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Due giornate di studio e approfondimento interagenziale sul particolato atmosferico















Arpa FVG e Arpa Lombardia organizzano a Milano le "Giornate di studio sulla caratterizzazione chimica del particolato atmosferico"

L’11 e il 12 ottobre 2021 si terranno a Milano due giornate di ...

Le fibre chimiche sono davvero sempre più inquinanti per l’ambiente e meno salubri per le persone?

Gli scienziati avevano fino a oggi sempre poco considerato il polietilene, un materiale comunemente usato per i sacchetti di plastica e più conosciuto con il nome PET (polietilene tereftalato). Si tratta di una materia sintetica appartenente alla famiglia dei poliesteri che viene realizzato con petrolio, gas naturale o talvolta anche con materie prime vegetali










Siamo per consuetudine abituati a ritenere che le fibre tessili di origine naturale (lana, cotone, seta, ecc.) siano migliori per le loro prestazioni, per la salute delle persone e soprattutto per la tutela dell’ambiente in quanto “naturali” e rinnovabili e che invece le fibre chimiche anche conosciute come “man made”, seppur molto pratiche e di facile manutenzione siano non sostenibili in quanto molto inquinanti per la loro origine da polimeri di sintesi non biodegradabili.

Tuttavia, l’evoluzione green che l’industria della moda sta vivendo ha reso il mercato delle fibre tessili sempre più dinamico e innovativo con l’introduzione di nuove o vecchie fibre “ingegnerizzate”, che rappresentano valide alternative per ridurre l’impatto ambientale e dare una nuova svolta al comparto tessile.

Gli scienziati avevano fino a oggi sempre poco considerato il polietilene, un materiale comunemente usato per i sacchetti di plastica e più conosciuto con il nome PET (polietilene tereftalato). Si tratta di una materia sintetica appartenente alla famiglia dei poliesteri che viene realizzato con petrolio, gas naturale o talvolta anche con materie prime vegetali.

Il Politecnico di Torino e il Massachusetts Institute of Technology (MIT), hanno recentemente pubblicato su Nature Sustainability (una delle più antiche e importanti riviste scientifiche) una ricerca sui tessuti in fibra di polietilene dal titolo: “Sustainable polyethylene fabrics with engineered moisture transport for passive cooling” –“Sostenibilità dei tessuti in polietilene con trasporto dell'umidità ingegnerizzato per il raffreddamento passivo”. La ricerca si è concentrata sull’ingegnerizzazione delle proprietà di trasporto dell’acqua nel tessuto e si è data l’obiettivo di creare un nuovo filato tecnico sostenibile ottenuto dal polietilene, con una particolare attenzione alla sua impronta ecologica.

Lo studio del Politecnico di Torino e del MIT ha dimostrato che il polietilene è un buon materiale alternativo alle fibre naturali in termini di sostenibilità e proprietà: presenta un basso impatto ambientale e la sua struttura permette di modificarne qualitativamente le caratteristiche meccaniche, termiche e ottiche in modo da acquisire performance molto mirate.

Appare evidente pertanto che la usuale classificazione “per origine” delle fibre tessili in funzione dell’impatto ambientale dei materiali, non è più corretta, come dimostra questa ricerca che rivela che le fibre man made non sempre risultano meno sostenibili di quelle naturali. Inoltre gli studi del Politecnico e del MIT evidenziano che i materiali tessili man made hanno il vantaggio di poter essere programmati su misura in funzione delle specifiche applicazioni a cui sono destinati.

A differenza di quanto accade per le fibre naturali, contraddistinte da componenti chimico-fisiche non controllabili, le microfibre dei tessuti tecnici permettono infatti interventi di ingegnerizzazione mirati alla modellazione delle loro caratteristiche, consentendo la realizzazione di tessuti assai performanti.

Come mostra la ricerca del MIT e del Politecnico, modificando le caratteristiche chimiche superficiali delle fibre e modellandole, è possibile impostare ab origine le caratteristiche legate all’idrorepellenza e anche le proprietà finali del tessuto, come la sua capacità di assorbire e trasportare un fluido al suo interno.

Gli scienziati che hanno partecipato a questa ricerca hanno testato la capacità di traspirazione di questo nuovo tessuto e lo hanno confrontato con molti altri tessuti prodotti con altre fibre, naturali e sintetiche. In tutti i test effettuati i tessuti in polietilene hanno assorbito e fatto evaporare l’acqua più velocemente non solo dei tessuti realizzati in cotone ma anche di quelli in nylon e in poliestere.

I tessuti realizzati con il polietilene offrono resistenza alle macchie, raffreddamento passivo, asciugatura rapida e soprattutto riciclabilità. Risultano inoltre particolarmente igienici grazie ai tempi di asciugatura rapidi. Ciò non solo previene l’insorgenza di batteri, ma ne consente il lavaggio e l’asciugatura con trattamenti a bassa temperatura e di breve durata.

La ricerca ha evidenziato inoltre che le fibre naturali come il cotone, il lino o la seta, comunemente percepite come eco-sostenibili, celano un alto impatto ambientale, riscontrabile solo analizzando l’intero ciclo di vita del tessuto che va dalla coltivazione e produzione della fibra, alla filatura, alla tintura del filato ed infine alla tessitura e che l’industria tessile ha diversi parametri da tenere in considerazione rispetto alla sostenibilità.

Le fibre naturali implicano grandi consumi di acqua, l’utilizzo di pesticidi, la necessità di realizzare degli spazi di coltivazione dove magari prima c’erano foreste, senza trascurare infine l’impatto sull’ambiente delle sostanze chimiche e coloranti utilizzati nei processi di tintura.

