Visualizzazione post con etichetta #rifiutiradioattivi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta #rifiutiradioattivi. Mostra tutti i post

Come si ricicla una centrale nucleare



Vista dall’Italia – che con il referendum del 1987 fermò la produzione di energia nucleare sul territorio nazionale - la questione del decommissioning delle centrali è una vecchia storia che fatica a giungere ad una fine. La verità però è che, da un punto di vista globale, si tratta di una storia appena cominciata. Il parco nucleare mondiale sta invecchiando. Secondo dati della metà del 2020, i reattori attualmente operativi in tutto il mondo sono 440 distribuiti in una trentina di Paesi, con Stati Uniti (95 reattori), Francia (57) e Cina (47) in cima alla lista. Di questi, circa 270 hanno più di 30 anni. Se si considera che, fatta eccezione per gli impianti di ultima generazione, le centrali nucleari erano state originariamente progettate per una vita utile di una trentina d’anni, si capirà l’entità delle faccenda.
Gli esperti di IAEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ci forniscono qualche dato più preciso: “Oggi i reattori in stato di shutdown sono oltre 190 in 20 Paesi. Di questi, 17 sono stati completamente dismessi, mentre altri stanno per giungere alle fasi finali dello smantellamento. Nel prossimo decennio, stimiamo che verranno messi in stato di shutdown permanente altri 100 reattori in tutto il mondo”.
Insomma, che si voglia o meno continuare sulla strada del nucleare, quel che è certo è che ora bisogna fare i conti con i lasciti della prima stagione dell’energia atomica. Lasciti che, in realtà, sono costituiti da scorie radioattive solo in minima percentuale (5%) e la cui gran parte – non pericolosa - potrebbe invece essere recuperata ad altri usi. Aprendo così la porta, anche in campo di decommissioning nucleare, all’economia circolare.

Prodromi di economia circolare nel decommissioning nucleare italiano

“Pratiche di riciclo e riuso di componenti non sono in realtà nuove nel settore nucleare: si applicano sin dagli anni ‘90, prima che si cominciasse a parlare di economia circolare”, racconta Flaviano Bruno, responsabile del settore Rifiuti radioattivi di Sogin, la società pubblica che da oltre vent’anni si occupa dello smantellamento degli impianti nucleari dismessi in Italia.
Dopo il referendum del 1987, l’Italia è stata tra i primi paesi al mondo a doversi confrontare con il decommissioning nucleare. Le quattro ex centrali di Trino, Caorso, Latina e Garigliano, l'impianto di produzione di combustibili a Bosco Marengo e gli ex impianti di ricerca e ritrattamento di Saluggia, Casaccia e Rotondella vennero subito messi in condizione di safe store o custodia protettiva passiva, seguendo la pratica internazionalmente riconosciuta di “smantellamento differito”. Solo nel 1999 si avviò il cosiddetto “decommissioning accelerato” con l’entrata in gioco di Sogin. Il termine “accelerato” suona un po’ ironico se si pensa alla ormai lunga storia della dismissione nucleare italiana, tra intoppi burocratici, avvicendamenti ai vertici, sindrome Nimby e mancate assunzioni di responsabilità da parte della politica. Le lungaggini, tuttavia, vanno rapportate agli orizzonti temporali lontanissimi della gestione dei rifiuti radioattivi, dove un sito di smaltimento (come il Deposito Nazionale per i rifiuti a bassa radioattività, di cui si sta discutendo in queste settimane) va progettato per una durata di centinaia di anni, mentre un deposito geologico deve essere adatto a custodire le scorie per millenni.
Scorie radioattive a parte, sin dall’inizio del processo si è tuttavia cercato di recuperare i materiali riutilizzabili secondo pratiche che, già nel 2001, un documento redatto da IAEA ha cominciato a individuare e standardizzare. Sull’onda della crescente attenzione per l’economia circolare, nel 2019 è stata poi la stessa Sogin, forte dell’esperienza accumulata, a organizzare in collaborazione con IAEA un workshop sulle pratiche circolari per il decommissioning. Un’occasione di incontro e discussione fra esperti da tutta Europa e dal Giappone, ma anche una specie di ingresso ufficiale dell’economia circolare nel mondo del nucleare.


Credits: Sogin
Di una centrale nucleare non si butta via (quasi) niente

Che cosa si recupera, in pratica, dallo smantellamento di una centrale nucleare?

La prima cosa da sapere, spiega Flaviano Bruno a Materia Rinnovabile, “è che solo il 5% del materiale dismesso da una centrale è radioattivo. Del restante, circa un 90% può essere recuperato o riciclato, mentre un altro 5% viene smaltito come rifiuto convenzionale”.
La gran parte del materiale smantellato è costituito da cemento e metallo, separati attraverso un processo di deferrizzazione del cemento armato. Ci sono poi quantità minori di altri materiali, soprattutto plastiche, più difficili da gestire. “Il motivo principale – continua Bruno – è che non esiste un unico tipo di plastica e ciascuna ha una diversa linea di gestione, senza contare poi che, essendo le centrali piuttosto vecchie, in alcuni casi le plastiche usate non hanno più una filiera di riferimento. Inoltre, le quantità minime presenti non ci consentono di raggiungere economie di scala e il processo diventa quindi inefficiente. Ci stiamo però lavorando per migliorare ulteriormente la percentuale di riciclo”.
Secondo le stime di Sogin, il decommissioning delle centrali e degli impianti nucleari italiani permetterà di recuperare oltre un milione di tonnellate di materiale. E il recupero è già cominciato. “Ad esempio a Caorso – racconta Bruno - dove nel 2014 lo smantellamento dell’edificio Off Gas (dove si trattavano gli scarichi gassosi prima della loro emissione in atmosfera ndr) ha prodotto circa 7.000 tonnellate di calcestruzzo, trasformate poi in materia prima seconda e riutilizzate per riempire gli scavi prodotti dallo smantellamento dei sistemi interrati attigui alla struttura”. Nel complesso, dalla dismissione dell’intera centrale di Caorso la società conta di recuperare 300mila tonnellate di materiali su 320mila, ovvero il 93% del totale.
Altro esempio recente è la gestione della lana di roccia che serviva per la coibentazione dell'impianto di Latina. “Una parte della lana di roccia è stata rilasciata, mentre la porzione contaminata è stata trattata con una super pressa per ridurne il volume - continua l’ingegner Bruno - Siamo partiti da 190 metri cubi di materiale: di questi, 120 metri cubi sono stati rilasciati per il riciclo e i restanti 70 compattati, arrivando a poco più di una decina di metri cubi di materiale da smaltire”.
Ridurre al minimo i volumi dei rifiuti radioattivi è infatti uno dei principi cardine del decomissioning nucleare: viste e considerate le problematiche legate al loro smaltimento in sicurezza e alla difficoltà nel trovare un sito dove stoccarle (in Europa, per il momento, solo Finlandia e Svezia stanno costruendo un deposito geologico permanente), è fondamentale che occupino meno spazio possibile.

