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Bisfenolo A nella plastica: una minaccia silenziosa (ma devastante) per la nostra salute e per l’ambiente

È dappertutto, ed è anche causa di problemi di fertilità, sviluppo neurologico e cancro, soprattutto tra i bambini. È il bisfenolo A, una sostanza chimica contenuta nelle plastiche di molti prodotti di consumo. Ma nessuno lo sa, e l’industria nega persino l’evidenza scientifica


Si trova dappertutto: nelle bottiglie d’acqua, nei giocattoli, nei materiali da costruzione, persino nel packaging di molti cibi. Ci veniamo a contatto ogni giorno, pur essendone inconsapevoli. Ma soprattutto, non sappiamo quanto faccia male. Anzi, peggio: lo sappiamo da anni, ma nessuno ha mai fatto niente per toglierlo di mezzo. Sembra la trama di un film distopico, eppure è la realtà.
Parliamo del bisfenolo A, una sostanza chimica usata come ingrediente in diversi tipi di plastiche, dal poliestere al policarbonato, e presente in centinaia di prodotti di consumo, dalle attrezzature sportive ai dispositivi medici, dalle lenti per gli occhiali agli elettrodomestici. Si trova persino nel rivestimento dei biglietti dell’autobus e nei cartoni di carta riciclata della pizza da asporto. Le industrie produttrici di plastica lo utilizzano da più di 50 anni, ma è almeno dagli anni ’30 del secolo scorso che si conoscono i rischi della sua tossicità: le sue proprietà di interferenti endocrini sono infatti responsabili di squilibri ormonali che influenzano la fertilità, lo sviluppo sessuale e intellettivo e provocano lo sviluppo di tumori. Soprattutto tra i bambini: malformazioni alla nascita, malformazioni genitali, problemi dello sviluppo neurologico, ritardi nell’apprendimento, riduzione del quoziente intellettivo e iperattività sono tra i principali disturbi riscontrati in anni di ricerche scientifiche.
Si tratta di effetti devastanti che costituiscono una minaccia per tutti. Eppure, ogni anno milioni di tonnellate di bisfenolo continuano ad essere prodotte soltanto in Europa e ad essere inserite nei prodotti che acquistiamo e consumiamo tutti i giorni. Ora la Corte di giustizia europea ha ufficialmente dichiarato che la mole di ricerche prodotte nel corso degli anni è valida, che il bisfenolo è una sostanza altamente tossica e che dunque i produttori di plastica dovranno chiaramente indicarne la presenza in quelle plastiche che lo contengono. È una buona notizia, se non fosse che si tratta solo della punta dell’iceberg: una sentenza che fa semplicemente il solletico alla reale entità del problema, secondo lo European Environmental Bureau (Eeb), il principale network di organizzazioni ambientali a livello europeo, molto attivo sul fronte delle sostanze chimiche.
«Praticamente abbiamo più ricerca scientifica disponibile sul bisfenolo A che su qualsiasi altro composto chimico sul pianeta, e pur sapendo quanto dannoso sia per l’uomo e per l’ambiente, questo continua ad essere disponibile sul mercato», dice a Linkiesta Tatiana Santos, Policy manager per le sostanze chimiche e le nanotecnologie dell’Eeb. Sì, perché, oltre che all’uomo, naturalmente il bisfenolo è altamente pericoloso anche per l’ambiente: malgrado non presenti la tendenza ad accumularsi, il fatto di essere prodotto in tutto il mondo lo porta a diffondersi nella terra, nell’aria e nei mari. Negli ambienti acquatici, per esempio, diversi studi hanno rilevato come la presenza di bisfenolo abbia portato interi gruppi di pesci a cambiare sesso, “femminilizzandosi”. Una tendenza che, com’è ovvio, mette a repentaglio la stessa sopravvivenza della specie.
Fondamentale sarebbe quindi liberarsi il prima possibile di questa sostanza. Per il momento, la sentenza della Corte europea ha stabilito di inserire il bisfenolo all’interno del cosiddetto “Elenco delle sostanze estremamente preoccupanti candidate all’autorizzazione (Candidate List of substances of very high concern for Authorisation), il che, spiega l’Eeb, di per sé non comporta un divieto o la restrizione immediata. La speranza (e l’aspettativa), però, è che ad un certo punto venga inserito nella lista delle sostanze selezionate per la graduale uscita dal mercato. Com’era intuibile, i rappresentanti dell’industria (riuniti nel network che prende il nome di PlasticsEurope) hanno comunque protestato sonoramente, ed è plausibile che presentino un ricorso. Fino a quel momento, però, l’obbligo da parte delle aziende di indicare esplicitamente la presenza della sostanza nelle materie plastiche che commerciano resta.
