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Ingiustizie sociali e crisi climatica: il virus siamo noi?

 
















Questione di futuro. Guida per famiglie eco-logiche!" è il bel libro di Linda Maggiori, educatrice, scrittrice e fondatrice di due Reti, quella delle famiglie rifiuti zero e quella delle famiglie senz'auto. Un libro che induce tutti a più di una riflessione.
Leggiamo dal...

Benvenuti al Plastic Bag Store, dove anche anche il pane è di plastica

Intervista all’artista americana Robin Frohardt che, con il suo The Plastic Bag Store, installazione partita da New York e ora a Los Angeles dopo essere passata dall’Australia, riflette sul ruolo della plastica nelle società consumiste















C’è un negozio in America, un classico grocery store, un alimentari di quelli che si incontrano in tutte le città statunitensi, con arance che scintillano dalle cassette della frutta, bibite coloratissime, scatole di cereali in fila sugli scaffali, affettati e insalata di cavolo nel reparto gastronomia e riviste di gossip e cucina accanto alla cassa. Tutto normale, per un attimo. Ma le arance scintillano un po’ troppo, il rosso di quella bistecca è sospetto, il pane sembra di gomma e la marca di quel gelato è… Bag & Jerry? Questo non è uno dei tanti anonimi grocery store americani, questo ne è la copia in plastica. Qui tutto è di plastica. Dalle carote alle salsicce, dalle torte al sushi, tutto è fatto di sacchetti per la spesa, bottiglie e tappi. The Plastic Bag Store è un’installazione e performance dell’artista Robin Frohardt che il 30 giugno ha aperto le porte a Los Angeles dove resterà fino all’11 luglio.

Lo scorso autunno era in un angolo di Times Square, a New York, dove avrebbe dovuto aprire, in una prima versione che includeva uno spettacolo di marionette dal vivo, il 18 marzo 2020. A installazione già pronta, dopo la prova generale, aveva dovuto chiudere per poi riaprire a ottobre. Nel frattempo lo spettacolo era diventato un film, commissionato con le restrizioni Covid in mente, dal Center for the Art of Performance della UCLA che oggi ha contribuito a portare l’intera installazione a Los Angeles.

La trasformazione da spettacolo dal vivo a progetto cinematografico ha reso più economico far girare l’installazione che a febbraio è già stata in Australia e altre tappe verranno annunciate nei prossimi mesi. Per Frohardt è un sogno che si avvera perché l’artista di base a Brooklyn a questo progetto ci stava pensando da quasi dieci anni.

Ce lo racconta in questa intervista in cui ci spiega l’idea dietro il suo lavoro, parla del suo rapporto con i rifiuti e ci dice che ci vuole un po’ di umorismo per mettere le cose in prospettiva.

Raccontaci come nasce l’idea del Plastic Bag Store.

L’idea mi è venuta anni fa osservando come al supermercato ti imbustano qualsiasi cosa, spesso con doppia busta: una busta, all’interno di un’altra busta, contiene cose già impacchettate in scatole con all’interno altre buste. È talmente sciocco che ho pensato che sarebbe stato divertente rendere l’idea in modo ancora più ridicolo, creando un alimentari che vendesse solo imballaggi. Via via che pensavo al progetto e iniziavo a realizzare i prodotti per il negozio, un po’ alla volta mi sono interessata al problema dell’inquinamento da plastica. Ho iniziato a leggere e ho scoperto che tutta la plastica che sia mai stata prodotta dall’uomo esiste ancora in qualche forma su questa terra, perché non si biodegrada, ma si fotodegrada e basta. È una cosa che il cervello fa fatica a processare: l’idea che il contenitore in cui conservavi il caffé nel 1997 è ancora da qualche parte là fuori è tragica ma anche interessante da un punto di vista narrativo. È affascinante pensare che gli oggetti che usiamo oggi resteranno in circolazione e qualcuno potrebbe trovarli in futuro, senza avere idea di cosa fossero e come li usassimo. Così ho iniziato a lavorare con le marionette per sviluppare una narrazione e l’alimentari di plastica è diventato una specie di teatro di marionette immersivo, in cui raccontiamo una storia piuttosto elaborata che si svolge nell’antichità, nel presente e nel futuro e che è un po’ sulla plastica come artefatto, ma anche sull’essere parte della lunga storia umana. Di certo non voglio fare la predica a nessuno, ma offrire un contesto, mettere le cose in prospettiva, dire che facciamo parte di un pianeta, sulla vasta scala del tempo.
L’apertura del Plastic Bag Store doveva inizialmente avvenire a marzo 2020, ma poi c’è stata la pandemia…

Abbiamo dovuto chiudere subito dopo la prova generale, ma per fortuna il proprietario dello spazio ci ha consentito di restare e siamo stati lì per tutto il lockdown: è stato strano ritrovarci con l’installazione nella Times Square della pandemia, mentre lavoravamo a una storia in cui un personaggio dell’era post-atomica trova tracce di un negozio di alimentari del passato. Nel frattempo avevamo pensato di trasformare lo spettacolo in un film, senza sapere se saremmo mai riusciti a mostrarlo davanti a un pubblico. Ma poi in autunno i contagi erano in calo e abbiamo deciso di mostrare il film in un modo simile a quello in cui era stato inizialmente concepito lo spettacolo, usando lo spazio in modo immersivo.

Avevi già in mente Times Square quando hai concepito l’idea o la scelta della location è venuta dopo?

L’idea iniziale risale a parecchio tempo fa, forse era il 2012. E da subito avevo pensato a Time Square, un posto con cui tutti i newyorchesi hanno un rapporto di amore/odio, anzi, forse odio e basta. Anche se, dopo averci portato il Plastic Bag Store, ora mi piace di più [ride]. Volevo che fosse in un postaccio perché il Plastic Bag Store è una cosa disgustosa, volevo che si mimetizzasse, che i turisti ci incappassero per caso. Ma al tempo non avevo né le risorse né le connessioni per realizzare una cosa del genere a Times Square. Negli anni ho cercato di farlo succedere; ma a un certo punto lo avrei fatto dovunque. Poi però sono stata contatta dalla Times Square Arts e… è stato perfetto!