Radioattività e sicurezza

Tornando ai materiali riciclabili, il primo dubbio che sorge quando si parla di economia circolare applicata al settore nucleare è, ovviamente, la sicurezza. Si tratta, a dire il vero, di un dubbio profano, perché per gli addetti ai lavori è abbastanza scontato che il materiale “rilasciato” debba essere sottoposto a controlli scrupolosi per verificarne i livelli di radioattività. La trafila, anzi, comincia ben prima di partire con lo smantellamento. “Si fanno delle analisi preliminari e delle caratterizzazioni chimico-fisiche e radiologiche per riuscire a capire esattamente come gestire tutti i flussi di materiali – spiega Flaviano Bruno – È necessario infatti adottare metodi di segregazione puntuale per dividere i rifiuti radioattivi dai materiali ‘convenzionali’. Appena smontato un componente, se sappiamo che può essere rilasciato, dobbiamo gestirlo in maniera separata onde evitare che possa esserci una cross-contamination. La segregazione dei materiali avviene già a livello di logistica, con aree di stoccaggio separate, un po’ come si fa adesso negli ospedali con i rifiuti Covid. Il concetto di fondo è lo stesso: separare i flussi in modo da poter gestire il materiale in maniera coerente con quella che sarà la sua fine”.


Garigliano: smantellamento del turboalternatore (credits: Sogin)
Rilascio, riuso, riciclo

Una volta che i materiali sono stati rilasciati in sicurezza, per cosa e in quali settori si potranno riutilizzare e riciclare? La destinazione dipende dagli standard e dalle leggi vigenti in ciascun Paese. “In Italia ad esempio vige il rilascio incondizionato o free release - precisa Bruno - Significa che ciò che esce dal sistema del controllo radiologico e che quindi è rilasciabile, può essere riutilizzato senza condizioni d'uso”. In realtà, la responsabilità della società di decommissioning si estende anche oltre il momento del rilascio. “Per i metalli, secondo la legge, Sogin è responsabile fino all'atto della rifusione in fonderia. La fonderia, che ha l’obbligo di diluire di dieci volte il metallo che noi conferiamo, deve poi rimandarci indietro un certificato che attesti la procedura corretta”. Solo allora il metallo riciclato sarà effettivamente libero di rientrare nel ciclo produttivo.
Nonostante esistano degli standard europei e internazionali sulla gestione di questi materiali, la legge nazionale li supera sempre e così si possono riscontrare sostanziali differenze di gestione anche fra “vicini di casa”. Ad esempio in Francia non è ammesso nessun rilascio di materiale dal decommissioning delle centrali. Per un paese che ricava oltre il 70% della sua energia elettrica dal nucleare, la scelta di blindare tutti i materiali prodotti dalle dismissioni era sembrata inizialmente strategica per mantenere tranquilla l’opinione pubblica. “In realtà in questo modo si ottiene l’effetto contrario – commenta Bruno – La gran parte dei materiali non sono pericolosi, mentre proibendone il riutilizzo si alimenta l’idea che lo siano e quindi anche le preoccupazioni”.
In Germania, al contrario, ci sono degli standard di riutilizzo più larghi che in Italia. È permesso, infatti, il rilascio incondizionato per i materiali “puliti” e un rilascio condizionato con vari livelli, e in specifici ambiti industriali, per quelli lievemente contaminati (che in Italia non sarebbero rilasciabili). “In genere – precisa Bruno – si tratta di metalli leggermente contaminati che vengono riutilizzati ancora nel settore nucleare”.
Più difficile è fare un confronto con Paesi extra-europei, che non fanno riferimento a direttive UE che tendono a standardizzare molti approcci. “Ad esempio con gli Stati Uniti c’è proprio una differenza in alcuni aspetti gestionali, dovuti anche alla configurazione geografica: molti dei loro impianti sono in zone desertiche o comunque lontane dai centri abitati e quindi il loro approccio può essere più ‘rilassato’. Per noi europei, che abbiamo una situazione altamente antropizzata, la gestione dei materiali è più delicata perché deve sempre tenere conto degli impatti verso il sistema territoriale locale”.

