzazione;
  2. Garantire un reddito certo a tutti i lavoratori che perderanno il lavoro – o non lo troveranno – nelle imprese soggette a chiusura, in attesa di una loro ricollocazione in imprese e progetti impegnati nella transizione energetica;
  3. Spostare tutti gli investimenti e gli incentivi pubblici diretti dalle attività legate ai fossili a quelle legate alla transizione. Non si tratta di noccioline: significa, nell’immediato, bloccare  produzione e importazione di auto individuali e di barche da diporto, comprese le crociere, e convertire gli impianti per produrre mezzi di trasporto collettivo o condiviso (l’elettrico, di per sé, garantisce scarsi benefici climatici, anche se emette meno inquinanti) e impianti di generazione elettrica alimentati da fonti rinnovabili; bloccare tutte le centrali termoelettriche e tutti i consumi energetici superflui; trasformare nel più breve tempo possibile involucri e alimentazione energetica di tutti gli edifici; convertire agricoltura e alimentazione alle produzioni biologiche e di prossimità, riducendo il consumo di carni, ma soprattutto di acqua e lo sfruttamento senza rigenerazione dei suoli; ridurre al minimo trasporto aereo, vacanze esotiche, import-export di merci superflue, traffico transoceanico;
  4. Fissare delle sanzioni per gli Stati e le corporation che non si adeguanoa queste esigenze con piani dettagliati, sottoponendoli a un monitoraggio sovranazionale. Altro che accordi di Parigi
  5. Coinvolgere il numero maggiore possibile dei residenti di ogni comunità nella definizione, nella progettazione e nella realizzazione a livello locale di questi obiettivi, perché le misure per farvi fronte non possono essere determinate in modo centralistico dagli Stati. È a questa attività, oltre che a fare pressione sui Governi, che dovranno dedicarsi fin da subito le diverse espressioni che assumerà il movimento per la salvezza climatica. La transizione che ci attende non è un’opzione tecnica, ma una rivoluzione dei consumi, degli stili di vita, degli assetti produttivi, dei rapporti di potere i cui elementi determinanti sono il conflitto e la partecipazione; per questo sono inaccettabili dall’establishment al potere, come ha cercato di spiegarci Naomi Klein nel suo libro Una rivoluzione ci salverà.
Oggi sembrano cose impossibili anche solo da concepire (e Greta viene trattata come una “deficiente”: da compatire o da lusingare; senza conseguenze). Tra pochi anni sembreranno ancora del tutto insufficienti.
Guido Viale
fonte: comune-info.net

L’emergenza politica che avvelena la terra

Sebbene l’indignazione sia massima e le ragioni che spingono all’aggiramento della Valutazione Ambientale Strategica inconfessabili quanto chiare, l’appello di Patrizia Gentilini, oncologa dell’Associazione Medici per l’ambiente, è davvero accorato: “Mi rivolgo a coloro che saranno chiamati a votare con il cuore in mano. Con che coraggio andate a manifestare insieme a Greta e poi firmate questi atti? Promuovere un’agricoltura basata sui pesticidi e le monoculture è sbagliato. Abbiamo già oltre 130 mila tonnellate di pesticidi sui suoli agricoli ed è ampiamente dimostrato che si tratta di sostanze persistenti che ritroviamo ormai ovunque. Sostanze che creano alterazioni del genoma e sono correlate a diverse patologie, autismo e danni cognitivi”. L’appello è rivolto ai deputati che martedì decideranno se dare il via libera al Decreto emergenze che, con l’articolo 8, consentirà in caso di “emergenze” di prendere anche “misure fito-sanitarie in deroga a ogni disposizione vigente”. Il caso degli ulivi del Salento mostra chiaramente come poi l’emergenza diventi la norma, la routine di avvelenamento dei suoli e delle persone e l’apertura a un modello di colture intensive e di bassa qualità. Il solito enorme business per qualcuno. “Ma lo sapete cosa state facendo?”, domanda disperata l’oncologa a chi si appresta a favorire la rovina dell’olivocoltura pugliese in barba alla salute dei cittadini, alla Costituzione e alle altre leggi esistenti. Pensavamo di aver toccato il fondo con il decreto Martina e invece no

