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Come si ricicla una centrale nucleare



Vista dall’Italia – che con il referendum del 1987 fermò la produzione di energia nucleare sul territorio nazionale - la questione del decommissioning delle centrali è una vecchia storia che fatica a giungere ad una fine. La verità però è che, da un punto di vista globale, si tratta di una storia appena cominciata. Il parco nucleare mondiale sta invecchiando. Secondo dati della metà del 2020, i reattori attualmente operativi in tutto il mondo sono 440 distribuiti in una trentina di Paesi, con Stati Uniti (95 reattori), Francia (57) e Cina (47) in cima alla lista. Di questi, circa 270 hanno più di 30 anni. Se si considera che, fatta eccezione per gli impianti di ultima generazione, le centrali nucleari erano state originariamente progettate per una vita utile di una trentina d’anni, si capirà l’entità delle faccenda.
Gli esperti di IAEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ci forniscono qualche dato più preciso: “Oggi i reattori in stato di shutdown sono oltre 190 in 20 Paesi. Di questi, 17 sono stati completamente dismessi, mentre altri stanno per giungere alle fasi finali dello smantellamento. Nel prossimo decennio, stimiamo che verranno messi in stato di shutdown permanente altri 100 reattori in tutto il mondo”.
Insomma, che si voglia o meno continuare sulla strada del nucleare, quel che è certo è che ora bisogna fare i conti con i lasciti della prima stagione dell’energia atomica. Lasciti che, in realtà, sono costituiti da scorie radioattive solo in minima percentuale (5%) e la cui gran parte – non pericolosa - potrebbe invece essere recuperata ad altri usi. Aprendo così la porta, anche in campo di decommissioning nucleare, all’economia circolare.

Prodromi di economia circolare nel decommissioning nucleare italiano

“Pratiche di riciclo e riuso di componenti non sono in realtà nuove nel settore nucleare: si applicano sin dagli anni ‘90, prima che si cominciasse a parlare di economia circolare”, racconta Flaviano Bruno, responsabile del settore Rifiuti radioattivi di Sogin, la società pubblica che da oltre vent’anni si occupa dello smantellamento degli impianti nucleari dismessi in Italia.
Dopo il referendum del 1987, l’Italia è stata tra i primi paesi al mondo a doversi confrontare con il decommissioning nucleare. Le quattro ex centrali di Trino, Caorso, Latina e Garigliano, l'impianto di produzione di combustibili a Bosco Marengo e gli ex impianti di ricerca e ritrattamento di Saluggia, Casaccia e Rotondella vennero subito messi in condizione di safe store o custodia protettiva passiva, seguendo la pratica internazionalmente riconosciuta di “smantellamento differito”. Solo nel 1999 si avviò il cosiddetto “decommissioning accelerato” con l’entrata in gioco di Sogin. Il termine “accelerato” suona un po’ ironico se si pensa alla ormai lunga storia della dismissione nucleare italiana, tra intoppi burocratici, avvicendamenti ai vertici, sindrome Nimby e mancate assunzioni di responsabilità da parte della politica. Le lungaggini, tuttavia, vanno rapportate agli orizzonti temporali lontanissimi della gestione dei rifiuti radioattivi, dove un sito di smaltimento (come il Deposito Nazionale per i rifiuti a bassa radioattività, di cui si sta discutendo in queste settimane) va progettato per una durata di centinaia di anni, mentre un deposito geologico deve essere adatto a custodire le scorie per millenni.
Scorie radioattive a parte, sin dall’inizio del processo si è tuttavia cercato di recuperare i materiali riutilizzabili secondo pratiche che, già nel 2001, un documento redatto da IAEA ha cominciato a individuare e standardizzare. Sull’onda della crescente attenzione per l’economia circolare, nel 2019 è stata poi la stessa Sogin, forte dell’esperienza accumulata, a organizzare in collaborazione con IAEA un workshop sulle pratiche circolari per il decommissioning. Un’occasione di incontro e discussione fra esperti da tutta Europa e dal Giappone, ma anche una specie di ingresso ufficiale dell’economia circolare nel mondo del nucleare.


Credits: Sogin
Di una centrale nucleare non si butta via (quasi) niente

Che cosa si recupera, in pratica, dallo smantellamento di una centrale nucleare?