Ostacoli e buone pratiche: il futuro del decommissioning circolare

Se il decommissioning nucleare è già di per sé un settore pieno di difficoltà, la strada per renderlo più circolare ha i suoi ostacoli peculiari.
A livello italiano si tratta spesso di lacune del sistema di gestione rifiuti nazionale, come spiega Flaviano Bruno: “Il nostro problema è soprattutto la distribuzione dei centri di raccolta, che non è capillare. È quindi spesso difficile trovare un centro di raccolta vicino dove conferire i materiali che rilasciamo e questo comporta dei costi economici che vanno valutati. Un sistema più capillare e più strutturato a livello nazionale ci permetterebbe di essere più efficaci”.
Più in generale, a ostacolare la circolarità del settore è lo stesso fattore che renderà questo decennio l’epoca del decommissioning nucleare: l’età delle centrali. “Gli impianti più vecchi sono stati progettati e gestiti con poca o nulla considerazione per i principi dell’economia circolare e un loro decommissioning sostenibile pone sfide non banali. - spiegano gli esperti di IAEA interpellati da Materia Rinnovabile - D'altra parte, però, le nuove centrali nucleari vengono ora progettate tenendo già conto del futuro smantellamento, della gestione dei rifiuti e dell'economia circolare, che offre l'opportunità di utilizzare soluzioni innovative. Ad esempio, i componenti dell'edificio del reattore possono essere costruiti in maniera modulare per uno smantellamento più facile oppure possono essere utilizzati materiali da costruzione più facili da decontaminare”.
Sicuramente lo scambio di buone pratiche anche con altri settori dell’industria più avanti in materia di economia circolare potrà aiutare a migliorare. “L'industria petrolifera e del gas, l'industria della demolizione convenzionale e altri comparti offrono preziose esperienze in termini di tecnologie disponibili, valutazione dei costi, valutazione del rischio. - commentano da IAEA - Tecnologie di remote handling, robotica e digitalizzazione utilizzate per la gestione di progetti complessi sono alcune delle nuove soluzioni disponibili che l'industria nucleare può applicare. Le nuove tecniche digitali consentono, ad esempio, indagini fisiche e radiologiche 3D che supportano la gestione delle informazioni sugli impianti da smantellare”.
Naturalmente è fondamentale anche il confronto interno allo stesso settore, tant’è che, dopo il primo workshop internazionale organizzato con Sogin nel 2019, la IAEA ne proporrà un altro nel 2021 in versione webinar.
Insomma, l’interesse per la circolarità, anche nel settore nucleare, è alto. Soprattutto perché, al di là del pur importante recupero di risorse, massimizzare il riciclo vuol dire minimizzare i rifiuti e quindi ridurre, almeno in volume, l’entità del problema delle scorie nucleari. Nell’attesa che alcuni dei progetti avveniristici attualmente allo studio per riutilizzare le barre di combustibile nucleare usate vedano la luce. Ma questo è un altro capitolo della storia.

fonte: www.renewablematter.eu

#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

Enter your email address:

Delivered by FeedBurner

Rifiuti radioattivi saliti a quota 32mila metri cubi.

 









Il censimento 2019 dell’Isin, l’autorità nazionale per la sicurezza nucleare, mostra l’estrema urgenza di creare un deposito nazionale unico, sicuro, controllato. Ma il governo non pubblica la carta dei luoghi adatti a ospitarlo. Clicca qui.

In occasione della pubblicazione del libro (clicca qui) che documenta la storia del nucleare – da Bosco Marengo (AL) al Forum Nazionale dei Movimenti Antinucleari e al Referendum 2011, dal dopo Referendum ai governi verde-giallo-rossi – alcuni ci hanno chiesto di ricordane i protagonisti. Lo facciamo volentieri. Cliccando qui, trovi in ordine di apparizione i personaggi e gli interpreti del libro (segnalati con asterisco se classificati come buoni o cattivi o ignavi. Nonché in ordine alfabetico, tra i buonissimi, l’elenco dei sottoscrittori dei Ricorsi Amministrativi. Il libro è a disposizione di chi ne fa richiesta.

fonte: https://www.rete-ambientalista.it/


#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

Call di Sogin per la gestione dei rifiuti radioattivi. Il punto della situazione sul nucleare italiano

















Startup e PMI innovative cercasi, interessate a sviluppare tecnologie avanzate per la gestione dei rifiuti radioattivi. La Call lanciata da Sogin, società di Stato incaricata di smantellare gli impianti nucleari in Italia, punta a trovare nuove soluzioni nei processi di gestione dei rifiuti radioattivi, nella loro pianificazione, nella verifica dei risultati ottenuti e nella logistica.

Un lancio che arriva a stretto giro dalla recente audizione dei vertici di Sogin da parte della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo di rifiuti (Commissione Ecomafie), presieduta da Stefano Vignaroli. L’incontro si è tenuto in vista dell’aggiornamento del “piano a vita intera” che Sogin conta di presentare entro il 30 giugno. Un programma a lungo termine (2035) per la gestione dell’eredità atomica. Da quanto emerso, la mancata realizzazione del deposito nazionale, il non recepimento della direttiva europea e i ritardi cronici delle autorizzazioni per i cantieri continuano ad avere conseguenze pesanti su tempi e costi di gestione del decommissioning nucleare.


Rifiuti radioattivi e come gestirli

Sono tre gli ambiti di concorso della Call for Innovation “SARR – Soluzioni Avanzate per i Rifiuti Radioattivi”, lanciata da Sogin e realizzata il supporto di Digital Magics.
Bridge di interfaccia, sviluppo di soluzioni tecnologiche dedicate all’acquisizione delle informazioni raccolte dalle interfacce dei diversi sistemi, coinvolti nei processi di smantellamento e gestione dei rifiuti, da poter integrare nella piattaforma AIGOR.
Sistemi di posizionamento, sviluppo di tecnologie utili all’informazione sulla posizione indoor degli oggetti, a supporto della pianificazione e del monitoraggio della logistica interna.
Smart monitoring, fornire tecnologie per la sicurezza dei lavoratori e l’automatizzazione dei processi operativi quali il controllo dei rifiuti stoccati, la loro classificazione, anche attraverso smart label.