Il problema, però, rimane a monte, e va oltre alla sostanza in sé. Di fatto, per anni l’industria chimica ha impedito la regolamentazione della sostanza attraverso l’adozione di studi che contraddicevano l’evidenza di rischi per la salute, instillando il “dubbio” nella comunità scientifica. Un po’ come ha fatto per anni anche l’industria del tabacco. E ha potuto farlo in tutta libertà, essendo deputata essa stessa alla produzione di studi che certificassero la sicurezza dell’utilizzo del bisfenolo. «Le aziende sono responsabili di produrre i test di sicurezza sulle sostanze chimiche, ma posto che esse stesse non hanno un reale interesse a individuarne il livello di rischio, c’è un evidente conflitto di interessi», spiega Santos. «In più, l’industria ha creato un sistema che rigetta automaticamente gli studi provenienti da università e istituti di ricerca indipendenti, perché questi sono basati su peer review invece che sul sistema “GLA - Good Laboratory Practices”, che è molto costoso e che quindi solo l’industria utilizza, sebbene non sia più valido degli altri, perché non misura la qualità dello studio», dice ancora Santos. «Di fatto, hanno creato le proprie regole. Io, che di professione sono un chimico, ero scioccata quando l’ho scoperto».
Ciò nonostante, l’Agenzia europea delle sostanze chimiche, l'istituzione che dovrebbe verificare la validità e l’esaustività degli studi, non è ricettiva sull’argomento: «Dato che gli studi fatti con il metodo delle Good Laboratory Practices seguono tutti la stessa struttura, l’Echa ha risposto che erano più velocemente valutabili». Un approccio decisamente discutibile, che porta ad una sola conclusione: c’è da cambiare l’intero sistema.
In occasione dell’ultima conferenza sul futuro delle politiche chimiche, l’Eeb ha chiesto che i test sulla sicurezza delle sostanze vengano svolti unicamente da laboratori indipendenti, obbligando le aziende chimiche a versare quote all’Echa, per poi distribuire i fondi tra i vari istituti. Ma ci sarebbe da fare ancora di più: dato che la regolamentazione e l’uscita definitiva di una sostanza dal mercato richiede anni, l’industria chimica potrebbe facilmente sostituire il bisfenolo A (Bpa) con il bisfenolo S (Bps), «una sostanza che fa parte della stessa famiglia di componenti chimici, che presenta le stesse proprietà chimiche e che di fatto ha un impatto molto simile sulla salute umana», spiega l’esperta. Posto che occorrerebbero 50 o 60 anni per vietare l’utilizzo anche di quella sostanza, l’industria ha una via di fuga estremamente facile. «Bisognerebbe agire su tutto il gruppo dei bisfenoli», dice l’esperta. Anche perché le alternative ci sarebbero: esiste ad esempio un’azienda che ha scoperto che la vitamina C può essere un valido sostituto per impregnare i biglietti dei mezzi con l’inchiostro della scritta.
L’Eeb e le sue organizzazioni stanno spingendo nella direzione di un cambiamento serio e radicale, ma poiché si tratta di un tema poco alla portata del pubblico (a differenza del tabacco, sui prodotti in plastica che contengono bisfenolo non è presente una scritta del tipo “provoca il cancro”), la gente non è per nulla consapevole dei rischi a cui va incontro. Né tantomeno avrebbe possibilità di scelta, posta la vastità del numero di prodotti di cui fa uso quotidianamente. È proprio per questo che sono in primis le aziende e le istituzioni a doversi fare carico del problema.
«Io spero che il bisfenolo A sia presto designato all’uscita dal mercato e che i suoi usi principali siano vietati il prima possibile. È ancora troppo utilizzato e la posta in gioco è troppo alta. L’evidenza scientifica mostra che per queste sostanze non esiste un livello sicuro di esposizione, quindi non possiamo essere sicuri che anche in concentrazioni contenute le persone, e soprattutto i bambini, non subiscano danni permanenti», conclude Santos. «L’eliminazione dei bisfenoli deve essere presa come priorità e il sistema di valutazione deve essere cambiato in maniera più efficiente. Infine, l’industria deve smettere di negare l’evidenza e assumersi la responsabilità delle sostanze che deliberatamente inserisce nei prodotti di consumo».
fonte: https://www.linkiesta.it

Inceneritori, la Corte Ue: “Valutazione ambientale è obbligo”