La prima cosa da sapere, spiega Flaviano Bruno a Materia Rinnovabile, “è che solo il 5% del materiale dismesso da una centrale è radioattivo. Del restante, circa un 90% può essere recuperato o riciclato, mentre un altro 5% viene smaltito come rifiuto convenzionale”.
La gran parte del materiale smantellato è costituito da cemento e metallo, separati attraverso un processo di deferrizzazione del cemento armato. Ci sono poi quantità minori di altri materiali, soprattutto plastiche, più difficili da gestire. “Il motivo principale – continua Bruno – è che non esiste un unico tipo di plastica e ciascuna ha una diversa linea di gestione, senza contare poi che, essendo le centrali piuttosto vecchie, in alcuni casi le plastiche usate non hanno più una filiera di riferimento. Inoltre, le quantità minime presenti non ci consentono di raggiungere economie di scala e il processo diventa quindi inefficiente. Ci stiamo però lavorando per migliorare ulteriormente la percentuale di riciclo”.
Secondo le stime di Sogin, il decommissioning delle centrali e degli impianti nucleari italiani permetterà di recuperare oltre un milione di tonnellate di materiale. E il recupero è già cominciato. “Ad esempio a Caorso – racconta Bruno - dove nel 2014 lo smantellamento dell’edificio Off Gas (dove si trattavano gli scarichi gassosi prima della loro emissione in atmosfera ndr) ha prodotto circa 7.000 tonnellate di calcestruzzo, trasformate poi in materia prima seconda e riutilizzate per riempire gli scavi prodotti dallo smantellamento dei sistemi interrati attigui alla struttura”. Nel complesso, dalla dismissione dell’intera centrale di Caorso la società conta di recuperare 300mila tonnellate di materiali su 320mila, ovvero il 93% del totale.
Altro esempio recente è la gestione della lana di roccia che serviva per la coibentazione dell'impianto di Latina. “Una parte della lana di roccia è stata rilasciata, mentre la porzione contaminata è stata trattata con una super pressa per ridurne il volume - continua l’ingegner Bruno - Siamo partiti da 190 metri cubi di materiale: di questi, 120 metri cubi sono stati rilasciati per il riciclo e i restanti 70 compattati, arrivando a poco più di una decina di metri cubi di materiale da smaltire”.
Ridurre al minimo i volumi dei rifiuti radioattivi è infatti uno dei principi cardine del decomissioning nucleare: viste e considerate le problematiche legate al loro smaltimento in sicurezza e alla difficoltà nel trovare un sito dove stoccarle (in Europa, per il momento, solo Finlandia e Svezia stanno costruendo un deposito geologico permanente), è fondamentale che occupino meno spazio possibile.

Radioattività e sicurezza

Tornando ai materiali riciclabili, il primo dubbio che sorge quando si parla di economia circolare applicata al settore nucleare è, ovviamente, la sicurezza. Si tratta, a dire il vero, di un dubbio profano, perché per gli addetti ai lavori è abbastanza scontato che il materiale “rilasciato” debba essere sottoposto a controlli scrupolosi per verificarne i livelli di radioattività. La trafila, anzi, comincia ben prima di partire con lo smantellamento. “Si fanno delle analisi preliminari e delle caratterizzazioni chimico-fisiche e radiologiche per riuscire a capire esattamente come gestire tutti i flussi di materiali – spiega Flaviano Bruno – È necessario infatti adottare metodi di segregazione puntuale per dividere i rifiuti radioattivi dai materiali ‘convenzionali’. Appena smontato un componente, se sappiamo che può essere rilasciato, dobbiamo gestirlo in maniera separata onde evitare che possa esserci una cross-contamination. La segregazione dei materiali avviene già a livello di logistica, con aree di stoccaggio separate, un po’ come si fa adesso negli ospedali con i rifiuti Covid. Il concetto di fondo è lo stesso: separare i flussi in modo da poter gestire il materiale in maniera coerente con quella che sarà la sua fine”.


Garigliano: smantellamento del turboalternatore (credits: Sogin)
Rilascio, riuso, riciclo

Una volta che i materiali sono stati rilasciati in sicurezza, per cosa e in quali settori si potranno riutilizzare e riciclare? La destinazione dipende dagli standard e dalle leggi vigenti in ciascun Paese. “In Italia ad esempio vige il rilascio incondizionato o free release - precisa Bruno - Significa che ciò che esce dal sistema del controllo radiologico e che quindi è rilasciabile, può essere riutilizzato senza condizioni d'uso”. In realtà, la responsabilità della società di decommissioning si estende anche oltre il momento del rilascio. “Per i metalli, secondo la legge, Sogin è responsabile fino all'atto della rifusione in fonderia. La fonderia, che ha l’obbligo di diluire di dieci volte il metallo che noi conferiamo, deve poi rimandarci indietro un certificato che attesti la procedura corretta”. Solo allora il metallo riciclato sarà effettivamente libero di rientrare nel ciclo produttivo.
Nonostante esistano degli standard europei e internazionali sulla gestione di questi materiali, la legge nazionale li supera sempre e così si possono riscontrare sostanziali differenze di gestione anche fra “vicini di casa”. Ad esempio in Francia non è ammesso nessun rilascio di materiale dal decommissioning delle centrali. Per un paese che ricava oltre il 70% della sua energia elettrica dal nucleare, la scelta di blindare tutti i materiali prodotti dalle dismissioni era sembrata inizialmente strategica per mantenere tranquilla l’opinione pubblica. “In realtà in questo modo si ottiene l’effetto contrario – commenta Bruno – La gran parte dei materiali non sono pericolosi, mentre proibendone il riutilizzo si alimenta l’idea che lo siano e quindi anche le preoccupazioni”.
In Germania, al contrario, ci sono degli standard di riutilizzo più larghi che in Italia. È permesso, infatti, il rilascio incondizionato per i materiali “puliti” e un rilascio condizionato con vari livelli, e in specifici ambiti industriali, per quelli lievemente contaminati (che in Italia non sarebbero rilasciabili). “In genere – precisa Bruno – si tratta di metalli leggermente contaminati che vengono riutilizzati ancora nel settore nucleare”.
Più difficile è fare un confronto con Paesi extra-europei, che non fanno riferimento a direttive UE che tendono a standardizzare molti approcci. “Ad esempio con gli Stati Uniti c’è proprio una differenza in alcuni aspetti gestionali, dovuti anche alla configurazione geografica: molti dei loro impianti sono in zone desertiche o comunque lontane dai centri abitati e quindi il loro approccio può essere più ‘rilassato’. Per noi europei, che abbiamo una situazione altamente antropizzata, la gestione dei materiali è più delicata perché deve sempre tenere conto degli impatti verso il sistema territoriale locale”.