Come ha osservato Svetlana Boriskina, coordinatrice della ricerca presso il MIT, “Tenendo conto delle proprietà fisiche del polimero e dei processi necessari per realizzare e tingere i tessuti, secondo questa ricerca sarebbe necessaria meno acqua e meno energia rispetto all’impiego di poliestere o cotone con un impatto ambientale inferiore del 60% rispetto a quelli, per esempio del cotone”. La tintura delle fibre naturali avviene infatti dopo la filatura della fibra con processi ad umido ancora abbastanza inquinanti.

“Il polietilene inoltre si presta facilmente ad un processo di separazione e riciclaggio industriale: ciò consente di creare nuovi capi anche da materiale riciclato, con un grande potenziale di economia circolare”.

I ricercatori che hanno lavorato a questo studio congiunto sperano che i risultati ottenuti possano fornire un incentivo a recuperare e riciclare buste di plastica, bottiglie di PET e altri prodotti in polietilene per trasformarli in tessuti indossabili, felpe, scarpe da ginnastica, dando così un senso alla sostenibilità di questo materiale. A tal fine, il MIT nei prossimi mesi creerà una start-up per produrre questo nuovo tessuto e sta lavorando con l'esercito degli Stati Uniti, la NASA e il produttore di abbigliamento sportivo New Balance sulle applicazioni dei tessuti in polietilene. L’ingegnerizzazione delle fibre man made presenta quindi grandi possibilità di sviluppo e si può prevedere che il nostro abbigliamento del futuro sarà realizzato con materiali innovativi e sempre più performanti.

L’unico aspetto a cui non mi sembra si accenni nella ricerca è quello legato al lavaggio degli indumenti sintetici in lavatrice. Infatti, ogni ciclo di lavaggio in lavatrice di tali tessuti è fonte di inquinamento, a causa delle microfibre plastiche che sono rilasciate nelle acque. Come mostrato da uno studio del 2016, pubblicato sulla rivista Environmental Science & Technology, più di un grammo di microplastiche viene rilasciato ogni volta che vengono lavate giacche sintetiche e fino al 40 per cento delle stesse finisce inevitabilmente nei corpi idrici . Dobbiamo quindi confidare che questi materiali di ultima generazione e con caratteristiche studiate e mirate ab origine siano in grado di risolvere anche questa problematica.

fonte: www.agi.it



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La nuova batteria senza metalli che si degrada on demand

Un team multidisciplinare di ricercatori della Texas A&M University ha creato una batteria ricaricabile organica che, a fine vita, può semplicemente essere “sciolta” nelle sue componenti originali



Cambiare la chimica delle batterie per renderle più sostenibili e facilmente riciclabili. Questo l’obiettivo della ricerca condotta da un team della Texas A&M University e pubblicata nel numero di maggio di Nature (testo in inglese). Il gruppo ha messo a punto una piattaforma tecnologica per dispositivi d’accumulo privi di cobalto e litio. E il segreto è nuovamente nella chimica organica.

La nuova batteria senza metalli utilizza, infatti, una struttura a radicali polipeptidici. Nel dettaglio, il gruppo ha impiegato catene di amminoacidi elettrochimicamente attive, chiamate polipeptidi attivi redox, per costruire i due elettrodi. “Allontanandoci dal litio e lavorando con questi polipeptidi, che non sono altro che i componenti delle proteine, evitiamo di dover estrarre metalli preziosi. Offrendo anche nuove opportunità per alimentare dispositivi elettronici indossabili o impiantabili”, ha affermato la dott.ssa Karen Wooley, professoressa presso il dipartimento di chimica.

Durante i test, la batteria senza metalli ha soddisfatto un paio di requisiti importanti. Innanzitutto, gli elettrodi hanno svolto il loro lavoro di materiali attivi, rimanendo stabili per tutto il tempo. Inoltre, i componenti della batteria possono essere facilmente degradati, al momento del bisogno, in condizioni acide. Il processo permette di rilasciare gli amminoacidi e re-impiegarli. E in maniera completamente innocua per l’ambiente.

Il risultato sono dunque unità degradabili, riciclabili, non tossiche e più sicure “su tutta la linea”. “Il grosso problema con le batterie agli ioni di litio in questo momento è che non vengono riciclate nella misura di cui avremo bisogno per la futura economia dell’e-mobility“, ha aggiunto dott.ssa Jodie Lutkenhaus. La ricerca è solo allo stadio iniziale, ma il team è convinto di aver compiuto un primo passo promettente nello sviluppo di innovative batterie sostenibili. Il futuro obiettivo? Migliorare ulteriormente il design con l’aiuto dell’apprendimento automatico.

fonte: www.rinnovabili.it


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Batterie di accumulo, è possibile “resuscitare” il litio

Un gruppo di scienziati ha messo a punto una strategia per ripristinare il cosiddetto “litio morto”, responsabile della instabilità termica e del decadimento di capacità nella batterie ricaricabili










Il litio è il materiale numero uno per le batterie di accumulo, sia quelle che alimentano l’elettronica portatile, sia per quelle a bordo dei veicoli elettrici. Nonostante i continui progressi nel campo, questi dispositivi offrono ancora oggi dei punti deboli. Uno di questi è l’incapacità, in alcuni casi specifici, di mantenere alte prestazioni nel tempo.

