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Seaspiracy, il documentario sugli oceani che ci cambierà per sempre è arrivato su Netflix

Dopo Cowspiracy arriva su Netflix Seaspiracy, il documentario che svela il lato oscuro dell’industria della pesca e di tutte le condotte suicide che stanno devastando gli oceani.


L’oceano, culla e polmone della vita sulla Terra, è l’habitat più vasto e prezioso del nostro ecosistema. Il luogo in cui tutto è cominciato e da cui dipende l’equilibrio di tutte le specie, uomo incluso. Noi, invece, lo stiamo condannando a morte, inquinandolo e depredandolo senza misura. A tracciare questo drammatico quadro, sbattendoci in faccia la verità è il documentario Seaspiracy, uscito il 24 marzo su Netflix.

Durante tutta la lavorazione del film, gli attivisti Kip Andersen (produttore esecutivo) e Ali Tabrizi (regista), hanno incessantemente divulgato notizie e dati sullo stato di salute dei mari, per cercare di accelerare la presa di coscienza delle persone e delle istituzioni, invocando un cambio di rotta nell’atteggiamento suicida che l’umanità porta avanti ormai da troppo tempo.













Seaspiracy, la trama del documentario

Risultato di anni di ricerche e di indagini (condotte anche a rischio della propria vita dai registi), il film mostrerà quali proporzioni ha raggiunto oggi il nostro impatto sugli oceani. Alleati indispensabili per la nostra sopravvivenza, essi producono la metà dell’ossigeno che respiriamo, ospitano l’80 per cento della vita, sulla Terra, assorbono circa un terzo delle emissioni di CO2 create dall’uomo e, dagli anni Sessanta ad oggi, hanno assorbito il 90 per cento del calore in eccesso con cui abbiamo alterato il clima della Terra.

In cambio noi, dal 1950 ad oggi, abbiamo portato al collasso il 29 per cento delle specie ittiche commerciali (con un trend che minaccia un declino sempre più rapido e devastante entro il 2048); uccidiamo 650 mila animali marini ogni anno tra balene, delfini e foche, massacrando 73 milioni di squali all’anno per la loro carne, ma anche “per errore”.

Senza fare sconti, gli autori sono andati a scavare all’origine delle condotte umane responsabili della distruzione oceanica, che sta provocando la più grande estinzione di massa delle specie degli ultimi 65 milioni di anni, dopo la scomparsa dei dinosauri.

Questo film trasformerà radicalmente il modo in cui pensiamo e agiamo sulla conservazione degli oceani per sempre. È ora che concentriamo le nostre preoccupazioni ecologiche ed etiche sui nostri mari e sui suoi abitanti. Questa è una nuova era per il modo in cui trattiamo l’habitat più importante della terra.

Ali Tabrizi, attivista oceanico e regista di Seapiracy

Andersen e Tabrizi hanno così portato le telecamere sui pescherecci, nelle aree di acquacoltura, ma anche negli uffici dei responsabili, portando a galla il lato oscuro dell’industria della pesca con il suo sfruttamento intensivo dei mari e dei suoi abitanti.


A finire sotto accusa è dunque la condotta scellerata e ottusa dell’umanità, che da anni aggredisce le acque oceaniche e i loro abitanti con spietata avidità e prepotenza. Un tema scottante e messo sotto silenzio anche da chi avrebbe dovuto denunciare e, di conseguenza, intervenire. Da qui la scelta del titolo, Seaspiracy (gioco di parole tra sea, mare, e conspiracy, cospirazione), con cui il film punta il dito contro l’omertà di chi finora ha taciuto su quello che è definito uno dei più grandi problemi che affliggono la nostra epoca e da cui dipenderà la salvezza dell’intero pianeta. 


Alcune popolazioni di squali sono diminuite fino al 98 per cento negli ultimi 15 anni e quasi un terzo delle specie di squali pelagici è considerato minacciato dall’Iucn © Netflix 2021
Il sequel di Cowspiracy

Lo stesso approccio usato in Seaspiracy era stato adottato anche nel documentario del 2015 Cowspiracy, prodotto da Leonardo DiCaprio e diretto dallo stesso Kip Andersen. Al centro delle sue indagini, allora, era stato l’impatto ambientale della produzione di carne sul pianeta e l’omertà delle associazioni ambientaliste.

Dopo aver appreso, tramite un rapporto della Fao, che l’allevamento del bestiame genera più gas serra dell’intero settore dei trasporti e rappresenta la causa motrice principale della devastazione ambientale, Andersen, attivista convinto, era rimasto sconvolto dal silenzio assordante sul tema da parte delle grandi associazioni ambientaliste. Le stesse che lui stesso aveva sostenuto per anni.

Da lì il suo desiderio di andare a fondo della questione e la scoperta del motivo di tale silenzio: la paura delle associazioni di essere identificate come realtà anti-carne, perdendo così l’indispensabile sostegno popolare ed economico.


Il legame letale tra allevamenti intensivi e oceani

Un altro aspetto che affronterà Seaspiracy è la connessione tra l’industria zootecnica e l’inquinamento delle acque, con la conseguente distruzione degli habitat, contaminati dai deflussi agricoli. Un legame letale che secondo l’Epa (Environmental protection agency) è la causa principale dell’estinzione delle specie marine e delle zone morte oceaniche.