Le aziende interessate dovranno registrarsi entro il 26 luglio 2020 su openinnovation.sogin.it. I dieci progetti selezionati potranno presentare il loro pitch durante l’Innovation Day, programmato il 14 ottobre 2020. La startup vincitrice si aggiudicherà un premio di 12.000 euro e collaborerà con la Sogin per lo sviluppo del progetto.

Il punto sul nucleare italiano

Le incognite che pesano sulla dismissione delle centrali nucleari in Italia e sulla gestione delle scorie radioattive sono sostanzialmente due. La mancata realizzazione del deposito nazionale, ovvero l’impianto dove centralizzare le scorie, per il quale non è stato mai nemmeno avviato l’iter di scelta del sito di costruzione. I ritardi, altrettanto cronici, con cui Sogin ottiene le autorizzazioni per i cantieri dagli organi di controllo.

Il “piano a vita intera” di Sogin vale già 7,2 miliardi di euro, ma dal 2001 al 2018 il programma di smantellamento è stato realizzato per circa un terzo delle attività con costi per 3,8 miliardi di euro. Dati che suggeriscono le difficoltà cui sta andando incontro l’operazione. Secondo Vignaroli, l’Italia paga il prezzo di non aver ancora recepito la direttiva europea 59 del 2013 (Euratom) sulla la gestione dell’atomo e invita “tutte le istituzioni a fare la propria parte con il massimo impegno, perché anche il nostro Paese possa gestire i rifiuti radioattivi in sicurezza e in efficienza”.

L’ex centrale nucleare nella frazione di Borgo Sabotino del Comune di Latina
Il deposito nazionale

L’assenza del deposito nazionale è il punto nevralgico – ribadito in audizione – attorno a cui ruota il problema: un progetto da 1,5 miliardi di euro da completare entro il 2025, senza ancora un’idea su dove realizzarlo. La Cnapi, Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito, a gennaio 2015 ha individuato 100 possibili siti, ma da allora è rimasta chiusa in un cassetto. Come si può intuire, la sua pubblicazione avrà ricadute politiche importanti, perché aprirà un confronto pesante con le comunità locali, ma è il punto di partenza necessario e non procrastinabile. In attesa del deposito, infatti, l’Italia paga lo stoccaggio delle scorie presso altri Paesi europei.

A questo proposito, sono in corso trattative per il prolungamento dei contratti di mantenimento del combustibile esausto stoccato in Francia e Regno Unito, e destinato al deposito nazionale. Mentre si monitorano Paesi con quantità ridotta di scorie – Spagna, Repubblica Ceca e Ungheria – per consorziarsi nella costruzione di un deposito geologico, dove tombare i rifiuti ad alta intensità, senza passare dal deposito nazionale.

I volumi dei rifiuti radioattivi

Il deposito nazionale dovrà ospitare 72 mila metri cubi di rifiuti radioattivi, di cui il 60% dagli ex impianti nucleari e il 40% dalle aziende che producono rifiuti radioattivi, stimate da Sogin in circa 350 tra laboratori, imprese e ospedali. Proprio i volumi sono il tema su cui insiste Emanuele Fontani, amministratore delegato di Sogin, secondo cui “è importante ridurre i volumi che andranno a finire nel deposito, insistendo su efficienza, processamento innovativo dei materiali e riciclo”. Secondo Sogin, il decommissioning di otto siti nucleari, consentirebbe di riciclare oltre un milione di tonnellate di materiali, pari circa all’89% di quelli complessivamente smantellati. Sul tema del recupero di efficienza Sogin ha annunciato anche la redazione di un nuovo piano industriale mirato.
Il problema delle autorizzazioni

Il nuovo “piano a vita intera” passerà al vaglio dell’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (Arera). Per metterlo in atto servirà l’autorizzazione dall’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin), che da due anni lamenta gravi carenze di risorse e competenze in organico. Sono 119 le autorizzazioni che serviranno a Sogin nel prossimo quadriennio, alcune delle quali richieste nel 2012 e 2014, ma non ancora chiuse.

Per esempio, ci sono voluti dieci anni – sottolinea Wired – per svincolare il progetto di estrazione a secco di 64 barre di uranio-torio ad alta attività, arrivate negli anni Sessanta dalla centrale statunitense di Elk River a Rotondella, in Basilicata, per motivi di ricerca. E sono in attesa di autorizzazione gli impianti di Saluggia, Casaccia e Rotondella (che hanno chiuso i battenti negli anni Ottanta) oltre al Reattore Ispra-1, recentemente entrato nel perimetro Sogin.
Cantiere del complesso Cemex impianto Eurex di Saluggia
I progetti sul tavolo

Tra progetti sul tavolo di Sogin – e poi di Isin – ci sono anche:
la pubblicazione del bando di gara per il Cemex, il complesso di cementazione e stoccaggio dei rifiuti liquidi dell’Eurex di Saluggia;
l’avvio di bonifiche a carattere ambientale sui siti di Latina e di Bosco Marengo;
la realizzazione dell’impianto per il trattamento dei fanghi e delle resine SiCoMor, presso la centrale di Trino.
Lo sviluppo di AIGOR (Applicativo informatico di gestione oggetti radioattivi) che consente di estendere le procedure di gestione dei rifiuti radioattivi a tutte le sorgenti e a tutti i materiali potenzialmente rilasciabili, già prodotti o che verranno generati dalle future attività di decommissioning nucleare.

fonte: http://www.recoverweb.it
#RifiutiZeroUmbria - #DONA IL #TUO 5 X 1000 A CRURZ - Cod.Fis. 94157660542

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz 
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria 

L’Italia non ha ancora idea di come gestire 78mila metri cubi di rifiuti nucleari

Oltre 30mila metri cubi sono sparsi in 7 regioni, una larga parte è finita (temporaneamente) all’estero e ne produciamo di nuovi ogni giorno. Nessuno ha il coraggio di dire dove finiranno





