Uno dei motivi di tale decadimento è l’inattivazione del litio stesso. In alcune batterie di accumulo si innescano meccanismi di degradazione a livello dell’anodo che portano alla formazione del cosiddetto “litio morto”, materiale isolato e inattivo. La diretta conseguenza è una riduzione dell’efficienza coulombica, influendo su prestazioni e durata della batteria.

I ricercatori della Zhejiang University of Technology in Cina e dell’Argonne National Laboratory negli Stati Uniti hanno trovato una strategia per “resuscitarlo”. Il processo, delineato in un articolo pubblicato su Nature Energy (testo in inglese), si basa su una reazione chimica nota come ossidoriduzione (redox) dello iodio. Lo studio si è focalizzato sull’interfase solido-elettrolita (SEI), strato passivante e isolante che viene prodotto sull’anodo delle batterie di accumulo agli ioni di litio durante i primi cicli di carica. Il SEI svolge un ruolo cruciale nel garantire l’efficienza, la stabilità e la sicurezza delle batterie.

In una tipica cella a unioni di litio con un convenzionale anodo in grafite, questa interfase è composta da fluoruro di litio (LiF), combinato con carbonato di litio (Li2CO3), alchil carbonato e altre sostanze. Studi recenti hanno dimostrato che nelle batterie con anodo al litio metallico, il SEI è costituito principalmente da ossido di litio (Li2O), piuttosto che da LiF. In questa tipologia di batterie la formazione di litio inattivo è un problema più frequente. Tuttavia, i potenziali vantaggi che offre come ricaricabile (es. elevata densità di carica) ne fanno il più papabile erede della tradizionale tecnologia agli ioni.

Nel loro articolo, Chengbin Jin e colleghi hanno cercato di quantificare la quantità di Li2O nello strato SEI formato sugli anodi metallici. Inoltre, hanno studiato il ruolo delle interfase nella produzione di litio morto. I risultati raccolti dal gruppo suggeriscono che una perdita di litio nel SEI e la presenza di dendriti aghiformi rotti sono le cause principali del decadimento delle prestazioni. Per ripristinare il tutto hanno utilizzato una reazione di ossidoriduzione.

“Presentiamo un metodo di ripristino del litio basato su una serie di reazioni redox dello iodio che coinvolgono principalmente I3−/I−“, hanno spiegato i ricercatori nel loro articolo. “Utilizzando una capsula ospite in biochar per lo iodio, dimostriamo che l’ossidoriduzione […] avviene spontaneamente, ringiovanendo efficacemente il litio compensado la perdita”.

Utilizzando questa strategia di progettazione il gruppo ha creato una cella con pochissimo litio nell’anodo, una durata di vita di 1.000 cicli ed un’efficienza coloumbica del 99,9%. In futuro, la strategia potrebbe portare a nuove batterie al litio metallico con prestazioni migliori o essere impiegata per estendere la vita di quelle a ioni di litio.

fonte: www.rinnovabili.it


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Batterie auto elettriche: tipologie, vantaggi e durata

Batterie per auto elettriche: come funzionano, tipologie, vantaggi e durata nel tempo di queste irrinunciabili componenti.









Le auto elettriche stanno sempre diventando più popolari anche in Italia, grazie anche agli incentivi voluti a livello statale, eppure molti dubbi ancora permangono sul fronte delle batterie. I guidatori faticano a comprendere le differenze delle tipologie disponibili sul mercato e, soprattutto, non riescono a coglierne appieno i vantaggi. Ad esempio, come funzionano gli accumulatori per veicoli elettrici e a quanto ammonta la loro durata?

Orientarsi in questo universo non è semplice, anche perché ogni produttore garantisce delle innovazioni specifiche per aumentare la capacità di carica, l’autonomia e ridurre il più possibile i tempi di ricarica. Di seguito, qualche informazione utile.

Batterie per auto elettriche: come funzionano




Le batterie per auto elettriche non si differenziano molto, a livello di funzionamento, dalle analoghe componenti incluse in molti strumenti di uso quotidiano, dagli smartphone a molti altri dispostivi. Grazie a una reazione chimica, viene non solo prodotta energia elettrica, ma quest’ultima può essere anche immagazzinata.

Così come qualsiasi altra batteria, si può semplificare il concetto alla base come quello di una comunissima pila. Grazie a specifiche reazioni chimiche, un anodo cede un flusso di elettroni a un catodo, sfruttando un elettrolita. Quest’ultimo può essere liquido – come nella maggior parte delle batterie oggi in commercio – oppure solido. Non a caso chiamate “batterie allo stato solido”, rappresentano una grande scommessa per il futuro: sono infatti in grado di accumulare grandi quantità di energia e, di conseguenza, di estendere sensibilmente l’autonomia del veicolo.

Batterie: le tipologie



Sono diverse le tipologie di batterie che possono essere presenti all’interno di una vettura, sia classica che elettrica. Nel primo caso, la componente viene utilizzata per alimentare dispositivi interni all’abitacolo, nonché per la fase di avviamento del motore e garantire l’illuminazione di fari e altre luci montate sul veicolo. Nel secondo alimentano invece il motore, oltre che ad assolvere a tutte le altre funzioni già elencate. Fra i più comuni tipi di accumulatori, si elencano:

Batterie al piombo: tra le prime batterie inventate, già ormai più di un secolo fa, hanno rappresentato le candidate ideali per i primi esperimenti di mobilità elettrica negli anni ’90. Con un’autonomia di poco più di 100 chilometri e tempi di ricarica oltre le 10 ore, oggi vengono usate perlopiù per piccoli mezzi da lavoro;

