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Pesticidi, cala l’uso in Europa. E intanto si sperimentano trattamenti alternativi dagli scarti della birra








Gli agricoltori europei stanno riducendo velocemente l’impiego di pesticidi, in linea con il programma Farm to Fork, che prevede un abbattimento del 50% dei fitofarmaci in generale e di quelli pericolosi in particolare entro il 2030. Lo certificano gli ultimi dati resi noti dalla Commissione, secondo i quali, rispetto al periodo di riferimento 2015-2017, nel 2018 c’è stata una diminuzione dell’8% nell’uso di pesticidi e nel rischio di utilizzo, e nel 2019 un’ulteriore diminuzione del 5%.

Si tratta di valori incoraggianti. Tra il 2011 e il 2016, infatti, il calo medio annuale è stato del 4%, mentre negli ultimi anni questa percentuale è aumentata. Inoltre, sempre rispetto al periodo di riferimento, nel 2019 si è avuta una diminuzione del 12% dei pesticidi più pericolosi per la salute, quasi tutti candidati alla sostituzione: un dato particolarmente significativo, perché dal 2011 si era registrata invece una tendenza all’aumento.


Un gruppo di ricercatori ha sperimentato un composto a base di scarti della produzione della birra e della colza miscelato con letame fresco

Nel frattempo crescono i progetti che hanno l’obiettivo di trovare sostituti sostenibili ai pesticidi, meglio ancora se ottenuti da materiali di scarto. Uno degli esempi è stato illustrato su Frontiers in Sustainable Food Systems dai ricercatori dell’Istituto basco per la ricerca agricola e lo sviluppo di Derio, in Spagna, e si basa su un’inedita miscela: quella tra gli scarti della lavorazione della birra e della colza e il letame fresco. L’unione di questi composti, infatti, fornisce al terreno tutto ciò che serve per far sviluppare un microbiota che tiene lontani i parassiti (in particolare i nematodi) e, al tempo stesso, essendo una fonte di azoto, funziona da fertilizzante.

Per verificarne l’efficacia, i ricercatori baschi lo hanno utilizzato in una serra dove veniva coltivata lattuga. La miscela è stata testata utilizzando la tecnica della biodisinfestazione, cioè con la copertura del terreno attorno alla pianta con un telo di plastica dopo l’aggiunta di concimi, proprio per limitare il rischio di infestanti. Metà del campo è stata trattata con il solo letame e senza copertura, come controllo. All’altra metà è stato aggiunto il compost sperimentale e il telo plastico per sette settimane, mentre si effettuava un controllo regolare della temperatura del terreno a tre diverse profondità.


Il composto, oltre ad agire come fertilizzante, stimola il microbiota del terreno, riducendo malattie e parassiti e migliorando la resa

In base a quanto registrato subito prima e subito dopo il trattamento, dopo il primo raccolto e infine a un anno di distanza, tutti gli indici sono risultati a favore del compost. Infatti, il raccolto è aumentato del 15% in un anno, mentre il terreno è risultato modificato in senso positivo, soprattutto a partire dal momento del primo raccolto. È stata osservata una chiara diminuzione dei nematodi (in particolare di Meloidogyne incognita) e delle patologie delle radici a essi associate, e un aumento della presenza di specie batteriche considerate favorevoli, come confermato dall’aumento dei parametri della “respirazione” del terreno. Secondo gli autori, ci potrebbero essere anche altre miscele con sottoprodotti delle lavorazioni agricole in grado di assicurare gli stessi risultati: vale la pena di continuare a sperimentarle.

fonte: www.ilfattoalimentare.it

 

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Il valore della natura. Presentato il quarto Rapporto sullo stato del capitale naturale in Italia

 










È stato presentato in videoconferenza, alla presenza del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, il “Quarto Rapporto sullo stato del capitale naturale in Italia” che, dopo l'approvazione, sarà trasmesso al presidente del Consiglio e al ministro dell’Economia. Alla riunione plenaria del Comitato per il capitale naturale sono intervenuti tra gli altri, oltre al direttore generale del Mite per il patrimonio naturalistico Antonio Maturani, il ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili Enrico Giovannini, il ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli, il ministro del Turismo Massimo Garavaglia, la viceministra all’Economia Laura Castelli, la sottosegretaria al Lavoro Rossella Accoto, la sottosegretaria al Sud Dalila Nesci e il direttore generale dell'Ispra Stefano Laporta.