Tutti produciamo rifiuti, qualcosa che non vogliamo più avere tra le mani, ma più è alto il grado d’allarme e fastidio meno ne vogliamo sapere: i rifiuti radioattivi rappresentano dunque a buon ragione l’apice di questo paradigma, che in Italia accomuna una larga fetta dei cittadini come – soprattutto – della politica che li rappresenta, timorosa di perdere consenso. Negli ospedali, nelle industrie, nei laboratori di ricerca e nei vecchi impianti nucleari in via di smantellamento si producono ogni giorno rifiuti radioattivi, che non sappiamo però dove mettere. «La debolezza della politica è tutta qui – commenta la deputata LeU ed ex presidente di Legambiente, Rossella Muroni – nessuno vuole scegliere su cose difficili, si insegue il consenso e si evitano le decisioni scomode». Le audizioni in corso in questi giorni nella commissione parlamentare Ecomafie, guidata da Stefano Vignaroli, sembrano darle ragione.
Il direttore dell’Ispettorato per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin) Maurizio Pernice è stato audito oggi, ricordando che l’Isin ha realizzato un inventario nazionale dei rifiuti radioattivi: gli ultimi dati risalgono al 31 dicembre 2017, e testimoniano la presenza di 30.497 m3 sparsi in 7 regioni. Si tratta solo di una piccola parte rispetto al quantitativo iniziale, per la gran parte in attesa di rientrare in Italia dopo essere stato spedito temporaneamente all’estero. Dovranno finire tutti in un unico deposito nazionale per essere custoditi con maggiore sicurezza: un progetto da 1,5 miliardi di euro, ma nessuno ha ancora idea di dove sarà realizzato. Si tratta infatti di spiegare all’opinione pubblica che nel deposito saranno stoccati circa 78mila metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media attività – la cui radioattività decade a valori trascurabili nell’arco di 300 anni – 50mila dei quali rappresentano le pesante eredità degli impianti nucleari italiani in via di smantellamento, e altri 28mila arrivano dalla ricerca, dalla medicina nucleare (dalle lastre in su) e dall’industria. Sul totale di 78mila metri cubi circa 33mila sono già stati prodotti, mentre i restanti si stima verranno prodotti nei prossimi 50 anni.
L’attività di gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi in Italia è affidata alla Sogin, con costi individuati in 7,2 miliardi di euro, ovvero 400 milioni in più rispetto ai 6,8 miliardi stimati all’inizio. Di certo c’è che dal 2001 al 2018 il programma di smantellamento è stato realizzato per circa un terzo delle attività ma è già costato 3,8 miliardi di euro, pari a poco più del 50% del budget. Vanno aggiunti inoltre gli 1,5 miliardi previsti per la realizzazione del deposito nazionale, ma qui come già detto il problema principale non sono i soldi, ma il dove.
Nella Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) a ospitare il deposito sono stati individuati 100 possibili siti ormai dal gennaio 2015, ma da allora è sempre rimasta chiusa in un cassetto. E non ne uscirà a breve. Il sottosegretario Davide Crippa, audito ieri nella commissione Ecomafie, ha riferito che si prevede di concludere l’iter necessario alla pubblicazione della Carta entro la fine del 2019 e l’inizio del 2020; una speranza più che una certezza, visti i pregressi.
Non a caso Crippa spiegato che a gennaio scorso si è concordato di apportare una modifica allo schema di Programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi – non ancora approvato – per garantire che lo smaltimento in sicurezza dei rifiuti radioattivi italiani possa avvenire parzialmente all’estero. Ma chi vorrà prenderli, e a quali costi per il contribuente italiano? Ad oggi sono state trasportate in Francia circa 222 tonnellate provenienti dalle ex centrali nucleari italiane, e altre 13 tonnellate sono in attesa dello stesso destino dal deposito Avogadro. L’esecuzione di questi ultimi trasporti è subordinata però da parte francese a precise garanzie del Governo italiano di ripresa in carico dei rifiuti: secondo gli accordi vigenti la scadenza è prevista nel 2025, ma per allora è praticamente impossibile che il nostro deposito nazionale possa essere pronto.
Tutto, pur di non gestire i propri rifiuti. Tanto che ad oggi sono tre le procedure di infrazione europee in corso: Crippa ha spiegato che la legge europea 2018 colma alcune lacune normative ed è il presupposto per chiudere la procedura 2018/2021. Nessuna novità invece sul fronte delle procedure 2016/2027 per la mancata trasmissione del Programma nazionale alla Commissione europea e 2018/2044 per la mancata attuazione della direttiva 2013/59/Euratom.
fonte: www.greenreport.it

Allarme radioattivo all’inceneritore del Gerbido: camion di rifiuti in isolamento

Al Termovalorizzatore scatta il massimo livello di emergenza: tracce di Iodio 131 in un compattatore in ingresso all’impianto
















Allarme radioattivo, ieri pomeriggio, 7 giugno, al termovalorizzatore del Gerbido. Un camion compattatore, mentre stava transitando sotto lo scanner che controlla l’accesso dei mezzi che trasportano rifiuti, è stato fermato per ragioni di sicurezza. I dispositivi elettronici hanno rilevato la presenza di materiale radioattivo miscelato nella spazzatura e fatto scattare l’allarme. All’interno del compattatore è stata segnalata la presenza elevata di Iodio 131, un radioisotopo utilizzato in medicina nucleare.
Si tratterebbe di un rifiuto radioattivo, proveniente quasi sicuramente da ambienti ospedalieri, che non può essere gettato nella fossa destinata all’incenerimento senza un trattamento ad hoc. E così sono scattate le procedure di controllo del caso.