Batterie al nichel-metallo: note anche come NiMH, sono molto apprezzate per la loro durata nel tempo, anche se l’autonomia non è delle migliori a oggi raggiunte. Montate sulle prime auto elettriche moderne, soffrono però di problematiche relative all’autonomia: perdono capacità con il crescere dei cicli di ricarica;

Batterie agli ioni di litio: oggi le più diffuse non solo sulle auto elettriche, ma anche su una lunga serie di dispositivi elettronici, offrono una buona capacità e tempi di ricarica sempre più ridotti. Alcuni produttori hanno addirittura raggiunto livelli di autonomia record – basti pensare a Tesla e alla soglia delle 400 miglia – e i tempi di alimentazione si riducono sempre di più. La loro efficienza varia però a seconda della temperatura, mentre la capacità diminuisce lentamente con i cicli di carica;

Batterie al litio allo stato solido: evoluzione delle precedenti, rappresentano oggi una vera e propria sfida per il mercato. L’elettrolita non è più liquido ma solito: in questo modo si aumenta la densità energetica della componente, garantendo un’autonomia più generosa.

Durata



Così come già accennato, oggi gli accumulatori più utilizzati per le auto elettriche sono quelli agli ioni di litio, in attesa che le batterie allo stato solido vengano distribuite su larga scala. Queste ultime vedono un ciclo di vita esteso e anche una buona capacità di utilizzo. Tendono infatti a ridurre la propria capacità di carica tra i sei e gli otto anni di utilizzo, per poi trovare altra vita altrove.

Quando la capacità di carica scende a livelli non più sufficienti per il corretto funzionamento della vettura e per garantire l’autonomia, le batterie delle auto elettriche possono essere sostituite e riutilizzate per gli impianti domestici. Ad esempio in abbinato a pannelli solari, per recuperare energia preziose per la casa anche per altro 10-15 anni dopo la rimozione dalle quattro ruote.

Costi e manutenzione

Il pacco batteria purtroppo rappresenta ancora una delle componenti più costose di un’automobile alimentata a energia elettrica. Oggi la media mondiale è di circa 100 dollari per kWh, di conseguenza per una vettura utilitario o un city car pesano sul listino di 3.000-4.000 euro.

La manutenzione è molto ridotta, fatta eccezione per la sostituzione al termine del ciclo di vita.

fonte: www.greenstyle.it


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In cauda venenum


Il confinamento pandemico ci ha proibito le grandi e belle tavolate, ma c’è da augurarsi che almeno nell’intimità i pranzi e le cene natalizi non siano mancati. Molte saranno le persone preoccupate per le sentenze che generalmente dopo le feste emettono le bilance. Almeno altrettanto dovrebbero esserlo, però, per la quantità di pesticidi assunti, quasi sempre a fine pasto, soprattutto con la frutta: il veleno è nella coda, con puntuale riferimento all’incolpevole scorpione, recita una nota locuzione latina. Non si tratta, naturalmente, di colpevolizzare chi mangia qualche mandarino di troppo ma di segnalare, ancora una volta, le responsabilità del modello imperante di agricoltura intensiva e di ricordare, per fare solo un esempio, che l’Italia ha incredibilmente posticipato la messa al bando del glifosato al 2022. I dati che ha reso noti nei giorni scorsi la campagna Stop Pesticidi di Legambiente sono pessimi: solo il 52% dei campioni analizzati sono privi di tracce di pesticidi e i numeri peggiori riguardano proprio la frutta. L’89,2% dell’uva da tavola e l’85,9% delle pere contiene almeno uno di quei residui che, cumulati, possono favorire l’insorgere di asma allergica e di altre malattie respiratorie che possono creare un quadro nefasto sempre, ma particolarmente rischioso in periodi come questi. Liberare l’agricoltura dalla dipendenza della chimica è più necessario e urgente che mai

foto tratta da Pixabay

Il dossier Stop Pesticidi, elaborato da Legambiente e presentato questa mattina nella diretta streaming trasmessa su www.legambiente.it, http://agricoltura.legambiente.it, www.lanuovaecologia.it e sui rispettivi canali social e realizzato in collaborazione con Alce Nero, ci dice che i pesticidi più diffusi negli alimenti in Italia sono Boscalid, Dimethomorph, Fludioxonil, Acetamiprid, Pyraclostrobin, Tebuconazole, Azoxystrobin, Metalaxyl, Methoxyfenozide, Chlorpyrifos, Imidacloprid, Pirimiphos-methyl e Metrafenone. Sono per la maggior parte fungicidi e insetticidi utilizzati in agricoltura che arrivano sulle nostre tavole e che, giorno dopo giorno, mettono a repentaglio la nostra salute. I consumatori stanno chiedendo prodotti sempre più sani e sostenibili ma il business dell’agricoltura intensiva sembra non voler cedere il passo. L’edizione 2020 del rapporto dell’associazione ambientalista fotografa una situazione che vede risultare regolare e privo di residui di pesticidi solo il 52% dei campioni analizzati. Senza dubbio, un risultato non positivo e che lascia spazio a molti timori in merito alla presenza di prodotti fitosanitari negli alimenti e nell’ambiente. Analizzando nel dettaglio i dati negativi, si apprende che i campioni fuorilegge non superano l’1,2% del totale ma che il 46,8% di campioni regolari presentano uno o più residui di pesticidi.