Quello che è chiaro da tempo, insomma, è che da questa guerra che l’uomo ha dichiarato agli oceani, nessuno potrà uscire vincitore e che per ristabilire un equilibrio duraturo serve una decisa e rapida presa di posizione da parte di tutti. Il documentario Seaspiracy, con la sua denuncia chiara e coraggiosa, potrà certamente contribuire a questo scopo.


fonte: www.lifegate.it


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L’industria petrolifera scommette sulla plastica. Ma il futuro è altrove

Il settore delle plastiche sta per sgonfiarsi anche a causa delle costose esternalità legate al materiale e della crescente sensibilità per l’economia circolare. Eppure il comparto petrolifero punta tutto sulla crescita della domanda della materia vergine. Una speranza vana secondo i dati di Carbon Tracker



L’industria petrolifera ripone le sue speranze di sopravvivenza in una forte crescita della domanda di plastica ma grazie alla crescente sensibilità sul tema dei rifiuti e del cambiamento climatico, questo incremento non si concretizzerà. È quanto emerge da un report del think tank Carbon Tracker pubblicato nel settembre 2020 e fondato sui dati raccolti da SYSTEMIQ e The Pew Charitable Trusts nel report “Breaking the Plastic Wave” (luglio 2020), curato in collaborazione con le Università di Oxford e di Leeds, la Ellen MacArthur Foundation e Common Seas.

“Se togliamo il pilastro di plastica che regge il futuro dell’industria petrolifera, l’intera narrazione della crescente domanda di petrolio crolla”, spiega Kingsmill Bond, analista di Carbon Tracker. Il futuro non è lì. “È probabile che la domanda di plastica raggiunga il suo picco quando il mondo inizierà a passare da un’economia della plastica lineare a una circolare”, si legge nel rapporto, bloccando investimenti pubblici per un valore pari a 400 miliardi di dollari. Le crescenti pressioni per limitare l’uso della plastica potrebbero infatti ridurre la crescita della domanda di materia vergine dal 4% all’anno a meno dell’1%, con un picco della domanda nel 2027. E così l’industria petrolifera perderebbe il suo principale motore di crescita.

Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), le materie plastiche rappresentano il 9% della domanda di petrolio (il dato è del 2017, misurato in milioni di barili al giorno) e guideranno la crescita prevista di tale domanda. Carbon Tracker mette però a confronto due scenari: le previsioni (prima del Covid-19) della multinazionale BP petrolifera dicono che le materie plastiche rappresenteranno il 95% della crescita prevista della domanda netta di petrolio fino al 2040; secondo la IEA questa percentuale scende al 45%.
Mentre la produzione di plastica è cresciuta rapidamente per decenni, dal 2010 ha rallentato a una crescita del 4% l’anno e se la maggior parte degli operatori prevede che questo tasso di crescita continuerà, trainato dalla domanda di materie plastiche dei mercati emergenti, IEA e BP sono invece più caute, prevedendo tassi di crescita annui della domanda del 2%.

Secondo Carbon Tracker “l’industria delle materie plastiche è un colosso che sta per sgonfiarsi” anche a causa degli alti costi delle esternalità che le plastiche determinano: almeno 1.000 dollari per tonnellata (350 miliardi di dollari l’anno) dovuti alle emissioni di anidride carbonica, ai costi sanitari associati ai gas nocivi, all’inquinamento degli oceani e ai costi di raccolta.
Il sistema della plastica, inoltre, è caratterizzato da enormi scarti prodotti su quattro filiere: la plastica monouso (pari al 36% di tutta la plastica prodotta); i rifiuti mal gestiti (pari al 40% di tutti i rifiuti di plastica); le piccole quantità riciclate (i tassi di riciclaggio della plastica sono circa del 20%) e la cattiva progettazione dei prodotti.
“C’è un divario molto significativo tra le aspirazioni degli operatori per una continua crescita della domanda di plastica e la nostra capacità di migliorare le infrastrutture di raccolta e riciclaggio abbastanza rapidamente da evitare la presenza di quel materiale nell’ambiente -si legge nel report-. Alla luce di questo divario, l’unica soluzione è quella di ridurre significativamente la quantità di plastica vergine nel sistema, passando a modelli di riutilizzo e riciclo”. Yoni Shiran di Breaking the Plastic Wave sottolinea i benefici del passaggio a un sistema circolare: “Si possono avere le stesse funzionalità, ma a metà del costo del capitale, metà della quantità di materie prime, 700mila posti di lavoro aggiuntivi e l’80% in meno di inquinamento”.

SYSTEMIQ osserva infine che sono già disponibili le soluzioni tecnologiche a costi accessibili che consentirebbero una massiccia riduzione nell’uso della plastica. Tra queste, il riutilizzo, una migliore progettazione e regolamentazione del prodotto, sostituzioni con materiali come la carta e la crescita del riciclo degli scarti plastici.
Un ulteriore aiuto può venire dalla politica, sottolinea il report: “L’Unione europea e la Cina stanno già adottando misure per limitare i rifiuti di plastica e dispongono di un’ampia gamma di strumenti, dalla regolamentazione ai divieti, dalle tasse alle infrastrutture per il riciclo”.
Ad esempio, nel luglio 2020 l’Ue ha proposto una tassa di 800 euro per tonnellata sui rifiuti di plastica non riciclata; la Cina ha invece iniziato a vietare alcuni tipi di plastica. Già nel 2018 “la Cina ha chiuso in larga misura la sua industria (la prima al mondo) per l’importazione e il trattamento dei rifiuti plastici, costringendo gli esportatori a risolvere questo problema in patria”.

fonte: https://altreconomia.it/


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Ecodom: lasciare a casa i RAEE durante l'emergenza Coronavirus




