BOCCIATO LO SBLOCCA ITALIA
























Gli stati membri dell’Ue possono definire gli impianti di incenerimento dei rifiuti come prioritari, ma non esentarli dalla valutazione ambientale strategica (Vas) prevista dalle norme: è quanto ha stabilito la Corte europea di giustizia, intervenendo sul ricorso presentato da alcune organizzazioni ambientaliste contro il decreto ‘Sblocca Italia’ del 2014 e delle sue norme esecutive del 2016. Il diritto Ue, ricorda la Corte, non impedisce di qualificare gli impianti in questione come ‘insediamenti strategici di preminente interesse nazionale’, ma devono essere soggetti a una procedura di valutazione ambientale. La sentenza “boccia lo sblocca Italia” e “ci dà ragione”, esulta Marco Affronte, eurodeputato e candidato con Europa Verde nel NordEst che quattro anni fa aveva presentato un’interrogazione alla Commissione europea sul tema. “Ma soprattutto - conclude - dà ragione al Movimento Rifiuti Zero, che ringraziamo per aver presentato il ricorso alla Corte”. Una vittoria anche per il Forum H2O che ricorda come, nel 2016, aveva segnalato il problema insieme ad altri movimenti e attivisti

fonte: www.ilfattoquotidano.it

Rifiuti: Corte di Giustizia Europea ferma inceneritori, anche in Abruzzo



















Scongiurata, per ora, l'imposizione di un inceneritore in Abruzzo.
"Apprendiamo con grande soddisfazione la notizia appena divulgata dal Movimento Legge Rifiuti Zero per l'Economia Circolare della sentenza della Corte di Giustizia Europea che ha sonoramente bocciato lo Stato Italiano per non aver assoggettato a Valutazione Ambientale Strategica il Dpcm attuativo dell'Art.35 dello Sblocca Italia che pianificava nel dettaglio, regione per regione, il supposto fabbisogno di inceneritori, assegnandone uno anche per l'Abruzzo", le parole di Augusto De Sanctis del Forum H2O.
Alcune associazioni - Verdi Ambiente e Società e Movimento Legge Rifiuti Zero per l'Economia Circolare, con l'intervento dell'Associazione Mamme per la Salute e l'Ambiente e il Comitato Donne 29 Agosto - in rappresentanza di un movimento più ampio a livello nazionale, avevano proposto ricorso al TAR Lazio contro il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 agosto 2016, "Individuazione della capacità complessiva di trattamento degli impianti di incenerimento di rifiuti urbani e assimilabili in esercizio o autorizzati a livello nazionale, nonché individuazione del fabbisogno residuo da coprire mediante la realizzazione di impianti di incenerimento con recupero di rifiuti urbani e assimilati." A sua volta, il Tribunale amministrativo regionale aveva deciso di portare la questione davanti alla Corte di Giustizia Europea perché il DPCM appariva in contrasto con la Direttiva 42/2001/CE sulla Valutazione Ambientale Strategica, procedura a cui il provvedimento pro-inceneritori non era stato sottoposto.
"Come Forum H2O, insieme a NSC, già nel 2016 avevamo immediatamente segnalato al Ministero dell'Ambiente e a tutte le regioni italiane che serviva la Valutazione Ambientale Strategica", ricorda De Sanctis. In effetti, le associazioni scrivevano testualmente: "nel Rapporto Preliminare chiede, infatti, di non sottoporre a Valutazione Ambientale Strategica il documento in esame, fase che prevederebbe la partecipazione del pubblico per 60 giorni. Si eviterebbe, così, quello che il Ministero pare considerare come un orpello, e, cioè, dover rispondere nel merito alle eventuali osservazioni provenienti dai cittadini".
Il Piano approvato con il DPCM prevedeva di aumentare la capacità di incenerimento nazionale di diversi milioni di tonnellate/anno di rifiuti, con la produzione, giusto per portare alcuni dati sugli effetti ambientali negativi, di centinaia di migliaia di tonnellate di ceneri residue da portare in discarica nonché emissioni per milioni di tonnellate/anno di CO2, gas clima-alterante.
"L'Espresso aveva dato eco nazionale alla nostra denuncia con un ricco articolo [qui]; avevamo anche polemizzato con ARTA che incredibilmente aveva dato l'ok sulla procedura, in disaccordo con l'allora Giunta Regionale. Infine abbiamo fornito ai ricorrenti i calcoli sulle potenziali emissioni aggiuntive di inquinanti a livello nazionale di questa rete di nuovi inceneritori. Dunque, non possiamo che essere contenti di questo risultato con il rammarico di dover constatare che per l'ennesima volta erano rimaste inascoltate le voci che avevano puntualmente segnalato il problema. Ora, assieme alle altre associazioni che hanno aderito e partecipato a questa campagna, chiederemo al Governo di abrogare immediatamente la madre di questa trucco pro-inceneritori, l'art.35 del Decreto Sblocca Italia voluto da Renzi.La priorità è ridurre la produzione di rifiuti, riutilizzare e riciclare come peraltro previsto fin dal 2008 dalla Direttiva 98/2008/UE", conclude De Sanctis.
fonte: https://news-town.it/