Cattive notizie anche in merito alla quantità di residui derivanti dall’impiego di prodotti fitosanitari in agricoltura: i laboratori pubblici regionali ne hanno trovato traccia in campioni di ortofrutta e prodotti trasformati in elevata quantità. Preoccupanti inoltre i dati del multiresiduo, che – è bene ricordarlo – la legislazione europea non considera non conforme a meno che ogni singolo livello di residuo non superi il limite massimo consentito, benché sia noto da anni che le interazioni di più e diversi principi attivi tra loro possano provocare effetti additivi o addirittura sinergici a scapito dell’organismo umano. Proprio il multiresiduo risulta essere più frequente del monoresiduo, essendo stato rintracciato nel 27,6% del totale dei campioni analizzati, rispetto al 17,3% dei campioni con un solo residuo.

Pixabay

Come negli anni passati, la frutta è la categoria in cui si concentra la percentuale maggiore di campioni regolari multiresiduo. Ad essere privo di residui di pesticidi è solo il 28,5% dei campioni analizzati, mentre l’1,3% è irregolare e oltre il 70%, nonostante sia considerato regolare, presenta uno o più residui chimici. L’89,2% dell’uva da tavola, l’85,9% delle pere, e l’83,5% delle pesche sono campioni regolari con almeno un residuo. Le mele spiccano con il 75,9% di campioni regolari con residui e registrano l’1,8% di campioni irregolari. Alcuni campioni di pere presentano inoltre fino a 11 residui contemporaneamente. Situazione analoga per il pompelmo rosso e per le bacche di goji che raggiungono quota 10 residui. Diverso il quadro per la verdura: se, da una parte, si registra un incoraggiante 64,1% di campioni senza alcun residuo, dall’altro fanno preoccupare le significative percentuali di irregolarità in alcuni prodotti come i peperoni in cui si registra l’8,1% di irregolarità, il 6,3% negli ortaggi da fusto e oltre il 4% nei legumi. Tali dati, se analizzati in riferimento alla media degli irregolari per gli ortaggi, che è dell’1,6%, destano preoccupazione. Ad accomunare la gran parte delle irregolarità è il superamento dei limiti massimi di residuo consentiti per i pesticidi (54,4%) ma non mancano casi in cui è stato rintracciato l’utilizzo di sostanze non consentite per la coltura (17,6%). Nel 19,1% dei casi, poi, sono presenti entrambe le circostanze. Le sostanze attive che più hanno determinato l’irregolarità sono l’organofosforico Chlorpyrifos nell’11% dei casi e il neonicotinoide Acetamiprid nell’8% dei casi. Altro dato da sottolineare è la presenza di oltre 165 sostanze attive nei campioni analizzati. L’uva da tavola e i pomodori risultano quelli che ne contengono la maggior varietà, mostrando rispettivamente 51 e 65 miscele differenti.

Tra i campioni esteri, la Cina presenta il tasso di irregolarità maggiore (38%), seguita da Turchia (23%) e Argentina (15%). In alcuni di questi alimenti non solo sono presenti sostanze attive irregolari, ma anche un cospicuo numero di multiresiduo. È il caso, ad esempio, di un campione di bacca di goji (10 residui) e di uno di tè verde (7 residui), entrambi provenienti dalla Cina. Degno di nota è anche un campione di foglie di curry proveniente dalla Malesia nel quale, su 5 residui individuati, 3 sono irregolari. Sul fronte dell’agricoltura biologica, su 359 campioni analizzati 353 risultano regolari e senza residui, ad eccezione di un solo campione di olive, di cui però non si conosce l’origine. Non è quindi possibile, allo stato attuale, sapere se l’irregolarità è da imputare a una contaminazione accidentale, all’effetto deriva o a un uso illegale di fitofarmaci. L’ottimo risultato è ottenuto, tra le altre cose, grazie all’applicazione di ampie rotazioni colturali e pratiche agronomiche preventive, che contribuiscono a contrastare lo sviluppo di malattie e a potenziare la lotta biologica tramite insetti utili nel campo coltivato.

foto Pixabay

“Serve una drastica diminuzione dell’utilizzo delle molecole di sintesi in ambito agricolo, grazie a un’azione responsabile di cui essere tutti protagonisti – ha dichiarato Angelo Gentili, responsabile agricoltura di Legambiente -. Per capire l’urgenza di questa transizione, si pensi alla questione del glifosato, l’erbicida consentito fino al 2022, nonostante il 48% degli Stati membri dell’Ue abbia deciso di limitarne o bandirne l’impiego per la sua pericolosità; l’Italia inizi dalla sua messa al bando. Inoltre, per diminuire la chimica che ci arriva nel piatto è necessario adeguare la normativa sull’uso dei neonicotinoidi, seguendo l’esempio della Francia che da anni ha messo al bando i 5 composti consentiti dall’Ue, e approvare al più presto il nuovo Piano di Azione Nazionale sull’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari”.

“Occorre liberare l’agricoltura dalla dipendenza dalla chimica – ha aggiunto il presidente di Legambiente Stefano Ciafani – per diminuire i carichi emissivi e favorire un nuovo modello, che sposi pienamente la sostenibilità ecologica come asse portante dell’economia made in Italy, diventando un settore strategico per il contrasto della crisi climatica. Riteniamo anche necessaria una svolta radicale delle politiche agricole dell’Unione, con una revisione della Politica Agricola Comune che superi la logica dei finanziamenti a pioggia e per ettaro per trasformarsi in sostegno all’agroecologia e a chi pratica agricoltura sostenibile e biologica. Le risorse europee, comprese quelle del piano nazionale di ripresa e resilienza, vanno indirizzate all’agroecologia, in modo da accelerare la transizione verso una concreta diminuzione della dipendenza dalle molecole pericolose di sintesi, promuovendo la sostenibilità nell’agricoltura integrata e in quella biologica come apripista del modello agricolo nazionale, con l’obiettivo di giungere in Italia al 40 % di superficie coltivata a biologico entro il 2030”.