The Plastic Bag Store avrebbe dovuto aprire nello stesso momento in cui era previsto che a New York City entrasse in vigore il divieto di utilizzo delle buste di plastica. È stata una coincidenza?

In parte sì, avevamo intenzione comunque di aprire l’installazione in primavera. Ma sapevamo che presto sarebbe entrato in vigore questo divieto e così poi abbiamo fatto in modo di aprire nella stessa settimana.

Da dove arriva il materiale? Come te lo sei procurato?

Sono sempre in cerca, quindi trovo sempre cose, poi ho avuto amici che conservavano alcune cose per me e ho raccolto altro materiale nel mio palazzo. E poi c’è un centro di riciclaggio di fronte al mio studio dove la gente porta sacchi di bottiglie. Con loro ho fatto accordi per alcune cose specifiche: a un certo punto per esempio mi servivano bottiglioni da due litri e cercarli nella spazzatura uno ad uno sarebbe stato un po’ lungo… [ride] 

Robin Frohardt, The Plastic Bag Store (Photos by Maria Baranova-Suzuki)

In passato hai lavorato molto con il cartone e ora hai fatto tutto in plastica. Due materiali diversi, ma l’approccio è simile?

Per anni ho lavorato solo in cartone, facendo installazioni e film. Ho sempre amato le limitazioni imposte dal materiale: mi interessava vedere fino a che punto si poteva arrivare con solo cartone e colla a caldo, cosa se ne poteva tirare fuori. È una cosa che ho sempre trovato molto liberatoria. Al contrario, l’idea che si possa fare qualsiasi cosa con qualsiasi cosa la trovo un po’ paralizzante. Per me le restrizioni sui materiali sono stimolanti. Quindi la sfida di realizzare cose da sacchetti e altri rifiuti in plastica che andavo via via accumulando mi entusiasmava. A livello artistico e artigianale è stato un lavoro che mi ha dato molta soddisfazione.

Nei tuoi lavori usi spesso materiale di scarto e i rifiuti entrano in diversi modi nel tuo lavoro anche a livello contenutistico. Da dove viene questo interesse o questa fascinazione?

Viene dal fatto che fossi un’artista povera e usavo tutto ciò che potevo procurarmi gratuitamente. L’ho scoperto a San Francisco: facevo installazioni con un gruppo chiamato il The Cardboard Institute of Technology. Ci siamo accorti che potevamo raccogliere scatoloni di cartone dalla spazzatura, farci la nostra installazione e una volta finita, ripiegare i cartoni e portarli al centro di riciclaggio dove ce li pagavano. Poi credo di essere sempre stata interessata ai detriti. Sono cresciuta in un posto dove c’erano un sacco di centri commerciali, si comprava tanto e si faceva tanta spazzatura. E poi anche vivere a New York City significa essere sempre circondati da spazzatura. Se inizi a farci caso ti accorgi che è ovunque.

Robin Frohardt, The Plastic Bag Store (Photos by Maria Baranova-Suzuki)

Quindi consideri i rifiuti una risorsa…

Decisamente sì e sono anche una cosa a cui ho sempre accesso. Non saprei immaginare di fare i lavori che faccio con materiali diversi, soprattutto perché tendo a creare cose che sono… tanta roba. Non so di quale materiale che non fosse totalmente gratuito potrei mai fare un intero negozio di alimentari… [ride]

In un tuo precedente lavoro i rifiuti tornano nella forma di un Dumpster Monster, il mostro del cassonetto. Chi è?

È un personaggio che inizialmente appariva nel sogno del protagonista del mio lavoro The Pigeoning, ma lì era molto piccolo, era una marionetta. Ma poi mi è venuta voglia di farne uno in scala reale: è un grosso pupazzo gonfiabile che vive dentro un cassonetto e si gonfia ed esplode dal cassonetto e bisogna prenderlo a bastonate per rimetterlo dentro. [ride] Lo stiamo portando in tour con il Plastic Bag Store, lo mettiamo in strada di fronte al negozio.

Robin Frohardt, The Plastic Bag Store (Photos by Maria Baranova-Suzuki)

Prima dicevi che non vuoi fare la predica a nessuno, ma Plastic Bag Store e altri tuoi lavori sembrano avere un messaggio.

È sempre complicato fare un lavoro che parla di qualcosa, perché non credo sia compito mio dire alla gente cosa fare, che decisioni prendere. Di sicuro non voglio far sentire in colpa nessuno. La plastica è così radicata nelle nostre vite che è incredibilmente impegnativo essere plastic free o anche solo limitarne il consumo. Ed è anche un privilegio: ci sono tutti questi prodotti riutilizzabili e in materiali alternativi alla plastica. Sono adorabili, ma spesso costosi. Spesso l’opzione più economica è l’opzione usa e getta. Spero che questo cambi in futuro, ma per ora è così. Quindi non ho intenzione di puntare il dito. In parte è inevitabile che la gente si senta un po’ a disagio nel Plastic Bag Store, ma voglio anche intrattenerla. Quando veniamo bombardati di immagini tragiche di tutte le cose orribili che stanno accadendo come l’inquinamento da plastica, la perdita di fauna selvatica, gli oceani, tendiamo a distogliere lo sguardo, perché è troppo, ci sentiamo impotenti. Il mio è un modo indiretto di affrontare il discorso attraverso l’umorismo, è una sorta di presa in giro di noi stessi che spero produca un maggiore coinvolgimento. Non sono nella posizione di pretendere purezza: per esempio noi facciamo del nostro meglio per rendere la produzione di The Plastic Bag Store il più ecologica possibile, ma prendiamo aerei per andare da un posto all’altro, trasportiamo parecchio materiale, insomma non siamo certo senza peccato.

Robin Frohardt, The Plastic Bag Store (Photos by Maria Baranova-Suzuki)

In che modo pensi che l’arte possa contribuire alla conversazione sul cambiamento di sistema?

