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I burattini pazzi di Giampiero, che trasforma gli scarti in arte

 

È iniziato tutto con un gioco insieme a sua figlia: creare un burattini con delle lattine vuote. Poi è continuato e oggi Giampiero ha realizzato

Benvenuti al Plastic Bag Store, dove anche anche il pane è di plastica

Intervista all’artista americana Robin Frohardt che, con il suo The Plastic Bag Store, installazione partita da New York e ora a Los Angeles dopo essere passata dall’Australia, riflette sul ruolo della plastica nelle società consumiste















C’è un negozio in America, un classico grocery store, un alimentari di quelli che si incontrano in tutte le città statunitensi, con arance che scintillano dalle cassette della frutta, bibite coloratissime, scatole di cereali in fila sugli scaffali, affettati e insalata di cavolo nel reparto gastronomia e riviste di gossip e cucina accanto alla cassa. Tutto normale, per un attimo. Ma le arance scintillano un po’ troppo, il rosso di quella bistecca è sospetto, il pane sembra di gomma e la marca di quel gelato è… Bag & Jerry? Questo non è uno dei tanti anonimi grocery store americani, questo ne è la copia in plastica. Qui tutto è di plastica. Dalle carote alle salsicce, dalle torte al sushi, tutto è fatto di sacchetti per la spesa, bottiglie e tappi. The Plastic Bag Store è un’installazione e performance dell’artista Robin Frohardt che il 30 giugno ha aperto le porte a Los Angeles dove resterà fino all’11 luglio.

Lo scorso autunno era in un angolo di Times Square, a New York, dove avrebbe dovuto aprire, in una prima versione che includeva uno spettacolo di marionette dal vivo, il 18 marzo 2020. A installazione già pronta, dopo la prova generale, aveva dovuto chiudere per poi riaprire a ottobre. Nel frattempo lo spettacolo era diventato un film, commissionato con le restrizioni Covid in mente, dal Center for the Art of Performance della UCLA che oggi ha contribuito a portare l’intera installazione a Los Angeles.

La trasformazione da spettacolo dal vivo a progetto cinematografico ha reso più economico far girare l’installazione che a febbraio è già stata in Australia e altre tappe verranno annunciate nei prossimi mesi. Per Frohardt è un sogno che si avvera perché l’artista di base a Brooklyn a questo progetto ci stava pensando da quasi dieci anni.

Ce lo racconta in questa intervista in cui ci spiega l’idea dietro il suo lavoro, parla del suo rapporto con i rifiuti e ci dice che ci vuole un po’ di umorismo per mettere le cose in prospettiva.

Raccontaci come nasce l’idea del Plastic Bag Store.

L’idea mi è venuta anni fa osservando come al supermercato ti imbustano qualsiasi cosa, spesso con doppia busta: una busta, all’interno di un’altra busta, contiene cose già impacchettate in scatole con all’interno altre buste. È talmente sciocco che ho pensato che sarebbe stato divertente rendere l’idea in modo ancora più ridicolo, creando un alimentari che vendesse solo imballaggi. Via via che pensavo al progetto e iniziavo a realizzare i prodotti per il negozio, un po’ alla volta mi sono interessata al problema dell’inquinamento da plastica. Ho iniziato a leggere e ho scoperto che tutta la plastica che sia mai stata prodotta dall’uomo esiste ancora in qualche forma su questa terra, perché non si biodegrada, ma si fotodegrada e basta. È una cosa che il cervello fa fatica a processare: l’idea che il contenitore in cui conservavi il caffé nel 1997 è ancora da qualche parte là fuori è tragica ma anche interessante da un punto di vista narrativo. È affascinante pensare che gli oggetti che usiamo oggi resteranno in circolazione e qualcuno potrebbe trovarli in futuro, senza avere idea di cosa fossero e come li usassimo. Così ho iniziato a lavorare con le marionette per sviluppare una narrazione e l’alimentari di plastica è diventato una specie di teatro di marionette immersivo, in cui raccontiamo una storia piuttosto elaborata che si svolge nell’antichità, nel presente e nel futuro e che è un po’ sulla plastica come artefatto, ma anche sull’essere parte della lunga storia umana. Di certo non voglio fare la predica a nessuno, ma offrire un contesto, mettere le cose in prospettiva, dire che facciamo parte di un pianeta, sulla vasta scala del tempo.
L’apertura del Plastic Bag Store doveva inizialmente avvenire a marzo 2020, ma poi c’è stata la pandemia…

Abbiamo dovuto chiudere subito dopo la prova generale, ma per fortuna il proprietario dello spazio ci ha consentito di restare e siamo stati lì per tutto il lockdown: è stato strano ritrovarci con l’installazione nella Times Square della pandemia, mentre lavoravamo a una storia in cui un personaggio dell’era post-atomica trova tracce di un negozio di alimentari del passato. Nel frattempo avevamo pensato di trasformare lo spettacolo in un film, senza sapere se saremmo mai riusciti a mostrarlo davanti a un pubblico. Ma poi in autunno i contagi erano in calo e abbiamo deciso di mostrare il film in un modo simile a quello in cui era stato inizialmente concepito lo spettacolo, usando lo spazio in modo immersivo.

Avevi già in mente Times Square quando hai concepito l’idea o la scelta della location è venuta dopo?

L’idea iniziale risale a parecchio tempo fa, forse era il 2012. E da subito avevo pensato a Time Square, un posto con cui tutti i newyorchesi hanno un rapporto di amore/odio, anzi, forse odio e basta. Anche se, dopo averci portato il Plastic Bag Store, ora mi piace di più [ride]. Volevo che fosse in un postaccio perché il Plastic Bag Store è una cosa disgustosa, volevo che si mimetizzasse, che i turisti ci incappassero per caso. Ma al tempo non avevo né le risorse né le connessioni per realizzare una cosa del genere a Times Square. Negli anni ho cercato di farlo succedere; ma a un certo punto lo avrei fatto dovunque. Poi però sono stata contatta dalla Times Square Arts e… è stato perfetto!

The Plastic Bag Store avrebbe dovuto aprire nello stesso momento in cui era previsto che a New York City entrasse in vigore il divieto di utilizzo delle buste di plastica. È stata una coincidenza?

In parte sì, avevamo intenzione comunque di aprire l’installazione in primavera. Ma sapevamo che presto sarebbe entrato in vigore questo divieto e così poi abbiamo fatto in modo di aprire nella stessa settimana.

Da dove arriva il materiale? Come te lo sei procurato?