Legambiente torna a chiedere che l’Italia allinei le sue politiche al Green deal e a quanto previsto dalle strategie europee Farm to fork e Biodiversità che ambiscono a ridurre entro il 2030 del 50% l’impiego di pesticidi, del 20% di fertilizzanti, del 50% di antibiotici per gli allevamenti, destinando una percentuale minima del 10% di superficie agricola ad habitat naturali. Ritiene, inoltre, strategico approvare la legge sull’agricoltura biologica, ferma al Senato della Repubblica, come strumento per sostenere il settore. Altro aspetto da non trascurare è quello dell’etica del cibo e della legalità: se gli alimenti devono essere sani, lo deve essere anche il lavoro che li produce così come sono rilevanti i rischi per la salute dei braccianti non regolarizzati derivanti dall’esposizione diretta ai pesticidi, in assenza dei più elementari dispositivi di protezione individuale previsti dalla normativa vigente. Per questo è importante attuare misure specifiche rispetto al fenomeno del caporalato, sia attraverso politiche di prevenzione che di controllo e vigilanza e di assistenza, reintegrazione e inserimento socio-lavorativo dei braccianti sfruttati e approvare con la massima urgenza la normativa contro le aste al doppio ribasso di prodotti agroalimentari da parte della grande distribuzione.

Nota metodologica dossier Stop pesticidi

Il dossier di Legambiente Stop Pesticidi riporta i dati elaborati nel 2019 dai laboratori pubblici italiani accreditati per il controllo ufficiale dei residui di prodotti fitosanitari negli alimenti. Tali strutture hanno inviato i risultati di 5.835 campioni di alimenti di origine vegetale, di provenienza italiana ed estera, genericamente etichettati dai laboratori come campioni da agricoltura non biologica. L’elaborazione dei dati prevede la loro distinzione in frutta, verdura, trasformati e altre matrici.

fonte: comune-info.net


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Effetto cocktail: la situazione dell’accumulo dei pesticidi in Europa è sotto controllo


















Dopo molti anni di studi e di collaborazione con l’Istituto nazionale olandese per la salute pubblica e l’ambiente (RIVM), l’EFSA ha pubblicato i primi due studi su un argomento cruciale: l’effetto cocktail (o cumulativo), in questo caso dei pesticidi, sulla tiroide e sul sistema nervoso. È questo, più che la valutazione della singola sostanza, il parametro che fornisce una visione chiara sulla pericolosità di un certo composto chimico assunto cronicamente, e magari da più alimenti ogni giorno.
La conclusione generale, in entrambi i casi, è rassicurante, anche se il livello di certezza raggiunto dall’analisi dei dati varia. Per i consumatori europei il rischio dell’esposizione alimentare cumulativa è inferiore alla soglia che fa scattare meccanismi normativi, cioè ai limiti di sicurezza, e questo vale per tutte le fasce di popolazione.
Va detto che le sostanze analizzate sono quelle individuate dagli esperti come specifiche per questo tipo di rischio. I regolamenti europei prevedono che si tenga conto dell’effetto cocktail quandosi redigono i vari dossier e che questi ultimi siano aggiornati via via che si rendono disponibili nuove tecniche di analisi.


effetto cocktail
Non ci sarebbero rischi specifici per la tiroide derivanti dall’effetto cocktail dei pesticidi usati in Europa

Nello specifico, per quanto riguarda la tiroide, sono stati valutati i principali possibili effetti patologici (l’ipotiroidismo, l’ipertrofia delle cellule follicolari, il tumore e l’iperplasia) di oltre cento sostanze con due diversi sistemi di analisi (uno dell’EFSA e uno del RIVM). Le due strutture  hanno incrociato i dati inviati dai sistemi di monitoraggio degli stati membri nel periodo dal 2014 al 2016, con quelli di dieci  studi sulla popolazione condotti in diversi paesi e su fasce di età differenti (bambini, ragazzi e adulti). Il risultato è che sono sempre rispettati i limiti, e quindi non ci sarebbero rischi specifici per la tiroide derivanti dall’effetto cocktail dei pesticidi usati in Europa.
Alla stessa conclusione è giunto anche il secondo studio, condotto su più di 100 sostanze, e sullo stesso insieme di dati, sui possibili danni al cervello (tra i quali l’attività di un enzima associato alle demenze e le alterazioni motorie).
Ora il lavoro prosegue. “Nei prossimi anni” si legge nel comunicato “verranno effettuate valutazioni sugli effetti dei pesticidi su altri organi e sulle funzioni organiche. L’EFSA sta attualmente definendo un dettagliato piano di attuazione con la Commissione europea”.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

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Le “forbici molecolari” facilitano il riciclo degli pneumatici usati

Un team di chimici della McMaster ha scoperto un modo innovativo per abbattere e dissolvere la gomma utilizzata nei copertoni auto: un processo che potrebbe portare a nuovi metodi di riciclaggio chimico



















Il numero totale di pneumatici per auto prodotti e venduti in tutto il mondo, solo nel 2019, ha toccato la soglia dei 3 miliardi (stime dei ricercatori della McMaster University in Ontario). Si tratta di un numero enorme considerando che, una volta “consumati”, la maggior parte dei pneumatici usati (PFU) finisce ancora oggi in discariche o impianti di stoccaggio. Con il rischio, in caso di incendio, di rilasciare nell’aria contaminanti estremamente dannosi per l’ambiente. 
Negli anni, numerosi progetti di ricerca hanno studiato ed individuato nuove metodologie utili al riciclaggio delle componenti con questi prodotti sono realizzati.  Allo stato attuale i PFU possono essere trasformati in mattoni, asfalto e persino in carburante. Tuttavia, alcune sostanze rimangono irrecuperabili. Nel dettaglio, non si è ancora riusciti a recuperare i polimeri che compongono queste gomme. Il motivo è dovuto ai forti legami che si creano durante il processo di indurimento, in cui lo zolfo viene miscelato con gomme naturali per creare ponti tra i polimeri e trasformare il liquido in un materiale solido.