Da qui l’allarme di livello tre, che è il massimo su una scala relativa alla pericolosità dei rifiuti. Non ci sono stati problemi per il personale ed è stata subito informata l’Arpa. Per i controlli del caso sono stati chiamati i vigili del fuoco, che assieme ai tecnici di Trm hanno controllato il compattatore dopo averlo messo in isolamento. Lo iodio 131 si ritrova spesso all’interno dei pannoloni usati dai pazienti che seguono cicli di chiemioterapia. La procedura, in questi casi, prevede che il camion segnalato resti fermo per qualche giorno: il tempo necessario alla sostanza di perdere il suo potere radioattivo. E poi il contenuto può essere trattato.
Da Trm rassicurano: «Il ritrovamento di rifiuti con la presenza di iodio 131 non è così rara. A seconda della quantità riscontrata, si seguono le azioni conseguenti. L’intervento dei vigili del fuoco è conseguente alla presenza di una percentuale più alta del normale. Ma non ci sono pericoli. E il modus operandi resta sempre lo stesso». In passato, la procura aveva indagato sul termovalorizzatore e nello specifico proprio sulla capacità di stoccaggio della quantità dei materiali radioattivi.
fonte: www.lastampa.it

Rifiuti radioattivi, siamo seduti su una bomba: nel Bresciano l'enorme discarica che sta inquinando la falda acquifera

Nel Bresciano c’è la più grande discarica radioattiva d’Italia. I veleni hanno raggiunto la falda acquifera e oltre 86mila tonnellate di rifiuti radioattivi si trovano in aziende e discariche. Eppure il fenomeno rimane in larga parte sommerso.

















Una lunga inchiesta, quella di Milena Gabanelli e Pietro Gorlani che su Corriere.it, raccontano della bomba ecologica del Nord est, facendo una mappa dei rifiuti che si trovano nel cuore industriale del Paese, ovvero Lombardia e Veneto.
In Lombardia- si legge nell’inchiesta- sono state fuse in fonderie e acciaierie fonti di Cesio 137, di Radio 226 e di Cobalto 60, arrivate quasi sempre dall’Est Europa.
“Erano nascoste in involucri di piombo infilati dentro i camion di rottami, in modo da sfuggire ai controlli. Una volta finiti nei forni hanno contaminato gli impianti di abbattimento fumi, le polveri, i lingotti di acciaio e di alluminio”.
Caso emblematico è quello della discarica Metalli Capra di Capriano del Colle, la più grande discarica radioattiva d’Italia, con ben 82500 tonnellate di scorie al Cesio 137 che si trovano in un parco agricolo. Sempre in un parco urbano c’è l’ex Cagimetal, con 1800 tonnellate di scorie sempre contenenti Cesio. In molti casi, invece, i rifiuti radioattivi sono rimasti nelle acciaierie e per evitare disastri ecologici, la prefettura di Brescia ha realizzato bunker in cemento armato per stoccare le polveri.
E andiamo in Lombardia, dove ancora non sono state messe in sicurezza le 370 tonnellate di scorie che si trovano dentro la fonderia Premoli a Rovello Porro, nel Comasco. Mentre le istituzioni locali sostengono che non bisogna allarmarsi- sostiene la Gabanelli- l’Arpa Lombardia parla di “cumuli di veleni e fusti corrosi conservati in pessimo stato, vicinissimi alle abitazioni ed al torrente Lura, che in caso di esondazione provocherebbe una catastrofe ecologica”.
rifiuti radioattivi
“La messa in sicurezza delle scorie radioattive viene pagata da tutti gli italiani con accise presenti nelle bollette della luce. Lo Stato fino ad oggi ha riservato tutte le risorse (3,7 miliardi) alla gestione e allo smantellamento delle quattro ex centrali nucleari, dei cinque reattori di ricerca e dei quattro impianti sperimentali, il cui potere radioattivo è 40 mila volte superiore ai siti a bassa radioattività”, spiega la Gabanelli.
Ma dopo quasi 20 anni, non si è nemmeno a metà strada e i rifiuti radioattivi sono in tutto il paese.
fonte: www.greenme.it

Rifiuti, è ora di darsi una mossa. La raccolta differenziata non basta più












Arriva in questi giorni la notizia del deferimento dell’Italia alla Corte europea per una serie di infrazioni di tipo ambientale: la questione degli olivi e della Xylella, l’inquinamento da pm10 e la gestione dei rifiuti radioattivi. Non sono cose da prendere sottogamba, ma indicazioni che la gestione ambientale in Italia è carente sotto molti aspetti ed è destinata a diventarlo ancora di più, soprattutto in vista del decreto sull’economia circolare approvato recentemente dall’Unione europea. In sostanza, molte cose stanno arrivando a un punto critico e non basta più una gestione “cosmetica” dei rifiuti, basata sulla raccolta differenziata dei rifiuti urbani.
Per prima cosa, la situazione climatica sta rapidamente degenerando, come appare da vari sintomi come la fusione dei ghiacci polari e il rallentamento della corrente del Golfo. Diventa critico, a questo punto ridurre le emissioni di gas serra, ma per questo ci vuole uno sforzo determinato che spinga verso la sostituzione dei fossili con le rinnovabili. Questa necessità va insieme a quella di ridurre l’uso della plastica nel ciclo economico: la plastica sembrava una buona idea 50 anni fa, ora ci stiamo accorgendo dei danni che sta facendo. Stiamo impestando mezzo mondo con residui di plastica che poi vanno a finire in quello che mangiamo.