di Elena Tioli
 “Esprimo la più profonda preoccupazione e indignazione per quello che sta capitando. L’articolo 8 di questo decreto inficia le basi stesse del nostro diritto alla salute, all’informazione e le fondamenta della nostra Costituzione” la denuncia arriva da Patrizia Gentilini, medico oncologo, dell’Associazione Medici per l’ambiente (Isde), intervenuta venerdì 12 aprile, a Montecitorio, alla conferenza “Art. 8 Decreto Emergenze: un’emergenza da fermare”.
Il riferimento è all’articolo che prevede che in caso di emergenza “le misure fitosanitarie siano attuate in deroga a ogni disposizione vigente”. Cosa significa questo? Che in caso di fitopatie, per esempio per contrastare la diffusione di organismi nocivi per le piante come, nel caso citato, Xylella fastidiosa, si possa agire in deroga alle leggi nazionali e regionali, ignorando le norme a tutela della salute, dell’ambiente e del paesaggio, della proprietà privata e delle libertà personali.
Deroga alla VAS
Con il decreto Emergenze si introduce anche una pericolosa modifica al Testo Unico Ambientale, il 152 del 2006, sulla disciplina della VAS, la Valutazione Ambientale Strategica, che è obbligatoria per tutti i piani e programmi al fine di prevedere l’esame dei loro effetti sull’ambiente e sulla salute, secondo principi Comunitari di sostenibilità.
“Inserire le misure fitosanitarie di emergenza tra i piani esenti da tale obbligo è gravissimo – afferma Massimo Blonda, biologo e ricercatore, ex Direttore Arpa Puglia – Si tratta infatti di una deroga che non viene ammessa per proteggere la sicurezza dei cittadini o la salute delle persone bensì per tutelare le piante o, per meglio dire, un comparto economico.Questo significa che con il pretesto di una fitopatia, si possa fare qualsiasi cosa, senza tener conto dell’impatto ambientale delle misure fitosanitarie adottate, impedendo di fatto alle varie competenze scientifiche di confrontarsi e ai cittadini di partecipare alle decisioni che riguardano il proprio territorio. Si crea quindi un vulnus – prosegue Blonda – un malessere sociale tra chi queste misure le promuove e le intima e chi le subisce senza poterle osservare nelle sedi di partecipazione preposte”. E soprattutto si impedisce un percorso di valutazione attenta delle possibili alternative, come per esempio nel caso della Puglia, dove si impongono misure anche molto drastiche e impattanti in assenza di certezze di efficacia delle stesse. Ma non solo. “In questo modo ci si priva di una valutazione oggettiva dei possibili scenari così detti “post Xylella” che consideri i cambiamenti climatici in atto e le risorse naturali disponibili, come l’acqua e la qualità del suolo. Ricondurre i piani fitosanitari, la gestione delle biomasse morte e le strategie di riconversione agronomica nel legittimo ambito VAS, eviterebbe molti possibili errori, conflitti e, alla fine, danni irreparabili”.
Il caso Xylella
Pensavamo di aver toccato il fondo con il decreto Martina che autorizzava neonicotinoidi e piretroidi senza alcuna motivazione scientifica, ma al peggio non c’è mai fine” continua Gentilini, riferendosi al piano di contenimento del batterio. “Io non sono pugliese ma questa vicenda mi tocca particolarmente – continua Gentilini –  Credo fermamente che davanti a questi alberi ci si dovrebbe inginocchiare. Se hanno resistito millenni e se adesso sono malati ci dovremmo fare qualche domanda. L’albero è malato quando tutto l’ambiente attorno a lui è malato”. E invece s’impone l’abbattimento. “Le criticità trasformate in emergenza permettono a derogare a tutto e portare avanti dei piani, per esempio in questo caso la monocultura, che sono contrari a qualsiasi logica e scientificità”.
Trasferimento di funzioni e responsabilità
La gestione della questione Xylella non ha nulla di scientifico. Il progetto di riconversione olivicola in Puglia è una decisione politica che non ha niente a che fare con la scienza – spiega Antonio Onorati, Via Campesina e Ari (Associazione Rurale Italiana) – Alcuni politici usano la scienza per giustificare atti politici e una parte degli scienziati si presta a questo, trasformandosi in decisori politici. Con una sorta di trasferimento delle funzioni e delle responsabilità”. E ancora: “Quello che si sta ingiungendo in Puglia con il pretesto dell’emergenza Xylella è un’olivicoltura intensiva, una produzione di bassa qualità che sul mercato vale la metà di quella attuale. Ma imponendo questo modello non si tiene conto delle peculiarità della nostra agricoltura e di quel territorio – continua Onorati – L’olivicoltura italiana è fatta di piccole e medie imprese, è un’olivicoltura di pendenza a bassa o nulla irrigazione. In Puglia non c’è acqua e non ci sono grandi distese pianeggianti. Come si può pensare di imporre lì il modello spagnolo?”.
Una domanda che, a quanto pare, nell’attuale dibattito politico cade nel vuoto. Del resto la prima volta che si è parlato di portare l’olivicoltura pugliese all’intensivo era il 1999. Un progetto che ha radici lontane: “Per fortuna gli olivicoltori pugliesi fino ad oggi sono stati intelligenti e si sono opposti a questo che è a tutti gli effetti un piano industriale e capitalistico. Capitalizzare o morire. O hai soldi o te ne vai. Meccanizzazione, irrigazione e input chimici costano. Quindi di fatto per i piccoli produttori e per quella terra è una condanna a morte”.
L’appello dei Medici per l’Ambiente
“Mi rivolgo a coloro che saranno chiamati a votare con il cuore in mano. Con che coraggio andate a manifestare insieme a Greta e poi firmate questi atti? – conclude Gentilini – Promuovere un’agricoltura basata sui pesticidi e sulle monoculture è quanto di più sbagliato si possa fare. Ci sono tantissimi studi scientifici a testimoniarlo, ci sono i dati della Fao, le soluzioni sono altre e sono documentate. Abbiamo già oltre 130 mila tonnellate di pesticidi sui suoli agricoli ed è già ampiamente dimostrato che si tratta di sostanze persistenti che ritroviamo ormai ovunque. Sostanze che creano alterazioni del genoma e che sono correlate a diverse patologie, autismo e danni cognitivi. Sapete cosa state facendo continuando a avvelenare la terra? Uccidendo la vita del suolo uccidiamo anche la nostra. Per favore pensateci un momento”.