Rifiuti, la Corte di giustizia Ue condanna (di nuovo) l’Italia: 44 discariche non a norma





















L’Italia è venuta meno agli obblighi derivanti dalla direttiva europea sulle discariche di rifiuti, e per questo la Corte di giustizia Ue condanna oggi (di nuovo) il nostro Paese: nella sua sentenza, la Corte constata infatti che l’Italia non ha adempiuto agli obblighi risultanti dalla direttiva relativamente a 44 discariche.
Tutto parte nel 2012, quando la Commissione ha inviato una lettera di diffida all’Italia, contestandole la presenza nel suo territorio di 102 discariche operanti in violazione della direttiva 1999/31; una procedura che riguarda i cosiddetti obblighi di completamento, ossia l’esecuzione dei provvedimenti che lo Stato ha già adottato per una determinata discarica. Tali obblighi di completamento consistono, a seconda del sito interessato, nel porre in essere tutte le misure necessarie alla chiusura definitiva oppure, ove la discarica sia stata autorizzata a continuare a funzionare, nell’adozione delle misure necessarie a renderla conforme alla direttiva. A 7 anni di distanza dall’inizio del procedimento, però, ancora oggi l’Italia non ha ancora reso conformi alla direttiva (o proceduto alla loro chiusura) 44 discariche delle 102 iniziale, arrivando così alla condanna Ue.
«La condanna non ci stupisce – commenta il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani – Se non si interviene al più presto con le bonifiche il rischio è di incorrere in nuove salate multe come già avvenuto per altre discariche abusive, i depuratori mancanti e l’emergenza rifiuti campana. Per questo chiediamo di inserire anche questi siti, al centro della nuova condanna Ue, sotto la competenza del Commissario di Governo per la bonifica, prima che a pagare lo scotto per queste inadempienze saranno poi i cittadini. Il Paese deve recuperare i ritardi e archiviare, al più presto e in maniera definitiva, la stagione degli impianti di smaltimento. La soluzione sta nello sviluppo dell’economia circolare, un’economia che fa bene all’ambiente, alla salute e al bilancio dello Stato. A chiedercelo è in primis l’Europa con il pacchetto di direttive da recepire entro luglio 2020».
È però bene precisare che tale pacchetto normativo (che riguarda purtroppo soltanto i rifiuti urbani) non prevede il completo abbandono della discarica, ma colloca questo tipo d’impianti al giusto posto nella gerarchia della gestione dei rifiuti: quello residuale. La quota di rifiuti urbani da destinare a questa forma di smaltimento non dovrà infatti eccedere il 10% entro il 2035: : si tratta di un obiettivo dal quale l’Italia è ancora lontana, avendo conferito in discarica (dati 2016) circa il 25% dei propri rifiuti urbani, anche se già nel 2014 paesi come Austria, Belgio, Danimarca, Germania, Olanda e Svezia non hanno inviato praticamente alcun rifiuto (urbano) in discarica, privilegiando il riciclo e il recupero energetico. Senza impianti industriali adeguati allo scopo, infatti, è impensabile qualsiasi forma di economia circolare.
Anche secondo Ciafani per arrivare «a rifiuti zero negli impianti di smaltimento – conclude Ciafani – occorre realizzare in Italia mille impianti di riciclo, a partire dal centro sud, iniziando dal trattamento della frazione organica attraverso il compostaggio e la digestione anaerobica con produzione di biometano da immettere in rete o usare come carburante. Queste sono alcune delle opere pubbliche utili all’Italia di cui non si parla mai, ma che sono fondamentali da realizzare per la tutela dell’ambiente e dell’economia virtuosa». Con una precisazione d’obbligo: anche gli impianti finalizzati al riciclo producono a loro volta rifiuti, come in ogni processo industriale, che a loro volta dovranno essere gestiti e/o smaltiti. Non si tratta di una quota da poco: come tiene a sottolineare l’Unirima (Unione nazionale imprese recupero e riciclo maceri) i rifiuti ricadenti nel capitolo 19 del Catalogo europeo dei rifiuti (Cer) rappresentano proprio i “rifiuti prodotti dal trattamento dei rifiuti”, che in Italia «sono pari a 37.683.868 tonnellate e comprendono anche quelli provenienti dal trattamento dei rifiuti urbani».
fonte: www.greenreport.it