Il Rapporto è stato predisposto tra novembre 2020 e marzo 2021. La necessità di preservare e ripristinare il capitale naturale per garantire una ripresa duratura è riconosciuta dall’Agenda Onu per lo sviluppo sostenibile e dal Green Deal europeo. Nell’impostare questa quarta edizione, gli esperti hanno concordato sull’importanza strategica di tenere in considerazione ciò nell’ambito della transizione economica prevista dal programma integrato del Next Generation EU, da sviluppare attraverso un Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che dedichi il 37% delle risorse alla biodiversità, ad azioni per il clima e all’adattamento ai cambiamenti climatici, anche in virtù dei nuovi impegni comunitari derivanti dalla Strategia europea per la biodiversità al 2030 e alla Strategia “Farm to Fork” per una migliore sostenibilità ecologica di tutta la filiera agroalimentare.

“La nostra deve essere la prima generazione capace di lasciare i sistemi naturali e la biodiversità dell’Italia in uno stato migliore di quello che abbiamo ereditato - sostiene la “vision” del comitato. - Per questo si suggerisce che il Pnrr, costituendo una straordinaria occasione per il necessario cambio di rotta, includa una grande “opera pubblica” di ripristino degli ambienti terrestri e marini attraverso la creazione di infrastrutture verdi e soluzioni basate sulla natura, rispondendo altresì all’impegno delineato dal decennio delle Nazioni Unite sull’“Ecosystem Restoration” 2021-2030 e consentendo di affrontare l’adattamento ai cambiamenti climatici.
Proprio sulle azioni prioritarie del Pnrr si è soffermato nel suo intervento il ministro Cingolani, che ha sottolineato quanto sia fondamentale puntare sulla riforestazione, sul miglioramento delle aree fluviali, sui programmi per i parchi e il mare, sulla riconnessione degli ecosistemi, sul turismo verde, sul monitoraggio del capitale naturale, includendo la decarbonizzazione, la circular economy, lo stop al consumo di suolo, il recupero delle aree degradate, le infrastrutture idriche, la mobilità urbana, senza dimenticare la pianificazione delle risorse. “Ho osservato con soddisfazione – ha affermato il ministro – che l'impostazione del Quarto Rapporto sullo stato del capitale naturale è allineata con il Recovery Plan, pur essendo nata precedentemente. È una buona notizia: vuol dire che stiamo quindi lavorando, tutti insieme, nella giusta direzione".

fonte: www.e-gazette.it


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In cauda venenum


Il confinamento pandemico ci ha proibito le grandi e belle tavolate, ma c’è da augurarsi che almeno nell’intimità i pranzi e le cene natalizi non siano mancati. Molte saranno le persone preoccupate per le sentenze che generalmente dopo le feste emettono le bilance. Almeno altrettanto dovrebbero esserlo, però, per la quantità di pesticidi assunti, quasi sempre a fine pasto, soprattutto con la frutta: il veleno è nella coda, con puntuale riferimento all’incolpevole scorpione, recita una nota locuzione latina. Non si tratta, naturalmente, di colpevolizzare chi mangia qualche mandarino di troppo ma di segnalare, ancora una volta, le responsabilità del modello imperante di agricoltura intensiva e di ricordare, per fare solo un esempio, che l’Italia ha incredibilmente posticipato la messa al bando del glifosato al 2022. I dati che ha reso noti nei giorni scorsi la campagna Stop Pesticidi di Legambiente sono pessimi: solo il 52% dei campioni analizzati sono privi di tracce di pesticidi e i numeri peggiori riguardano proprio la frutta. L’89,2% dell’uva da tavola e l’85,9% delle pere contiene almeno uno di quei residui che, cumulati, possono favorire l’insorgere di asma allergica e di altre malattie respiratorie che possono creare un quadro nefasto sempre, ma particolarmente rischioso in periodi come questi. Liberare l’agricoltura dalla dipendenza della chimica è più necessario e urgente che mai

foto tratta da Pixabay

Il dossier Stop Pesticidi, elaborato da Legambiente e presentato questa mattina nella diretta streaming trasmessa su www.legambiente.it, http://agricoltura.legambiente.it, www.lanuovaecologia.it e sui rispettivi canali social e realizzato in collaborazione con Alce Nero, ci dice che i pesticidi più diffusi negli alimenti in Italia sono Boscalid, Dimethomorph, Fludioxonil, Acetamiprid, Pyraclostrobin, Tebuconazole, Azoxystrobin, Metalaxyl, Methoxyfenozide, Chlorpyrifos, Imidacloprid, Pirimiphos-methyl e Metrafenone. Sono per la maggior parte fungicidi e insetticidi utilizzati in agricoltura che arrivano sulle nostre tavole e che, giorno dopo giorno, mettono a repentaglio la nostra salute. I consumatori stanno chiedendo prodotti sempre più sani e sostenibili ma il business dell’agricoltura intensiva sembra non voler cedere il passo. L’edizione 2020 del rapporto dell’associazione ambientalista fotografa una situazione che vede risultare regolare e privo di residui di pesticidi solo il 52% dei campioni analizzati. Senza dubbio, un risultato non positivo e che lascia spazio a molti timori in merito alla presenza di prodotti fitosanitari negli alimenti e nell’ambiente. Analizzando nel dettaglio i dati negativi, si apprende che i campioni fuorilegge non superano l’1,2% del totale ma che il 46,8% di campioni regolari presentano uno o più residui di pesticidi.