Per cambiare le menti prima devi cambiare i cuori, la gente ha bisogno di sentire le cose prima di razionalizzarle in pensiero. Ed è qui che l’arte può entrare in gioco: toccare gli animi, entrare in connessione con le persone a livello emotivo, visivo, spirituale, qualunque sia il livello da cui poi si arriva alle idee. L’usa e getta e tutta questa plastica monouso sembra siano sempre stati parte della nostra vita, ma in realtà sono cose molto recenti. Certamente riusciremo a transitare verso un modello diverso, ma deve avvenire un cambiamento culturale che renda il passaggio naturale, che renda queste cose fuori moda e culturalmente indesiderabili, come fumare al ristorante… [ride] Se la gente non comprerà più queste cose, smetteranno di venderle. Detto questo, io sono solo un’artista. Tutto quel che possiamo fare è alimentare la fiamma della divulgazione pubblica, continuare ad aggiungere materiale all’idea e pezzi alla conversazione.

Dicevi che la plastica monouso è una cosa recente, ma nel film che è parte dell’installazione costruisci la buffa storia di un personaggio dell’antichità che inventa il business dell’acqua in vaso. Come mai hai voluto ambientare questa cosa nel passato?

Solo perché, messa in un altro contesto temporale, appare totalmente ridicola. Creare dei vasi usa e getta per contenere acqua che poi viene trasportata su navi attraverso i mari è così sciocco quando lo racconti in forma di favola ambientata nell’antichità, ma poi pensi: oh, è esattamente quello che facciamo! [ride]

Robin Frohardt, The Plastic Bag Store (Photos by Maria Baranova-Suzuki)

Cosa speri che il pubblico porti con sé del Plastic Bag Store?

Beh, spero niente perché non è in vendita [ride]. Che la gente capisca che la plastica è male sarebbe la risposta ovvia, ma vorrei andare un po’ oltre. Si tratta di capire il contesto in cui siamo, comprendere dove siamo nel percorso della storia umana ed essere consapevoli della longevità di alcune delle decisioni che prendiamo oggi. E poi magari la prossima volta che entri in un supermercato ti sembrerà di essere nel Plastic Bag Store e forse questo produrrà un cambiamento nella tua mente.

Se tra mille anni qualcuno dovesse trovare il Plastic Bag Store cosa penserebbe?

Spero che non succeda. Spero che avrò riciclato ogni singolo pezzo dell’installazione e lo avrò trasformato in qualcosa di irriconoscibile. O magari sarà in un museo, ma non in un museo di indecifrabili reliquie come quello che i visitatori attraversano nel Plastic Bag Store, un museo d’arte! [ride]

fonte: economiacircolare.com



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Dalla decrescita al benvivere

Una società che dispone di meno deve decidere cosa privilegiare: la priorità va data ai bisogni fondamentali: acqua, cibo, alloggio, energia, sanità, scuola, comunicazione, trasporti. Vanno garantiti in maniera gratuita, perché appartenenti alla fascia dei diritti e dunque di esclusiva competenza dell’economia pubblica, che – funzionando sul principio della solidarietà collettiva – è l’unica forma organizzativa che può praticare la gratuità. Per questo un serio progetto di ridimensionamento deve depotenziare il mercato e rafforzare l’economia pubblica, smettendo di concepirla come una struttura parassitaria che succhia ricchezza. Bisogna saper ripensare il lavoro, il ruolo del mercato, la funzione dell’economia pubblica, le forme di contribuzione all’economia collettiva, l’intreccio fra economia locale e economia globale, il ruolo e il governo della moneta

Foto tratta dal Fb di Semi di Comunità – CSA Roma

Non so se l’idea che mi sono fatto della decrescita sia la stessa dei suoi teorici, ma vi scorgo tre messaggi importanti. 1. Non si può perseguire la crescita infinita in un pianeta dalle risorse limitate. 2. La corsa dietro ai consumi compromette la qualità della vita per strangolamento delle relazioni. 3. Se vogliamo garantirci un futuro dobbiamo ridurre consumo di materia e produzione di rifiuti.

Ma enunciati i principi spuntano i nodi. Ad esempio in un mondo squilibrato come quello in cui viviamo, l’invito a ridurre non può valere per tutti, ma solo per gli opulenti, quelli che consumano 100 chili di carne all’anno, che possiedono più di un’auto ogni due persone, che producono più di 500 chili di rifiuti all’anno.

Quanto ai tre miliardi di miseri, hanno diritto a mangiare di più, vestirsi di più, studiare di più, curarsi di più, viaggiare di più, ma potranno farlo solo se gli opulenti accettano di sottoporsi a cura dimagrante perché c’è competizione per le risorse scarse. Dunque tutto bene con lo sviluppo avviato in Cina, India o Sudafrica? Non proprio considerato che agli impoveriti arrivano solo le briciole sotto forma di consumismo spazzatura.

La verità è che sia il Nord che il Sud hanno bisogno di un nuovo modello economico più orientato all’equità, con il Nord in posizione di maggiore difficoltà perché deve fare due operazioni in una: ridurre e riequilibrare.

Premesso che l’efficienza tecnologica non è sufficiente a realizzare il miracolo, la domanda che si pone per chi si occupa non solo di ambiente, ma anche di sopravvivenza delle persone, è come operare la trasformazione senza mietere vittime.

Non a caso fra gli oppositori alla decrescita ci sono i sindacati preoccupati per i posti di lavoro in un sistema dove la forma prevalente di lavoro è quella salariata fortemente ancorata alla crescita dei consumi.

In fin dei conti il grande punto interrogativo è se sia possibile coniugare sobrietà con piena occupazione e sicurezza sociale, concetti che sarebbe meglio ribattezzare piena partecipazione lavorativa e vita sicura per tutti.

La risposta è sì, che si può, precisando che la battaglia vera non è per la riduzione tout court del Pil, ma per una ristrutturazione di produzione e consumo ben sapendo che il sistema in cui viviamo ha sovraprodotto per il consumo privato e sottoprodotto per il consumo pubblico. 



Forse la parola giusta è spostamento a significare che dovremo ridurre certi settori e ampliarne altri: meno automobili più treni e autobus, meno strade più ferrovie, meno acqua in bottiglia più acquedotti, meno centrali a carbone più pannelli solari, meno case di nuova costruzione più ristrutturazione di quelle esistenti, meno pubblicità più scuola, minor uso di materie prime più recupero di rifiuti, meno importazione di .cibo più agricoltura locale.