Ostacoli e buone pratiche: il futuro del decommissioning circolare

Se il decommissioning nucleare è già di per sé un settore pieno di difficoltà, la strada per renderlo più circolare ha i suoi ostacoli peculiari.
A livello italiano si tratta spesso di lacune del sistema di gestione rifiuti nazionale, come spiega Flaviano Bruno: “Il nostro problema è soprattutto la distribuzione dei centri di raccolta, che non è capillare. È quindi spesso difficile trovare un centro di raccolta vicino dove conferire i materiali che rilasciamo e questo comporta dei costi economici che vanno valutati. Un sistema più capillare e più strutturato a livello nazionale ci permetterebbe di essere più efficaci”.
Più in generale, a ostacolare la circolarità del settore è lo stesso fattore che renderà questo decennio l’epoca del decommissioning nucleare: l’età delle centrali. “Gli impianti più vecchi sono stati progettati e gestiti con poca o nulla considerazione per i principi dell’economia circolare e un loro decommissioning sostenibile pone sfide non banali. - spiegano gli esperti di IAEA interpellati da Materia Rinnovabile - D'altra parte, però, le nuove centrali nucleari vengono ora progettate tenendo già conto del futuro smantellamento, della gestione dei rifiuti e dell'economia circolare, che offre l'opportunità di utilizzare soluzioni innovative. Ad esempio, i componenti dell'edificio del reattore possono essere costruiti in maniera modulare per uno smantellamento più facile oppure possono essere utilizzati materiali da costruzione più facili da decontaminare”.
Sicuramente lo scambio di buone pratiche anche con altri settori dell’industria più avanti in materia di economia circolare potrà aiutare a migliorare. “L'industria petrolifera e del gas, l'industria della demolizione convenzionale e altri comparti offrono preziose esperienze in termini di tecnologie disponibili, valutazione dei costi, valutazione del rischio. - commentano da IAEA - Tecnologie di remote handling, robotica e digitalizzazione utilizzate per la gestione di progetti complessi sono alcune delle nuove soluzioni disponibili che l'industria nucleare può applicare. Le nuove tecniche digitali consentono, ad esempio, indagini fisiche e radiologiche 3D che supportano la gestione delle informazioni sugli impianti da smantellare”.
Naturalmente è fondamentale anche il confronto interno allo stesso settore, tant’è che, dopo il primo workshop internazionale organizzato con Sogin nel 2019, la IAEA ne proporrà un altro nel 2021 in versione webinar.
Insomma, l’interesse per la circolarità, anche nel settore nucleare, è alto. Soprattutto perché, al di là del pur importante recupero di risorse, massimizzare il riciclo vuol dire minimizzare i rifiuti e quindi ridurre, almeno in volume, l’entità del problema delle scorie nucleari. Nell’attesa che alcuni dei progetti avveniristici attualmente allo studio per riutilizzare le barre di combustibile nucleare usate vedano la luce. Ma questo è un altro capitolo della storia.

fonte: www.renewablematter.eu

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Amianto e pfas: non esiste un limite minimo di sicurezza. Vanno eliminati.

 

Smisurata la famiglia delle fibre di Amianto come delle migliaia (4mila?) di Pfas. Non esiste un limite minimo di sicurezza. Esistono gli studi sulla cancerogenicità e sui danni al sistema immunitario dei Pfas. Esistono i negazionisti (al servizio dei profitti) della calamità dei Pfas, come esistevano i negazionisti per l’Amianto. La contaminazione da Pfas è ubiquitaria, la prevenzione è un problema mondiale, i Pfas vanno eliminati in tutto il mondo, come per l’Amianto (purtroppo ancora non messo al bando in tutto il mondo). Da Alessandria capitale del mesotelioma, ne tratta in video (clicca qui) il professor Daniele Mandrioli, Associate Director Cesare Maltoni Cancer Research Center Ramazzini Institute.

fonte: https://www.rete-ambientalista.it


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Il Parlamento UE chiede per i consumatori il “diritto alla riparazione”

La Commissione per il mercato interno di Strasburgo ha proposto una serie di misure per rafforzare la protezione dei consumatori e migliorare sicurezza e sostenibilità dei prodotti




Un diritto alla riparazione dei prodotti, ma anche chiare date di scadenza e standard di sicurezza più alti. Queste le nuove richieste provenienti dal Parlamento Europeo e indirizzate a Bruxelles.