Cattive notizie anche in merito alla quantità di residui derivanti dall’impiego di prodotti fitosanitari in agricoltura: i laboratori pubblici regionali ne hanno trovato traccia in campioni di ortofrutta e prodotti trasformati in elevata quantità. Preoccupanti inoltre i dati del multiresiduo, che – è bene ricordarlo – la legislazione europea non considera non conforme a meno che ogni singolo livello di residuo non superi il limite massimo consentito, benché sia noto da anni che le interazioni di più e diversi principi attivi tra loro possano provocare effetti additivi o addirittura sinergici a scapito dell’organismo umano. Proprio il multiresiduo risulta essere più frequente del monoresiduo, essendo stato rintracciato nel 27,6% del totale dei campioni analizzati, rispetto al 17,3% dei campioni con un solo residuo.

Pixabay

Come negli anni passati, la frutta è la categoria in cui si concentra la percentuale maggiore di campioni regolari multiresiduo. Ad essere privo di residui di pesticidi è solo il 28,5% dei campioni analizzati, mentre l’1,3% è irregolare e oltre il 70%, nonostante sia considerato regolare, presenta uno o più residui chimici. L’89,2% dell’uva da tavola, l’85,9% delle pere, e l’83,5% delle pesche sono campioni regolari con almeno un residuo. Le mele spiccano con il 75,9% di campioni regolari con residui e registrano l’1,8% di campioni irregolari. Alcuni campioni di pere presentano inoltre fino a 11 residui contemporaneamente. Situazione analoga per il pompelmo rosso e per le bacche di goji che raggiungono quota 10 residui. Diverso il quadro per la verdura: se, da una parte, si registra un incoraggiante 64,1% di campioni senza alcun residuo, dall’altro fanno preoccupare le significative percentuali di irregolarità in alcuni prodotti come i peperoni in cui si registra l’8,1% di irregolarità, il 6,3% negli ortaggi da fusto e oltre il 4% nei legumi. Tali dati, se analizzati in riferimento alla media degli irregolari per gli ortaggi, che è dell’1,6%, destano preoccupazione. Ad accomunare la gran parte delle irregolarità è il superamento dei limiti massimi di residuo consentiti per i pesticidi (54,4%) ma non mancano casi in cui è stato rintracciato l’utilizzo di sostanze non consentite per la coltura (17,6%). Nel 19,1% dei casi, poi, sono presenti entrambe le circostanze. Le sostanze attive che più hanno determinato l’irregolarità sono l’organofosforico Chlorpyrifos nell’11% dei casi e il neonicotinoide Acetamiprid nell’8% dei casi. Altro dato da sottolineare è la presenza di oltre 165 sostanze attive nei campioni analizzati. L’uva da tavola e i pomodori risultano quelli che ne contengono la maggior varietà, mostrando rispettivamente 51 e 65 miscele differenti.

Tra i campioni esteri, la Cina presenta il tasso di irregolarità maggiore (38%), seguita da Turchia (23%) e Argentina (15%). In alcuni di questi alimenti non solo sono presenti sostanze attive irregolari, ma anche un cospicuo numero di multiresiduo. È il caso, ad esempio, di un campione di bacca di goji (10 residui) e di uno di tè verde (7 residui), entrambi provenienti dalla Cina. Degno di nota è anche un campione di foglie di curry proveniente dalla Malesia nel quale, su 5 residui individuati, 3 sono irregolari. Sul fronte dell’agricoltura biologica, su 359 campioni analizzati 353 risultano regolari e senza residui, ad eccezione di un solo campione di olive, di cui però non si conosce l’origine. Non è quindi possibile, allo stato attuale, sapere se l’irregolarità è da imputare a una contaminazione accidentale, all’effetto deriva o a un uso illegale di fitofarmaci. L’ottimo risultato è ottenuto, tra le altre cose, grazie all’applicazione di ampie rotazioni colturali e pratiche agronomiche preventive, che contribuiscono a contrastare lo sviluppo di malattie e a potenziare la lotta biologica tramite insetti utili nel campo coltivato.