Di sicuro una società che dispone di meno deve decidere cosa privilegiare e personalmente non ho dubbi che la priorità va data ai bisogni fondamentali: acqua, cibo, alloggio, energia, sanità, scuola, comunicazione, trasporti.

Bisogni da garantire in maniera gratuita perché appartenenti alla fascia dei diritti e proprio per questo di esclusiva competenza dell’economia pubblica, che funzionando sul principio della solidarietà collettiva è l’unica forma organizzativa che può praticare la gratuità.

Per questo credo che un serio progetto di ridimensionamento deve depotenziare il mercato e rafforzare l’economia pubblica, smettendo di concepirla come una struttura parassitaria che succhia ricchezza.

Al contrario deve viverla come uno spazio produttivo comune che oltre a garantire i bisogni fondamentali, garantisce un’occupazione minima per tutti.

Certo, per raggiungere un obiettivo tanto ambizioso, in un contesto di economia rallentata, bisogna inventarsi altri modi di fare funzionare l’economia pubblica, che non sia più quello fiscale.

Potrebbe essere il servizio civile obbligatorio, la tassazione del tempo in alternativa alla tassazione del reddito, il lavoro comunitario in cambio di un reddito di cittadinanza.

Le soluzioni tecniche alla fine si trovano, il problema è culturale. Bisogna saper ripensare il lavoro, il ruolo del mercato, la funzione dell’economia pubblica, le forme di contribuzione all’economia collettiva, l’intreccio fra economia locale e economia globale, il ruolo e il governo della moneta.

Questi sono i nodi da affrontare per una società del benvivere, termine più appropriato per una società che dopo avere superato la fase di dimagrimento, cerca la giusta dieta per mantenere il peso forma. Dunque politica alta per la decrescita, tenendo a mente l’avvertimento di Langer: “la conversione ecologica avverrà solo se sarà socialmente desiderabile”.

Articolo pubblicato anche sul quotidiano l’Avvenire

fonte: www.comune-info.net

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Auguri alla terra e alla decrescita salvifica


Abbiamo otto anni di tempo per smettere di bruciare combustibili fossili e avere buone probabilità di salvarci la vita. Quindi, il migliore regalo che possiamo fare ai nostri figli e nipoti, a tutti i bambini di cui dovremmo prenderci cura più di ogni altra cosa al mondo, è non comperare nulla, non consumare, comportarci come se fossimo poveri anche nel caso in cui non lo fossimo.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il cambiamento climatico porterà alla penuria di cibo, dicono gli scienziati e, se avessimo un cervello, lo potremmo capire da soli. I caldi estremi distruggono i raccolti, le siccità i raccolti e il bestiame; le gelate tardive, le tempeste, le inondazioni fanno lo stesso. E, dato che tutto questo è sempre più frequente e sempre più esteso, cioè colpisce nello stesso anno tanti paesi e tanti continenti diversi, è inevitabile, in tempi più o meno lunghi e non prevedibili, il crollo della produzione di alimenti e il conseguente rialzo dei loro prezzi.
Abbiamo otto anni di tempo per smettere di bruciare combustibili fossili e avere buone probabilità di salvare la vita, più o meno come la conosciamo, su questo meraviglioso pianeta; buone probabilità di limitare i disastri, non giungere ai punti di non ritorno, evitare che la sesta estinzione di massa giunga a compimento.
E allora il migliore regalo che possiamo fare ai nostri figli e nipoti, a tutti i bambini di cui dovremmo prenderci cura più di ogni altra cosa al mondo, è non comperare nulla, non consumare, comportarci come se fossimo poveri anche nel caso in cui non lo fossimo. Tanto, sarà un buon allenamento per quando i prezzi degli alimenti si impenneranno e non ci saranno più soldi per paccottiglie inutili, inutili e costosi oggetti di "prestigio", irresponsabili viaggi in crociera e compagnia bella.
Riduciamo al minimo i nostri consumi in tutti i campi, alla faccia dello sviluppo e della crescita, queste sanguinarie divinità a cui stiamo sacrificando la vita in tutte le sue forme e, in ultimo, sacrificheremo l'avvenire dei nostri figli, come degli Abrami invasati che non danno retta nemmeno agli angeli.
Sviluppo e crescita sono falsi idoli che si nutrono di sfruttamento osceno di popoli e terre, di inquinamenti apocalittici, di competizione economica e sociale che distrugge anche le nostre anime. Creano schiavitù, abbrutimento, crimine, corruzione, disgregazione di comunità e paesi, avvelenamento di acque e terre.
Il migliore augurio che possiamo fare a tutte le creature che amiamo, umane e non, è quello di arrestare crescita e sviluppo economici, come cercheremmo di fermare un cancro che devasta un organismo. E possiamo farlo, proprio accrescendo e sviluppando qualcos'altro: la cultura, la responsabilità, la solidarietà. Possiamo farlo: siamo noi a nutrire questo cancro, non diamogli più da mangiare. Alla faccia dei folli che oggi governano il mondo, burattini delle proprie frustrazioni e della propria avidità, il cui enorme potere si fonda proprio su "crescita e sviluppo". Allora, come Alice nel Paese delle meraviglie, potremo dire loro "Ma a chi fate paura, voi? Non siete altro che un mazzo di carte!"
Natale per i cristiani festeggia la nascita di un dio fattosi uomo per amore e generosità. Dalla notte dei tempi le feste del solstizio invernale festeggiano la rinascita della terra nel buio dell'inverno, mentre il sole comincia il suo nuovo ciclo.
Auguriamoci con tutto il cuore, generosamente e attivamente, che il 2020 segni la rinascita di questa terra su cui abbiamo la fortuna di vivere.    