Anche per i RAEE c'è l'invito a restare a casa. Ecodom, il principale Consorzio italiano per la gestione dei RAEE, si unisce agli attori della filiera per rispondere all'emergenza Coronavirus garantendo il funzionamento del sistema ma a un ritmo ridotto, così da poter salvaguardare la salute di tutti gli operatori della filiera, in particolare di quelli coinvolti nel trasporto e nel trattamento di tali rifiuti. Un cambiamento necessario, rilevato anche dai dati di raccolta del mese di marzo, che segnalano un netto calo dei ritiri in tutta Italia, passati da oltre 300 a meno di 50 al giorno.  Il sistema dei RAEE è incluso tra le attività produttive industriali e commerciali che il governo, attraverso il DPCM del 22 marzo 2020, ha lasciato operative.
L'appello lanciato a tutti i consumatori arriva da una parte dalla volontà di evitare occasioni di contagio e dall'altra a seguito della momentanea interruzione della raccolta e della chiusura di numerose isole ecologiche decisa da molti enti locali sull'intero territorio nazionale. 
 "Conservare un RAEE nella propria abitazione durante il periodo di emergenza non presenta controindicazioni e può aiutare a ridurre le possibilità che gli operatori della filiera subiscano il contagio. È dunque opportuno che chiunque non abbia un'esigenza immediata e improrogabile di disfarsi dei propri rifiuti elettronici, eviti di farlo", è quanto afferma il direttore generale di Ecodom, Giorgio Arienti. Numerose sono anche le difficoltà che il settore dei RAEE sta incontrando per via del blocco di molte attività industriali, quali ad esempio acciaierie e fonderie, a cui normalmente vengono destinate le materie prime seconde, con un conseguente rischio di saturazione degli stoccaggi in entrata e in uscita dagli impianti di trattamento. Da qui, la decisione del Ministero dell'Ambiente di aumentare i limiti normativi di stoccaggio, per permettere così a tali impianti di immagazzinare RAEE oltre i quantitativi fissati dalle singole autorizzazioni.


fonte: www.greencity.it

Bisfenolo A nella plastica: una minaccia silenziosa (ma devastante) per la nostra salute e per l’ambiente

È dappertutto, ed è anche causa di problemi di fertilità, sviluppo neurologico e cancro, soprattutto tra i bambini. È il bisfenolo A, una sostanza chimica contenuta nelle plastiche di molti prodotti di consumo. Ma nessuno lo sa, e l’industria nega persino l’evidenza scientifica


