
Manifesto #moNOuso

Pfas nei piatti e nei bicchieri usati nelle mense scolastiche. L’appello della rivista Il Salvagente per sostituirli
Il Salvagente ha inviato una lettera aperta ai ministri della Salute e dell’Istruzione per “Evitare che nei piatti dei nostri figli finiscano i
Il fronte plastic-free si sposta sull'ortofrutta
No, in Italia non sta tornando il vuoto a rendere. E vi spieghiamo perché
Adottati i criteri ambientali minimi per forniture e noleggio di prodotti tessili

Pubblicato nella G.U. del 30 giugno 2021 il Decreto del Ministero della Transizione ecologica (MiTE) "Adozione dei criteri ambientali minimi per forniture e noleggio di prodotti tessili, ivi inclusi mascherine filtranti, dispositivi medici e dispositivi di protezione individuale nonché ...
NoPla: Facciamo esercizio contro li monouso - riutilizzare è un vantaggio per tutti
Gli ostacoli alla riduzione della plastica
Secondo l'indagine, il 96% dei consumatori tedeschi ritiene importante ridurre i rifiuti di imballaggio, tuttavia il loro consumo, in Germania, è cresciuto in modo costante fino a toccare 3,2 milioni di tonnellate nel 2018, con un raddoppio dei rifiuti generati rispetto al 1997. Con 228 chilogrammi pro capite, il consumo di imballaggi in Germania risulta molto superiore alla media europea, pari a 174 chili pro capite.
I ricercatori hanno identificato 12 ostacoli alla riduzione di rifiuti da imballaggio e packaging in plastica:
Abitudini d'acquisto: i partecipanti al focus group fanno la spesa principalmente nei supermercati o nei discount piuttosto che nei mercati o nei negozi a rifiuti zero e la maggior parte non porta le proprie borse da casa. Inoltre, gli alimenti confezionati sono popolari.
Scarsa informazione: i ricercatori hanno osservato che i consumatori intervistati erano spesso incerti su quali tipi di imballaggi fossero più sostenibili di altri.
Igiene: molti partecipanti nutrono riserve sulle proprietà igieniche degli espositori di merci non imballate a libero accesso, sull'uso di contenitori portati da casa e, più in generale, sulle soluzioni di imballaggio riutilizzabile.
Proprietà del materiale: i partecipanti spesso preferiscono gli imballaggi in plastica a causa delle loro proprietà, come leggerezza, infrangibilità e resistenza.
Priorità: secondo alcuni partecipanti al focus group, gli sforzi per utilizzare meno imballaggi in plastica si scontrano con altre priorità della loro vita quotidiana, ad esempio i genitori non vogliono appesantire gli zaini scolastici dei figli e, di conseguenza, preferiscono usare la plastica invece delle bottiglie di vetro.
Prezzo: in generale, gli alimenti confezionati nella plastica sono più convenienti di quelli imballati con altri materiali.

Percezione della responsabilità: secondo i partecipanti, sia gli individui che l'industria hanno la responsabilità di risolvere il "problema della plastica": da un lato, poiché l'industria è responsabile del fatto che così tanti prodotti sono confezionati in plastica, dovrebbe offrire soluzioni. Tuttavia, viene anche sottolineato che i consumatori dovrebbero acquistare in modo più consapevole.
Prossimità e infrastrutture: i partecipanti hanno sottolineato che negozi a rifiuti zero o mercati rionali sono spesso difficili da raggiungere e richiedono più tempo e sforzi per accedervi rispetto a supermercati o discount locali.
Tempo: questa è un'altra barriera cruciale per uno shopping più sostenibile. L'accesso a negozi e mercati a "rifiuti zero" richiederebbe più tempo per la maggior parte delle persone. I partecipanti hanno sottolineato che anche per la spesa servirebbe più tempo impiegando contenitori riutilizzabili, oltre alla pulizia degli stessi. Inoltre, la preparazione di alimenti non trasformati richiede anch'essa un maggor dispendio di tempo.
Comodità: i partecipanti trovano anche scomodo portare i propri contenitori da casa, se hanno altre incombenze da sbrigare o fanno la spesa dopo il lavoro.
Cultura: i consumatori intervistati non attribuiscono molta importanza alla disponibilità di una "vasta gamma di prodotti" durante gli acquisti. Tuttavia, molti sottolineano l'importanza di trovare prodotti specifici nei punti vendita. Ciò si traduce in una domanda indiretta di un'ampia gamma di prodotti di largo consumo, difficile da implementare in negozi "a zero rifiuti" o a basso contenuto di plastica. Le discussioni nei focus group hanno anche mostrato che la cultura del consumo spontaneo e in movimento rende difficile ridurre gli imballaggi. Molti partecipanti all'indagine non si rendono conto che gli alimenti non regionali e non stagionali, consumati tutti i giorni, devono essere per forza confezionati per garantire la conservazione e la freschezza durante il trasporto e lo stoccaggio.
“I risultati dello studio mostrano che attualmente sono necessari molti sforzi e una maggiore informazione affinché i consumatori riducano l'utilizzo di imballaggi in plastica - spiega Katharina Beyerl, coautrice della ricerca -. Se vogliamo rendere le merci a basso tasso di spreco e senza imballaggi monouso in plastica l'opzione più economica e conveniente, dobbiamo modificare le infrastrutture, gli incentivi economici e le condizioni di contorno, non basta chiedere ai consumatori di fare acquisti solo nei negozi a rifiuti zero".
fonte: www.polimerica.it
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Per il bando ai monouso manca il decreto