fonte: https://comune-info.net/

Non è una bottiglia di plastica come le altre
























È stata ritrovata lungo le spiagge di Somerset, nel Regno Unito. Una bottiglia di plastica di almeno 47 anni; ed è stata ritrovata quasi intatta, a dimostrazione di quanto tempo la plastica possa perdurare.
Era un contenitore di detersivo per piatti ed è del 1971 o anche più vecchia, perché il costo ancora chiaramente visibile dalla bottiglia mostra uno sconto di 4d pence, prima che il sistema britannico adottasse il metodo decimale, appunto nel 1971.
La bottiglia è quasi nuova dopo più di quarantasette anni!
I numeri sono impressionanti: le bottiglie di plastica impiegano 450 anni per decomporsi nell’oceano e il 70 per cento dell’immondizia nel mare è plastica.  Ogni anno entrano nel mare circa 8 milioni di pezzi di plastica. Entro il 2050 ci sarà più plastica che pescato. 
Maria Rita D’Orsogna

fonte: https://comune-info.net

Come hanno avvelenato l’Italia

Adesso servirebbero almeno 30 miliardi di euro per ripulire l’Italia dalle devastazioni ambientali prodotte nel Novecento dall’industrializzazione. Sono quelli che, forti di molti silenzi e sistematiche complicità, hanno sempre evitato di pagare le imprese per arginare e, laddove possibile, riparare i danni colossali prodotti dalla sete di profitti da realizzare con ogni mezzo possibile e a qualsiasi prezzo. “Mala terra”, di Marina Forti, racconta l’altra faccia di uno sviluppo che per quasi un secolo ha considerato blasfemo ogni tentativo di critica

