Sono sempre in cerca, quindi trovo sempre cose, poi ho avuto amici che conservavano alcune cose per me e ho raccolto altro materiale nel mio palazzo. E poi c’è un centro di riciclaggio di fronte al mio studio dove la gente porta sacchi di bottiglie. Con loro ho fatto accordi per alcune cose specifiche: a un certo punto per esempio mi servivano bottiglioni da due litri e cercarli nella spazzatura uno ad uno sarebbe stato un po’ lungo… [ride] 

Robin Frohardt, The Plastic Bag Store (Photos by Maria Baranova-Suzuki)

In passato hai lavorato molto con il cartone e ora hai fatto tutto in plastica. Due materiali diversi, ma l’approccio è simile?

Per anni ho lavorato solo in cartone, facendo installazioni e film. Ho sempre amato le limitazioni imposte dal materiale: mi interessava vedere fino a che punto si poteva arrivare con solo cartone e colla a caldo, cosa se ne poteva tirare fuori. È una cosa che ho sempre trovato molto liberatoria. Al contrario, l’idea che si possa fare qualsiasi cosa con qualsiasi cosa la trovo un po’ paralizzante. Per me le restrizioni sui materiali sono stimolanti. Quindi la sfida di realizzare cose da sacchetti e altri rifiuti in plastica che andavo via via accumulando mi entusiasmava. A livello artistico e artigianale è stato un lavoro che mi ha dato molta soddisfazione.

Nei tuoi lavori usi spesso materiale di scarto e i rifiuti entrano in diversi modi nel tuo lavoro anche a livello contenutistico. Da dove viene questo interesse o questa fascinazione?

Viene dal fatto che fossi un’artista povera e usavo tutto ciò che potevo procurarmi gratuitamente. L’ho scoperto a San Francisco: facevo installazioni con un gruppo chiamato il The Cardboard Institute of Technology. Ci siamo accorti che potevamo raccogliere scatoloni di cartone dalla spazzatura, farci la nostra installazione e una volta finita, ripiegare i cartoni e portarli al centro di riciclaggio dove ce li pagavano. Poi credo di essere sempre stata interessata ai detriti. Sono cresciuta in un posto dove c’erano un sacco di centri commerciali, si comprava tanto e si faceva tanta spazzatura. E poi anche vivere a New York City significa essere sempre circondati da spazzatura. Se inizi a farci caso ti accorgi che è ovunque.

Robin Frohardt, The Plastic Bag Store (Photos by Maria Baranova-Suzuki)

Quindi consideri i rifiuti una risorsa…

Decisamente sì e sono anche una cosa a cui ho sempre accesso. Non saprei immaginare di fare i lavori che faccio con materiali diversi, soprattutto perché tendo a creare cose che sono… tanta roba. Non so di quale materiale che non fosse totalmente gratuito potrei mai fare un intero negozio di alimentari… [ride]

In un tuo precedente lavoro i rifiuti tornano nella forma di un Dumpster Monster, il mostro del cassonetto. Chi è?

È un personaggio che inizialmente appariva nel sogno del protagonista del mio lavoro The Pigeoning, ma lì era molto piccolo, era una marionetta. Ma poi mi è venuta voglia di farne uno in scala reale: è un grosso pupazzo gonfiabile che vive dentro un cassonetto e si gonfia ed esplode dal cassonetto e bisogna prenderlo a bastonate per rimetterlo dentro. [ride] Lo stiamo portando in tour con il Plastic Bag Store, lo mettiamo in strada di fronte al negozio.

Robin Frohardt, The Plastic Bag Store (Photos by Maria Baranova-Suzuki)

Prima dicevi che non vuoi fare la predica a nessuno, ma Plastic Bag Store e altri tuoi lavori sembrano avere un messaggio.

È sempre complicato fare un lavoro che parla di qualcosa, perché non credo sia compito mio dire alla gente cosa fare, che decisioni prendere. Di sicuro non voglio far sentire in colpa nessuno. La plastica è così radicata nelle nostre vite che è incredibilmente impegnativo essere plastic free o anche solo limitarne il consumo. Ed è anche un privilegio: ci sono tutti questi prodotti riutilizzabili e in materiali alternativi alla plastica. Sono adorabili, ma spesso costosi. Spesso l’opzione più economica è l’opzione usa e getta. Spero che questo cambi in futuro, ma per ora è così. Quindi non ho intenzione di puntare il dito. In parte è inevitabile che la gente si senta un po’ a disagio nel Plastic Bag Store, ma voglio anche intrattenerla. Quando veniamo bombardati di immagini tragiche di tutte le cose orribili che stanno accadendo come l’inquinamento da plastica, la perdita di fauna selvatica, gli oceani, tendiamo a distogliere lo sguardo, perché è troppo, ci sentiamo impotenti. Il mio è un modo indiretto di affrontare il discorso attraverso l’umorismo, è una sorta di presa in giro di noi stessi che spero produca un maggiore coinvolgimento. Non sono nella posizione di pretendere purezza: per esempio noi facciamo del nostro meglio per rendere la produzione di The Plastic Bag Store il più ecologica possibile, ma prendiamo aerei per andare da un posto all’altro, trasportiamo parecchio materiale, insomma non siamo certo senza peccato.

Robin Frohardt, The Plastic Bag Store (Photos by Maria Baranova-Suzuki)

In che modo pensi che l’arte possa contribuire alla conversazione sul cambiamento di sistema?

Per cambiare le menti prima devi cambiare i cuori, la gente ha bisogno di sentire le cose prima di razionalizzarle in pensiero. Ed è qui che l’arte può entrare in gioco: toccare gli animi, entrare in connessione con le persone a livello emotivo, visivo, spirituale, qualunque sia il livello da cui poi si arriva alle idee. L’usa e getta e tutta questa plastica monouso sembra siano sempre stati parte della nostra vita, ma in realtà sono cose molto recenti. Certamente riusciremo a transitare verso un modello diverso, ma deve avvenire un cambiamento culturale che renda il passaggio naturale, che renda queste cose fuori moda e culturalmente indesiderabili, come fumare al ristorante… [ride] Se la gente non comprerà più queste cose, smetteranno di venderle. Detto questo, io sono solo un’artista. Tutto quel che possiamo fare è alimentare la fiamma della divulgazione pubblica, continuare ad aggiungere materiale all’idea e pezzi alla conversazione.

Dicevi che la plastica monouso è una cosa recente, ma nel film che è parte dell’installazione costruisci la buffa storia di un personaggio dell’antichità che inventa il business dell’acqua in vaso. Come mai hai voluto ambientare questa cosa nel passato?