Il 3 luglio è passato, la Direttiva UE sugli articoli monouso (Direttiva SUP) è entrata formalmente in vigore, ma non in Italia, dove manca ancora il decreto di recepimento, nonostante sia stata approvata dal Parlamento la Legge di delegazione, che affida al Governo il compito di dar forma alla direttiva. La bozza è ferma al Ministero della Transizione ecologica e, secondo alcune indiscrezioni, potrebbe essere pubblicata in Gazzetta Ufficiale alla fine dell'estate.
La ragione delle melina governativa risiederebbe nel contrasto con la UE sull'impiego delle bioplastiche nei monouso messi al bando, in particolare le stoviglie: il nostro paese vorrebbe una sorta di dispensa per le plastiche compostabili con elevato contenuto biobased in ragione della rilevanza di questa industria e dell'avvio di un circuito per la raccolta differenziata della frazione organica (Biorepack). A Bruxelles, invece, non essendo dimostrata la biodegradazione delle bioplastiche in ambiente marino, la deroga appare immotivata.


L'Italia non è però l'unico paese ad aver disatteso la data del 3 luglio. Secondo EuPC, che rappresenta a livello europeo i trasformatori di materie plastiche, anche Francia è Svezia sono in ritardo con il recepimento, ancora alle prese con il confronto con gli operatori interessati dalle norme, mentre altri stati membri, come Romania e Bulgaria, non avrebbero compiuto passi concreti verso l'adozione. Secondo l'associazione, la ragione va cercata nel ritardo con il quale sono state diramate le linee guida e, più in generale, nella fretta con cui la Direttiva è stata elaborata e varata, anche se sono ormai passati due anni dalla sua approvazione.