L’ultime norme europee sull’ecodesign ha dato una vigorosa smossa alla sostenibilità del mercato, introducendo nuove etichette energetiche e criteri riparabilità. Peccato che i regolamenti in questione riguardassero solo 10 classi dieci di apparecchi elettrici ed elettronici. (leggi anche Ecodesign: 10 nuovi standard UE per ridurre le bollette energetiche) Per tutti gli altri beni e prodotti, si dovranno attendere i frutti del Piano d’azione per l’economia circolare UE. Parliamo del pacchetto di misure annunciato dalla Commissione Europea lo scorso 11 marzo. Il piano contiene una serie di interventi, anche legislativi, da attuare nei prossimi anni e inerenti l’intero ciclo di vita del prodotto; con l’obiettivo di migliorarne durabilità, riusabilità, riparabilità e sicurezza.

Sul tema sono tornati ieri gli eurodeputati della Commissione per il mercato interno. Il gruppo parlamentare ha votato una nuova risoluzione che chiede all’esecutivo UE precisi elementi da inserire nelle sue future politiche circolari. A cominciare dall’introduzione di un “diritto alla riparazione”: le aziende devono garantire ai consumatori l’acquisto di prodotti riparabili. Questo significa accessibili e dotati di pezzi di ricambio facilmente reperibili. “Per contrastare l’obsolescenza pianificata – si legge nella nota stampa del Parlamento UE – è necessario prendere in considerazione la limitazione delle pratiche che intenzionalmente riducono la durata di un prodotto”.

Chiedono inoltre a Bruxelles di considerare l’etichettatura di beni e servizi in base alla loro durata. Ad oggi questo elemento, se si esclude il comparto alimentare, è previsto unicamente per gli apparecchi elettrici ed elettroni e solo a partire dal prossimo anno. Ma per i deputati, estendere l’obbligo di etichettatura permetterebbe di sostenere i mercati di seconda mano, promuovendo pratiche di produzione più sostenibili. E per ridurre i rifiuti elettronici, i deputati insistono ancora su un sistema di ricarica comune per telefoni cellulari, tablet, lettori di e-book e altri dispositivi portatili.

Un occhio finisce anche sul mondo della pubblicità. Gli eurodeputati spingono su pratiche di marketing e pubblicità responsabili. Per ottenere ciò, l’UE dovrebbe adottare chiare linee guida per produttori che dichiarano di essere rispettosi dell’ambiente, assieme all’introduzione di uno specifico marchio certificato di “qualità ecologica” per i beni.

In una seconda risoluzione, gli europarlamentari hanno affrontato la questione dei prodotti non sicuri, in particolare quelli venduti sui mercati online. In questo contesto deputati chiedono le piattaforme e i mercati digitali adottino misure proattive per contrastare le pratiche fuorvianti; e che le norme comunitarie sulla sicurezza siano applicate in modo rigoroso.

fonte: www.rinnovabili.it

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Bisfenolo A nella plastica: una minaccia silenziosa (ma devastante) per la nostra salute e per l’ambiente

È dappertutto, ed è anche causa di problemi di fertilità, sviluppo neurologico e cancro, soprattutto tra i bambini. È il bisfenolo A, una sostanza chimica contenuta nelle plastiche di molti prodotti di consumo. Ma nessuno lo sa, e l’industria nega persino l’evidenza scientifica