Rifiuti: al via causa Ue contro Italia per discariche













Al via la causa di inadempimento dell'Italia per non essersi messa in regola con la normativa sulle discariche di rifiuti. "Al momento, nessuna sanzione contro l’Italia viene, o può essere, richiesta. Tuttavia, appare opportuno evidenziare che, quando la Corte riconosce che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù del diritto dell’Unione, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l'esecuzione della sentenza della Corte comporta", riferisce in una nota la Corte Ue dopo che la Commissione Ue ha chiesto alla stessa Corte di giustizia di accertarsi che l’Italia sarebbe venuta meno agli obblighi prevista dalla direttiva 1999/31/CE, relativa alle discariche di rifiuti.
La Commissione, qualora ritenga che uno Stato membro non abbia adottato tutte le misure necessarie ad eseguire una sentenza della Corte, sottolinea la Corte di Giustizia Ue, "può fissare un termine per l’esecuzione. Allo scadere di tale termine, la Commissione può adire nuovamente la Corte ove uno Stato si trovi in una situazione di 'inadempimento nell'inadempimento', ossia quando, dopo essere stato oggetto di una prima sentenza di inadempimento, persista nella violazione delle norme del diritto dell’Unione e si trovi ancora in una situazione di inadempimento. Solo a questo punto, la Commissione può proporre alla Corte di condannare lo Stato 'doppiamente' inadempiente a sanzioni pecuniarie, cioè a una penalità e/o a una somma forfettaria".
La direttiva 1999/31/CE, relativa alle discariche di rifiuti, definisce il concetto di discariche cosiddetti 'preesistenti': si tratta delle discariche che hanno già ottenuto un’autorizzazione o che erano già in funzione prima del 16 luglio 2001, data entro la quale la direttiva stessa doveva essere trasposta nel diritto nazionale. Secondo la direttiva, entro il 16 luglio 2009, le Autorità competenti di ciascuno Stato membro dovevano o completare i lavori per rendere le discariche preesistenti conformi ai requisiti stabiliti nella direttiva o chiuderle definitivamente.
Nel 2017, la Commissione ha promosso contro l’Italia la presente azione di inadempimento, ritenendo che, dagli elementi forniti dall’Italia nel corso della fase pre-contenziosa della procedura, risultasse che nessuno dei suddetti adempimenti fosse stato completato in relazione a 44 discariche preesistenti, con la conseguenza che, per tali discariche, l’Italia sarebbe venuta meno agli obblighi di cui alla direttiva. Questo è quanto, secondo la Commissione, la Corte di giustizia doveva accertare.

Fonte: (AdnKronos)  

Smog, deferimento Corte Ue: 'La Commissione protegge i cittadini dall'inquinamento atmosferico'

Bruxelles: “La decisione di deferire degli Stati membri alla Corte di giustizia dell'UE è stata adottata in nome degli europei. Gli Stati membri deferiti oggi alla Corte hanno ricevuto nell'ultimo decennio un numero sufficiente di ‘ultime possibilità' per migliorare la situazione"

