Si trova dappertutto: nelle bottiglie d’acqua, nei giocattoli, nei materiali da costruzione, persino nel packaging di molti cibi. Ci veniamo a contatto ogni giorno, pur essendone inconsapevoli. Ma soprattutto, non sappiamo quanto faccia male. Anzi, peggio: lo sappiamo da anni, ma nessuno ha mai fatto niente per toglierlo di mezzo. Sembra la trama di un film distopico, eppure è la realtà.
Parliamo del bisfenolo A, una sostanza chimica usata come ingrediente in diversi tipi di plastiche, dal poliestere al policarbonato, e presente in centinaia di prodotti di consumo, dalle attrezzature sportive ai dispositivi medici, dalle lenti per gli occhiali agli elettrodomestici. Si trova persino nel rivestimento dei biglietti dell’autobus e nei cartoni di carta riciclata della pizza da asporto. Le industrie produttrici di plastica lo utilizzano da più di 50 anni, ma è almeno dagli anni ’30 del secolo scorso che si conoscono i rischi della sua tossicità: le sue proprietà di interferenti endocrini sono infatti responsabili di squilibri ormonali che influenzano la fertilità, lo sviluppo sessuale e intellettivo e provocano lo sviluppo di tumori. Soprattutto tra i bambini: malformazioni alla nascita, malformazioni genitali, problemi dello sviluppo neurologico, ritardi nell’apprendimento, riduzione del quoziente intellettivo e iperattività sono tra i principali disturbi riscontrati in anni di ricerche scientifiche.
Si tratta di effetti devastanti che costituiscono una minaccia per tutti. Eppure, ogni anno milioni di tonnellate di bisfenolo continuano ad essere prodotte soltanto in Europa e ad essere inserite nei prodotti che acquistiamo e consumiamo tutti i giorni. Ora la Corte di giustizia europea ha ufficialmente dichiarato che la mole di ricerche prodotte nel corso degli anni è valida, che il bisfenolo è una sostanza altamente tossica e che dunque i produttori di plastica dovranno chiaramente indicarne la presenza in quelle plastiche che lo contengono. È una buona notizia, se non fosse che si tratta solo della punta dell’iceberg: una sentenza che fa semplicemente il solletico alla reale entità del problema, secondo lo European Environmental Bureau (Eeb), il principale network di organizzazioni ambientali a livello europeo, molto attivo sul fronte delle sostanze chimiche.
«Praticamente abbiamo più ricerca scientifica disponibile sul bisfenolo A che su qualsiasi altro composto chimico sul pianeta, e pur sapendo quanto dannoso sia per l’uomo e per l’ambiente, questo continua ad essere disponibile sul mercato», dice a Linkiesta Tatiana Santos, Policy manager per le sostanze chimiche e le nanotecnologie dell’Eeb. Sì, perché, oltre che all’uomo, naturalmente il bisfenolo è altamente pericoloso anche per l’ambiente: malgrado non presenti la tendenza ad accumularsi, il fatto di essere prodotto in tutto il mondo lo porta a diffondersi nella terra, nell’aria e nei mari. Negli ambienti acquatici, per esempio, diversi studi hanno rilevato come la presenza di bisfenolo abbia portato interi gruppi di pesci a cambiare sesso, “femminilizzandosi”. Una tendenza che, com’è ovvio, mette a repentaglio la stessa sopravvivenza della specie.
Fondamentale sarebbe quindi liberarsi il prima possibile di questa sostanza. Per il momento, la sentenza della Corte europea ha stabilito di inserire il bisfenolo all’interno del cosiddetto “Elenco delle sostanze estremamente preoccupanti candidate all’autorizzazione (Candidate List of substances of very high concern for Authorisation), il che, spiega l’Eeb, di per sé non comporta un divieto o la restrizione immediata. La speranza (e l’aspettativa), però, è che ad un certo punto venga inserito nella lista delle sostanze selezionate per la graduale uscita dal mercato. Com’era intuibile, i rappresentanti dell’industria (riuniti nel network che prende il nome di PlasticsEurope) hanno comunque protestato sonoramente, ed è plausibile che presentino un ricorso. Fino a quel momento, però, l’obbligo da parte delle aziende di indicare esplicitamente la presenza della sostanza nelle materie plastiche che commerciano resta.
Il problema, però, rimane a monte, e va oltre alla sostanza in sé. Di fatto, per anni l’industria chimica ha impedito la regolamentazione della sostanza attraverso l’adozione di studi che contraddicevano l’evidenza di rischi per la salute, instillando il “dubbio” nella comunità scientifica. Un po’ come ha fatto per anni anche l’industria del tabacco. E ha potuto farlo in tutta libertà, essendo deputata essa stessa alla produzione di studi che certificassero la sicurezza dell’utilizzo del bisfenolo. «Le aziende sono responsabili di produrre i test di sicurezza sulle sostanze chimiche, ma posto che esse stesse non hanno un reale interesse a individuarne il livello di rischio, c’è un evidente conflitto di interessi», spiega Santos. «In più, l’industria ha creato un sistema che rigetta automaticamente gli studi provenienti da università e istituti di ricerca indipendenti, perché questi sono basati su peer review invece che sul sistema “GLA - Good Laboratory Practices”, che è molto costoso e che quindi solo l’industria utilizza, sebbene non sia più valido degli altri, perché non misura la qualità dello studio», dice ancora Santos. «Di fatto, hanno creato le proprie regole. Io, che di professione sono un chimico, ero scioccata quando l’ho scoperto».
Ciò nonostante, l’Agenzia europea delle sostanze chimiche, l'istituzione che dovrebbe verificare la validità e l’esaustività degli studi, non è ricettiva sull’argomento: «Dato che gli studi fatti con il metodo delle Good Laboratory Practices seguono tutti la stessa struttura, l’Echa ha risposto che erano più velocemente valutabili». Un approccio decisamente discutibile, che porta ad una sola conclusione: c’è da cambiare l’intero sistema.
In occasione dell’ultima conferenza sul futuro delle politiche chimiche, l’Eeb ha chiesto che i test sulla sicurezza delle sostanze vengano svolti unicamente da laboratori indipendenti, obbligando le aziende chimiche a versare quote all’Echa, per poi distribuire i fondi tra i vari istituti. Ma ci sarebbe da fare ancora di più: dato che la regolamentazione e l’uscita definitiva di una sostanza dal mercato richiede anni, l’industria chimica potrebbe facilmente sostituire il bisfenolo A (Bpa) con il bisfenolo S (Bps), «una sostanza che fa parte della stessa famiglia di componenti chimici, che presenta le stesse proprietà chimiche e che di fatto ha un impatto molto simile sulla salute umana», spiega l’esperta. Posto che occorrerebbero 50 o 60 anni per vietare l’utilizzo anche di quella sostanza, l’industria ha una via di fuga estremamente facile. «Bisognerebbe agire su tutto il gruppo dei bisfenoli», dice l’esperta. Anche perché le alternative ci sarebbero: esiste ad esempio un’azienda che ha scoperto che la vitamina C può essere un valido sostituto per impregnare i biglietti dei mezzi con l’inchiostro della scritta.
L’Eeb e le sue organizzazioni stanno spingendo nella direzione di un cambiamento serio e radicale, ma poiché si tratta di un tema poco alla portata del pubblico (a differenza del tabacco, sui prodotti in plastica che contengono bisfenolo non è presente una scritta del tipo “provoca il cancro”), la gente non è per nulla consapevole dei rischi a cui va incontro. Né tantomeno avrebbe possibilità di scelta, posta la vastità del numero di prodotti di cui fa uso quotidianamente. È proprio per questo che sono in primis le aziende e le istituzioni a doversi fare carico del problema.
«Io spero che il bisfenolo A sia presto designato all’uscita dal mercato e che i suoi usi principali siano vietati il prima possibile. È ancora troppo utilizzato e la posta in gioco è troppo alta. L’evidenza scientifica mostra che per queste sostanze non esiste un livello sicuro di esposizione, quindi non possiamo essere sicuri che anche in concentrazioni contenute le persone, e soprattutto i bambini, non subiscano danni permanenti», conclude Santos. «L’eliminazione dei bisfenoli deve essere presa come priorità e il sistema di valutazione deve essere cambiato in maniera più efficiente. Infine, l’industria deve smettere di negare l’evidenza e assumersi la responsabilità delle sostanze che deliberatamente inserisce nei prodotti di consumo».
fonte: https://www.linkiesta.it

Cosa Preoccupa L'industria Della Plastica? La Tua Reazione A Tutti Quei Rifiuti E' Una Delle Loro Preoccupazioni.
