foto Pixabay

“Serve una drastica diminuzione dell’utilizzo delle molecole di sintesi in ambito agricolo, grazie a un’azione responsabile di cui essere tutti protagonisti – ha dichiarato Angelo Gentili, responsabile agricoltura di Legambiente -. Per capire l’urgenza di questa transizione, si pensi alla questione del glifosato, l’erbicida consentito fino al 2022, nonostante il 48% degli Stati membri dell’Ue abbia deciso di limitarne o bandirne l’impiego per la sua pericolosità; l’Italia inizi dalla sua messa al bando. Inoltre, per diminuire la chimica che ci arriva nel piatto è necessario adeguare la normativa sull’uso dei neonicotinoidi, seguendo l’esempio della Francia che da anni ha messo al bando i 5 composti consentiti dall’Ue, e approvare al più presto il nuovo Piano di Azione Nazionale sull’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari”.

“Occorre liberare l’agricoltura dalla dipendenza dalla chimica – ha aggiunto il presidente di Legambiente Stefano Ciafani – per diminuire i carichi emissivi e favorire un nuovo modello, che sposi pienamente la sostenibilità ecologica come asse portante dell’economia made in Italy, diventando un settore strategico per il contrasto della crisi climatica. Riteniamo anche necessaria una svolta radicale delle politiche agricole dell’Unione, con una revisione della Politica Agricola Comune che superi la logica dei finanziamenti a pioggia e per ettaro per trasformarsi in sostegno all’agroecologia e a chi pratica agricoltura sostenibile e biologica. Le risorse europee, comprese quelle del piano nazionale di ripresa e resilienza, vanno indirizzate all’agroecologia, in modo da accelerare la transizione verso una concreta diminuzione della dipendenza dalle molecole pericolose di sintesi, promuovendo la sostenibilità nell’agricoltura integrata e in quella biologica come apripista del modello agricolo nazionale, con l’obiettivo di giungere in Italia al 40 % di superficie coltivata a biologico entro il 2030”.

Legambiente torna a chiedere che l’Italia allinei le sue politiche al Green deal e a quanto previsto dalle strategie europee Farm to fork e Biodiversità che ambiscono a ridurre entro il 2030 del 50% l’impiego di pesticidi, del 20% di fertilizzanti, del 50% di antibiotici per gli allevamenti, destinando una percentuale minima del 10% di superficie agricola ad habitat naturali. Ritiene, inoltre, strategico approvare la legge sull’agricoltura biologica, ferma al Senato della Repubblica, come strumento per sostenere il settore. Altro aspetto da non trascurare è quello dell’etica del cibo e della legalità: se gli alimenti devono essere sani, lo deve essere anche il lavoro che li produce così come sono rilevanti i rischi per la salute dei braccianti non regolarizzati derivanti dall’esposizione diretta ai pesticidi, in assenza dei più elementari dispositivi di protezione individuale previsti dalla normativa vigente. Per questo è importante attuare misure specifiche rispetto al fenomeno del caporalato, sia attraverso politiche di prevenzione che di controllo e vigilanza e di assistenza, reintegrazione e inserimento socio-lavorativo dei braccianti sfruttati e approvare con la massima urgenza la normativa contro le aste al doppio ribasso di prodotti agroalimentari da parte della grande distribuzione.

Nota metodologica dossier Stop pesticidi

Il dossier di Legambiente Stop Pesticidi riporta i dati elaborati nel 2019 dai laboratori pubblici italiani accreditati per il controllo ufficiale dei residui di prodotti fitosanitari negli alimenti. Tali strutture hanno inviato i risultati di 5.835 campioni di alimenti di origine vegetale, di provenienza italiana ed estera, genericamente etichettati dai laboratori come campioni da agricoltura non biologica. L’elaborazione dei dati prevede la loro distinzione in frutta, verdura, trasformati e altre matrici.

fonte: comune-info.net


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Sinkevicius: “Covid-19 non sia scusa per smettere di proteggere l’ambiente”















Lo scorso novembre, il lituano Virginijus Sinkevičius è diventato a soli 28 anni il più giovane commissario europeo di sempre, ricevendo in dote un portafoglio ambizioso e che guarda al domani come quello all’Ambiente.

Il millennial chiamato da Ursula von der Leyen a lavorare sui problemi della generazione Z ha concesso una lunga intervista esclusiva a EURACTIV Italia per fugare ogni dubbio su possibili ritardi nell’ambiziosa agenda verde Ue causati dalla crisi del Covid. Sinkevičius ha anche detto la sua su alcuni temi di dibattito in Italia, dalla plastic tax al problema dei rifiuti a Roma.