"La Commissione difende il diritto degli europei a respirare aria pulita. La Commissione offre agli attori nazionali, regionali e locali assistenza pratica per migliorare la qualità dell'aria in Europa e interviene più energicamente nei confronti di 7 Stati membri che hanno violato le norme dell'UE in materia di inquinamento atmosferico e di omologazione delle autovetture". Queste le parole che arrivano da Bruxelles dopo il deferimento dell'Italia e di altri sei paesi alla Corte di Giustizia Europea per non aver ancora adottato misure antismog efficaci, nonostante i continui e richiami e avvertimenti arrivati per anni. 
Karmenu Vella, commissario per l'Ambiente, ha dichiarato: “La decisione di deferire degli Stati membri alla Corte di giustizia dell'UE è stata adottata in nome degli europei. Abbiamo detto che questa è una Commissione che protegge. La nostra decisione dà seguito a questa affermazione. Gli Stati membri deferiti oggi alla Corte hanno ricevuto nell'ultimo decennio un numero sufficiente di ‘ultime possibilità' per migliorare la situazione. Sono convinto che la decisione di oggi porterà a miglioramenti per i cittadini in tempi molto più rapidi. Ma l'azione legale non risolverà di per sé il problema. È questo il motivo per cui stiamo definendo l'aiuto pratico con cui la Commissione può agevolare gli sforzi delle autorità nazionali volti a promuovere un'aria più pulita per le città e le metropoli europee”.
Elżbieta Bieńkowska, commissaria per il Mercato interno, l'industria, l'imprenditoria e le PMI, ha dichiarato: "Avremo successo nella lotta all'inquinamento atmosferico urbano solo se il settore automobilistico farà la sua parte. I veicoli a emissioni zero sono il futuro. Nel frattempo, rispettare la normativa sulle emissioni è un dovere. I costruttori che continuano a violare la legge dovranno sopportare le conseguenze del loro comportamento illecito”.
In una comunicazione intitolata “Un'Europa che protegge: aria pulita per tutti”, adottata oggi (ieri, giovedì 17 maggio), la Commissione illustra le misure disponibili per aiutare gli Stati membri a contrastare l'inquinamento atmosferico. La Commissione, inoltre, sottolinea la necessità di intensificare la cooperazione con gli Stati membri avviando nuovi “dialoghi sull'aria pulita” con le autorità competenti e utilizzando i finanziamenti dell'UE per sostenere le misure volte a migliorare la qualità dell'aria.
Misure di lotta contro l'inquinamento atmosferico
Le misure proposte oggi dalla Commissione si fondano su tre pilastri principali: norme sulla qualità dell'aria; obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni; e norme in materia di emissioni per le principali fonti di inquinamento, ad esempio per le emissioni degli autoveicoli e delle navi e quelle del settore energitico e dell'industria.
Per contrastare le emissioni di inquinanti atmosferici generate dal traffico la Commissione rafforzerà ulteriormente la propria collaborazione con le autorità nazionali, regionali e locali per giungere a un approccio comune integrato alla regolamentazione dell'accesso degli autoveicoli alle aree urbane, nel quadro dell'agenda urbana per l'UE.
Inoltre, la Commissione ha condotto un'ampia riforma, in modo da garantire che le emissioni di inquinanti atmosferici dei veicoli siano misurate in condizioni reali di guida, (si vedano le FAQ).
Migliorare il rispetto della normativa
 6 Stati membri deferiti alla Corte
La Commissione sta adottando misure per affrontare i gravi e persistenti superamenti dei valori limite per le due principali sostanze inquinanti che incidono sulla salute: il biossido di azoto, per lo più causato del traffico stradale e dall'industria, e il particolato, che è presente soprattutto nelle emissioni dell'industria, del riscaldamento domestico, del traffico e dell'agricoltura.
La Commissione ha deciso di deferire Francia, Germania e Regno Unito alla Corte di giustizia dell'UE per il mancato rispetto dei valori limite per il biossido di azoto (NO2), e per aver omesso di prendere le misure appropriate per ridurre al minimo i periodi di superamento. UngheriaItalia e Romania sono state deferite alla Corte di giustizia per via dei livelli costantemente elevati di particolato (PM10). I limiti stabiliti dalla legislazione dell'UE sulla qualità dell'aria ambiente (direttiva 2008/50/CE) dovevano essere raggiunti rispettivamente nel 2010 e nel 2005.
Questa iniziativa fa seguito a un vertice ministeriale sulla qualità dell'aria, convocato dal Commissario Vella il 30 gennaio 2018, come ultimo sforzo per trovare soluzioni atte a contrastare il grave problema dell'inquinamento atmosferico in nove Stati membri. I 6 Stati membri in questione non hanno presentato misure credibili, efficaci e tempestive per ridurre l'inquinamento entro i limiti concordati e quanto prima possibile, come richiesto dalla normativa dell'UE. La Commissione ha pertanto deciso di procedere con un'azione legale.
Per quanto riguarda la Repubblica ceca, la Slovacchia e la Spagna, le misure in corso di attuazione o previste, come comunicato alla Commissione a seguito del vertice ministeriale sulla qualità dell'aria, sembrano essere in grado di affrontare in modo adeguato le carenze individuate, se correttamente attuate. Per questo motivo la Commissione continuerà a monitorare da vicino l'attuazione di tali misure, nonché la loro efficacia nel porre rimedio alla situazione il più presto possibile.
 Le procedure di infrazione proseguono per 4 Stati membri
La Commissione sta prendendo ulteriori iniziative nell'ambito delle procedure di infrazione contro 4 Stati membri per aver violato le norme dell'UE in materia di omologazione dei veicoli a motore. La Commissione ha deciso in data odierna di inviare ulteriori lettere di costituzione in mora a Germania, Italia, Lussemburgo e Regno Unito.