L'iter è abbastanza complesso: la Commissione invia una lettera di costituzione in mora con cui richiede ulteriori informazioni al paese in questione, che dovrà inviare una risposta dettagliata entro un termine preciso, generalmente due mesi.
Se Bruxelles si convince che il paese sia venuto meno ai propri obblighi a norma del diritto comunitario, può inviare un parere motivato, vale a dire una richiesta formale di conformarsi al diritto dell’Unione in cui spiega perché ritiene che il paese violi le norme. Contestualmente, viene chiesto di comunicare le misure adottate entro un termine preciso, anche in questo caso due mesi. Se il paese continua a non conformarsi alla legislazione, la Commissione può deferirlo alla Corte di giustizia e chiedere di imporre sanzioni.
In termini pratici, volendo tirarla alla lunga, tra dilazioni (tre mesi per il recepimento), burocrazia e smaltimento delle scorte, la fine dei monouso potrebbe non giungere prima della primavera 2022, lasciando un settore nella completa incertezza per ancora molti mesi.
fonte: www.polimerica.it
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Direttiva SUP e produzione. La Case History di Haval
A smentire questa impostazione novecentesca, incapace di comprendere come sia necessario modificare i paradigmi produttivi novecenteschi per garantirsi un futuro sul mercato (e per garantire un futuro vivibile), arriva dall’Olanda una interessante Case History. A raccontarla un progetto Interreg “Transform-CE” sulle buone pratiche relative ai modelli di business basati sull’economia circolare.
Haval è un’azienda a conduzione familiare che produce articoli monouso e imballaggi per alimenti (come posate di plastica, piatti, bicchieri da yogurt, ecc.). Attualmente, producono prodotti in grandi volumi al minor costo possibile. A causa della recente introduzione della direttiva sulla plastica monouso (SUP), che entrerà in vigore il 3 luglio 2021, quasi tutti i loro prodotti saranno vietati. Quindi, Haval sta attualmente subendo una transizione dai prodotti monouso alle alternative riutilizzabili (sotto il nome di Circulware). Invece di cercare facili soluzioni per aggirare le regole (usando altri materiali), Haval ha deciso di adottare un approccio completamente diverso, passando dai prodotti monouso a quelli multiuso. Recentemente hanno creato una linea di prodotti specifica chiamata ‘Circulware’, creata appositamente per eventi e festival, tra cui vassoi riutilizzabili per il cibo e vassoi per le patatine. Inoltre, Haval sta attivamente ricercando l’uso della filigrana, che potrebbe (in futuro) permettere di separare i prodotti alimentari da quelli non alimentari, e permettere di separare i prodotti più piccoli.
Questo comporta molti cambiamenti nel modello di business, dalla consegna diretta ai consumatori all’implementazione della logistica inversa e all’estensione della loro gamma di prodotti.
Leggi il rapporto completo: https://www.nweurope.eu/media/14010/case-study-report-haval-good-practice-of-circular-economy-business-models.pdf
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Direttiva SUP e scorte, chiarimenti da Bruxelles
Secondo quanto riporta Federazione Gomma Plastica (FGP) - associazione dei trasformatori italiani di materie plastiche e gomma - la Commissione europea ha fornito chiarimenti in merito alla definizione di immissione sul mercato e conseguente possibilità di smaltire le scorte a magazzino dopo l'entrata in vigore della Direttiva sugli articoli monouso (Direttiva SUP), il 3 luglio 2021.
In particolare, il divieto di vendita e l’obbligo di marcatura non si applicano ai prodotti già immessi sul mercato prima del 3 luglio 2021 e presenti successivamente a tale data nei magazzini di produttori, grossisti, distributori, negozianti e retailers. Unica condizione - segnala FGP, è che la vendita, dopo la messa a disposizione da parte del produttore, continui ad avvenire nel territorio dello stesso Paese non in un Paese diverso.
Lo stesso criterio vale per gli obblighi di marcatura: i prodotti privi di marchio possono essere venduti dopo il 3 luglio 2021 nello stesso Stato membro dal negoziante che li detiene nei propri magazzini, se entrati nelle sue disponibilità prima di tale data.
Quando un prodotto entra nella fase di distribuzione, può essere messo a disposizione (e quindi immesso sul mercato) attraverso un accordo o un’offerta. Esempi sono offerte on line, campagne pubblicitarie, inviti all’acquisto tramite e- mail, consegna di un preventivo, informazioni sul prodotto e sul loro costo. In ogni caso l’offerta deve riguardare specifici prodotti già realizzati.
Nel caso in cui chi fabbrica i prodotti SUP sia diverso da chi figura come produttore (ad esempio nel settore dell’imballaggio),i prodotti stoccati presso il magazzino del brand owner non sono considerati già immessi sul mercato in quanto è questo soggetto ad essere considerato produttore, e non il fabbricante.
La Commissione, invece, ha affermato di non poter prevedere un periodo transitorio per l’esaurimento delle scorte in quanto contrario a quanto stabilito dal Consiglio e dal Parlamento europeo, anche se Unionplast ha chiesto al Governo italiano, nel recepire la Direttiva, di prendere in considerazione questa opzione.
La Direttiva non prevede invece specifici obblighi per i distributori riguardo la conformità dei prodotti. Saranno i singoli Stati Membri a decidere come implementare la Direttiva in tal senso.
fonte: www.polimerica.it
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L'Australia lancia piano sulla plastica
“Gli australiani consumano ogni anno 1 milione di tonnellate di plastica monouso, un volume insostenibile", ha spiegato Ley nel presentare il piano, che si articola su cinque livelli: legislazione, investimenti, obiettivi di settore, ricerca e sviluppo, educazione dei cittadini.
Gli obiettivi sono ridurre la quantità di rifiuti plastici e potenziarne il riciclo, trovare alternative alla plastica ove non necessaria (ed eliminare quelle più problematiche) e ridurre l'impatto sull'ambiente. Attualmente solo il 13% delle plastiche monouso viene riciclata, mentre il resto finisce in discarica o nell'ambiente. Secondo il governo australiano, sarebbero 130mila le tonnellate di plastica che finiscono ogni anno in mare.