Si trova dappertutto: nelle bottiglie d’acqua, nei giocattoli, nei materiali da costruzione, persino nel packaging di molti cibi. Ci veniamo a contatto ogni giorno, pur essendone inconsapevoli. Ma soprattutto, non sappiamo quanto faccia male. Anzi, peggio: lo sappiamo da anni, ma nessuno ha mai fatto niente per toglierlo di mezzo. Sembra la trama di un film distopico, eppure è la realtà.
Parliamo del bisfenolo A, una sostanza chimica usata come ingrediente in diversi tipi di plastiche, dal poliestere al policarbonato, e presente in centinaia di prodotti di consumo, dalle attrezzature sportive ai dispositivi medici, dalle lenti per gli occhiali agli elettrodomestici. Si trova persino nel rivestimento dei biglietti dell’autobus e nei cartoni di carta riciclata della pizza da asporto. Le industrie produttrici di plastica lo utilizzano da più di 50 anni, ma è almeno dagli anni ’30 del secolo scorso che si conoscono i rischi della sua tossicità: le sue proprietà di interferenti endocrini sono infatti responsabili di squilibri ormonali che influenzano la fertilità, lo sviluppo sessuale e intellettivo e provocano lo sviluppo di tumori. Soprattutto tra i bambini: malformazioni alla nascita, malformazioni genitali, problemi dello sviluppo neurologico, ritardi nell’apprendimento, riduzione del quoziente intellettivo e iperattività sono tra i principali disturbi riscontrati in anni di ricerche scientifiche.
Si tratta di effetti devastanti che costituiscono una minaccia per tutti. Eppure, ogni anno milioni di tonnellate di bisfenolo continuano ad essere prodotte soltanto in Europa e ad essere inserite nei prodotti che acquistiamo e consumiamo tutti i giorni. Ora la Corte di giustizia europea ha ufficialmente dichiarato che la mole di ricerche prodotte nel corso degli anni è valida, che il bisfenolo è una sostanza altamente tossica e che dunque i produttori di plastica dovranno chiaramente indicarne la presenza in quelle plastiche che lo contengono. È una buona notizia, se non fosse che si tratta solo della punta dell’iceberg: una sentenza che fa semplicemente il solletico alla reale entità del problema, secondo lo European Environmental Bureau (Eeb), il principale network di organizzazioni ambientali a livello europeo, molto attivo sul fronte delle sostanze chimiche.
«Praticamente abbiamo più ricerca scientifica disponibile sul bisfenolo A che su qualsiasi altro composto chimico sul pianeta, e pur sapendo quanto dannoso sia per l’uomo e per l’ambiente, questo continua ad essere disponibile sul mercato», dice a Linkiesta Tatiana Santos, Policy manager per le sostanze chimiche e le nanotecnologie dell’Eeb. Sì, perché, oltre che all’uomo, naturalmente il bisfenolo è altamente pericoloso anche per l’ambiente: malgrado non presenti la tendenza ad accumularsi, il fatto di essere prodotto in tutto il mondo lo porta a diffondersi nella terra, nell’aria e nei mari. Negli ambienti acquatici, per esempio, diversi studi hanno rilevato come la presenza di bisfenolo abbia portato interi gruppi di pesci a cambiare sesso, “femminilizzandosi”. Una tendenza che, com’è ovvio, mette a repentaglio la stessa sopravvivenza della specie.
Fondamentale sarebbe quindi liberarsi il prima possibile di questa sostanza. Per il momento, la sentenza della Corte europea ha stabilito di inserire il bisfenolo all’interno del cosiddetto “Elenco delle sostanze estremamente preoccupanti candidate all’autorizzazione (Candidate List of substances of very high concern for Authorisation), il che, spiega l’Eeb, di per sé non comporta un divieto o la restrizione immediata. La speranza (e l’aspettativa), però, è che ad un certo punto venga inserito nella lista delle sostanze selezionate per la graduale uscita dal mercato. Com’era intuibile, i rappresentanti dell’industria (riuniti nel network che prende il nome di PlasticsEurope) hanno comunque protestato sonoramente, ed è plausibile che presentino un ricorso. Fino a quel momento, però, l’obbligo da parte delle aziende di indicare esplicitamente la presenza della sostanza nelle materie plastiche che commerciano resta.
Il problema, però, rimane a monte, e va oltre alla sostanza in sé. Di fatto, per anni l’industria chimica ha impedito la regolamentazione della sostanza attraverso l’adozione di studi che contraddicevano l’evidenza di rischi per la salute, instillando il “dubbio” nella comunità scientifica. Un po’ come ha fatto per anni anche l’industria del tabacco. E ha potuto farlo in tutta libertà, essendo deputata essa stessa alla produzione di studi che certificassero la sicurezza dell’utilizzo del bisfenolo. «Le aziende sono responsabili di produrre i test di sicurezza sulle sostanze chimiche, ma posto che esse stesse non hanno un reale interesse a individuarne il livello di rischio, c’è un evidente conflitto di interessi», spiega Santos. «In più, l’industria ha creato un sistema che rigetta automaticamente gli studi provenienti da università e istituti di ricerca indipendenti, perché questi sono basati su peer review invece che sul sistema “GLA - Good Laboratory Practices”, che è molto costoso e che quindi solo l’industria utilizza, sebbene non sia più valido degli altri, perché non misura la qualità dello studio», dice ancora Santos. «Di fatto, hanno creato le proprie regole. Io, che di professione sono un chimico, ero scioccata quando l’ho scoperto».
Ciò nonostante, l’Agenzia europea delle sostanze chimiche, l'istituzione che dovrebbe verificare la validità e l’esaustività degli studi, non è ricettiva sull’argomento: «Dato che gli studi fatti con il metodo delle Good Laboratory Practices seguono tutti la stessa struttura, l’Echa ha risposto che erano più velocemente valutabili». Un approccio decisamente discutibile, che porta ad una sola conclusione: c’è da cambiare l’intero sistema.
In occasione dell’ultima conferenza sul futuro delle politiche chimiche, l’Eeb ha chiesto che i test sulla sicurezza delle sostanze vengano svolti unicamente da laboratori indipendenti, obbligando le aziende chimiche a versare quote all’Echa, per poi distribuire i fondi tra i vari istituti. Ma ci sarebbe da fare ancora di più: dato che la regolamentazione e l’uscita definitiva di una sostanza dal mercato richiede anni, l’industria chimica potrebbe facilmente sostituire il bisfenolo A (Bpa) con il bisfenolo S (Bps), «una sostanza che fa parte della stessa famiglia di componenti chimici, che presenta le stesse proprietà chimiche e che di fatto ha un impatto molto simile sulla salute umana», spiega l’esperta. Posto che occorrerebbero 50 o 60 anni per vietare l’utilizzo anche di quella sostanza, l’industria ha una via di fuga estremamente facile. «Bisognerebbe agire su tutto il gruppo dei bisfenoli», dice l’esperta. Anche perché le alternative ci sarebbero: esiste ad esempio un’azienda che ha scoperto che la vitamina C può essere un valido sostituto per impregnare i biglietti dei mezzi con l’inchiostro della scritta.
L’Eeb e le sue organizzazioni stanno spingendo nella direzione di un cambiamento serio e radicale, ma poiché si tratta di un tema poco alla portata del pubblico (a differenza del tabacco, sui prodotti in plastica che contengono bisfenolo non è presente una scritta del tipo “provoca il cancro”), la gente non è per nulla consapevole dei rischi a cui va incontro. Né tantomeno avrebbe possibilità di scelta, posta la vastità del numero di prodotti di cui fa uso quotidianamente. È proprio per questo che sono in primis le aziende e le istituzioni a doversi fare carico del problema.
«Io spero che il bisfenolo A sia presto designato all’uscita dal mercato e che i suoi usi principali siano vietati il prima possibile. È ancora troppo utilizzato e la posta in gioco è troppo alta. L’evidenza scientifica mostra che per queste sostanze non esiste un livello sicuro di esposizione, quindi non possiamo essere sicuri che anche in concentrazioni contenute le persone, e soprattutto i bambini, non subiscano danni permanenti», conclude Santos. «L’eliminazione dei bisfenoli deve essere presa come priorità e il sistema di valutazione deve essere cambiato in maniera più efficiente. Infine, l’industria deve smettere di negare l’evidenza e assumersi la responsabilità delle sostanze che deliberatamente inserisce nei prodotti di consumo».
fonte: https://www.linkiesta.it