fonte: www.ilcambiamento.it

Transizione ecosolidale: un Ministero, adesso























Chi sta preparando il nuovo governo farebbe bene a dare alta priorità alle due maggiori urgenze che ci minacciano e che sono due facce della stessa medaglia: l’accelerazione della crescita delle disuguaglianze e la distruzione ambientale. Preoccupa che questo tema – perché, insisto, di un stesso tema si tratta – non sia neppure evocato tra i primi punti programmatici dei principali partiti e soprattutto che sia assente dalle trattative per quello che si autodefinisce «il governo del cambiamento».
Il cambiamento più urgente e improrogabile è, come scrive papa Francesco nella Laudato si’ «una certa decrescita in alcune parti del mondo, procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti». Infatti, «il ritmo di consumo, spreco e alterazione dell’ambiente ha superato le possibilità del pianeta, in maniera tale che lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi, come di fatto sta avvenendo in diverse regioni.
L’attenuazione degli effetti dell’attuale squilibrio – conclude Francesco –dipende da ciò che facciamo ora » (entrambe le citazioni sono tratte dal punto 193 dell’enciclica). Ciò che facciamo ora, già. È proprio ora, in questi giorni, che qui in Italia «il governo del cambiamento» può dimostrare di essere all’altezza del suo slogan fondativo. Come? Con un Ministero della transizione ecologica e solidale come in Francia. Il presidente Macron ne ha fatto uno dei due Ministeri più importanti, i due soli diretti da un Ministre d’État (una sorta di vice primo ministro).
L’altro Ministre d’État è quello dell’Interno. Questo indica che, proprio in un Paese martoriato dal terrorismo, l’emergenza socioecologica (nazionale e mondiale) è considerata altrettanto importante dell’emergenza securitaria. Sarebbe importante, perciò, se anche in Italia si facesse dell’assegnazione di questo nuovo ministero una priorità nelle trattative di governo e se si arrivasse alla nomina di un ministro con ampi poteri, scegliendo una persona di alto profilo che abbia competenza e riconoscimento internazionali sul tema della transizione ecologica e solidale. Oltralpe, Macron è riuscito in quello che avevano tentato invano ben tre altri presidenti: ha convinto a diventar ministro Nicola Hulot, il più rispettato ecologista francese, quel monsieur Environnement (il signor Ambiente) che in Francia più incarna il legame tra ecologia e giustizia sociale.
Forse Hulot riuscirà a cambiare di poco il corso di cose che hanno un’inerzia enorme, eppure, egli ha già un grande merito: aver abbinato alla parola 'ecologia' l’aggettivo 'solidale': Ministero della transizione ecologica e solidale. La Presidenza e il Governo francesi hanno così affermato al massimo livello istituzionale il concetto che la ingiustizia sociale e la degradazione ambientale sono due facce della stessa medaglia. Gli uni (persone e nazioni) degradano l’ambiente perché sono troppo poveri per potersene prendere cura. Gli altri (persone e nazioni) degradano l’ambiente perché sono troppo ricchi per ridurre i loro insostenibili consumi.
È impensabile di risolvere la questione socio-ambientale senza mettere mano a entrambi questi eccessi. Studi scientifici, rapporti e libri (per esempio 'Social-écologie', di Eloi Laurent) documentano e affermano questo legame. Eppure, quasi nessun Governo ne sta tenendo conto. Sarà capace di farlo il prossimo «governo del cambiamento»? Secondo un’ipotesi formulata molto prima della crisi ambientale e della globalizzazione, l’homo oeconomicus sarebbe mosso più dal proprio interesse che dalla solidarietà per gli altri. Anche per l’homo oeconomicuspiù incallito, però, ridurre oggi gli eccessi non solo della povertà ma anche della ricchezza è diventato necessario, se egli vuole preservare il proprio benessere da crisi economiche, ecologiche e politiche.
Non solo il Papa, infatti, ma anche l’Ocse, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e le agenzie dell’Onu per il commercio, per lo sviluppo e per l’ambiente, ammoniscono che la continua crescita delle disuguaglianze nelle nazioni e nel mondo è una delle maggiori minacce per l’integrità ecologica, il progresso socioeconomico, la stabilità politica e la democrazia. Basti pensare ai molteplici legami che ci sono tra il nostro consumo di combustibili fossili (carbone, petrolio, gas), lo sconvolgimento del clima, le siccità e le inondazioni, e le decine (forse presto centinaia) di milioni di profughi climatici. Molti di costoro approdano sulle nostre coste. Ma non basteranno cannoniere, muri e filo spinato per risolvere il problema. Dobbiamo noi stessi smettere di essere il problema, come scrive Francesco: «Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine.
Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano a irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri» (Ls 178.). Ma dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e di sviluppo» (Ls 191). In Italia, sulla carta, c’è un’occasione utile. I due partiti che preparano 'il governo del cambiamento' saranno all’altezza? Uno, il M5s, ha radici ecologiche ventennali e ha voluto fondarsi proprio il 4 ottobre, giorno di san Francesco d’Assisi, perché si dice 'francescano'. L’altro, la Lega, è il più votato partito al mondo tra quelli che hanno il 'verde' come simbolo. Che cosa aspettano?
Marco Morosini
Docente di politiche ambientali al Politecnico di Zurigo
fonte: https://www.avvenire.it/

Trash: l mondo dei rifiuti, tutto quello che dovremmo sapere



























A quanto pare Re Mida trasformava tutti gli oggetti che toccava in oro, noi li trasformiamo in rifiuti. A parte gli oggetti, che sono fabbricati programmando i loro guasti e che dobbiamo cambiare ogni tanto per dare lavoro a imprenditori e operai, tutti devono comprare e consumare cibo (e scartare gli involucri) e devono mangiarlo (e produrre escrementi).

A fare i conti, sul pianeta e non soltanto per Napoli, i numeri sono da allucinogeno puro.

A quanto pare nelle fogne svizzere vanno persi ogni anno 43 chilogrammi di oro (si sconsigliano comunque quei bagni ai cercatori d'oro). In Gran Bretagna cercano di estrarre bio-carburante dai fondi di caffè (tenetevi stretta la vostra tazzina). Nella laguna di Venezia ci sono isolette fatte di scarti (ma meritano una romantica gita in gondola, potenza delle agenzie turistiche). A Roma un'intera collina è composta di cocci (Testaccio).. L'Everest è pieno di rifiuti, come l'Artico e perfino la Luna. E ora si pensa di dare una spazzatina perfino nello spazio che navicelle e satelliti hanno riempito di frammenti.

A saperle usare. Con le "feci di usignolo" gli attori del teatro kabuki e le geishe si struccavano, pulivano la pelle, sbiancavano il volto dandogli luminosità, i monaci buddisti si lucidavano il cranio rasato, era un prodotto adatto per smacchiare le parti più delicate del kimono.