Bruciare o riciclare la plastica fa poca differenza: è sempre un prodotto che nasce dal petrolio e l’unico modo per ridurne l’impatto è di usarne meno; molto meno. Anche qui, non bastano comportamenti virtuosi a livello individuale, bisogna intervenire a livello legislativo in modo da scoraggiare l’uso della plastica dovunque sia diventata soltanto una cattiva abitudine, come nel caso di posate, piatti e bicchieri in plastica. Si sta pensando a un provvedimento generalizzato a livello europeo per limitare l’uso di questi e altri tipi di plastica.
Ma è il concetto stesso di “rifiuto” che sta evolvendo e diventando parte del concetto più generale di “economia circolare”. Qui, non abbiamo alternative: l’Italia è un Paese dove le materie prime di origine minerale sono state ormai sfruttate fino ai loro limiti pratici. Quel poco che resta – per esempio in termini di petrolio e di gas – non durerà molto a lungo. Dipendere al 100% dalle importazioni è rischioso e, in ogni caso, anche i Paesi esportatori hanno lo stesso problema: il graduale esaurimento delle loro risorse.
Perciò dobbiamo attrezzarci usando l’energia che ci viene dal sole per riutilizzare e riciclare i prodotti dell’economia industriale. L’Europa ci sta spronando in quella direzione ma queste cose non si fanno senza grossi sforzi finanziari. Non basta cambiare governo per risolvere i problemi: bisogna lavorarci sopra tutti quanti. È una grande sfida, ma non è impossibile.
Ugo Bardi
fonte: www.ilfattoquotidiano.it

Lago Powell, un paradiso che nasconde 26mila tonnellate di rifiuti radioattivi



















Lago Powell, un bacino artificiale a cavallo del confine tra Utah e Aziona, negli Usa. Un luogo molto amato dagli americani, con le sue acque di un colore blu intenso e i panorami mozzafiato. Ma sotto la superficie il lago nasconde grandi quantità di rifiuti radioattivi.

Ogni anno, circa 3 milioni di visitatori vengono attratti dal lago Powell, con jet ski, motoscafi e yacht simili a lussuose case galleggianti. Ma sotto le scintillanti scogliere di roccia rossa, nascoste dagli occhi dei turisti, si celano 26.000 tonnellate di rifiuti radioattivi. I rifiuti sono coperti dal limo presente sul fondo.
Il lago Powell è un bacino artificiale creato sul fiume Colorado con la costruzione della diga di Glen Canyon. Lungo quasi 300 km, presenta acque molto chiare che possono raggiungere una profondità di 170 metri. Nato a seguito della costruzione della diga, è il secondo più grande degli Stati Uniti con 3.057 km di costa e una superficie di 658 km².
Fa parte di un sistema che fornisce acqua potabile a 40 milioni di persone nel sud-ovest degli Stati Uniti. Una vera e propria bomba, che minaccia la salute degli abitanti.
Da dove provengono i rifiuti radioattivi?
Si tratta di un residuo del boom dell'uranio avvenuto attorno alla metà del secolo scorso nell'Ovest americano. Il White Canyon Mill, costruito dalla Vanadium Corporation of America nel 1949, ad esempio, frantumava e trattava 20 tonnellate di minerali al giorno con acido solforico, tributilfosfato e altri composti, su richiesta del Freedom of Information Act. Con una tonnellata di minerale si generavano circa 2-2,5 kg di uranio. Giornalmente, sulle rive del fiume si accumulavano circa 18 tonnellate di materiali, secondo Jonathan Thompson, autore di River of Lost Souls. Anche se il White Canyon Mill venne chiuso nel 1953 e la Vanadium Corp. fallì, i materiali rimanevano. Quando l'acqua cominciò ad accumularsi dietro la diga del Glen Canyon circa un decennio dopo, le acque del bacino idrico ricoprirono quei rifiuti.
Per assurdo, i rifiuti radioattivi non sono considerati particolarmente pericolosi. Tuttavia, sappiamo che anche piccole tracce possono provocare danni alla salute, dalla cataratta al cancro, e i pericoli potrebbero aumentare ancora di più se il Lago Powell fosse colpito da un periodo di prolungata siccità. A quel punto, i veleni nascosti sul fondale sarebbero più in superficie. Cosa che è già successa. La siccità dal 2000 al 2005 ha fatto scendere il livello dell'acqua di circa 30 metri.
“Le persone che godono Lake Powell, non sono esposte a nulla che possa far loro del male”dice Phil Goble, responsabile della sezione materiali radioattivi per il dipartimento di qualità ambientale dell'Utah. “Gli scarti di una fabbrica che tratta uranio producono uno spreco sabbioso che contiene metalli pesanti e radio, che è radioattivo, ma questi materiali sterili sono laggiù dagli anni '50, con diversi metri di sedimento sopra di essi e l'acqua usata come filtro o scudo”.
L'Agenzia per la protezione ambientale (Epa) spiega che sono due i sistemi idrici pubblici che attingono direttamente dal lago Powell: la Navajo Generating Station e la città di Page, in Arizona.






“Tutti i sistemi idrici comunitari sono tenuti a monitorare e soddisfare gli standard stabiliti per l'acqua potabile per una suite di radionuclidi”, afferma Nahal Mogharabi, portavoce dell'EPA 9 (Pacific Southwest). “Il sistema idrico della città di Page sta servendo acqua potabile che soddisfa gli standard per i radionuclidi”.
Ma non tutti sono così ottimisti. “Non abbiamo motivo di dubitare che ci siano significative scorie radioattive sotto il lago Powell", afferma Sandy Bahr, direttore del Grand Canyon Sierra Club (Arizona) "Quello che abbiamo detto più volte sulla miniera e sulle fabbriche di uranio è che non vale il rischio per la nostra acqua potabile”.
Gli abitanti dovranno incrociare le dita e sperare che il lago non sperimenti lunghi periodi di siccità. Di certo, è poco rassicurante sapere che le acque in cui si fa il bagno o peggio quelle bevute siano a contatto con rifiuti radioattivi.
fonte: www.greenme.it





Passo avanti nell’iter per il deposito dei rifiuti radioattivi

Passate le elezioni, l’ISPRA trasmette al governo la carta delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi

















“L’ISPRA ha consegnato nei giorni scorsi al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del Mare e al Ministero dello Sviluppo Economico un aggiornamento della relazione prevista dal D.Lgs. n.31/2010 sulla proposta di Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee (CNAPI) alla localizzazione del Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi predisposta dalla Sogin SpA”.
Comincia così il comunicato dell’ISPRA uscito il giorno dopo le elezioni, e forse per questo sfuggito ai media. La pubblicazione della carta era stata promessa prima della tornata elettorale dal Ministro Calenda, titolare del dicastero dello Sviluppo Economico. Ma i tempi stretti, e soprattutto l’opportunità politica di mettere un simile tema nelle urne, hanno portato ad uno spostamento.