Solo perché, messa in un altro contesto temporale, appare totalmente ridicola. Creare dei vasi usa e getta per contenere acqua che poi viene trasportata su navi attraverso i mari è così sciocco quando lo racconti in forma di favola ambientata nell’antichità, ma poi pensi: oh, è esattamente quello che facciamo! [ride]

Robin Frohardt, The Plastic Bag Store (Photos by Maria Baranova-Suzuki)

Cosa speri che il pubblico porti con sé del Plastic Bag Store?

Beh, spero niente perché non è in vendita [ride]. Che la gente capisca che la plastica è male sarebbe la risposta ovvia, ma vorrei andare un po’ oltre. Si tratta di capire il contesto in cui siamo, comprendere dove siamo nel percorso della storia umana ed essere consapevoli della longevità di alcune delle decisioni che prendiamo oggi. E poi magari la prossima volta che entri in un supermercato ti sembrerà di essere nel Plastic Bag Store e forse questo produrrà un cambiamento nella tua mente.

Se tra mille anni qualcuno dovesse trovare il Plastic Bag Store cosa penserebbe?

Spero che non succeda. Spero che avrò riciclato ogni singolo pezzo dell’installazione e lo avrò trasformato in qualcosa di irriconoscibile. O magari sarà in un museo, ma non in un museo di indecifrabili reliquie come quello che i visitatori attraversano nel Plastic Bag Store, un museo d’arte! [ride]

fonte: economiacircolare.com



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Pesticidi, cala l’uso in Europa. E intanto si sperimentano trattamenti alternativi dagli scarti della birra








Gli agricoltori europei stanno riducendo velocemente l’impiego di pesticidi, in linea con il programma Farm to Fork, che prevede un abbattimento del 50% dei fitofarmaci in generale e di quelli pericolosi in particolare entro il 2030. Lo certificano gli ultimi dati resi noti dalla Commissione, secondo i quali, rispetto al periodo di riferimento 2015-2017, nel 2018 c’è stata una diminuzione dell’8% nell’uso di pesticidi e nel rischio di utilizzo, e nel 2019 un’ulteriore diminuzione del 5%.

Si tratta di valori incoraggianti. Tra il 2011 e il 2016, infatti, il calo medio annuale è stato del 4%, mentre negli ultimi anni questa percentuale è aumentata. Inoltre, sempre rispetto al periodo di riferimento, nel 2019 si è avuta una diminuzione del 12% dei pesticidi più pericolosi per la salute, quasi tutti candidati alla sostituzione: un dato particolarmente significativo, perché dal 2011 si era registrata invece una tendenza all’aumento.


Un gruppo di ricercatori ha sperimentato un composto a base di scarti della produzione della birra e della colza miscelato con letame fresco

Nel frattempo crescono i progetti che hanno l’obiettivo di trovare sostituti sostenibili ai pesticidi, meglio ancora se ottenuti da materiali di scarto. Uno degli esempi è stato illustrato su Frontiers in Sustainable Food Systems dai ricercatori dell’Istituto basco per la ricerca agricola e lo sviluppo di Derio, in Spagna, e si basa su un’inedita miscela: quella tra gli scarti della lavorazione della birra e della colza e il letame fresco. L’unione di questi composti, infatti, fornisce al terreno tutto ciò che serve per far sviluppare un microbiota che tiene lontani i parassiti (in particolare i nematodi) e, al tempo stesso, essendo una fonte di azoto, funziona da fertilizzante.

Per verificarne l’efficacia, i ricercatori baschi lo hanno utilizzato in una serra dove veniva coltivata lattuga. La miscela è stata testata utilizzando la tecnica della biodisinfestazione, cioè con la copertura del terreno attorno alla pianta con un telo di plastica dopo l’aggiunta di concimi, proprio per limitare il rischio di infestanti. Metà del campo è stata trattata con il solo letame e senza copertura, come controllo. All’altra metà è stato aggiunto il compost sperimentale e il telo plastico per sette settimane, mentre si effettuava un controllo regolare della temperatura del terreno a tre diverse profondità.


Il composto, oltre ad agire come fertilizzante, stimola il microbiota del terreno, riducendo malattie e parassiti e migliorando la resa

In base a quanto registrato subito prima e subito dopo il trattamento, dopo il primo raccolto e infine a un anno di distanza, tutti gli indici sono risultati a favore del compost. Infatti, il raccolto è aumentato del 15% in un anno, mentre il terreno è risultato modificato in senso positivo, soprattutto a partire dal momento del primo raccolto. È stata osservata una chiara diminuzione dei nematodi (in particolare di Meloidogyne incognita) e delle patologie delle radici a essi associate, e un aumento della presenza di specie batteriche considerate favorevoli, come confermato dall’aumento dei parametri della “respirazione” del terreno. Secondo gli autori, ci potrebbero essere anche altre miscele con sottoprodotti delle lavorazioni agricole in grado di assicurare gli stessi risultati: vale la pena di continuare a sperimentarle.

fonte: www.ilfattoalimentare.it

 

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Scarponi da trekking, ora con scarti di pelle dalle auto

Scarponcini di trekking creati con scarti di pellame per seggioli d'automobile, la novità di riciclo introdotta da un'azienda americana.




Anche le scarpe da trekking finalmente possono entrare di diritto nel mondo delle proposte alternative ed ecologiche, per lungo tempo l’attenzione è sempre stata rivolta ad abiti e accessori. Ma lentamente, letteralmente passo dopo passo, anche le calzature si sono ritagliate uno spazio personalizzato nel mondo della moda sostenibile.

Tra le tante proposte spicca il brand KEEN che da tempo punta a realizzare calzature comode, di qualità e con l’impiego di materiali di riciclo.

L’azienda ha da tempo avviato il programma Detox The Planet creato per ridurre al minimo l’impatto sul Pianeta, attraverso la realizzazione di articoli frutto di progettazioni rispettose e consapevoli. L’azienda ha intrapreso un cammino produttivo maggiormente ecologico, attraverso la riduzione di elementi inquinanti anche per la concia delle stesse pelli.

Oltre all’impiego di plastica riciclata e di lana lavorata e prodotta in America, per una produzione a chilometro zero, fino all’utilizzo di cotone organico.

Sempre all’interno del progetto Detox The Planet l’azienda ha deciso di includere anche una serie di materiali di scarto davvero singolari, come gli avanzi di pelle dalla produzione di seggiolini per auto. Articoli solitamente eliminati dal processo produttivo e non riutilizzabili, ma che KEEN ha deciso di includere nel fase di creazione dei suoi scarponcini da trekking. Gli scarti vengono tagliati e ridimensionati in base al modello da realizzare, sostituendo di fatto il pellame vergine.