Per quanto concerne le restrizioni sugli imballaggi in plastica, la road map prevede la messa al bando, dal luglio 2022, dei packaging oxodegradabili, ovvero di tutti quelli biodegradabili che non rispettano gli standard internazionali (AS4736-2006, AS5810-2010 e EN13432) e dei flakes di EPS per il riempimento protettivo; da dicembre 2022 saranno vietati anche gli imballaggi per alimenti e bevande in polistirene espanso; infine, sempre a partire da dicembre 2022, saranno messe al bando le etichette in PVC per packaging.
fonte: www.polimerica.it
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No all'esenzione dei poliaccoppiati dalla Direttiva SUP

PlasticsEurope interviene nella discussione in merito alla richiesta di esenzione dei poliaccoppiati carta/plastica dall'ambito di applicazione della Direttiva UE sugli articoli monouso in plastica (SUP), sostenendo che sarebbe sbagliato concedere una deroga al loro impiego se l'obiettivo è quello di ridurre l'inquinamento da rifiuti marini.
La tesi è che la direttiva non pone un limite minimo al contenuto di plastica nell'imballaggio e quindi, il packaging in carta o cartone rivestito con polimero, senza il quale la sua funzione protettiva non verrebbe garantita, debba essere ricondotto nell'ambito di applicazione, poiché la discriminante non è la quantità di materiale plastico presente nel packaging (come chiedono le associazioni della carta), ma la sua funzione e la probabilità che questo possa finire in mare.
Secondo PlasticsEurope, le domande che vanno poste per determinare se un prodotto debba essere escluso dal campo di applicazione della direttiva sono: questo articolo potrebbe svolgere la sua funzione principale se privato della componente polimerica? É probabile che questo articolo venga disperso nell'ambiente in modo improprio dopo il suo utilizzo?

Secondo PlasticsEurope, la Direttiva SUP dovrebbe spingere verso la modernizzazione e la ricerca di sostituti realmente 'green', in grado di garantire sia alti livelli di protezione ambientale, sia elevati standard prestazionali. Un processo che - si legge nel parere pubblicato su EurActivand (leggi QUI) - dovrebbe coinvolgere senza discriminazioni tutti i settori industriali al fine di consentire un adeguamento unificato al quadro normativo UE; quindi senza escludere prodotti la cui componente principale non è la plastica, ma in cui i polimeri, sebbene presenti in quantità inferiore, non possono essere sostituiti da altri materiali in grado di garantire standard di prestazioni comparabili. "La lotta contro i rifiuti marini dovrebbe essere la principale preoccupazione, indipendentemente dal settore di attività", conclude la nota.
fonte: www.polimerica.it
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Quando il cibo da asporto incontra i contenitori riutilizzabili. Gli esempi in Italia e nel mondo