È il titolo di un articolo scritto da James Brugger pubblicato sulla rivista online InsideClimateNews, il link per leggere l'articolo integrale è in fondo dopo la mia sintesi.
Al Summit Globale sulle Plastiche 7 giugno 2019 a Houston (USA) erano presenti aziende di un 'industria che vede nel proprio futuro crescita grande, ma anche sfide importanti a causa delle plastiche negli oceani e del cambiamento climatico
Al Summit le aziende sono andate a raccontare cosa fanno in risposta alla crisi mondiale dei rifiuti di plastica. Prevedono una crescita nella produzione delle plastiche in media dal 3,5% al 4,0% ogni anno fino almeno al 2035. Scrivono che con programmi di riciclo in gran parte finanziati in modo insufficiente ed inefficaci è potenzialmente possibile che altri miliardi di tonnellate di rifiuti di plastica andranno in discariche o nell'ambiente. Il vicepresidente di IHS Markit afferma che una nuova tecnologia di riciclo è distante una decina di anni o anche di più; continua avvertendo che l'industria dovrà lavorare 'per mantenere la fiducia nel tempo'; aggiunge che la crescita in continuo del mercato delle plastiche aumenta la scala della dimensione della soluzione che non va dilazionata.
Per la prima volta alla conferenza si è vista un'industria che si rende conto delle sfide future con il pubblico che sta diventando più consapevole dei problemi crescenti dei rifiuti di plastica e dell'impatto sul cambiamento climatico che hanno le plastiche nel corso del loro ciclo di vita.
Città, stati ed alcuni paesi hanno iniziato a limitare, vietare o regolare alcune plastiche; gli analisti dell'industria delle plastiche descrivono questo come uno dei molti rischi per il futuro economico delle plastiche. 
Si lamenta Patty Long presidente ad interim e AD dell'Associazione delle Industrie della Plastica che vengono contrastati da una robusta 'campagna anti - plastiche'; aggiunge che negli ultimi sei mesi - un anno vengono mostrate continuamente immagini di spiagge con plastiche sparpagliate e foto di animali marini che hanno ingerito plastiche. Negli Stati Uniti l'industria della plastica si sta opponendo a normative che cercano di limitare l'inquinamento da plastica; inoltre con la pubblicità vorrebbero far amare la plastica alla gente senza preoccuparsi dei suoi impatti.
L'industria del petrolio vede le plastiche come un'opportunità di crescita a lungo termine, ma sentono la pressione del pubblico che si sta rendendo conto dei suoi impatti.
All'interno di questo articolo c'è il link per accedere ad un articolo scientifico intitolato CONSUMO UMANO DI MICROPLASTICHE, che qui sintetizzano con la seguente frase:uno studio...HA CALCOLATO CHE L'AMERICANO MEDIO INGERISCE PIU' DI 70.000 PARTICELLE DI MICROPLASTICHE OGNI ANNO; NON SONO CHIARI GLI EFFETTI SULLA SALUTE DELL'INGESTIONE DELLE PARTICELLE DI MICROPLASTICHE
I politici hanno incominciato a reagire alle preoccupazioni.
A marzo 2019 il Parlamento europeo ha approvato una nuova legge che vieta plastiche mono-uso tipo piatti, posate e cannucce entro il 2021 ed ha imposto una raccolta del 90% delle bottiglie di plastica entro il 2029.
PROBLEMI DEL CICLO DI VITA E DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO Citano un rapporto (accessibile dal link) da cui risulta che nel 2019 la PRODUZIONE E L'INCENERIMENTO DELLA PLASTICA PRODURRA' PIU' DI 850 MILIONI METRICI DI TONNELLATE DI GAS SERRA - equivalenti alle emissioni da 189 grosse centrali elettriche a carbone.
Al Summit globale per le plastiche i conferenzieri hanno celebrato il boom del fracking (fratturazione idraulica) che produce surplus di gas naturale a buon mercato che consente l'abbassamento dei prezzi di produzione delle plastiche. CON LA SOVRABBONDANZA DI GAS NATURALE A BASSO COSTO PER PRODURRE LE PLASTICHE L'INDUSTRIA NON HA CONVENIENZA FINANZIARIA AD UTILIZZARE MATERIALI DA RICICLO PIU' COSTOSI NEI LORO PRODOTTI. 


Secondo uno studio del 2017 solo il 9% di tutte quante le plastiche prodotte
è stato riciclato.


Nadia Simonini

Rete Nazionale dei Comitati Rifiuti Zero 


Oggetto: What’s Worrying the Plastics Industry? Your Reaction to All That
Waste, for One | InsideClimate News 


Riciclo plastica, come colmare il divario tra offerta e domanda?

La Commissione europea pubblica la prima  valutazione preliminare su gli impegni volontari ricevuti dal settore. Timmermans: “Ora analizzeremo i prossimi passi per aumentare l’uso di plastica riciclata”

















Bene ma non benissimo. I primi sforzi messi in campo dall’industria europea in materia di riciclo plastica rappresentano un buon inizio, ma per raggiungere l’obiettivo finale serviranno nuove azioni. È questo il verdetto, preliminare, della Commissione Europea a seguito della prima valutazione degli impegni volontari presentati dal settore secondario. Alla fine di ottobre infatti, l’esecutivo aveva raccolto oltre 60 impegni sul fronte della plastica, per lo più provenienti da società attive nel riciclo o da realtà operanti nel settore degli imballaggi, parte della nuova “European Strategy for plastics in the circular economy”. Spiega il vicepresidente della Commissione Jyrki Katainen, responsabile per l’occupazione, la crescita, gli investimenti e la competitività: “La campagna dimostra chiaramente che gran parte dell’industria europea ha assunto la responsabilità di utilizzare la plastica in un modo più sostenibile”.