Non solo perché l’azienda acquista solo pellami certificati ovvero con un impiego di sostanze non inquinanti e con uno sfruttamento limitato dell’acqua. Un discorso a 360° che coinvolge ogni fase produttiva degli articoli dell’azienda stessa, compresi occhielli, lacci e fibbie che vedono l’utilizzo di materiali di riciclo e privi di sostanze tossiche.

Così da ottenere calzature non solo ecologiche e rispettose dell’ambiente, ma principalmente valide, resistenti e costruite per durare nel tempo. Una circolarità produttiva importante che tiene conto delle risorse della terra e del loro impiego, in modo equilibrato e sostenibile.

Fonte: TreeHugger


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Vivogreen Terni: Ridurre i rifiuti a partire dalla spesa

 









Come possiamo ridurre i rifiuti, partendo dalla spesa? Incontro con il Professore Carlo Santulli, docente presso l'università di Camerino, si parla di riduzione degli imballi, di riuso e di trasformazione degli scarti per creare nuovi materiali, e di biomimetica.



vivogreen srl



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Dagli scarti della lana, coperture e fertilizzanti per l’agricoltura

È l’idea “circolare” alla base di Lokalana, progetto vincitore dell’hackathon “Onda Z @ Klimahouse 2021”. Una soluzione che permetterebbe di abbattere gli sprechi soprattutto nei territori più legati alla produzione e lavorazione di questa fibra tessile





Utilizzare gli scarti della lana per creare coperture e fertilizzanti per il mondo agricolo, sfruttando le proprietà naturali di questa fibra. Così l’industria tessile potrebbe aggiungere un ulteriore mattoncino al suo percorso di “circolarizzazione“. L’idea è di un gruppo di giovanissimi studenti della facoltà di Design della Libera Università di Bolzano, vincitori dell’hackathon “Onda Z @ Klimahouse 2021”. Si tratta della seconda edizione della maratona progettuale, organizzato da Onde Alte, B Corp e dal laboratorio multidisciplinare di innovazione sociale. L’evento ha impegnato oltre 60 partecipanti – ragazzi dai 19 ai 30 anni – in una sfida comune: proporre idee e progetti con cui affrontare la crisi climatica.

Dopo 3 giorni di lavori, la giuria ha premiato Lokalana, un’innovativa soluzione per abbattere lo spreco della lana. Problema particolarmente sentito in territori come l’Alto Adige, dove si contano ogni anno oltre 60 tonnellate di questa fibra destinate ai rifiuti.
L’idea di Lokalana

L’idea di Lokalana Sto arriva dal team Cyclops, composto da 2 ragazzi e 4 ragazze della Libera Università di Bolzano. Cuore del progetto, il riciclo degli scarti di lana per creare nuovi prodotti. Una volta degradata, la materia prima, infatti può essere utilizzata come fertilizzante; o come elemento di protezione per il suolo secondo la pacciamatura, tecnica utilizzata per mantenere il terreno caldo nel periodo invernale e fresco in estate, riducendo la necessità di annaffiare. La copertura è pensata per proteggere le coltivazioni dagli sbalzi di temperatura e dai raggi UV.

Il team Cyclops ha vinto un percorso di consulenze per lo sviluppo del progetto con NOI techpark di Bolzano. Si tratta dell’Hub dell’innovazione dell’Alto Adige dove Aziende, Istituti e Università collaborano a nuovi progetti di ricerca e sviluppo.

La giuria di Onda Z ha riservato anche una menzione speciale al team Puerto Escondido. Il gruppo, con il progetto Io USO sfUSO, ha proposto la creazione di una rete di piccoli produttori locali, partendo dalla realtà territoriale di Varese, per incentivare comportamenti sostenibili e l’acquisto di prodotti sfusi da parte del consumatore.

fonte: www.rinnovabili.it


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Economia circolare del cibo a Milano: fare rete è il modello vincente

 


Il Comune di Milano ha sviluppato un modello di riciclo degli scarti che permette di differenziare fino a quasi il 60% dei rifiuti.

Un approccio all’economia circolare del cibo significa ridurre il nostro impatto sull’ambiente e contribuire al tempo stesso alla lotta contro la malnutrizione. Si tratta del Goal 2 dei SDGs che intende porre fine alla fame, garantire la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere un'agricoltura sostenibile.

Diventa necessario ridurre lo spreco, recuperare gli scarti e minimizzare l’impatto ambientale dell’intera industria. Il momento particolare che stiamo attraversando a causa della pandemia è un’occasione per ripensare l’intero ecosistema produttivo, rivalutando l’economia circolare e la bioeconomia in armonia con i fondamenti del Green New Deal, il programma lanciato dall’Unione Europea per raggiungere la neutralità delle emissioni inquinanti entro il 2050.

Parlando in numeri, secondo Ispra nel 2018 abbiamo prodotto 14,5 milioni di tonnellate di rifiuti alimentari o derivanti dal packaging, cifre che si ripercuotono inevitabilmente sullo smaltimento dei rifiuti. Sebbene nelle piccole città la gestione dei rifiuti e della raccolta differenziata si è rivelata un modello ben riuscito, è anche vero che Milano si colloca al primo posto delle città al di sopra del milione di abitanti con il 58,8% di raccolta differenziata porta a porta e al secondo posto tra le città sopra ai 200 mila abitanti, dietro Venezia con 59,5%. In termini di produzione di rifiuti urbani pro capite con 502,1 kg/ab/anno il Comune di Milano è al di sotto della media del Nord Italia al di sotto dei valori delle altre grandi città. Un modello cittadino di economia circolare possibile, dunque.

Come si legge nel report del Comune di Milano con la Fondazione Cariplo e Novamont dal titolo “Economia circolare del cibo a Milano”, è stato realizzato un sistema industriale le cui dimensioni economiche sono cresciute negli anni grazie ad una rete di consorzi dedicati al miglioramento della raccolta, selezione e riciclo dei flussi di rifiuti differenziati. Fondazione Cariplo ha infatti sottoscritto il Protocollo lombardo per lo sviluppo sostenibile e ha firmato un Accordo Quadro specificatamente dedicato all’ambiente.

Dal 2014 Milano e Fondazione Cariplo hanno avviato un’agenda sul tema del cibo coinvolgendo tutti gli attori interessati, dai cittadini, agli Enti pubblici, associazioni, imprese e Università. Un progetto a cui ha preso parte la stessa Cariplo Factory, con l’iniziativa Food Policy Hot Pot, volta a sviluppare l’innovazione all’interno del sistema alimentare della città e alimentare il virtuosismo di Milano, prima città italiana a dotarsi di una policy legata al cibo.