La Commissione europea ha inquadrato la nuova strategia Ue per la Biodiversità, presentata lo scorso 20 maggio, tra gli elementi centrali del piano di rilancio europeo post pandemia. In che modo salvaguardare la natura può rappresentare una spinta alla crescita economica?

Mantenere la natura ‘in salute’ e ripristinare il nostro capitale naturale è al centro della crescita sostenibile ed è particolarmente importante adesso per aumentare la nostra resilienza. La biodiversità è alla base di molte attività economiche e un pianeta sano è un prerequisito per la crescita delle imprese e per la ripresa dell’economia. Questo è vero in Europa ed è vero in tutto il mondo. I tre maggiori settori economici – edilizia, agricoltura, alimentazione e bevande – generano quasi 7,3 trilioni di euro e sono tutti fortemente dipendenti dalle risorse naturali.

Investire nella natura significa posti di lavoro e opportunità di business. Un periodo di alta disoccupazione e bassi tassi di interesse è il momento ideale per investire in progetti come guardino al ripristino della natura, alle aree protette, all’agricoltura biologica e alle infrastrutture verdi e blu. Ad esempio, studi sui sistemi marini stimano che ogni euro investito in aree marine protette genera un ritorno che triplica l’investimento iniziale, con un aumento dei profitti derivanti dalla protezione delle coste, dalla pesca, dal turismo, dalle attività ricreative e dallo stoccaggio del carbonio. Analogamente, il Nature Fitness Check del 2016 ha dimostrato che la rete di Natura 2000 apporta ogni anno benefici per un valore di 200-300 miliardi di euro e che gli investimenti necessari per realizzare questa rete dovrebbero sostenere fino a mezzo milione di posti di lavoro aggiuntivi. Tutto ciò dimostra che proteggere gli ecosistemi significa anche contribuire alla resilienza dell’economia locale.

La strategia per la biodiversità è anche saldamente al centro del Green Deal europeo.

Perché questa è la strada del Green Deal. Alla fine si ritorna sempre al Green Deal e alle sue componenti che costituiscono la via verso un futuro diverso, più sostenibile, e una ripresa giusta e rapida. Se non la seguiamo e torniamo a distruggere gli ecosistemi invece che proteggerli, limiteremo le opportunità di business e ridurremo il nostro potenziale di sviluppo socio-economico. Non possiamo permetterci di farlo, perché i costi sarebbero enormi. Assisteremmo a eventi meteorologici più frequenti e a un maggior numero di catastrofi naturali. Finiremmo per ridurre il Pil complessivo dell’Ue fino al 2%. E la situazione sarebbe molto peggiore soprattutto nei paesi dell’Europa meridionale, che vedrebbero il loro Pil diminuire di oltre il 4% sul lungo termine.

La crisi causata dalla pandemia ha cambiato temporaneamente le abitudini dei consumatori. Per esempio, se prima si preferiva andare a cena fuori, per un po’ si è stati costretti a ordinare cibo da asporto. Ritiene che questi aspetti dell’economia “take away” potrebbero aumentare la dipendenza dalla plastica monouso?

La crisi ha effettivamente modificato il nostro comportamento e stiamo seguendo attentamente questi cambiamenti per individuare le tendenze che influenzeranno le nostre politiche a lungo termine. La domanda di certi cibi da asporto può essere cresciuta, ma molto probabilmente si tratta di un fenomeno temporaneo, limitato alla durata del confinamento. D’altra parte, ci sono altre importanti tendenze che emergono dall’attuale crisi e che sono legate più ai diversi modelli di lavoro e di tempo libero, all’accesso agli spazi verdi, alle opzioni di mobilità pulita e a una maggiore attenzione alle opportunità di risparmio.

Costruire la sostenibilità e la resilienza nel tessuto della nostra società, nelle nostre abitudini, è più importante che mai. Le sfide ambientali non sono scomparse con la crisi. Il cambiamento climatico si sta aggravando, portando una pressione ancora maggiore sulla nostra fragile natura e sulla biodiversità. L’inquinamento da plastica rimane una delle nostre principali preoccupazioni ed è ancora importante cambiare le nostre abitudini sul monouso.

Crede che questo fenomeno temporaneo possa insidiare quel divieto alla plastica monouso che sarà in vigore in Ue dal 2021?

Pur considerando appieno le conseguenze della crisi, le misure dell’Ue per affrontare gli usi non sostenibili e i rifiuti sono state ampiamente sostenute, e non credo che questo cambierà. Ad ogni modo, la legislazione dell’Ue non vieta i contenitori per alimenti monouso, ma richiede una sostanziale riduzione del loro utilizzo. D’altronde, chi ha detto che gli imballaggi per il cibo da asporto devono essere monouso? Gli argomenti a favore degli imballaggi riutilizzabili non sono cambiati. Ci sono molti esempi di buone pratiche in tutta l’Ue, e ne verranno sviluppati altri. La riduzione dei rifiuti è al centro di molte iniziative del nuovo Piano d’azione per l’economia circolare, in particolare per quanto riguarda gli imballaggi e la plastica.