L’emergenza sanitaria ha comprensibilmente messo in secondo piano altre emergenze ambientali, come quelle connesse all’aumento della produzione di rifiuti. Le misure per contrastare il Covid hanno rallentato, se non fermato, centinaia di progetti nazionali o locali, in particolare quelli che riguardano la sostituzione di contenitori e altri accessori monouso nel settore della ristorazione da asporto, che sono già da tempo nel mirino delle direttive europee. Intanto la domanda di alimenti confezionati e pronti al consumo continua a crescere e il ricorso al cibo da asporto nei periodi di lockdown è letteralmente esploso.
Sfide impossibili che diventano realtà
Lo scossone prodotto dalla pandemia è l’occasione per vedere con più chiarezza i limiti e i rischi insiti nel modello di consumo e negli stili di vita attuali, aprendo la strada alla riflessione sulle opportunità di cambiamento che possono scaturire da una migliore organizzazione della società, del lavoro, della mobilità, della burocrazia. L’innovazione digitale nella pubblica amministrazione e la possibilità di lavorare da casa, ad esempio, sono due delle “conquiste” che nessuno prima che scoppiasse la pandemia immaginava potessero arrivare così velocemente.
Anche davanti a sfide come quella della neutralità climatica al 2050, così come sul fronte della prevenzione della produzione dei rifiuti c’è la possibilità di non perdere questo atteggiamento proattivo individuando soluzioni innovative e sistemiche che possano avere applicazioni su larga scala.
Guardando ai 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, il numero 12 in particolare, promuove un modello di consumo e di produzione sostenibile. Per superare il dilagare dell’usa e getta c’è l’impegno espresso a “ridurre in modo sostanziale la produzione di rifiuti attraverso la prevenzione, la riduzione, il riciclo e il riutilizzo”. E c’è un obiettivo temporale: il 2030, anno entro il quale bisogna anche “incoraggiare le imprese, in particolare le grandi aziende multinazionali, ad adottare pratiche sostenibili e a integrare le informazioni sulla sostenibilità nei loro resoconti annuali”.
Il monouso non offre maggiore protezione
La pandemia ha portato con sé misure che si sono poi rivelate eccessive, come la disinfezione ambientale di strade e spiagge da parte dei Comuni e l’utilizzo di guanti per uscire a fare la spesa da parte dei cittadini. La paura che il contatto con le superfici portasse il contagio si diffondeva insieme agli studi che rilevavano il permanere del coronavirus su oggetti e arredi per più giorni, anche perché non si precisava che la carica virale non fosse sufficiente a farci ammalare.
Successivamente sono poi arrivate rassicurazioni dal fronte medico, riprese dal ministro della Salute Roberto Speranza nel corso di un’audizione dello scorso anno sulla sicurezza delle stoviglie riutilizzabili che, al contrario dei manufatti monouso, si possono lavare seguendo i più elevati standard di igiene.
Superata la paura iniziale, dunque, hanno ripreso a farsi strada alcuni progetti basati sul riuso di contenitori e stoviglie per la ristorazione, in grado di garantire la qualità e la sicurezza del servizio, riducendo enormemente l’impatto ambientale dei contenitori usa e getta che vanno a sostituire.
Il caffè da asporto diventa “contactless”
L’organizzazione ambientalista inglese City to Sea si è attivata per evitare che le numerose caffetterie del Regno Unito sospendessero, sull’esempio di Starbucks, l’utilizzo di tazze riutilizzabili per le bevande da asporto. L’iniziativa #ContactlessCoffee nasce dalla consapevolezza delle dimensioni del problema rifiuti: secondo un recente studio di Science, ogni anno a livello globale 250-300 miliardi di tazze monouso finiscono smaltite o abbandonate nell’ambiente.
Per spingere i coffee shop britannici ad accettare il sistema di ritiro delle tazze riutilizzabili, City to Sea ha promosso una semplice procedura che evita contaminazioni incrociate mentre si riempie la tazza del cliente. Come si può vedere dalle istruzioni diffuse attraverso il sito e tramite un video, il barista versa il caffè da una tazza in ceramica nella tazza che il cliente appoggia su un vassoio senza bisogno di toccarla. Il vassoio viene poi igienizzato prima che un altro cliente lo usi nella stessa modalità.
City to Sea ha anche istituito una task force intersettoriale per valutare e gestire al meglio le questioni legate all’impiego di sistemi riutilizzabili durante la pandemia da Covid-19 che conta più di 20 organizzazioni, tra cui Starbucks, Sustainable Restaurant Association e Zero Waste Scotland.
Contenitori da asporto riutilizzabili per prevenire gli sprechi
Per tanti americani il cibo surgelato pronto da scaldare, così come quello da asporto, è un’abitudine che produce ogni anno montagne di rifiuti, per lo più smaltiti in discariche e inceneritori. Per permettere ai propri clienti di ordinare piatti pronti ma con un contenitore riutilizzabile, la catena Just Salad, con base a New York, sta sperimentando uno modello a rifiuti zero denominato Green Bowl Program.
Just Salad, che oggi conta 41 ristoranti negli Stati Uniti e 4 a Dubai, aveva già lanciato nel 2006 un servizio da asporto con contenitori riutilizzabili. Per ridurre ulteriormente la produzione di questi rifiuti, che si aggira intorno ai 100.000 kg l’anno, nel 2020 la catena ha anche eliminato l’uso di ciotole monouso per il consumo ai tavoli.
“Gran parte dei nostri clienti ordina online piuttosto che andare nei ristoranti”, ha dichiarato Sandra Noonan, responsabile sostenibilità di Just Salad. “Pertanto il nostro servizio deve diventare digitale. I rifiuti che si accumulano sui marciapiedi a New York sono la prova quotidiana che il problema è causato dalle consegne a domicilio e non si esaurirà a meno di affrontarlo a testa alta”.