Non è l’unica iniziativa: Cariplo Factory partecipa anche al progetto Food Trails. Ben undici città oltre Milano come Copenaghen, Varsavia, Birmingham, Bordeaux, Bergamo, Funchal, Groningen, Grenoble, Salonicco e Tirana, le Università di Cardiff, Wageningen e Roskilde e cinque player del sistema alimentare e di innovazione scendono in campo per evidenziare azioni concrete per supportare lo sviluppo e il consolidamento di politiche alimentari utili e praticabili. Il progetto europeo approvato nell’ambito del programma Horizon 2020 intende individuare eventuali ostacoli amministrativi alla replicabilità e trasferibilità delle politiche, permettendo successivamente di estendere queste conoscenze ad una rete più ampia di città. In ogni città vengono istituiti dei Living Labs per coordinare l’attuazione delle iniziative di innovazione del sistema alimentare, favorire la condivisione di idee tra istituzioni e l’ecosistema di attori della città e attrarre opportunità finanziarie che contribuiscano alla sostenibilità di tali sistemi a lungo termine.

Perché il riciclo sia un modello vincente è fondamentale che gli scarti possano essere riutilizzati anche da realtà che oggi non solo non se ne occupano ma neanche immaginano di poter diventare attori del processo. È qui che entra in gioco Open Innovation, uno spazio per le startup che intendono dare un contributo importante per migliorare la filiera del cibo in Italia ad esempio attraverso soluzioni e idee innovative che abilitino il controllo della qualità del cibo, o che ne migliorino la tracciabilità lungo l’intera catena del valore, o ancora che aiutino o migliorano il recupero delle eccedenze alimentari. Già nel 2018 Cariplo Factory ha attivato, insieme a Intesa Sanpaolo Innovation Center, il Circular Economy Lab (CE Lab), primo laboratorio per la circular economy in Italia che collega le imprese con le startup innovative.

fonte: www.nonsoloambiente.it/


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Il cibo è salute, oggi un focus su spreco alimentare e scarto organico

 













Si è svolto oggi, nell’ambito del progetto “Il Cibo è Salute“, un incontro online con gli studenti dell’Istituto Tecnico Tecnologico Da Vinci di Foligno. Tema centrale il rapporto tra Ambiente, Cibo e Salute, con uno sguardo particolare sulla prevenzione dello spreco alimentare, sulla corretta gestione dei rifiuti e sul compostaggio.



Durante l’evento, a cura di Movimento Difesa del Cittadino Perugia, sono intervenuti Tommaso Bertolini, dell’app Too Good To Go, e Enzo Favoino, ricercatore presso la Scuola Agraria del Parco di Monza e tra i fondatori dell’ECN (European Compost Network). Favoino è anche coordinatore del Comitato Scientifico di Zero Waste Europe (il network di riferimento per la strategia Rifiuti Zero in Europa) e di Zero Waste Italy e Membro del Board di ZWIA (Zero Waste International Alliance).

Un’occasione per confrontarsi con i ragazzi sull’importanza, oggi più che mai, di “salvare” i beni alimentari, riducendo quindi gli sprechi, anche a tutela della salute e dell’ambiente, minacciato dai cambiamenti climatici.
Spreco alimentare, alcuni numeri

Un terzo di tutto il cibo viene sprecato, con conseguenze ambientali, sociali e ed economiche. 1,6 miliardi di tonnellate in totale, di cui 1.3 miliardi edibili e 300 tonnellate non edibili. Uno spreco che – spiega Tommaso Bertolini – si verifica lungo tutta la filiera agroalimentare.

In base a una media degli sprechi a livello globale, il 32% avviene nella fase di produzione, il 23% nella fase di trattamento e stoccaggio, il 10% in quella di lavorazione e packaging, il 13% in distribuzione e retail e il 22% nella fase di consumo. (Fonte; Fao, 2011; BCG 2018)

In Europa, in particolare, il 53% dello spreco alimentare si verifica proprio tra le mura domestiche (Fonte: EU Fusions 2016).

Numeri che mettono in luce la necessità di affrontare la problematica nel suo complesso.


“Capire da dove arriva il cibo è un gesto rivoluzionario – afferma Tommaso Bertolini. – Andare a comprare qualcosa che ha una filiera più corta, prodotto senza un determinato uso di fertilizzanti e in modo sostenibile è un gesto importante, con un impatto importante”.
Come funziona l’app Too Good To Go?

Da queste premesse nasce l’idea di creare uno strumento in grado di mettere in contatto diverse realtà, dalle aziende al consumatore finale, nella lotta allo spreco alimentare.

L’app Too Good To Go, nata nel 2015 in Danimarca e presente in 13 Paesi d’Europa, permette a bar, ristoranti, forni, pasticcerie, supermercati ed hotel di recuperare e vendere online – a prezzi ribassati – il cibo invenduto “troppo buono per essere buttato”, grazie alle Magic Box. Delle “bag” con una selezione a sorpresa di prodotti e piatti freschi che non possono essere rimessi in vendita il giorno successivo.

L’utente si geolocalizza sull’app e cerca il suo store preferito nelle vicinanze. Con pochi click prenota e acquista le sue magic box. Completato l’acquisto il consumatore può andare a ritirarle, nella fascia oraria indicata, per scoprire cosa c’è dentro, mostrando tramite cellulare la ricevuta.




Fonte: Too Good To Go



Un sistema che la piattaforma definisce “win win win”, in cui tutti vincono.


“Gli utenti – spiega Tommaso Bertolini – acquistano delizioso cibo invenduto a prezzi convenienti, aiutiamo l’ambiente riducendo gli sprechi e gli store riducono lo spreco e possono raggiungere nuovi clienti”.

L’app ha lanciato, inoltre, il “Patto contro lo Spreco Alimentare”, a cui diverse aziende hanno già aderito. Tra le iniziative, l’Etichetta consapevole che, posta sulla confezione del prodotto, inviterà i consumatori a verificare se i il cibo sia ancora consumabile dopo la data minima di conservazione, grazie alla presenza di una frase distintiva “Spesso buono oltre” e ad una serie di pittogrammi che consiglieranno di “osservare, annusare, assaggiare”.
Il ruolo dello scarto organico

Quando il cibo non è più adatto al consumo umano cosa si può fare? Da questa domanda parte l’intervento di Enzo Favoino, che ha spiegato agli studenti in che modo può essere valorizzato lo scarto organico tramite il processo di compostaggio.

In ogni parte del mondo, Europa compresa, lo scarto organico rappresenta la gran parte del rifiuto urbano.