La società dei consumi produce rifiuti attraverso i suoi due meccanismi più inesorabili: la moda e l'obsolescenza programmata, inventata nel 1932 contro la crisi. A questi si aggiungano gli sprechi (anche alimentari) e, questo è l'aspetto più temibile, le inaccettabili "discariche sociali" – delle periferie, degli slums, dei ghetti, dei campi profughi, che vivono, per così dire, ai margini di questo modello di sviluppo.

Insomma, produciamo troppi rifiuti, che sono un problema e nello stesso tempo una risorsa che i diversi paesi tentano di risolvere e di sfruttare in modo diverso.

Ma ci sono soltanto tre soluzioni. O si bruciano, per produrre energia. O si riciclano, per farne altri oggetti. Oppure ce li mangiamo. E questa sembra essere la soluzione sempre più diffusa.

Il pericolo maggiore è la plastica che finisce in mare, soltanto in minima parte galleggia ma in gran parte va a fondo, viene scambiata per plancton, mangiata dai pesci e entra così, più o meno gustosamente, nella catena alimentare. Ci sono triangoli delle Bermude di plastica e non soltanto nel Pacifico. Per fortuna proprio una ricercatrice italiana ha probabilmente individuato un bruco disposto a mangiarsi la plastica. I gusti sono gusti.

La scheda:
Piero Martin Alessandra Viola
Trash. Tutto quello che dovreste sapere sui rifiuti (Codice Edizioni) pagine 271, euro 25 La trama - Un libro che fa il punto sulla questione rifiuti, con dati e numeri che arrivano da ricerche rigorose. La conclusione?Produciamo troppi rifiuti e prima o poi finiremo col mangiarne.


fonte: Rete Nazionale dei Comitati Rifiuti Zero       

Smetterla con lo shopping compulsivo

Ci sono nuove dipendenze su cui vale la pena ragionare. Quale impatto ambientale ha lo shopping compulsivo di abiti, scarpe, borse e accessori? Che relazione esiste tra multinazionali, media, pubblicità, velocità di consumo? Come possiamo dare senso a relazioni e territori fuori dagli ipermercati del fashion? “Dobbiamo cambiare il modo in cui consumiamo, abiti compresi – scrive Alessandra Magliaro – Cambiare abitudini di consumo, stili di vita non più sostenibili e cercare la felicità in luoghi diversi dai centri commerciali…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’acquisto compulsivo di abiti, stortura dell’occidente benestante, oltre ad essere una vera e propria dipendenza (più o meno lieve, comunque non la peggiore) ha altri due risvolti negativi: un impatto ambientale non indifferente e dopo l’emozione dell’acquisto non rende affatto felici. Sono le conclusioni di un report commissionato da Greenpeace in Cina, Hong Kong, Taiwan, Italia e Germania tra il dicembre 2016 e il marzo 2017 in occasione del Copenhagen Fashion Summit, il principale forum mondiale dell’industria per la moda sostenibile. Qui il dossier integrale.
“I nostri sondaggi mostrano che lo shopping binge è seguito da una sbornia emotiva, fatta di vuoto, di colpa e di vergogna. Le persone cominciano a rendersi conto di essere intrappolate in un ciclo insoddisfacente di moda, dell’ossessione di seguire i nuovi effimeri trends e che infine la sovrabbondanza di abiti che posseggono non porta a una felicità duratura. Le marche di abbigliamento dovrebbero cambiare radicalmente il proprio modello di business spostando l’attenzione dalla produzione dalla quantità verso la qualità e la durata”, afferma Kirsten Brodde, protagonista della campagna Detox my Fashion.

Il numero di vestiti prodotti ogni anno ha raggiunto cifre da capogiro (circa cento miliardi) e aziende del fast fashion come H&M, Zara, Primark e Uniqlo hanno contribuito a raddoppiare la produzione mondiale negli ultimi quindici anni. Le collezioni presenti nei negozi di questi marchi si rinnovano ogni settimana e, spinti dalla novità, noi acquistiamo molti più vestiti e li buttiamo via molto più velocemente, andando ad aumentare i miliardi di rifiuti già presenti nelle discariche.
Gli acquirenti compulsivi di moda accumulano vestiti su vestiti, nonostante sappiano di non essere in grado di utilizzarli, il giorno dopo spesso l’eccitazione si trasforma in colpa. È un fenomeno internazionale alimentato dal fast fashion di abiti, scarpe, borse e accessori. Particolarmente colpiti Cina e Hong Kong, ma diffusi anche in Europa. La maggioranza ammette di possedere più vestiti di quelli necessari (60 per cento Cina, 60 per cento Germania, 51 per cento Italia, 68 per cento Hong Kong e 54 per cento Taiwan). Molti restano non indossati e persino con l’etichetta ancora attaccata (51 per cento Cina, 41 per cento Germania, 53 per cento Hong Kong, 46 per cento Italia, 40 per cento Taiwan).
Perché si compra troppo? Non perché si ha bisogno di qualcosa, ma soprattutto per motivi sociali ed emotivi come il sollievo dello stress, aumentare la fiducia in se stessi, ottenere riconoscimento dagli altri di essere alla moda. I ‘consumatori eccessivi’ acquistano più di quanto possano permettersi (46 per cento Cina, 24 per cento Germania e Italia, 42 per cento Hong Kong, 29 per cento Taiwan). Un terzo si sentono vuoti, annoiati o persi quando non stanno facendo shopping, inoltre circa la metà dei consumatori ammette che a volte nasconde gli acquisti agli altri per paura delle reazioni negative o per non essere giudicati. Gli acquisti via web hanno peggiorato la patologia. Quanto dura la soddisfazione? Tutti gli intervistati concordano che è assai breve, dura anche solo un giorno (48 per cento Cina, 65 per cento Germania, 59 per cento Hong Kong, 65 per cento Italia, 55 per cento Taiwan). ”Nell’odierno sistema di moda – spiega Kirsten Brodde – le aziende spendono miliardi di dollari per venderci falsi sogni di felicità, di bellezza e di suggestione legata ai prodotti da acquistare. Ma saremmo molto più felici se le etichette di moda facessero vestiti di alta qualità e di lunga durata e offrissero ai clienti assistenza, e riparazione dei vestiti. Noi e il pianeta non meritiamo niente di meno”.
Dobbiamo cambiare il modo in cui consumiamo, abiti compresi. Cambiare abitudini di consumo, stili di vita non più sostenibili e cercare la felicità in luoghi diversi dai centri commerciali. La campagna Detox my fashion di Greenpeace, impegnata per un settore tessile più pulito, prevede il coinvolgimento di settantanove marche mondiali di tessuti e fornitori per impedire entro il 2020 l’uso di sostanze chimiche pericolose nella loro catena di approvvigionamento entro il 2020.