Se il TAP non serve

Il processo di decarbonizzazione e la già grande capacità di importazione dell’Italia, al momento sottosfruttata, pongono un interrogativo chiave sul bisogno reale di nuove infrastrutture per l’importazione di gas.




















E’ sorprendente la mancanza dal dibattito sul gasdotto TAP di un’analisi basata sui fatti e sulle reali dinamiche economiche, energetiche e geopolitiche che determinano gli effetti e l’utilità o meno del progetto. L’ultima fantasia populista di Matteo Salvini è che con il TAP l’energia costerà il 10% in meno.
Questa si aggiunge ai motivi ricorrenti contro o a favore del progetto, dalle preoccupazioni circa la destinazione finale del gasdotto al disegno di una strategia di sicurezza energetica tutta da verificare. Tutto ciò oscura in realtà gli aspetti determinanti del TAP.
Manca inoltre un inquadramento della scelta all’interno di una visione strategica sul futuro energetico dell’Italia e dell’Europa in un momento di profonda trasformazione tecnologica e della consapevolezza che dobbiamo accelerare il processo di decarbonizzazione per limitare gli effetti destabilizzanti del cambiamento climatico in corso (vedi anche QualEnergia.it, Ma almeno ci serve il gasdotto TAP?, ndr).
Innanzitutto occorre riscontrare che la domanda di gas, sia in Italia che in Europa, è in calo strutturale. Il livello attuale dei consumi di gas in Italia è sceso a quello dei primi anni 2000 in maniera crescente grazie al contributo fondamentale dell’efficienza energetica e delle rinnovabili che sostituiscono il consumo e le importazioni di gas, e in generale quello dei combustibili fossili, nel settore termico e in quello elettrico.
L’Agenzia Internazionale dell’Energia calcola che l’efficienza energetica è stato il fattore che più ha contribuito in Europa, dunque di più delle varie congiunture economiche, a ridurre le importazioni di gas dal 2000 al 2015. Questi dati sono confermati da diversi studi di impatto della Commissione Europea, la quale calcola inoltre che ogni 1% guadagnato in efficienza energetica provoca un risparmio del 2,5% sulle importazioni di gas. L’impiego delle rinnovabili dal 2005 al 2015 ha invece permesso agli italiani di ridurre i consumi di combustibili fossili del 12%.
Nonostante normali fluttuazioni annuali, l’aspettativa predominante è che il calo continuerà trainato dalla sempre più profonda decarbonizzazione dell’economia. La Strategia Energetica Nazionale (SEN), varata alla fine 2017, stima un calo dei consumi di gas del 10% al 2030 rispetto il 2015, contribuendo così alla riduzione attesa della dipendenza energetica da importazioni di oltre dodici punti percentuali (da 76,5% nel 2015 a 63,8% nel 2030). Tutto ciò nonostante la progressiva chiusura delle centrali a carbone entro il 2025.
I dati della Commissione Europea confermano questo trend: il raggiungimento dei nuovi target europei al 2030 del 32% di energie rinnovabili e del 32,5% di efficienza energetica provocherebbe un taglio netto delle importazioni di gas in Europa equivalente alle importazioni annuali dell’Italia (circa 70 miliardi di metri cubi), con un risparmio per cittadini e imprese di oltre 10 miliardi di euro l’anno. Questi dati prendono in considerazione il calo atteso della produzione di gas interno all’Europa, soprattutto nei Paesi Bassi, che sarà così sovra-compensato dall’utilizzo sempre maggiore di rinnovabili ed efficienza energetica.
Queste sono dunque da considerarsi dirette concorrenti del gas. Il processo di decarbonizzazione e la già grande capacità di importazione dell’Italia, al momento sottosfruttata, pongono un interrogativo chiave sul bisogno reale di nuove infrastrutture per l’importazione di gas.
Il calo dei consumi di gas mette in questione l’effettiva utilità di nuovi gasdotti e rigassificatori che rischiano così di rimanere sottosfruttati e diventare investimenti non ammortizzabili. E’ difficile capire come i flussi di importazioni attesi per il TAP, stimati a 8,8 miliardi di metri cubi e legati a un contratto di fornitura dalle condizioni ignote per i prossimi 25 anni, si realizzeranno in un mercato in calo, con infrastrutture già sottoutilizzate e con prezzi potenzialmente non competitivi.
Infatti già oggi la capacità di importazione dell’Italia, di oltre 130 miliardi di metri cubi, è sfruttata in media per solo il 50%. I flussi attesi del TAP rischiano così di diventare una fantasia come anche la promessa di nuove importazioni di gas liquido dagli Stati Uniti promessa dal Presidente della Commissione Europea Juncker al Presidente americano Trump durante la sua ultima visita a Washington.
Guardando ai prezzi, studi dell’Università di Oxford mostrano come il gas del Mar Caspio rischia di non essere competitivo sui mercati europei rispetto agli approvvigionamenti esistenti fin tanto che i prezzi del gas russo, e la capacità di Gazprom di reagire alla nuova concorrenza, risultano più bassi rispetto ai prezzi di importazioni che l’Italia dovrebbe sostenere attraverso il TAP.