“Quando riusciamo a raccogliere bene lo scarto organico – spiega Enzo Favoino – si minimizza la percentuale di organico nel rifiuto residuo (indifferenziato), e il fatto di avere poco organico ci consente di ridurre la frequenza di raccolta del rifiuto residuo stesso”.

Questo produce due effetti positivi sulla raccolta dei rifiuti: una ottimizzazione operativa ed economica e un’ulteriore spinta per l’utente a separare meglio anche gli altri materiali riciclabili, come carta, plastica, vetro, metalli.
Cos’è il compostaggio?

Il compostaggio è un processo biologico del tutto naturale, mediante il quale i materiali organici si decompongono grazie all’azione di microrganismi e si trasformano in “compost”, un terriccio che può essere utilizzato nel giardinaggio, nell’orto, come fertilizzante naturale.

Il processo, pur essendo naturale, va però controllato e “ingegnerizzato” – spiega Favoino – in modo da velocizzarlo, assicurare prodotti di alta qualità e minimizzare problemi come il rilascio di odori, gas serra.

Il processo avviato nel modo corretto produce, quindi, un aumento della temperatura della massa di materiale, consentendo la sanitizzazione: muoiono gli organismi dannosi e sopravvivono quelli positivi che portano avanti il processo. Muoiono, ad esempio, i patogeni delle piante.





Alcune regole per il compostaggio

Favoino spiega che vi sono due tipologie di materiali destinati al compostaggio: quelli a lenta degradazione, come paglie, potature di siepi e alberi, e quelli putrescibili, come verdure, scarto alimentare cotto, scarti di carne e pesce. La regola è, quindi, miscelare questi due materiali e il metodo più semplice è quello di disporli a strati.

Un’altra regola importante è quella di allontanare l’eccesso d’acqua che, accumulandosi alla base, determinerebbe condizioni che potrebbero causare assenza di ossigeno e quindi la putrefazione del materiale.

Per evitare l’eccesso di acqua si potrebbe, ad esempio, fare il cumulo su uno strato drenante, come un bancale di legno, che tramite le sue fessure permette di sgrondare l’acqua, o uno strato di paglia o ramoscelli spezzati grossolanamente.

Con queste poche regole si può dare via libera alla fantasia per creare diversi sistemi di compostaggio.



“Realizzato/acquistato nell’ambito del Programma generale di intervento della Regione Umbria con l’utilizzo dei fondi del Ministero dello Sviluppo Economico. Ripartizione 2018”

fonte: www.mdcumbria.it



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I materiali di scarto? Sono gioielli preziosi

Tonnellate di oggetti gettati via ogni anno in Italia hanno ancora grandi potenzialità per una seconda vita. Con creatività e tecniche artigianali, alcune realtà italiane recuperano materiali di scarto per la creazione di gioelli e accessori unici e personalizzabili. Nuova utilità a RAEE, carta e cartone, e piccola oggettistica inutilizzata. Le storie dell'Atlante Italiano dell'Economia Circolare.










Le case di tutti noi sono piene di oggetti inutilizzati, o inutili, che occupano cassetti, mensole e armadi. Li teniamo lì ma sappiamo bene che molto probabilmente avranno come destinazione il cassonetto che, secondo il Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2018 di Occhio del Riciclone e Utilitalia, accoglie ogni anno 600 mila tonnellate di oggetti potenzialmente riutilizzabili. Per alcuni beni si prova la vendita presso mercatini dell’usato o piattaforme online, ma non tutto ha un valore se venduto così com’è. C’è chi per competenza e creatività riesce a dare seconda vita a molti degli oggetti che definiamo inutili. L’Atlante Italiano dell’Economia Circolare raccoglie alcune realtà che da scarti di oggetti della nostra quotidianità riescono a trarre nuovo valore e utilità trasformandoli in accessori e gioielli unici. La produzione artigianale valorizza i materiali di scarto rendendo ogni creazione diversa dall’altra: l’artigiano in questo contesto può non seguire uno schema di progettazione standard ma può personalizzare l’accessorio in base a quello che ha a disposizione e alle richieste del cliente, utilizzando la propria creatività per dare forma a un prodotto unico che riduca a zero gli sprechi.
Dal computer o frullatore che hai buttato un accessorio che completa il tuo outfit

A promuovere una seconda vita degli oggetti di scarto l’ingegno nei prodotti Midorj, realtà classificabile tra quelle dedite al riuso creativo di ciò che è destinato a discarica. In questo caso parliamo di rifiuti speciali elettrici e elettronici (RAEE) le cui componenti rappresentano il fulcro dei gioielli del laboratorio. Secondo il Centro di Coordinamento RAEE (CDCRAEE) in Italia la raccolta dei RAEE domestici ha toccato le 365 mila tonnellate nel 2020, un dato che supera la soglia del 2019 (+6,4%). Parliamo di un tipo di rifiuto che spesso racchiude ancora grandi potenzialità per un secondo riutilizzo nei settori più affini, come ad esempio l’elettronica, e in chiave di right to repair potranno essere centrali nel permettere a tutti i cittadini europei di avere a disposizione componenti sostitutive per riparare i propri apparecchi elettronici malfunzionanti. Con Midorj le piccoli componenti delle apparecchiature elettroniche trovano un’altra destinazione che comunque conferisce loro una vita più lunga e valorizza in maniera creativa il loro aspetto originale. Le capacità artigianali dell’artista si uniscono ai principi dell’economia circolare in un progetto dove parti elettroniche obsolete o di scarto vengono incastonate in modo creativo all’interno di una resina certificata che impedisce il loro deterioramento e la fuoriuscita di liquido dannoso. Questi piccoli elementi elettronici sono poi assemblati e abbelliti da profilati metallici industriali di recupero in ottone e acciaio che Midorj raccoglie da piccoli artigiani locali. La realtà ha infatti l’ambizione di creare una rete con gli artigiani locali e con chi si occupa del recupero di RAEE. Oltre alla progettazione di creazioni in cui si estende la vita di componenti elettroniche di scarto, Midorj riflette sull’importanza di prendersi cura dei prodotti che acquistiamo tramite una manutenzione costante che permetta di conservare intatta la loro bellezza nel tempo. Lo fa offrendo consigli su come trattare e pulire l’accessorio e mettendo a disposizione per ogni acquisto un panno dedicato alla manutenzione.