La gente vuole questo cambiamento e lavoreremo a stretto contatto con tutte le industrie interessate. Nell’ambito della strategia “Farm to Fork” ci impegniamo ad aiutare l’intera industria alimentare a ridurre il proprio impatto ambientale. Ciò significa anche lanciare iniziative legislative per rivedere la legislazione sui materiali a contatto con gli alimenti per migliorare la sicurezza alimentare e la salute pubblica, per sostenere l’uso di soluzioni di imballaggio innovative e sostenibili con materiali ecologici, riutilizzabili e riciclabili.

Il governo italiano ha rinviato di un anno l’entrata in vigore di una plastic tax che rispettava gli obiettivi Ue di riduzione delle materie plastiche. Si aspetta simili passi indietro da altri Stati membri?
Gli impatti della crisi sulla nostra economia e sulla società sono di vasta portata e in molti Stati membri sono addirittura drammatici. Senza dubbio porteranno molti cambiamenti. La Commissione ha fatto tutto il possibile per fornire flessibilità laddove è veramente necessario e dovremo certamente tenere conto dell’impatto diretto della crisi nella pianificazione del nostro lavoro futuro. Per questo motivo, ad esempio, abbiamo modificato il programma di lavoro della Commissione per il 2020, al fine di riorientare i nostri sforzi e dare priorità alle azioni necessarie per stimolare la ripresa e la resilienza dell’Europa.

Ma quello che non possiamo certo fare è usare la crisi come scusa generale per indebolire gli sforzi per proteggere il nostro ambiente e la nostra salute dalle pressioni causate dall’inquinamento. Una corretta gestione dei rifiuti che pone la prevenzione dei rifiuti al vertice rimane una priorità. Continuiamo a sostenere gli Stati membri nell’attuazione della legislazione comunitaria in materia. Laddove vediamo un aumento dei rifiuti legati all’attuale crisi sanitaria, in particolare dei rifiuti delle strutture sanitarie, lavoriamo a stretto contatto con gli Stati membri per affrontare le sfide che si trovano ad affrontare. Stiamo anche monitorando la situazione generale della produzione di rifiuti. Le esperienze di precedenti periodi di difficoltà economiche indicano che la produzione di rifiuti può effettivamente diminuire in generale.

Stiamo anche continuando il nostro lavoro per ridurre l’inquinamento da plastica. Il termine ultimo per il recepimento della direttiva Ue sulle materie plastiche monouso nella legislazione nazionale è luglio 2021 ma le misure necessarie possono essere introdotte gradualmente. Così, ad esempio, la riduzione del consumo per quanto riguarda i contenitori per alimenti monouso sarà valutata entro il 2026, rispetto ai livelli del 2022. Questi obiettivi, molti dei quali non devono essere raggiunti nell’immediato futuro, non sono cambiati e non credo che cambieranno.

Tornando sulla plastic tax, è stata molto criticata dall’industria italiana del packaging, tra i leader mondiali in questo campo. Come si può convincere il settore a sostenere gli obiettivi di riduzione, invece che combatterli?

Avremo sempre bisogno di imballaggi e, probabilmente, ci sarà sempre un posto per gli imballaggi di plastica nell’industria. L’imballaggio protegge il prodotto, aumenta la durata di conservazione degli alimenti e può essere utilizzato per trasmettere informazioni importanti ai consumatori. Ma c’è una grande differenza tra questo ruolo importante e gli imballaggi non necessari che sono semplicemente uno spreco di risorse. E se non smetteremo di gettare indistintamente i rifiuti di plastica, la pressione ad adottare misure sempre più severe sulla plastica non è affatto destinata a diminuire, in quanto si tratta di una questione di seria preoccupazione per l’opinione pubblica.

L’intera economia dell’Ue deve migrare da un modello lineare, in cui utilizziamo e buttiamo via risorse preziose con sempre maggiore velocità, a un modello circolare, in cui manteniamo i materiali nell’economia il più a lungo possibile. Lo stesso vale per l’imballaggio. Si deve passare ad alternative riutilizzabili, riducendo al minimo la quantità e la complessità dei materiali utilizzati e garantendo che l’imballaggio sia effettivamente riciclato. Questo significa anche una migliore progettazione, ed è per questo che la Commissione sta attualmente lavorando ad una revisione dei requisiti essenziali per l’immissione sul mercato Ue degli imballaggi.