Alessandra Magliaro

fonte: http://comune-info.net

Floating Piers, delirio galleggiante

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È incredibile osservare l’ingenua e infantile gioia delirante un milione di persone che si sono precipitate a camminare sui pontili sintetici di Christo.
Persone che parlano di un’esperienza sublime, di emozioni forti, di incredibili sensazioni provate nel camminare su un telo di plastica posato su taniche vuote sopra le acque di un lago prealpino reso infrequentabile dalla folla. Le cronache sono del tipo: “Il popolo dei Piers non indietreggia di un millimetro. Non si lascia scoraggiare dalle code per salire su un treno, su una navetta o su un battello, né dal sole che trasforma la passerella – e i piazzali di Sulzano – in forni a microonde, tanto che ieri al tramonto sono tornati in azione gli idranti per rinfrescare la folla in attesa. La parola d’ordine è una sola: camminare su The Floating Piers, costi quel che costi” (da bresciaoggi.it).
Una situazione che, spogliata di tutto il costrutto mediatico-modaiolo che gli si è appiccicato sopra, è in realtà riconducibile a una semplice gita in battello: si cammina sulle acque e si ondeggia tra tante persone!
Si tratta un ennesimo evento di massa emblematico dei tempi che viviamo e della totale indifferenza alle conseguenze delle proprie azioni, ovvero il fatto che sia mancata qualsiasi riflessione sulla responsabilità ambientale di quest’opera d’arte (sebbene qualche critico abbia almeno voluto definirla una pagliacciata sul piano estetico e di costume).
I drammaticamente gravi significati simbolici che quest’opera si porta dietro non sono stati nemmeno sfiorati: il trionfo dell’usa e getta, del superfluo costoso, dell’artificializzazione della Natura.
Dal sito ufficiale dell’artista, assumiamo i dati tecnici:
– 220.000 cubi [di polietilene ad alta densità prodotto dalla F.lli Cane di Fondotoce/Verbania coadiuvata dalle aziende bresciane Asco Plast, Ziber Plast, Zetabi, Artigiana Stampi e Seven Plast] creano i 3 chilometri di The Floating Piers.
220.000 perni [sempre di polietilene] tengono insieme i cubi.
200 ancore del peso di 5,5 tonnellate l’una mantengono i 16 metri di larghezza del pontile in posizione [blocchi di cemento trasportati nelle posizioni finali da mezzi nautici grazie all’utilizzo di palloni industriali che, una volta raggiunta la postazione, sono stati svuotati dell’aria e hanno adagiato sul fondo le zavorre].
37.000 metri di corda connettono gli ancoraggi al pontile.
70.000 m2 di feltro ricoprono i pontili e le strade al di sotto del tessuto.
100.000 m2 di tessuto [in fibra poliammidica (Nylon), prodotto in Germania dalla Setex Textiles e confezionato dalla Luftwerkern di Lubecca] coprono i 3 chilometri di pontile e 2,5 chilometri di strada.
E il tutto per un’installazione della durata di sedici giorni, dal 18 giugno al 3 luglio 2016.
Dopodichè l’infrastruttura artistica verrà smontata e – sostiene il sito ufficiale “tutti i materiali utilizzati saranno riciclati attraverso un processo industriale, non meglio specificato.
https://it.wikipedia.org/wiki/The_Floating_Piers
http://www.thefloatingpiers.com/manufacturing
http://www.thefloatingpiers.com/press/