Da un borgo unico come Calcata, Lazio, arriva la storia di La Cartonera. Dalla creatività di un grafico nascono gioielli e accessori fatti a mano utilizzando carta e il cartone usato che comunemente troviamo nelle nostre case. Parliamo quindi di buste, cartoni delle uova, rotoli finiti di carta da cucina e carta igienica: questo specifico materiale che butteremmo nella raccolta differenziata della carta offre infatti infinite possibilità di lavorazione. Però invece di finire nel cassonetto, tutti gli scarti trovati dall’artista vengono messi da parte. La raccolta differenziata di carta e cartone ha toccato i 3,5 milioni di tonnellate nel 2019 in Italia, la seconda frazione più raccolta dopo l’organico, ma il settore stesso rappresenta un caso positivo sul territorio con un tasso di circolarità, ovvero l’utilizzo di fibre da riciclo nella produzione cartaria, pari al 60%. Dei buoni traguardi, ma se si vuole seguire la gerarchia dei rifiuti stabilita dalla Direttiva 2008/98/CE al riciclaggio si dovrebbe preferire la prevenzione del rifiuto o il suo riutilizzo, e nel suo piccolo l’attività della realtà di Calcata segue questo schema. Il materiale di scarto è impreziosito con vernici ad acqua e impermeabilizzato con un prodotto per il legno atossico, quindi gli accessorio puntano a essere totalmente sostenibili. Altra caratteristica circolare a cui l’artigiano ha pensato sin dal tavolo di progettazione è la scomponibilità degli accessori: il 95% del materiale è carta e cartone, il restante sono colla, metallo e corde sintetiche che sono assemblati in modo tale che sia facile il conferimento dei diversi materiali nella raccolta differenziata quando si deciderà di non utilizzare più la creazione.

Caccia al tesoro tra mercatini e oggetti dimenticati

Le tecniche artigianali più svariate sono utilizzate da Davanti agli Elefanti, atelier creativo nella città di Bologna. Il laboratorio crea pezzi unici di design e gioielli costituiti da materiali di recupero e oggetti inutilizzati, a cui viene dato nuovo valore e utilità in maniera creativa. Gli oggetti scovati e ricercati in mercatini dell’usato, mercerie dismesse o dimenticati nelle soffitte, vengono assemblati e lavorati in maniera armonica tramite la lavorazione dei metalli, la decorazione pittorica e il ricamo, in modo tale da creare prodotti unici che diano dignità a materiali scartati. Le creazioni sono costituite per il 90% da questi materiali che vengono recuperati prevalentemente localmente, per portare avanti un’attività che sia il più possibile attenta a ridurre il proprio impatto sull’ambiente. L’elemento che sicuramente accomuna le tre realtà sono le storie di tre donne che son riuscite a fare di qualcosa che tutti comunemente consideriamo senza valore, quindi un rifiuto, la base per un’attività lavorativa in cui possano valorizzare non solo i materiali di scarto ma anche le capacità e la creatività unica che le caratterizza.

fonte: economiacircolare.com

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Pallet in plastica riciclata: Premio per la logistica a Greenypack

Il pallet in plastica riciclata messo a punto da Simpool è stato premiato con il Logistico dell’Anno 2020.

















La società brianzola Simpool si è aggiudicata quest'anno ben due premi Logistico dell’Anno 2020: uno per i pallet in plastica riciclata GreenyPack, l'altro per il progetto di distribuzione delle acque minerali SI.A.M. Sicil Acque Minerali.

GreenyPack è un pallet prodotto con plastica ottenuta dal riciclo di poliaccoppiati, scarti di lavorazione e altre plastiche post-consumo (leggi articolo), proposto sul mercato attraverso un modello di condivisione “pooling” e “pay per-use”. I pallet sono dotati di funzioni 'smart' grazie a sistemi RFID per il tracciamento e al possibile inserimento nei vani interni - smontabili e rassemblabili - di dispositivi IoT.

Il secondo premio è stato assegnato al progetto di distribuzione delle acque minerali SI.A.M., che ha visto la creazione di Logiteam, la prima Rete di imprese italiane della logistica abbinata agli imballaggi terziari, coinvolgendo aziende siciliane della logistica e dei trasporti. Il progetto aveva l’obiettivo di ridurre le inefficienze della supply chain SI.A.M. Acque minerali legate ad una gestione poco efficiente dei pallet di trasporto riorganizzando sia geograficamente che strategicamente la distribuzione, così da eliminare i costi del trasporto di ritorno, ridurre i viaggi a vuoto e le emissioni di CO2.

fonte: www.polimerica.it


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Raccolta differenziata, circa 3,2 milioni di tonnellate l’anno sono da ri-buttare

Politecnico di Milano: «Gli scarti generati dal trattamento di tutte le frazioni della raccolta differenziata dei rifiuti urbani costituiscono complessivamente circa il 19% del materiale raccolto per via differenziata»













Una peculiarità tutta italiana nel modello di gestione dei rifiuti (urbani) è stata incentrare, da più di vent’anni, l’intera impostazione sulla raccolta differenziata come obiettivo da raggiungere: non solo però non abbiamo ancora raggiunto il target che abbiamo stabilito per legge (65% al 2012, invece nel 2019 è al 61,3%) ma abbiamo perso di vista tutta la filiera impiantistica che c’è dopo la suddivisione della nostra spazzatura – o meglio di una piccola parte, sostanzialmente imballaggi e organico – in tanti sacchetti diversi. Per scoprire, ad esempio, che circa un quinto della raccolta differenziata è da buttare di nuovo.

Il dato è noto, stavolta confermato da uno studio commissionato da Ricicla.tv al Politecnico di Milano.

«Nella gestione dei rifiuti urbani – sottolinea il Polimi – si è sempre posta particolare attenzione al raggiungimento di determinati obiettivi di raccolta differenziata. Più recentemente sono stati definiti obiettivi relativi alla quantità di rifiuti avviati ad effettivo recupero, nella consapevolezza che la raccolta differenziata rappresenta solo la prima fase di una virtuosa gestione dei rifiuti. I rifiuti raccolti in modo differenziato non possono essere avviati tal quali agli impianti di riciclo, ma necessitano di selezione, in modo da rendere il più omogeneo possibile il flusso destinato al riciclo. Ciò comporta la generazione di scarti, ossia rifiuti che non sono idonei all’avvio a recupero di materia. Anche nella fase di riciclo è possibile che si generino degli scarti dal processo di recupero vero e proprio». O meglio è certo, dato che il secondo principio della termodinamica naturalmente è valido anche per i processi industriali che hanno a che fare con l’economia circolare.