L’obiettivo è che, entro il 2030, tutti gli imballaggi immessi sul mercato siano riutilizzabili e riciclabili in modo economicamente conveniente. I decisori politici stabiliscono gli obiettivi, creano condizioni quadro favorevoli e forniscono sostegno. Ma abbiamo bisogno che le aziende del settore del packaging apportino le innovazioni di cui la società ha bisogno. Questi investimenti daranno i loro frutti e apriranno nuovi mercati. È un’opportunità per il settore, un’opportunità per andare avanti.

In Italia c’è anche l’annoso problema delle discariche illegali, finora costato caro per via delle multe che arrivano da Bruxelles. La nuova strategia Ue per l’economia circolare può aiutarci in qualche modo?

Il nuovo Piano d’azione per l’economia circolare è stato concepito per fornire un percorso per affrontare la sfida dei rifiuti che sia orientato al futuro. Riducendo la quantità di rifiuti prodotti, si riduce anche la pressione sulla gestione dei rifiuti e, a sua volta, su opzioni come lo smaltimento in discarica. In questo modo, l’Italia potrebbe finire per investire molto meno nella costruzione e nella manutenzione delle discariche. E naturalmente ci sono anche fondi Ue disponibili per progetti di selezione rifiuti, raccolta differenziata e aumento del riciclaggio.

In Italia il problema delle discariche è ancora molto reale e una maggiore circolarità, combinata a ulteriori sforzi per una corretta gestione dei rifiuti, porterebbe notevoli benefici. Già nel 2014 la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha imposto sanzioni finanziarie all’Italia per almeno 200 discariche non conformi. La Commissione deve applicare questa sanzione fino a quando tutte queste discariche non saranno rese conformi. Da allora, molte sono stati riabilitate, ma ce ne sono ancora una quarantina che richiedono ulteriore lavoro. E dobbiamo essere sicuri che ci siano controlli frequenti ed efficaci per prevenire casi simili in futuro.

Poi però ci sono casi conclamati come quello di Roma che ha preferito ‘spedire’ altrove migliaia di tonnellate di rifiuti in passato.

La situazione rifiuti a Roma si fa notare. Gli impianti di trattamento dei rifiuti organici e delle discariche sono insufficienti e ci sono state segnalazioni di problemi concreti che la raccolta e la gestione pongono alle autorità responsabili per la raccolta e la gestione di tutti i rifiuti prodotti. Una soluzione è stata quella di spedire i rifiuti in altre regioni italiane. Ciò è legalmente possibile, a condizione che le spedizioni siano monitorate e aderiscano a un quadro giuridico che ne garantiscano la tracciabilità. Ma non è la soluzione migliore, inoltre la spedizione di tali rifiuti in altri Stati membri si è rivelata particolarmente problematica.

Siamo ben consapevoli delle difficoltà di Roma, in parte dovute ai forti flussi della popolazione, ma i problemi di fondo devono ancora essere affrontati. È in corso di approvazione un nuovo piano di gestione dei rifiuti per la Regione Lazio, e mi auguro che corrisponda alla nuova normativa comunitaria sulla gestione dei rifiuti adottata nel 2018. Abbiamo bisogno di un approccio integrato, con una rete adeguata di impianti di trattamento dei rifiuti per affrontare il problema. Un nuovo piano di gestione dei rifiuti, insieme a un significativo cambiamento della legislazione sui rifiuti, è l’occasione perfetta per correggere le carenze individuate in passato, e spero vivamente che possa aprire la strada a soluzioni sostenibili per la gestione dei rifiuti in tutta la regione.

Un altro punto del suo mandato da commissario riguarda la microplastica, ma in realtà se ne sa molto poco. Cosa bolle in pentola?

È un problema serio, e ne stiamo imparando di più ogni giorno. Sappiamo che le microplastiche sono diffuse nell’ambiente, nell’aria, nel suolo, nei sedimenti, nelle acque dolci, negli oceani, nelle piante, negli animali e in parti della catena alimentare. Comprensibilmente, i cittadini sono preoccupati. Come annunciato nel nuovo Piano d’azione per l’economia circolare, stiamo sviluppando misure per limitare l’uso di microplastiche aggiunte intenzionalmente nei prodotti e per affrontare le emissioni involontarie di prodotti come i tessuti, i pneumatici e i pellet.

Stiamo tenendo conto del parere dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche, che sta attualmente lavorando su un dossier di restrizione Reach [la direttiva del 2006 sulle sostanze chmiche]. La restrizione si applicherebbe a tutta l’Ue e potrebbe riguardare le microplastiche aggiunte intenzionalmente in molteplici applicazioni. Inoltre, tale restrizione, che potrebbe essere in vigore già nel corso del 2021, potrebbe portare a una riduzione delle emissioni di microplastiche di circa 500 mila tonnellate nei prossimi 20 anni.