Condotto dai ricercatori canadesi della McMaster University e pubblicato su Green Chemistry, un nuovo studio potrebbe tuttavia risolvere l’annoso problema.
La chimica dello pneumatico è molto complessa e, per una buona ragione, non si presta al degrado” ha spiegato Michael Brook, professore presso il Dipartimento di Chimica e Biologia Chimica della McMaster University e autore principale dello studio. “Le proprietà che rendono gli pneumatici così durevoli e stabili su strada li rendono anche estremamente difficili da distruggere e riciclare“.
Il team di ricercatori ha pertanto sviluppato quelle che Brook ha descritto come forbici molecolari“, che funzionano tagliando i legami polimerici e “dissolvendo” il materiale gommoso. “Abbiamo trovato un modo per tagliare tutte le linee orizzontali, quindi, invece di avere una rete, si ottengono delle singole corde, che possono a loro volta essere isolate e successivamente riutilizzate molto più facilmente”.

Gli scienziati specificano comunque che la ricerca è ancora agli inizi e che la tecnica è attualmente troppo costosa per essere impiegata a livello industriale. In ogni caso, la svolta è promettente e, come confermato dai ricercatori, si lavorerà per rendere il processo più economico in vista di applicazioni più ampie. “Ci stiamo lavorando, ma questo è il primo e più importante passo“, afferma Brook. “Questo processo chiude il ciclo sulla gomma per autoveicoli, consentendo la conversione di pneumatici usati in nuovi prodotti”.

fonte: www.rinnovabili.it

Bisfenolo A nella plastica: una minaccia silenziosa (ma devastante) per la nostra salute e per l’ambiente

È dappertutto, ed è anche causa di problemi di fertilità, sviluppo neurologico e cancro, soprattutto tra i bambini. È il bisfenolo A, una sostanza chimica contenuta nelle plastiche di molti prodotti di consumo. Ma nessuno lo sa, e l’industria nega persino l’evidenza scientifica