risparmi in bolletta promessi da Salvini rimarranno una fantasia. A questa sfavorevole situazione economica vanno aggiunti importanti fattori geopolitici che potrebbero limitare l’effettivo sviluppo delle risorse caspiche e il loro trasporto, come la disputa aperta sulla divisione delle acque territoriali del Mar Caspio tra Azerbaijan, Iran, Russia, Kazakistan e Turkmenistan, e il trasporto del gas attraverso la nuova Turchia di Erdogan.
Una strategia che punta a diversificare le rotte da un regime autoritario illiberale (Russia) e che promette dipendenza (non assicurata per i motivi di cui sopra) da fornitori e paesi di passaggio dalle credenziali altrettanto autoritarie e illiberali (Azerbaijan e Turchia) pone dei seri interrogativi sulla reale effettività della strategia e sulla credibilità europea.
In un momento di profonda trasformazione tecnologica, di crisi del multilateralismo e dei valori liberali europei e della consapevolezza di dover agire più in fretta sul fronte del cambiamento climatico occorre un ripensamento profondo di questa strategia. Il concetto di “diversificazione” deve essere allora ripensato alla luce sia di soluzioni infrastrutturali alternative, dando priorità a quelle dai benefici più alti come l’efficienza energetica e le rinnovabili, sia delle nuove relazioni internazionali che vogliamo e dobbiamo costruire nel ventunesimo secolo senza sacrificare i valori fondativi europei.
Il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi di limitare l’aumento di temperatura media globale ben al di sotto dei 2 gradi con sforzi di rimanere entro l’1,5 implica che il sistema energetico europeo deve raggiungere “zero emissioni nette” entro il 2050.
Garantire la sicurezza di un tale sistema è possibile con le tecnologie già a disposizione, come i sistemi di gestione intelligente della domanda, le smart grids, le interconnessioni e i sistemi di stoccaggio. Il problema non è tecnologico ma politico: dobbiamo fare di più per schierare le nuove tecnologie su larga scala attraverso nuove regole e nuovi investimenti.
Il mito del gas come “fonte fossile pulita”, per le sue minori emissioni rispetto al carbone, ha creato la percezione che ne possiamo disporre a piacimento senza preoccuparci dei suoi impatti climatici. Il gas è responsabile del 20% delle emissioni globali di CO2 del settore energetico e, se paragonato agli obiettivi di Parigi e alle sue conseguenze ambientali, è una fonte fossile ad alte emissioni perché senza una sua progressiva dismissione non sarà possibile raggiungere gli obiettivi e garantire la sicurezza e la prosperità di cittadini e imprese.
L’idea del gas come “fonte di transizione” o “ponte” va allora pensata all’interno degli obiettivi di Parigi e del sistema energetico del futuro che vogliamo costruire. Le infrastrutture a gas esistenti possono contribuire in modo positivo alla sicurezza e flessibilità del sistema energetico attuale fin tanto che le nuove tecnologie non siano dispiegate su larga scala. Ma è altrettanto chiaro che non vi è più spazio per nuove infrastrutture fossili se vogliamo seriamente limitare il cambiamento climatico a un livello gestibile.
Una delle lezione più importanti che emerge dal caso TAP è che prima di investire ingente capitale politico ed economico in un nuovo progetto di natura fossile occorre una seria e attenta valutazione dei costi e dei benefici alla luce degli obiettivi di Parigi e delle alternative non fossili che già oggi non solo offrono gli stessi servizi di sicurezza e flessibilità ma sono fonte di lavoro e crescita locali.
Per una decisione definitiva sul futuro del progetto, considerato lo stadio dei lavori completati al 70% e l’accordo politico tra Italia, Albania e Grecia, occorre un’accurata e trasparente valutazione dei costi e dei benefici della cancellazione del progetto.
I costi reali per i cittadini devono essere bilanciati dai benefici di breve, medio e lungo periodo derivanti dal risparmio generato dalle mancate importazioni, dagli investimenti nelle alternative pulite e i conseguenti benefici occupazionali e di crescita e dalla riduzione delle emissioni. I dati del Ministero dello Sviluppo Economico parlano chiaro: le misure di efficienza energetica attuate tra il 2005 e il 2017 hanno generato risparmi per 3,5 miliardi di euro dall’importazioni di fonti fossili ed evitato l’emissione di 34,9 milioni di tonnellate di CO2. A livello geopolitico e diplomatico, occorre un ripensamento delle relazioni internazionali a favore di scelte in linea con i trattati internazionali e i valori fondativi e gli interessi dell’Italia e dell’Europa in un clima politico e ambientale in profondo cambiamento.
fonte: https://www.qualenergia.it