Vediamo le criticità ambientali:
riciclo plastiche: il polietilene è relativamente facile da riciclare, i cubi verranno dunque ritirati dall’acqua e avviati a recupero, ma con trasporto dove? Il tessuto poliammidico, in parte sporcato e usurato, sarà meno facile da riciclare: di tutta questa filiera sarebbe importante disporre da parte dell’artista e delle autorità di igiene urbana locale una dettagliata e trasparente documentazione! Non sia mai che finisca tutto nel vicino inceneritore di Brescia…?
energia grigia: anche se la plastica può essere riciclata, in genere ottenendo un materiale meno pregiato di quello originario, nessuno potrà ottenere la restituzione dell’energia spesa in fase di produzione e lavorazione;
rilascio composti tossici nel lago: ci sono additivi potenzialmente rilasciabili dalla plastica nelle acque? Interferenti endocrini che costituiscono un problema ambientale e sanitario sempre più grave? Era necessaria una maggiore trasparenza, con certificati merceologici precisi sulla natura dei materiali impiegati.
emissioni dei trasporti per la costruzione: ci è voluto circa un anno di lavoro di aziende italiane e tedesche per produrre, trasportare, immagazzinare e montare (e poi smontare) l’installazione. Un’attività che avrà comportato ingenti costi energetici, emissioni di CO2 e altri inquinanti, produzione di rifiuti, imballaggi, materiali accessori, incluso un sommergibile per le ispezioni del fondo lacustre.
emissioni indirette per il trasporto passeggeri e per le attività di sicurezza: il colossale formicolare di persone che hanno invaso la zona ha provocato un carico critico sui mezzi di trasporto locale, la saturazione delle strade e inevitabilmente l’aumento di emissioni climalteranti e di rifiuti su base locale, nonché il mantenimento di un complesso sistema di vigilanza e sicurezza… a gasolio!
E ora i messaggi simbolici che l’opera d’arte comunica (o non comunica):
si può fare tutto ciò che si vuole, basta pagare! Ma il prezzo dei danni ambientali non si bilancia con la moneta…
una cosa che si smonta non lascia conseguenze! Ma ciò che non si vede è talora peggio di ciò che si vede… le emissioni climalteranti contribuiscono a deteriorare le condizioni di vivibilità dell’intero pianeta, i rifiuti industriali del processo produttivo dei materiali e quelli dispersi in acqua minano gli equilibri ecologici anche su tempi millenari.
siamo già sommersi dai rifiuti plastici e purtroppo negli oceani galleggiano circa nuovi 5 continenti di plastica (*)! Altro che aggiungerne, bisognerebbe fare un’opera d’arte per rimuoverli!
(*) Ogni anno almeno 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono in mare. Un rapporto del World Economic Forum stima che ci siano attualmente 150 milioni di tonnellate di rifiuti plastici dispersi negli oceani, una tonnellata di plastica ogni cinque tonnellate di pesce, e che a questo tasso entro il 2050 nelle acque ci sarà più plastica che pesce! Le correnti marine concentrano queste enormi quantità di rifiuti in cinque principali “isole” galleggianti (oceani Indiano, Atlantico settentrionale e meridionale, Pacifico settentrionale e meridionale): http://www.5gyres.org/; www.plasticoceans.net.
non inquina solo ciò che si vede, ma pure ciò che non si vede, dagli interferenti endocrini alla mobilizzazione del substrato: “Marco Pilotti, docente del dipartimento di Ingegneria civile, architettura, territorio, ambiente dell’Università di Brescia ed esperto del lago d’Iseo, ha condotto uno studio sull’impatto dell’opera sulla morfologia del bacino. Il molo galleggiante è ancorato al fondo del lago con [più di] 150 blocchi di cemento armato da sette tonnellate l’uno e il progetto prevede, al termine dell’esposizione, la rimozione totale dell’opera e lo smaltimento di tutti i materiali. «Il recupero dei cosiddetti corpi morti degli ancoraggi – spiega il professor Pilotti – farà solo del male al lago, perché solleverà i sedimenti del fondale. Le misurazioni che abbiamo fatto hanno rilevato che in quel terreno è contenuta una quantità di fosforo 15 volte maggiore a quella presente nei livelli superiori dell’acqua”.
http://lanuovaecologia.it/the-floating-piers-incombe-sul-lago-diseo/
http://hydraulics.unibs.it/hydraulics/?page_id=1720
l’edonismo dissipativo, volgare e superficiale, attira assai di più che la contemplazione della biosfera, la nostra casa da cui tutto dipende! Chi, di questo milione di bipedi vociante su un palcoscenico naturale trasfigurato per l’esibizionismo di massa, si è domandato qualcosa su questo povero lago prealpino? Quanto è profondo, quanta acqua contiene, che relazioni ha con la società e con la storia, è un ambiente sano o compromesso? Come reagisce ai cambiamenti climatici?
la Natura è sostituibile con l’artificio e si arriva a privilegiare il falso che assomiglia al vero (che viceversa viene distrutto). Afferma Christo: “Il telo color oro, cangiante, vuole rappresentare la spiaggia: la gente deve pensare di essere su una spiaggia in riva al mare, e camminarci sopra”.
Ma perché mai bisogna immaginare una spiaggia di plastica? Perché non godere di una spiaggia vera, magari proteggendola proprio dall’affronto degli onnipresenti rifiuti in plastica che la deturpano?
E ancora, invita Christo, “Ascoltate il racconto della vita – Questo progetto fisico non è un museo, ma un progetto reale, riguarda le cose vere, sole, pioggia, vento”. Accidenti! Sole, pioggia e vento erano già lì da milioni di anni, ed è proprio l’opera d’arte ad essere quanto più falsa, artefatta e improbabile in quel contesto! Con le parole si può proprio costruire di tutto, mostrare vero ciò che è falso e viceversa! Il problema sono i gonzi che ci cascano…
– il denaro – 15 milioni di euro più le spese pubbliche per la logistica e la sicurezza -poteva essere speso per impieghi più sostenibili, utili e durevoli;
le folle si attirano con il capriccio e la bizzarria, mentre sui temi importanti per la nostra stessa sopravvivenza, come l’epocale e inedita crisi ambientale che si sta sviluppando, l’interesse è sempre marginale, per non dire nullo;
l’arte dovrebbe essere veicolo di riflessione sulla contemporaneità, qui Christo rivela invece la sua senescente visione di un mondo sintetico ormai incompatibile con i processi biogeochimici. Contrappongo al vecchio Christo l’artista thailandese Nino Sarabutra (è una donna, nonostante il nome in italiano suoni maschile), che ha concepito un’opera molto significativa, esposta anche alla biennale di Venezia 2015 e che ho provato con i miei piedi: 100.000 piccoli teschi di porcellana che coprono il pavimento come ciottoli di fiume, sui quali si è invitati a camminare a piedi scalzi ponendoci la domanda “che mondo lasciamo dietro di noi?”
“I want people to ask themselves how they live, what they are doing— if today was your last on earth, what will you leave behind?” Nino Sarabutra, 2013
http://www.ninosarabutra.com/exhibition_WhatWillYouLeaveBehind.html
 L’artista thailandese Nino Sarabutra e la sua opera “What will you leave behind?”,
qui esposta alla Biennale di Venezia 2015, che invita alla riflessione sulle conseguenze delle nostre azioni e sul mondo che lasceremo alle generazioni future tramite una camminata a piedi scalzi su migliaia di piccoli teschi di porcellana.
Possono sembrare considerazioni fastidiose, respinte ed etichettate come seccature che guastano il festoso pellegrinaggio, ignorano i soldi che hanno irrorato il turismo locale e alimentato la retorica dell’Italia capace di grandi opere… eppure sono lo specchio di una società che rifiuta di confrontarsi con il più grande problema mai sorto da quando l’uomo è sulla Terra, l’insostenibilità dell’Antropocene e la sempre maggior probabilità di collasso della civiltà.
Dunque, tutti gioiosamente avanti verso il baratro…

Luca Mercalli
Meteorologo, divulgatore scientifico e climatologo italiano. Tra i suoi ultimi saggi, “Prepariamoci” (ed. Chiarelettere)
Pubblicato su Nimbus.it, l’ottimo sito ufficiale della Società Meteorologica Italiana,
la maggiore associazione nazionale per lo studio e la divulgazione di meteorologia, climatologia e glaciologia
fonte: http://comune-info.net/