Si trova dappertutto: nelle bottiglie d’acqua, nei giocattoli, nei materiali da costruzione, persino nel packaging di molti cibi. Ci veniamo a contatto ogni giorno, pur essendone inconsapevoli. Ma soprattutto, non sappiamo quanto faccia male. Anzi, peggio: lo sappiamo da anni, ma nessuno ha mai fatto niente per toglierlo di mezzo. Sembra la trama di un film distopico, eppure è la realtà.
Parliamo del bisfenolo A, una sostanza chimica usata come ingrediente in diversi tipi di plastiche, dal poliestere al policarbonato, e presente in centinaia di prodotti di consumo, dalle attrezzature sportive ai dispositivi medici, dalle lenti per gli occhiali agli elettrodomestici. Si trova persino nel rivestimento dei biglietti dell’autobus e nei cartoni di carta riciclata della pizza da asporto. Le industrie produttrici di plastica lo utilizzano da più di 50 anni, ma è almeno dagli anni ’30 del secolo scorso che si conoscono i rischi della sua tossicità: le sue proprietà di interferenti endocrini sono infatti responsabili di squilibri ormonali che influenzano la fertilità, lo sviluppo sessuale e intellettivo e provocano lo sviluppo di tumori. Soprattutto tra i bambini: malformazioni alla nascita, malformazioni genitali, problemi dello sviluppo neurologico, ritardi nell’apprendimento, riduzione del quoziente intellettivo e iperattività sono tra i principali disturbi riscontrati in anni di ricerche scientifiche.
Si tratta di effetti devastanti che costituiscono una minaccia per tutti. Eppure, ogni anno milioni di tonnellate di bisfenolo continuano ad essere prodotte soltanto in Europa e ad essere inserite nei prodotti che acquistiamo e consumiamo tutti i giorni. Ora la Corte di giustizia europea ha ufficialmente dichiarato che la mole di ricerche prodotte nel corso degli anni è valida, che il bisfenolo è una sostanza altamente tossica e che dunque i produttori di plastica dovranno chiaramente indicarne la presenza in quelle plastiche che lo contengono. È una buona notizia, se non fosse che si tratta solo della punta dell’iceberg: una sentenza che fa semplicemente il solletico alla reale entità del problema, secondo lo European Environmental Bureau (Eeb), il principale network di organizzazioni ambientali a livello europeo, molto attivo sul fronte delle sostanze chimiche.
«Praticamente abbiamo più ricerca scientifica disponibile sul bisfenolo A che su qualsiasi altro composto chimico sul pianeta, e pur sapendo quanto dannoso sia per l’uomo e per l’ambiente, questo continua ad essere disponibile sul mercato», dice a Linkiesta Tatiana Santos, Policy manager per le sostanze chimiche e le nanotecnologie dell’Eeb. Sì, perché, oltre che all’uomo, naturalmente il bisfenolo è altamente pericoloso anche per l’ambiente: malgrado non presenti la tendenza ad accumularsi, il fatto di essere prodotto in tutto il mondo lo porta a diffondersi nella terra, nell’aria e nei mari. Negli ambienti acquatici, per esempio, diversi studi hanno rilevato come la presenza di bisfenolo abbia portato interi gruppi di pesci a cambiare sesso, “femminilizzandosi”. Una tendenza che, com’è ovvio, mette a repentaglio la stessa sopravvivenza della specie.
Fondamentale sarebbe quindi liberarsi il prima possibile di questa sostanza. Per il momento, la sentenza della Corte europea ha stabilito di inserire il bisfenolo all’interno del cosiddetto “Elenco delle sostanze estremamente preoccupanti candidate all’autorizzazione (Candidate List of substances of very high concern for Authorisation), il che, spiega l’Eeb, di per sé non comporta un divieto o la restrizione immediata. La speranza (e l’aspettativa), però, è che ad un certo punto venga inserito nella lista delle sostanze selezionate per la graduale uscita dal mercato. Com’era intuibile, i rappresentanti dell’industria (riuniti nel network che prende il nome di PlasticsEurope) hanno comunque protestato sonoramente, ed è plausibile che presentino un ricorso. Fino a quel momento, però, l’obbligo da parte delle aziende di indicare esplicitamente la presenza della sostanza nelle materie plastiche che commerciano resta.
Il problema, però, rimane a monte, e va oltre alla sostanza in sé. Di fatto, per anni l’industria chimica ha impedito la regolamentazione della sostanza attraverso l’adozione di studi che contraddicevano l’evidenza di rischi per la salute, instillando il “dubbio” nella comunità scientifica. Un po’ come ha fatto per anni anche l’industria del tabacco. E ha potuto farlo in tutta libertà, essendo deputata essa stessa alla produzione di studi che certificassero la sicurezza dell’utilizzo del bisfenolo. «Le aziende sono responsabili di produrre i test di sicurezza sulle sostanze chimiche, ma posto che esse stesse non hanno un reale interesse a individuarne il livello di rischio, c’è un evidente conflitto di interessi», spiega Santos. «In più, l’industria ha creato un sistema che rigetta automaticamente gli studi provenienti da università e istituti di ricerca indipendenti, perché questi sono basati su peer review invece che sul sistema “GLA - Good Laboratory Practices”, che è molto costoso e che quindi solo l’industria utilizza, sebbene non sia più valido degli altri, perché non misura la qualità dello studio», dice ancora Santos. «Di fatto, hanno creato le proprie regole. Io, che di professione sono un chimico, ero scioccata quando l’ho scoperto».
Ciò nonostante, l’Agenzia europea delle sostanze chimiche, l'istituzione che dovrebbe verificare la validità e l’esaustività degli studi, non è ricettiva sull’argomento: «Dato che gli studi fatti con il metodo delle Good Laboratory Practices seguono tutti la stessa struttura, l’Echa ha risposto che erano più velocemente valutabili». Un approccio decisamente discutibile, che porta ad una sola conclusione: c’è da cambiare l’intero sistema.
In occasione dell’ultima conferenza sul futuro delle politiche chimiche, l’Eeb ha chiesto che i test sulla sicurezza delle sostanze vengano svolti unicamente da laboratori indipendenti, obbligando le aziende chimiche a versare quote all’Echa, per poi distribuire i fondi tra i vari istituti. Ma ci sarebbe da fare ancora di più: dato che la regolamentazione e l’uscita definitiva di una sostanza dal mercato richiede anni, l’industria chimica potrebbe facilmente sostituire il bisfenolo A (Bpa) con il bisfenolo S (Bps), «una sostanza che fa parte della stessa famiglia di componenti chimici, che presenta le stesse proprietà chimiche e che di fatto ha un impatto molto simile sulla salute umana», spiega l’esperta. Posto che occorrerebbero 50 o 60 anni per vietare l’utilizzo anche di quella sostanza, l’industria ha una via di fuga estremamente facile. «Bisognerebbe agire su tutto il gruppo dei bisfenoli», dice l’esperta. Anche perché le alternative ci sarebbero: esiste ad esempio un’azienda che ha scoperto che la vitamina C può essere un valido sostituto per impregnare i biglietti dei mezzi con l’inchiostro della scritta.
L’Eeb e le sue organizzazioni stanno spingendo nella direzione di un cambiamento serio e radicale, ma poiché si tratta di un tema poco alla portata del pubblico (a differenza del tabacco, sui prodotti in plastica che contengono bisfenolo non è presente una scritta del tipo “provoca il cancro”), la gente non è per nulla consapevole dei rischi a cui va incontro. Né tantomeno avrebbe possibilità di scelta, posta la vastità del numero di prodotti di cui fa uso quotidianamente. È proprio per questo che sono in primis le aziende e le istituzioni a doversi fare carico del problema.
«Io spero che il bisfenolo A sia presto designato all’uscita dal mercato e che i suoi usi principali siano vietati il prima possibile. È ancora troppo utilizzato e la posta in gioco è troppo alta. L’evidenza scientifica mostra che per queste sostanze non esiste un livello sicuro di esposizione, quindi non possiamo essere sicuri che anche in concentrazioni contenute le persone, e soprattutto i bambini, non subiscano danni permanenti», conclude Santos. «L’eliminazione dei bisfenoli deve essere presa come priorità e il sistema di valutazione deve essere cambiato in maniera più efficiente. Infine, l’industria deve smettere di negare l’evidenza e assumersi la responsabilità delle sostanze che deliberatamente inserisce nei prodotti di consumo».
fonte: https://www.linkiesta.it