Mala Terra, scritto dalla giornalista Marina Forti e pubblicato da Laterza, è un libro prezioso, fondamentale, imprescindibile per capire quali sono i pesantissimi strascichi lasciati dal processo di industrializzazione condotto nel secolo scorso nel nostro Paese. Soprattutto spiega alla perfezione come si stia gestendo, molto male, questo pesante lascito.
Grazie a una minuziosa ricostruzione storica e una costante presenza sul campo, uno stile asciutto e incisivo, Forti ci racconta di territori martoriati, comunità che non si arrendono, di una classe imprenditoriale sempre pronta a “socializzare” problemi e difficoltà e di istituzioni spesso assenti, a volte maldestre, non di rado complici.
Sulla scorta di un’esperienza decennale in giro per il mondo anche come inviata del Manifesto, per il quale ha curato a lungo la rubrica Terra Terra, l’autrice riesce a trattare con la giusta sensibilità alcuni passaggi fondamentali della recente storia italiana, in primis il ruolo chiave svolto dal comparto chimico, considerato per anni la panacea di tutti i mali e una fonte inesauribile di posti di lavoro.
Mala Terra è così un susseguirsi di storie ben conosciute, come il dramma di Taranto o la saga infinita di Porto Marghera, di altre scomparse troppo presto nei media nazionali, come i casi di Bagnoli o Portoscuso, o di altre ancora di cui si sa pochissimo, per non dire nulla, perché hanno avuto un po’ di eco solo sui quotidiani a tiratura locale, come la vicenda Caffaro a Brescia.
Certo, nell’età dell’oro dell’industria italiana questi luoghi erano una sorta di oasi felici, come Colleferro, la città-fabbrica della Valle del Sacco, dove la classe operaia locale aveva raggiunto un discreto benessere anche perché tutto era pensato in funzione della produzione aziendale. Non va dimenticato che, per esempio, per il petrolchimico di Priolo sono spariti agrumeti di gran pregio o che a Bagnoli un’embrionale vocazione turistica è stata cancellata dallo sviluppo industriale che ha lasciato solamente macerie.
Per molto tempo i lavoratori sono rimasti beatamente ignari dei rischi per la salute legati a quanto maneggiavano o respiravano in fabbrica. Ma già nella seconda metà degli anni Settanta per molti dei casi esaminati nel libro si iniziò a capire quali erano le conseguenze dell’avere a che fare con sostanze come Pcb o diossine, mercurio o solventi clorurati. E che lo smaltimento di quelle sostanze era e sarebbe sempre stato un grosso problema. Si sono sfiorate immense tragedie. A Porto Marghera, quando un incendio è arrivato a 20 metri da un deposito dove c’erano 12 tonnellate del letale fosgene, si è sfiorata una nuova Bhopal.
Sono stati commessi errori sistemici: alla fine del loro ciclo queste industrie assicuravano pochi posti di lavoro, eppure nessuno ha pensato a pianificare un giusto processo di riconversione, come accaduto con esiti più o meno positivi in altri paesi. Meglio spremere il più possibile l’esistente, senza uno straccio di visione di medio e lungo termine.
Il tutto “scordandosi” poi delle bonifiche, che invece chiedono a gran voce i mille comitati, associazioni e organizzazioni nate nei territori dove si continua a morire e a soffrire per uno sviluppo industriale fuori controllo. Per ripulire l’Italia servirebbero almeno 30 miliardi di euro. Tanti soldi che avrebbero dovuto in buona parte sborsare le compagnie private, che troppo spesso si sono guardate bene dal riparare i danni causati dal profitto a ogni costo.





fonte: https://comune-info.net

I profeti inascoltati del clima

Le tre alternative ai disastri ambientali: rassegnarsi, adattarsi, pianificare. La terza soluzione significa darsi l’obiettivo di non occupare nuovi spazi
