Incidenti e costi lievitati: che cosa insegna il nucleare francese

Il 78% dell’elettricità francese è prodotta dalle centrali nucleari, ma il governo ha adottato una strategia per portare questa quota al 50% entro il 2025. Intanto si riapre il dibattito dopo l’esplosione all’impianto di EDF di Flamanville e le spese fuori controllo del colosso elettrico d’Oltralpe















L’industria nucleare è tornata a far parlare di sé. A fine gennaio, EDF, l’azienda elettrica francese proprietaria di tutti gli impianti nucleari attivi nel Paese, ha deciso di iniziare il lento processo che dovrebbe portare a una progressiva denuclearizzazione delle forniture elettriche d’Oltralpe. Attualmente il 78% dell’elettricità francese è prodotta da fonte nucleare, ma il governo ha adottato una strategia per portare questa quota al 50% entro il 2025. Pilastro della strategia è il limite alla potenza installata. Quindi, in previsione dell’attivazione del nuovo impianto di Flamanville, era necessario scegliere quale altro impianto disattivare. EDF ha cercato di resistere lungamente alle pressioni governative ma ha poi dovuto cedere, decidendo così di spegnere definitivamente l’impianto di Fessenheim, vicino al confine tedesco e non lontano da quello svizzero.
L’impianto di Fessenheim, 40 anni ad aprile, è il più antico tra quelli attualmente attivi. Sembra che proprio le pressioni internazionali (in particolare del governo tedesco) siano risultate decisive, dimostrando per l’ennesima volta come l’industria nucleare, nel bene e nel male, dipenda esclusivamente dalle decisioni politiche e non da quelle di mercato.
E proprio nel sito di Flamanville il 9 febbraio è avvenuto un incidente importante, anche se tutte le autorità escludono rischi di contaminazione nucleare. A Flamanville, in Normandia, è anche in costruzione un impianto che sarà tra i primi al mondo ad adottare la tecnologia EPR, insieme a quello di Olkiluoto, in Finlandia. La tecnologia EPR è quella che avrebbe adottato Enel qualora il piano di sviluppo del nucleare in Italia non fosse stato cancellato dal referendum del 2011. Gli impianti in costruzione in Francia e in Finlandia hanno subito nel tempo pesanti ritardi (Olkiluoto doveva essere completato nel 2009, Flamanville nel 2014, saranno probabilmente completati entrambi a fine 2018) oltre che enormi aumenti dei costi di realizzazione. Da 3 a 8,5 miliardi di euro per ciascun impianto.
L’incidente di ieri non riguarda l’impianto in costruzione ma quello esistente, attivo dal 1986. Peraltro, la sicurezza nucleare in Francia è tornata agli onori delle cronache fin dal 2015, quando proprio nell’impianto EPR in costruzione vennero rilevate pesanti irregolarità nell’acciaio utilizzato per i nuovi reattori. In seguito a questi test, l’Autorità nazionale di controllo decise di togliere dalla produzione due terzi dei reattori attivi per procedere a verifiche di sicurezza.
“La situazione peggiore di sempre” per l’industria nucleare francese, come ebbe a dichiarare a novembre Gérard Magnin, già consigliere di amministrazione di EDF. Per questo motivo nell’autunno 2016 l’Italia dovette annullare le importazioni di elettricità dalla Francia, con conseguenti aumenti nelle bollette di tutti i consumatori. Continua l’eterno destino del nucleare, tra promesse mancate, costi che salgono, standard di sicurezza sempre più rigidi e problemi irrisolti. Come quello delle rovine dell’impianto di Fukushima, dove all’inizio di febbraio la prima ispezione dei reattori compromessi, effettuata con robot comandati a distanza, è stata terminata prima del previsto a causa dell’altissimo livello di radiazioni, inaspettato.
I Paesi dov’è presente il maggior numero di reattori stanno definendo i loro piani di dismissione. I pochi impianti in costruzione hanno problemi e dove si progettano nuovi impianti, come recentemente nel Regno Unito, lo si fa a prezzi fuori mercato e solo per i forti legami tra industria nucleare e industria bellica.
Fortunatamente però non siamo più negli anni 80 e ormai le rinnovabili sono pronte in tutto il mondo a mantenere le promesse che il nucleare non è riuscito a realizzare.

fonte: www.altreconomia.it