La legislazione dell'UE in materia di omologazione impone agli Stati membri di disporre di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive per scoraggiare i fabbricanti di automobili dal violare la legge. Laddove si verifichi una tale violazione, ad esempio tramite il ricorso ad impianti di manipolazione per ridurre l'efficacia dei sistemi di controllo delle emissioni, occorre mettere in atto misure correttive, quali i richiami, e applicare sanzioni (articoli 30 e 46 della direttiva 2007/46 e l'articolo 13 del regolamento n. 715/2007).
La Commissione ha aperto una procedura di infrazione contro Germania, Lussemburgo e Regno Unito nel dicembre 2016 relativa al gruppo Volkswagen e ha inviato lettere complementari di costituzione in mora nel luglio 2017 richiedendo ulteriori chiarimenti.
Oggi la Commissione ha inviato altre lettere di costituzione in mora per chiedere maggiori informazioni sulle inchieste e i procedimenti giudiziari nazionali relativi a tali infrazioni. Inoltre, in seguito alla scoperta di nuovi casi di irregolarità nella gestione dei motori in diversi veicoli diesel (veicoli Porsche Caienna, Volkswagen Touareg e Audi A6 e A7), la Commissione chiede alla Germania e al Lussemburgo, in quanto autorità di omologazione competenti, quali misure correttive e sanzioni siano previste. La Commissione chiede inoltre chiarimenti al Regno Unito sulla legislazione nazionale prevista.
Nel maggio 2017 la Commissione ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell'Italia per il mancato adempimento degli obblighi derivanti dalla normativa dell'UE in materia di omologazione dei veicoli da parte di Fiat Chrysler Automobiles. Nel frattempo, l'Italia ha adottato misure correttive ordinando al gruppo Fiat Chrysler Automobiles di effettuare un richiamo obbligatorio nell'Unione europea. Oggi, nel quadro dell'attuale scambio, la Commissione richiede informazioni supplementari sulle concrete misure correttive adottate e le sanzioni applicate.
Un'ulteriore lettera di costituzione in mora costituisce una richiesta di informazioni ufficiale. Gli Stati membri dispongono ora di due mesi di tempo per replicare alle argomentazioni addotte dalla Commissione; in caso contrario, la Commissione potrà decidere di inviare un parere motivato.
Informazioni generali
Nell'Unione europea, la qualità dell'aria è generalmente migliorata negli ultimi decenni, spesso grazie agli sforzi comuni dell'UE e delle autorità nazionali, regionali e locali. Tuttavia, la qualità della vita di molti cittadini dell'UE continua ad essere messa a repentaglio in modo inaccettabile. L'inquinamento atmosferico provoca direttamente malattie gravi e croniche come asma, problemi cardiovascolari e cancro ai polmoni.
I deferimenti odierni riguardano i superamenti delle norme sulla qualità dell'aria:
 Biossido di azoto (NO2):
  • Germania – in 26 zone di qualità dell'aria, tra cui Berlino, Amburgo, Monaco e Colonia; le concentrazioni annue riferite nel 2016 raggiungevano gli 82µg/m3 rispetto a un valore limite di 40 µg/m3 (a Stoccarda).
  • Francia – in 12 zone di qualità dell'aria, tra cui Parigi, Marsiglia e Lione; le concentrazioni annue riferite nel 2016 raggiungevano i 96 µg/m3 (a Parigi).
  • Regno Unito – in 16 zone di qualità dell'aria, tra cui Londra, Birmingham, Leeds e Glasgow; le concentrazioni annue riferite nel 2016 raggiungevano i 102 µg/m3 (a Londra).
In totale, vi sono 13 casi d'infrazione in corso nei confronti degli Stati membri (Austria, Belgio, Repubblica ceca, Germania, Danimarca, Francia, Spagna, Ungheria, Italia, Lussemburgo, Polonia, Portogallo e Regno Unito).
Con la decisione di oggi Germania, Francia e Regno Unito sono i primi a essere deferiti alla Corte; tutti e tre i casi fanno seguito ai pareri motivaticomunicati nel febbraio 2017.
 Particolato (PM10):
  • Italia – in 28 zone di qualità dell'aria, comprese le regioni Lazio, Lombardia, Piemonte e Veneto, i valori limite giornalieri sono stati costantemente superati, arrivando nel 2016 fino a 89 giorni.
  • Ungheria – in 3 zone di qualità dell'aria, Budapest, Pecs e valle del Sajó, i valori limite giornalieri sono stati costantemente superati, arrivando nel 2016 fino a 76 giorni.
  • Romania – nell'agglomerato di Bucarest, i valori limite giornalieri sono stati costantemente superati da quando il diritto dell'Unione europea è divenuto applicabile alla Romania, e nel 2016 per 38 giorni.
In totale, vi sono 16 casi d'infrazione in corso nei confronti degli Stati membri (Belgio, Bulgaria, Repubblica ceca, Germania, Grecia, Spagna, Francia, Ungheria, Italia, Lettonia, Portogallo, Polonia, Romania, Svezia, Slovacchia e Slovenia). La Corte di giustizia dell'Unione europea ha ritenuto la Bulgaria e la Polonia colpevoli di violazioni della legislazione dell'UE, rispettivamente il 5 aprile 2017 e il 22 febbraio 2018.
La decisione odierna fa seguito a un parere motivato inviato all'Italia nell'aprile 2017, a un parere motivato supplementare inviato alla Romania nel settembre 2014, e a un ulteriore parere motivato inviato all'Ungheria nel marzo 2014.
In tutti i casi di superamento dei valori limite stabiliti dalla normativa dell'UE sulla qualità dell'aria ambiente (direttiva 2008/50/CE), gli Stati membri sono tenuti ad adottare piani per la qualità dell'aria e a garantire che tali piani stabiliscano misure appropriate affinché il periodo di superamento sia il più breve possibile. In linea con il principio di sussidiarietà, la normativa dell'UE lascia agli Stati membri la scelta dei mezzi da utilizzare per il rispetto dei valori limite.
fonte: www.ecodallecitta.it