L’analisi preliminare indica infatti che gli impegni volontari a oggi presentati forniranno sufficienti materie plastiche riciclate per raggiungere l’obiettivo UE entro il 2025, con un’offerta di almeno dieci milioni di tonnellate. A dover essere spronata è invece la domanda che secondo i dati dell’esecutivo UE potrebbe, per la stessa data, non superare i cinque milioni di tonnellate. Come bilanciare il mercato? Riuscendo a rendere disponibile una materia prima seconda di buona qualità in quantità stabili e a prezzi competitivi.

La Commissione intende ora esaminare gli impegni in dettaglio e pubblicare i risultati in una valutazione completa nel primo trimestre del 2019. L’analisi permetterà di identificare le lacune presenti tra l’offerta (aziende di riciclaggio) e la domanda (produttori, trasformatori, ecc.) per diversi tipi di materie plastiche, e guidare le azioni future, compresa la valutazione di incentivi normativi o economici
Analizzeremo – spiega il vicepresidente Frans Timmermans, responsabile per lo sviluppo sostenibile – quali dovrebbero essere i prossimi passi per aumentare l’uso di plastica riciclata e come colmare il divario tra offerta e domanda. Questo non è solo necessario per preservare il nostro ambiente naturale; è anche positivo per la nostra economia”.

fonte: www.rinnovabili.it

No ai rifiuti bruciati nei cementifici: a Bruxelles le ragioni dei cittadini

Il Parlamento europeo riceverà oggi un rappresentante dei comitati che da tempo si battono per l'abrograzione del cosiddetto decreto “Clini” che consente di utilizzare combustibili ricavati dall'incenerimento di alcuni rifiuti per alimentare le industrie, soprattutto cementifici.


















Forse il vento sta cambiando. Dopo aver superato il vaglio dell’Ufficio Petizioni del Parlamento Europeo, a Dicembre 2017, la Petizione predisposta dal Comitato La Nostra Aria e da Rete Rifiuti Zero Lombardia è stata pubblicata sul portale Europeo delle petizioni, riconoscendo così la fondatezza delle questioni sollevate. Oggi 18 Giugno un rappresentante del Comitato “La nostra aria” sarà ricevuto a Bruxelles e spiegherà in quella sede le ragioni dei cittadinifirmatari la petizione, di fronte ai Deputati Parlamento Europeo.


Cementifici trasformati in inceneritori. Cosa dice il “decreto Clini

Con il Decreto Ministeriale 14 Febbraio 2013 n.22, c.d. Decreto “Clini”, il governo eleva al rango di combustibili alcuni rifiuti che hanno subito particolari trattamenti e controlli.

Questa normativa si basa sul concetto di End Of Waste che implica però il rispetto di un’ importantissima clausola determinante per la classificazione del rifiuto: si stabilisce che un rifiuto cessa di essere tale (End of Waste) ….se “l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà ad impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana”; ciò significa che nel ciclo di “utilizzo” dei rifiuti gli impianti che li utilizzano come combustibili, non devono produrre un aumento delle emissioni o di ceneri residue, cosa che invece sembra si sia verificata in impianti che lo hanno utilizzato.

Così facendo è stato creato un vero e proprio “commercio” di tali materiali (che dal punto di vista pratico sono sempre rifiuti), liberamente gestiti nell’ambito di logiche commerciali della compravendita e divenendo quindi motivo di ingenti guadagni per chi li tratta a tutto danno per la salute pubblica e in totale spregio del concetto di recupero e riutilizzo della materia e della tutela della salute dei cittadini!

Cosa chiede la Petizione?

La Petizione chiede al Parlamento Europeo di:

- intervenire con le opportune azioni affinché si arrivi all’abrogazione del Decreto “Clini” in quanto in palese contrasto con la normativa comunitaria in materia di rifiuti e loro utilizzo. Si vuole così eliminare l’anomalia che permette ai cementifici di bruciare rifiuti nel ciclo di produzione del cemento “spacciandoli” per “normali combustibili”, con l’effetto di incrementare in modo drammatico le emissioni nocive nell’atmosfera.
- Verificare se negli impianti italiani, in particolare i cementifici che adottano i rifiuti CSS (Combustibili Solidi Secondari), vi sia stata violazione della normativa europea in essere in materia di incenerimento e coincenerimento.


La giornata di oggi a Bruxelles, scrivono i comitati promotori della petizione, “sarà l’occasione per ribadire di fronte all’Europa il nostro ‘no’ alla classificazione del CSS come combustibile! No al CSS nei cementifici! Per un sì convinto al diritto alla salute delle comunità e al rispetto dell’ambiente”.


fonte: http://www.italiachecambia.org/


I produttori di acque sposano la Plastics Strategy

European Federation of Bottled Waters annuncia obiettivi ambiziosi: 95% di raccolta e 25% di plastica riciclata nelle bottiglie entro il 2025.
