Per quanto riguarda i rilasci non intenzionali di microplastiche, lanceremo presto uno studio per analizzare le possibili soluzioni per affrontarli da tre categorie di fonti: i pellet di plastica di pre-produzione, i tessuti sintetici e i pneumatici per auto. Tutti i soggetti interessati saranno naturalmente consultati. Lo studio sarà utilizzato come base per la valutazione dell’impatto di future azioni legali in questo settore.

fonte: https://euractiv.it


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Greenpeace per una nuova politica agricola in Europa che non favorisca solo i modelli intensivi

















La Commissione europea ha pubblicato il 20 maggio la strategia “Farm to Fork“, dedicata al sistema agroalimentare, e “Biodiversità 2030”, due documenti considerati elementi portanti del Green Deal europeo. Greenpeace chiede che questa diventi l’occasione per allineare le politiche agricole comunitarie agli obiettivi di tutela della salute e dell’ambiente. La crisi legata al Covid-19 ha messo in luce la necessità di un profondo cambiamento del sistema agroalimentare, per fronteggiare l’emergenza climatica in corso e scongiurare nuove epidemie. L’associazione chiede anche una profonda revisione dell’attuale Pac (Politica agricola comune), che finora ha favorito un modello di agricoltura e allevamento intensivi, destinando un terzo dei sussidi complessivi all’1% delle aziende del settore, in relazione alle grandi estensioni di terre che controllano, mentre le aziende agricole di piccole dimensioni tendono a scomparire.
Il sistema agroalimentare europeo si caratterizza per una forte produzione di alimenti di origine animale, al punto che circa il 70 per cento dei terreni agricoli dell’Ue viene utilizzato per l’alimentazione del bestiame, e assorbe circa un quinto del bilancio totale dell’Ue. “Bisogna smettere di finanziare ciecamente un sistema non più sostenibile, aiutando gli agricoltori a produrre alimenti sani e rispettosi dell’ambiente” dichiara Federica Ferrario di Greenpeace Italia. “Per farlo è necessario infrangere il tabù dell’aumento di produzione ad ogni costo, soprattutto di prodotti che hanno un maggiore impatto ambientale come quelli di origine animale. È il momento per iniziare a produrre e consumare meno e meglio, utilizzando i fondi disponibili per sostenere i produttori e i consumatori in questo cambiamento e smettendo di finanziare il sistema degli allevamenti intensivi”. Anche la scienza è ormai concorde nell’indicare una drastica diminuzione della produzione e del consumo di carne come uno degli interventi chiave per proteggere la salute umana, l’ambiente e il clima.

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Greenpeace chiede una sostanziale revisione dell’attuale politica agricole europea

Produciamo troppa carne per questo parte dei fondi stanziati dal governo e di quelli che saranno resi disponibili con il Decreto Rilancio sono destinati a far fronte a una “crisi di sovrapproduzione”, attraverso misure come lo stoccaggio delle carni o l’ammasso di formaggio e cagliate. Per questi motivi è necessaria una visione ampia e strategica su come utilizzare le risorse, incoraggiando modelli di produzione e consumo ecologici.
Per questi motivi Greenpeace chiede di
-Valutare una serie completa di misure per incoraggiare l’adozione di diete più ricche di alimenti di origine vegetale.
– Stabilire limiti legalmente vincolanti per la densità massima negli allevamenti – un numero massimo di animali per ettaro che un’azienda può allevare – che devono essere rispettati da tutte le aziende agricole dell’Ue.
– Stabilire obiettivi vincolanti per ridurre del 50% la quantità di pesticidi sintetici entro il 2025 e dell’80% entro il 2030.
– Adottare una serie di misure atte a garantire alle aziende agricole il necessario sostegno economico per una transizione ecologica dei metodi di allevamento e delle pratiche agricole.
– Rafforzare la direttiva Ue sull’uso dei pesticidi e stabilire requisiti legali per l’applicazione dei principi per la gestione integrata dei parassiti (IPM), compresi i criteri per le pratiche raccomandate (ad esempio rotazioni delle colture, colture di copertura, fasce tampone e siepi) e per quelle non ammesse (ad es. concia delle sementi, calendari delle irrorazioni, uso di colture resistenti agli erbicidi).
– Rafforzare le norme sul benessere animale per rispettare le esigenze e i diritti degli animali allevati e garantire il rigoroso rispetto delle vigenti e future normative Ue sul benessere degli animali.
fonte: www.ilfattoalimentare.it


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