«L’attuale gestione e trattamento delle principali frazioni della raccolta differenziata dei rifiuti urbani genera – argomenta il Polimi – circa 3,2 milioni di tonnellate di scarti, di cui 3 milioni di tonnellate sono idonei al recupero energetico, che rappresenta la forma di gestione prioritaria rispetto allo smaltimento in discarica per i rifiuti che non possono essere sottoposti a recupero di materia. A questi si aggiungono 203.000 tonnellate di scarti derivanti dal trattamento delle altre frazioni della raccolta differenziata dei rifiuti urbani e non approfonditi in questa analisi (RAEE, raccolta selettiva, tessili, rifiuti da costruzione e demolizione e spazzamento stradale a recupero). Gli scarti generati dal trattamento di tutte le frazioni della raccolta differenziata dei rifiuti urbani costituiscono complessivamente circa il 19% del materiale raccolto per via differenziata, e se sommati al RUR attualmente generato lo incrementano del 26%, portando il quantitativo complessivo a sfiorare le 16 milioni di tonnellate all’anno».

Come riassumono dunque da Ricicla-tv, i numeri messi in fila dal Polimi «dicono che nel 2018 il trattamento di 17,5 milioni di tonnellate di rifiuti differenziati ha generato ben 3,2 milioni di tonnellate di scarti, circa un quinto del totale raccolto. Non tutte le filiere però generano uguale quantità di residui non riciclabili: per il vetro è il 14,8% del totale, per l’umido il 18,2%, per la carta il 22,6% mentre per alluminio e acciaio la percentuale supera di poco il 30%. Ma il dato più allarmante è quello sulla raccolta differenziata della plastica, che dallo studio è risultata generare, tra scarti di selezione e riciclo, oltre 778mila tonnellate di frazioni non riciclabili, pari al 66,3% del totale raccolto. Scarti che, quando non possono essere collocati in impianti sul territorio nazionale devono essere esportati a costi esorbitanti e che, quando anche la valvola dell’export viene meno, si accumulano negli impianti di selezione e riciclo fino a saturarli e a metterne a rischio il funzionamento».

Che fare dunque? La soluzione passa dagli elementi emersi ieri nel corso del webinar ‘Comparazione ambientale di scenari di sviluppo infrastrutturale nella gestione dei rifiuti’ organizzato da Utilitalia (la Federazione delle imprese di acqua, ambiente e energia).

«Il messaggio che vorremmo lanciare – dichiara il vicepresidente Filippo Brandolini – è di ‘evitare le semplificazioni’, cioè evitare di raccontare soltanto quello che fa comodo; è assolutamente indispensabile per affrontare la complessità che abbiamo di fronte. Dopo 20 anni di dibattito incentrato principalmente sul modello di raccolta differenziata da adottare, dobbiamo prendere decisioni urgenti e fare scelte coraggiose, cercando di recuperare un gap che se possibile è anche aumentato in questi anni; un divario sia culturale che industriale, oltre che di organizzazione e dotazione impiantistica. Abbiamo degli scenari di riferimento sulla base dei quali orientare le decisioni: il Programma nazionale di Gestione dei Rifiuti, il Piano Energia e Clima e la Tassonomia. Dobbiamo essere consapevoli – continua Brandolini – che la gestione dei rifiuti è parte dell’economia circolare, ma questa innanzitutto si può verificare o meno con l’immissione dei prodotti nel mercato, e quindi dalla loro progettazione, dall’eco-design, dalla loro riutilizzabilità o riciclabilità Nello studio presentato oggi, che punta a individuare qual è la soluzione migliore per la gestione dei rifiuti, è stato evidenziato un passaggio fondamentale ovvero che la strategia del recupero energetico determina il rendimento ambientale di un sistema di gestione; in altre parole se non abbiamo chiaro come risolviamo il problema di quei rifiuti non riutilizzabili e non riciclabili rischiamo di ostacolare e rendere più difficile tutto il processo».

In questo contesto anche le discariche «rimarranno indispensabili ma devono svolgere un ruolo residuale, dovranno essere impianti specialistici, ben distribuiti sul territorio nazionale e che per essere efficienti non abbiano bacini. Per il rispetto dei target di economia circolare, occuparsi delle discariche è una priorità e conseguentemente, come evidenziato dallo studio, va limitato il ricorso a impianti intermedi come i Tmb. Poi è necessario fare una scelta sul trattamento dell’organico, per il quale abbiamo stimato che al 2035 servono capacità impiantistiche aggiuntive per circa 3,2 milioni di tonnellate di rifiuti. Occorre inoltre recuperare e reinterpretare il principio di prossimità. Abbiamo visto che il trasporto dei rifiuti non è indifferente rispetto agli impatti ambientali; oggi 2,7 milioni di tonnellate di rifiuti vanno dalle regioni centro-meridionali a quelle settentrionali».

fonte: www.greenreport.it

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OLTRECAFE’: produce il primo pellet italiano da fondi di caffè

Oltrecafé produce il primo pellet italiano da fondi di caffè (economia circolare) che sviluppa più calore del legno








Oltrecafé produce il primo pellet italiano da fondi di caffè e permette di contribuire alla forte richiesta italiana di pellet per riscaldamento sostenibile.

Di fatto oltrecafè ha realizzato il primo business a ciclo chiuso offrendo soluzioni ad aziende già attive sul territorio che vogliano azzerare il loro impatto ambientale riutilizzando i loro scarti.


La seconda vita del caffè crea un prodotto innovativo e 100% riciclato a servizio di clienti green che abbiano scelto energia rinnovabile per riscaldarsi.

OltreCafé srl è una start up innovativa creata nel 2015 nel Ferrarese da Francesca Lovato che opera nel settore della bioeconomia per la produzione di solidi biocarburanti di seconda generazione.

Oltrecafè, nel 2018 ha vinto il premio Good Energy Award, dedicato alle aziende innovatrici e responsabili, nella categoria Agrifood.

Produce anche un pellet di legno da fonti selezionate di riciclo, evitando l’abbattimento di alberi e valorizzando risorse locali inutilizzate.
Problema

In Italia si originano circa 360.000 ton/a di fondi di caffè che smaltiti in discarica comportano costi di gestione per almeno 21 milioni di € e 131.400 ton di CO2 emessa. Ebbene, oltre che essere differenziati nell’organico per la produzione di compost o peggio non essere differenziati affatto, Oltrecafé crea un pellet con maggior potere calorifico del solo legno e contribuisce a salvare centinaia di alberi.

Risultato


1) ridurre la produzione di rifiuti ed aumentare la % di riciclo;
2) fornire energia pulita e sostenibile, sotto forma di biocarburanti come pellet fatto 100% in Italia, 100% riciclato.

INFO: http://www.oltrecafe.com/

fonte: www.economia-circolare.info


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