Rifiuti, è ora di darsi una mossa. La raccolta differenziata non basta più












Arriva in questi giorni la notizia del deferimento dell’Italia alla Corte europea per una serie di infrazioni di tipo ambientale: la questione degli olivi e della Xylella, l’inquinamento da pm10 e la gestione dei rifiuti radioattivi. Non sono cose da prendere sottogamba, ma indicazioni che la gestione ambientale in Italia è carente sotto molti aspetti ed è destinata a diventarlo ancora di più, soprattutto in vista del decreto sull’economia circolare approvato recentemente dall’Unione europea. In sostanza, molte cose stanno arrivando a un punto critico e non basta più una gestione “cosmetica” dei rifiuti, basata sulla raccolta differenziata dei rifiuti urbani.
Per prima cosa, la situazione climatica sta rapidamente degenerando, come appare da vari sintomi come la fusione dei ghiacci polari e il rallentamento della corrente del Golfo. Diventa critico, a questo punto ridurre le emissioni di gas serra, ma per questo ci vuole uno sforzo determinato che spinga verso la sostituzione dei fossili con le rinnovabili. Questa necessità va insieme a quella di ridurre l’uso della plastica nel ciclo economico: la plastica sembrava una buona idea 50 anni fa, ora ci stiamo accorgendo dei danni che sta facendo. Stiamo impestando mezzo mondo con residui di plastica che poi vanno a finire in quello che mangiamo.

Bruciare o riciclare la plastica fa poca differenza: è sempre un prodotto che nasce dal petrolio e l’unico modo per ridurne l’impatto è di usarne meno; molto meno. Anche qui, non bastano comportamenti virtuosi a livello individuale, bisogna intervenire a livello legislativo in modo da scoraggiare l’uso della plastica dovunque sia diventata soltanto una cattiva abitudine, come nel caso di posate, piatti e bicchieri in plastica. Si sta pensando a un provvedimento generalizzato a livello europeo per limitare l’uso di questi e altri tipi di plastica.
Ma è il concetto stesso di “rifiuto” che sta evolvendo e diventando parte del concetto più generale di “economia circolare”. Qui, non abbiamo alternative: l’Italia è un Paese dove le materie prime di origine minerale sono state ormai sfruttate fino ai loro limiti pratici. Quel poco che resta – per esempio in termini di petrolio e di gas – non durerà molto a lungo. Dipendere al 100% dalle importazioni è rischioso e, in ogni caso, anche i Paesi esportatori hanno lo stesso problema: il graduale esaurimento delle loro risorse.
Perciò dobbiamo attrezzarci usando l’energia che ci viene dal sole per riutilizzare e riciclare i prodotti dell’economia industriale. L’Europa ci sta spronando in quella direzione ma queste cose non si fanno senza grossi sforzi finanziari. Non basta cambiare governo per risolvere i problemi: bisogna lavorarci sopra tutti quanti. È una grande sfida, ma non è impossibile.
Ugo Bardi
fonte: www.ilfattoquotidiano.it