European Federation of Bottled Waters (EFBW), associazione che rappresenta a livello europeo i produttori di acqua in bottiglia, ha annunciato oggi un impegno per l’economia circolare articolato su quattro punti con l’obiettivo di aumentare la percentuale di raccolta di bottiglie PET e l’utilizzo di PET riciclato nella loro produzione.
Il primo impegno preso dai produttori di acque minerali è di raccogliereil 90% di tutte le bottiglie in plastica immesse al consumo a livello UE entro il 2025. Il secondo riguarda la percentuale di PET riciclato (rPET) utilizzato nella produzione di bottiglie, che dovrà arrivare al 25% sempre entro il 2025; e per raggiungere questo obiettivo, i produttori di acque minerali chiedono che migliori la qualità e l’omogeneità del PET recuperato e riciclato.
Le aziende che aderiscono a EFBW si impegnano inoltre ad innovare e investire ulteriormente nell’eco-design dei contenitori, per favorirne il riciclo e ridurre il peso, oltre che nella ricerca di plastiche non di origine fossile, ottenute da risorse rinnovabili.
Infine, occorre sensibilizzare i consumatori per prevenire la creazione di rifiuti, sostenendo iniziative che incoraggino la corretta selezione e lo smaltimento degli imballaggi a fine vita.
efwb Jean-Pierre DeffisObiettivi non semplici di raggiungere, anche per la scarsa omogeneità della raccolta a livello UE: si va infatti da oltre il 90% in alcuni paesi più virtuosi a meno del 20% in altri, nonostante il PET sia un materiale con un valore a fine vita. Per raggiungerli, EFBW intende collaborare con tutti i soggetti interessati, tra cui Plastics Recyclers Europe (PRE), l’associazione europea delle aziende che riciclano materie plastiche. Inoltre, per garantire trasparenza e responsabilità, EFBW riferirà regolarmente sui progressi raggiunti.
“Le bottiglie in PET per bevande raggiungono già oggi a livello comunitario il più elevato tasso di riciclo rispetto a qualsiasi altro imballaggio in plastica - afferma il presidente di EFBW, Jean-Pierre Deffis (nella foto) -. Ma ogni singola bottiglia che finisce nei rifiuti è una di troppo”. “Serve uno sforzo concertato e coordinato da parte di molti attori della filiera per portare ad un cambiamento positivo - ha aggiunto -. I membri di EFBW stanno intensificando i loro sforzi per aprire la strada".
Alla European Federation of Bottled Waters aderisce per l’Italia la Federazione delle industrie delle acque minerali e delle bevande analcooliche - Mineraqua.
fonte: www.polimerica.it

Nasce RE-Source Platform, per “convertire” le aziende alle rinnovabili

Mettere a frutto le potenzialità dei Power Purchase Agreement per accelerare la trasformazione energetica dell’industria europea. Con questo obiettivo nasce RE-Source Platform


















Il cambiamento del modello energetico ha messo radici nel mondo delle imprese: oggi le grandi società tecnologiche come Google e Facebook stanno cavalcando l’onda degli accordi d’acquisto a lungo termine PPA (power purchase agreement) per garantirsi un posto di primo piano nella trasformazione energetica verde (leggi anche Da Microsoft a Google, come le aziende tecnologiche diventano verdi). E c’è anche chi, come la Lego, ha battuto qualsiasi altra realtà industriale europea arrivando a produrre dalle fonti rinnovabili più elettricità di quella che consuma. Ma la vera rivoluzione è lungi dall’arrivare.

Per questo motivo SolarPower Europe e WindEurope,  RE100 e WBCSD hanno istituito la RE-Source Platform, prima piattaforma europea multi-stakeholder a riunire gli interessi degli acquirenti e quelli dei venditori di rinnovabili. Il meccanismo è semplice: da un lato c’è chi produce energia come quella eolica e solare, dall’altro chi vuole poter fare affidamento sull’elettricità “pulita” per mandare avanti il proprio business e vuole farlo con investimenti sicuri. La piattaforma sarà il luogo d’incontro tra le due parti.

“Nonostante il crescente interesse per l’approvvigionamento aziendale di energia rinnovabile in Europa, il potenziale rimane in gran parte inutilizzato. Oggi, solo un numero limitato di grandi attori del settore sono coinvolti nella fornitura di fer”, si legge sul sito web di RE-Source Platform. Ecco perché tra gli obiettivi della Piattaforma non c’è solo quello di creare nuove opportunità commerciali e incontri. Il progetto lavorerà anche altre due direttive: farà pressioni sulla legislazione UE e nazionale in materia di energie rinnovabili e del mercato dell’energia per promuovere un quadro politico migliore e aumenterà la consapevolezza di tutte le parti interessate sui vantaggi derivanti dall’approvvigionamento di fer.

“I PPA (Power Purchase Agreements) aziendali per le rinnovabili forniscono energia pulita, affidabile e competitiva all’industria in tutti i settori compresi quelli ad alta intensità energetica. Oggi è un modello ben consolidato in molti paesi europei”, spiega Giles Dickson, CEO di WindEurope. “L’industria europea ha firmato 1,5 GW di offerte PPA rinnovabili negli ultimi quattro anni, 1,3 GW legato solo a progetti eolici. RE-Source Platform avrà un ruolo fondamentale nella diffusione di questo modello in tutti gli Stati europei fino alle aziende più piccole”.

fonte: www.rinnovabili.it

Prodotti industriali dagli scarti della canapa: l’idea di Kanesis

Avvicinare il mondo dell'agricoltura a quello dell'industria, fornendo a quest'ultima la prima bioplastica a base di canapa, un materiale completamente vegetale ricavato dagli scarti. È questo il fulcro delle attività di Kanesis, progetto che promuove l'economia circolare ed il rispetto per la natura quale caposaldo della produzione industriale.