«Le tre alternative ai disastri ambientali: rassegnarsi, adattarsi, pianificare. La terza soluzione significa darsi l’obiettivo di non occupare nuovi spazi» «L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per distruggere la Terra»: queste parole furono pronunciate da Albert Schweitzer, il grande pensatore premio Nobel per la pace, nel 1953, quando le bombe atomiche esplodevano nell’atmosfera.
Esplosione che stavano diffondendo atomi radioattivi e cancerogeni su tutto il pianeta. Nei decenni successivi l’umanità ha conosciuto un aumento dei consumi e dell’uso dell’energia e delle risorse naturali, accompagnato da un corrispondente aumento della diffusione nel pianeta di rifiuti solidi e liquidi e di gas come anidride carbonica, metano, composti clorurati, eccetera, che stanno modificando la composizione chimica dell’atmosfera con conseguente aumento della temperatura media del pianeta.
Tale aumento provoca alterazioni nella circolazione delle acque e le conseguenze si vedono sotto forma di più frequenti violente tempeste o lunghe siccità, di avanzata dei deserti in alcune zone, di frane e allagamenti in altre.
Gli effetti negativi dei cambiamenti climatici potrebbero essere contenuti attraverso una limitazione delle attività umane inquinanti, ma qualsiasi tentativo in questa direzione è finora fallito perché danneggia potenti interessi economici, gli affari, le finanze, le imprese, i produttori di petrolio e di energia o gli sfruttatori delle terre agricole e delle foreste.
Già novanta anni fa i biologi matematici Volterra e Kostitzin avevano spiegato che l’intossicazione dell’ambiente dovuto ai rifiuti delle attività dei viventi porta ad un inevitabile sofferenza e declino delle popolazioni che tale ambiente occupano, tanto più rapido quanto maggiore è la produzione di rifiuti. E quarant’anni fa Commoner («Il cerchio da chiudere») aveva scritto che i guasti ambientali sono proporzionali al “consumo” procapite di merci e risorse naturali e alla conseguente produzione di scorie. Temi poi ripresi dal libro sui «Limiti alla crescita». Tutte cose ridicolizzate o dimenticate o ignorate dal potere economico e dalle autorità politiche perché disturbano il ”normale” andamento delle cose.
Che fare per, almeno, attenuare costi e dolori? Ci sono varie alternative: quella attuale è andare avanti come al solito ignorando il fatto (certo) che ci sarannosempre più frequenti disastri ambientali come quelli che hanno devastato la bella Nuova Orleans, o le Filippine, o le fortunate isole e coste turistiche, e rimediando i danni con i soldi. In Italia si invoca lo stato di calamità naturale che consiste nel chiedere soldi pubblici per risarcire chi perde la casa, e i beni o i raccolti, o i macchinari delle fabbriche, o per ricostruire strade e ferrovie e scarpate e ponti travolti dalle intemperie o dalle frane e alluvioni. Soldi che vengono poi spesi in genere per ricostruire negli stessi posti che saranno di sicuro devastati da eventi futuri.
Lo stesso vale per i disastri mondiali per i quali le comunità locali o internazionali spendono soldi per risarcire i danni che le persone hanno subito, per l’imprevidenza dei loro governi i quali non hanno preso le precauzioni— tanto per cominciare la limitazione delle emissioni di gas serra — che avrebbero salvato vite e beni; poco conta se aumentano i dolori umani e le morti che non entrano nelle contabilità nazionali e aziendali, poco conta se l’agire “come al solito” provoca migrazioni di masse umane in fuga dall’avanzata dei deserti, dalle zone devastate da cicloni e frane, provoca conflitti senza fine fra popoli che si contendono terre in cui vivere.
La seconda alternativa è offerta dalla recente invenzione della resilienza, cioè dell’adattamento alle prevedibili catastrofi senza fare niente per prevenirle. Si sa che le tempeste tropicali e l’aumento del livello degli oceani potranno danneggiare le strutture costiere: pensiamo allora a costruire edifici su piloni, barriere nel mare per proteggere le rive; si sa che le più frequenti e intense piogge provocano frane e alluvioni: pensiamo a costringere i fiumi dentro canali e argini artificiali. la fantasia dei resilientisti è senza fine nel suggerire come adattarsi alla ”cattiveria” della natura e del pianeta senza ricorrere a divieti che rallenterebbero il glorioso cammino della crescita economica.
Ci sarebbe un’altra soluzione; dal momento che si può interrogare la natura e prevedere come circoleranno le acque e le masse d’aria in conseguenza di quello che stiamo facendo al pianeta e dal momento che non sembra ci sia nessuna ragionevole possibilità di frenare le modificazioni in attocioè di consumare meno energia o di rallentare i consumi, si potrebbe cercare almeno di non occupare gli spazi, pure economicamente appetibili, dove si manifesteranno le forze distruttive della natura.
La chiamavano pianificazione territoriale ed era insegnata anche in cattedre universitarie ed era stata raccomandata e spiegata da studiosi, ed era perfino stata ascoltata, se pure non attuata, da alcuni uomini politici illuminati e presto spazzati via. Perché perfino il minimo rimedio della pianificazione presuppone lo “sgradevole” coraggio di dire di no, di vietare la presenza umana nelle zone ecologicamente fragili ed esposte a frane, marosi, tempeste e ad altri eventi catastrofici.
Il divieto di costruire opere permanenti, ad esempio a meno di cento[trecento, ndr] metri di distanza dalla riva del mare o dei fiumi, per permettere alle onde e alle acque di recuperare i propri spazi naturali, una minima azione di prevenzione, priva l’uso delle zone più appetibili e ne danneggia i proprietari; un divieto inaccettabile perfino allo stato che, teoricamente, sarebbe il proprietario di parte delle coste e rive, come dimostra la frenesia di vendere le spiagge ai “concessionari”, dopo che essi hanno già devastato le zone ricevute in affitto.
La pianificazione e la prevenzione non rendono niente ma anzi costano e disturbano la proprietà (privata ma anche pubblica); poco conta che tali costi permettano “ad altri” di risparmiare costi futuri. Nessuna ragionevole persona, nella società del libero mercato, deve spendere neanche un soldo pensando “ad altri”, non al prossimo vicino e tanto meno al prossimo del futuro. Quando ci fanno vedere alla televisione le file di cadaveri, le persone disperate nel fango, al più rivolgiamo un pensiero a “quei poveretti”, fra una forchettata e l’altra. E così, con allegra incoscienza e ignoranza di singoli e di governanti, si corre spensieratamente verso un ancora più sgradevole futuro.
Giorgio Nebbia
fonte: https://comune-info.net