La relazione dell’ISPRA al governo, così come la proposta di CNAPI avanzata da Sogin, è stata classificata come riservata. Manterrà questa segretezza fino alla pubblicazione (a cura di Sogin) a seguito del nulla osta rilasciato dai Ministeri coinvolti. Da qui inizierà un percorso così strutturato: dopo quattro anni di consultazioni con le comunità locali nelle aree considerate idonee ad ospitare le scorie nucleari italiane, bisognerà individuare il sito per la costruzione del deposito. Le operazioni richiederanno altri quattro anni, perciò – se la carta delle aree idonee sarà pubblicata nei prossimi mesi, entro il 2026 l’iter si dovrebbe concludere.
In realtà, è ragionevole pensare che ci vorrà più tempo: non è affatto semplice far digerire a una comunità la costruzione di un deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, non è semplice costruirlo con appalti trasparenti e non è detto che bastino quattro anni a finire i lavori. Intanto, però, i siti temporanei si avvicinano alla capienza massima. Come ha ricordato la presidente della Commissione Ecomafie, Chiara Braga, ad esempio, “lo stoccaggio a medio termine dei rifiuti sanitari radioattivi contenenti radionuclidi avviene nel deposito temporaneo Nucleco in Casaccia, ed è del tutto evidente che la continua e costante produzione negli anni di rifiuti radioattivi in ambito sanitario porterà ad un ulteriore aggravamento della già difficile capacità di gestione dei volumi prodotti”.

fonte: www.rinnovabili.it

Le strutture sanitarie italiane producono 2.700 metri cubi di rifiuti radioattivi l’anno

Braga: «Lo smaltimento quasi sempre avviene presso impianti di incenerimento in base alla normativa vigente». Ma manca ancora il Deposito nazionale





















Tra le quattro relazioni approvate ieri all’unanimità dalla cosiddetta commissione Ecomafie spicca la Relazione sulla gestione dei rifiuti radioattivi prodotti nella attività sanitarie, il cui testo sarà disponibile a breve sul sito della Camera dei deputati. Come ha illustrato la presidente della commissione Chiara Braga (nella foto, ndr), quello toccato dalla relazione è «un tema che non era mai stato indagato dalla commissione rifiuti».
«È stato realizzato un censimento – argomenta Braga – analizzando sia il lato della produzione che il sistema di trattamento. È stato inviato un questionario a tutte le strutture sanitarie segnalate dalla Regioni, con una copertura di più del 90%, pari a 750 unità. Questo lavoro ha permesso di ricostruire un quadro complessivo, con 2700 mc di rifiuti prodotti nel 2015 a livello nazionale. L’82% dei rifiuti radioattivi sanitari vengono gestiti direttamente da chi li produce, fino al raggiungimento delle condizioni di smaltimento che quasi sempre avviene presso impianti di incenerimento in base alla normativa vigente. La quota restante è gestita dalla rete di operatori del servizio integrato gestito da Enea, che assicurano una corretta gestione dei rifiuti in questione. Sarebbe importante acquisire i dati di controllo prima dello smaltimento finale, per dare un riscontro di garanzia ai cittadini sulla filiera, riguardo a un tema particolarmente sensibile come quello della gestione dei rifiuti radioattivi».
Tra i principali problemi che meriterebbero di essere affrontati con celerità è necessario poi sottolineare la mancanza del Deposito nazionale: un’infrastruttura ambientale di superficie dove mettere in sicurezza i rifiuti radioattivi prodotti in Italia, generati dall’esercizio e dallo smantellamento delle centrali e degli impianti nucleari, dalle attività di medicina nucleare, industriali e di ricerca. Tale Deposito dovrà consentire – come spiegano dalla Sogin – dovrà la sistemazione definitiva di circa 75 mila metri cubi di rifiuti di bassa e media attività e lo stoccaggio temporaneo di circa 15 mila metri cubi di rifiuti ad alta attività, che dovranno essere a loro volta successivamente trasferiti in un deposito geologico di profondità. Dei circa 90 mila metri cubi di rifiuti radioattivi, il 60% deriverà dalle operazioni di smantellamento degli impianti nucleari, mentre il restante 40% dalle attività di medicina nucleare, industriali e di ricerca, che continueranno a generare rifiuti anche in futuro. Il problema è che tale Deposito è atteso da anni, senza che ancora sia stato neanche scelto il luogo adibito ad ospitarlo.
La Carta delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) ad ospitare il Deposito nazionale doveva essere stata consegnata alla cittadinanza tre anni fa, e lo scorso giugno il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda – interrogato sul tema proprio dalla commissione Ecomafie – aveva affermato che la Cnapi sarebbe stata pubblicata entro fine 2017. Promessa difficile da mantenere in piena campagna elettorale vista la delicatezza del tema, e che difatti è stata disattesa.

E così la nuova presidente della commissione Ecomafie, Chiara Braga, è tornata a raccomandare che «si accelerino i tempi per la realizzazione del deposito nazionale attraverso la pubblicazione della carta nazionale delle aree potenzialmente idonee, con l’avvio della consultazione pubblica». Ma una data certa è ancora ben lontana dal delinearsi.

fonte: www.greenreport.it