Un progetto che affonda le sue radici a Ragusa, in Sicilia, nella scoperta e ricerca sulle nuove bioplastiche, arrivando a ideare la prima a base di canapa; un’attività imprenditoriale che nello sviluppo delle nuove bioplastiche guarda alle filiere locali, ai suoi scarti organici e permette di creare una salda rete di economia circolare locale che fa incontrare agricoltura e industria. Un’impresa che ha fatto dell’educazione ambientale un perno importante del proprio percorso, incontrando anche il mondo dei Makers e della stampa 3d.

Tutto questo e molto altro è Kanèsis, crasi tra la parola canapa e il termine greco κίνησις (kinesis) ossia “movimento”, una startup ideata nel 2015 dall’incontro tra Giovanni Milazzo e Antonio Caruso. Già da prima del 2015 Milazzo, allora studente di ingegneria, era impegnato nella ricerca sul comparto industriale della pianta della canapa, arrivando poi insieme ad Antonio a brevettare la prima bioplastica a base di canapa, l’HempBioPlastic (HBP), un biocomposito completamente vegetale prodotto a partire dagli scarti di lavorazione della canapa industriale e che è la base dell’Hemp Filament, il filamento adatto per la stampa in 3d. Il progetto però ora sta evolvendo e dimostrando come anche gli scarti dell’agricoltura siciliana possano trasformarsi in materia prima contenente biomassa con i principi attivi necessari per le bioplastiche e per i prodotti congeniali al mondo industriale.
“Kanesis mette insieme l’agricoltura con l’industria. Come lo fa? Sfruttando delle biomasse di scarto delle filiere agricole e standardizzandole per l’industria.” Ci spiega Giovanni Milazzo: “Quando l’industria apprezza la biomassa che gli viene proposta si imposta un nuovo processo produttivo, dato che con la tua attività tu personalmente contribuisci a fornirgli un materiale migliore. Ma oltre a questo, gli hai reso un prodotto, che magari loro già producevano petrolchimico, ma ora più sostenibile grazie alla quantità di carica organica di scarto aggiunta”.
Passiamo allora a capire, sempre accompagnati da Giovanni, qual è l’ulteriore apporto innovativo che Kanèsis contribuisce a creare con questo prototipo di economia circolare: “Noi andiamo a guardare le filiere locali. Facciamo un esempio: un’azienda nel territorio di Ragusa che ricicla ogni anno quarantamila tonnellate di plastica petrolchimica. Questa azienda è vicina ad un’altra azienda che ha tantissimi aranci da potare. Lo scarto di quest’ultima azienda è la potatura degli aranci, spesso di grandi dimensioni. Questa potatura per loro è un problema ma per noi è un valore. Noi la prendiamo, la standardizziamo in granulometria e umidità e la aggiungiamo al polimero termoplastico della prima azienda citata: questa ha un valore aggiunto perché ha un volume di prodotto in più con un costo di produzione inferiore, che è di maggiore qualità, più leggero e meccanicamente più prestante.

















È una miscelazione meccanica molto semplice: matrice vegetale e cocktail di biomasse. Qui ho fatto l’esempio degli scarti provenienti dalla potatura degli aranci, ma si possono utilizzare carciofi, sulla (pianta foraggera appartenente alla famiglia delle Fabaceae, ndr), melograni, frumento, canapa appunto: a maggio uscirà il secondo filamento, lo faremo con gli scarti delle infiorescenze della canapa perché l’attuale è realizzato con gli scarti della sola lavorazione del fusto, il canapulo. Ognuna di queste biomasse conferisce al materiale finale un’identità con un nuovo concetto di bioplastica.
Dentro alle biomasse ci sono tutti i principi attivi che si possono usare per l’industria. I fluidificanti, gli stabilizzanti, gli emulsionanti sono già in natura! Un’azienda agricola ha spesso al proprio interno dei prodotti chimici naturali che produce senza saperlo, mentre le industrie del luogo che ne avrebbero bisogno se li vanno a comprare all’estero e in questo caso si tratta di sostanze chimiche di sintesi e nemmeno naturali”.
L’HempBioPlastic e l’attenzione al mondo delle bioplastiche di Kanèsis ha naturalmente attirato l’attenzione dei Makers e del mondo legato alla stampa 3d: “E’ stato il mondo dei Makers che ci ha scoperto” ci racconta Giovanni “noi abbiamo semplicemente guardato al sistema economico dei materiali e nel settore delle plastiche abbiamo verificato che il settore più in crescita era quello della stampa 3d. Così ci siamo messi a sviluppare un prodotto, l’Hemp Bio Plastic e il conseguente Hemp Filament, e l’abbiamo fatto testare da alcuni amici Makers qui in Italia, io ho lavorato molto allo sviluppo di questa rete. Oggi il filamento si è diffuso e riusciamo anche ad esportare in Asia attualmente”.


















Insieme ad un’altra realtà proveniente dall’altro lato dell’Italia, la varesina Coomingtools, Kanèsis è anche la promotrice di Hemprinted, primo brand italiano nato per creare oggetti a base di filamento di canapa in stampa 3d.
Per concludere riportiamo parte delle parole inserite nella mission di Kanésis e che ci ricollega al nostro punto di partenza: “Stabilire il rispetto per la natura quale caposaldo della produzione industriale è il fine ultimo del nostro lavoro. Il mezzo è sostituire i materiali plastici petrolchimici con quelli di derivazione vegetale affinché anche gli oggetti d’uso comune siano l’espressione di un ritorno alla natura consapevole e sostenibile”.


fonte: http://www.italiachecambia.org