A partire dal progetto pilota attivato a inizio anno in un negozio Just Salad a Manhattan, i clienti possono ordinare online scegliendo l’opzione della consegna in ciotola riutilizzabile di colore verde. Dopo di che, la potranno riportare al negozio che partecipa al programma, dove verrà igienizzata per poi finire reinserita nuovamente nel circuito delle consegne a domicilio.
Procedura contacless per la protezione del personale
La ciotola in polipropilene blu a disposizione dei clienti per l’asporto dal 2006 viene invece acquistata presso i punti vendita al costo di un dollaro. Nel 2019 le sue vendite sono aumentate del 100%.
Quando i clienti si recano con la loro ciotola nei ristoranti per acquistare un piatto del menù devono posarla su un apposito vassoio e il personale si serve di pinze e mestoli per riempirla. Questa procedura viene adottata nel rispetto dei requisiti del programma sanitario: i contenitori che arrivano dall’esterno non possono infatti toccare gli spazi di preparazione condivisi.
Nelle prime settimane del Green Bowl Program, senza che l’opzione fosse stata promossa, oltre il 30% degli ordini online richiedeva questo servizio in cui la ciotola rimane di proprietà della catena. Il prossimo passo sarà offrire lo stesso servizio per gli ordini di consegna. Come si può leggere nel Rapporto di sostenibilità pubblicato recentemente è in corso un monitoraggio sul progetto pilota per vedere quanto velocemente i clienti restituiscono i contenitori e quali “solleciti comportamentali” posso funzionare meglio.
Anche per gli uffici è previsto un sistema di consegna e ritiro, denominato Zero Waste Hub: si può ordinare un pasto in contenitore riutilizzabile con consegnato sul luogo di lavoro o ritiro in giornata da Just Salad.

Etichette climatiche sui menù
“Nel 2020, il nostro mondo è cambiato ma i nostri valori no” scrivono Noonan e Nick Kenner, rispettivamente ad e fondatore di Just Salad, nel rapporto sulla sostenibilità. “La pandemia ci ha resi più determinati nel creare una nuova normalità per il nostro settore, dove i rifiuti sono un tabù, e dove fare ‘meno male’ non è più sufficiente”. Se lo scorso anno la pandemia ha richiesto la sospensione o il rallentamento di alcune buone pratiche della catena legate al riutilizzabile, la direzione di Just Salad precisa che con il 2021 si recupererà il tempo perduto.
Oltre ai diversi impegni assunti dalla catena a livello ambientale e sociale, nel rapporto di Just Salad si legge che negli Usa gli imballaggi e contenitori monouso insieme rappresentano il 23% dei rifiuti che finiscono in discarica. Questa quota include imballaggi alimentari come scatole e contenitori da asporto monouso. Gli Stati Uniti consumano ogni anno oltre 3.300.000 tonnellate di articoli monouso legati all’asporto di cibo e bevande: contenitori per cibo e pizza, tazze, bicchieri e coperchi annessi, coppette, tovaglioli, involucri in carta e borse da asporto.
Just Salad è anche la prima catena del suo genere negli Usa ad aver dotato, già dallo scorso anno, i propri menù di etichette climatiche che quantificano l’impronta di carbonio di un prodotto ovvero le emissioni di Co2 generate per la produzione di uno specifico alimento. Anche quando si ordina online, accanto al valore calorico del loro pasto i clienti visualizzano il “peso”in termini di emissioni di ciò che mangiano: uno stimolo in più a scegliere a dieta giusta.

E a Milano c’è Altatto: piatti veg e schiscetta a rendere
Anche in Italia c’è chi sceglie il riutilizzabile per il suo servizio da asporto e a domicilio. Altatto è una realtà milanese di cucina vegana e vegetariana nata come servizio di catering per piccoli e grandi eventi con un bistrot in zona Greco a Milano, in cui offrono anche lezioni di cucina vegetariana e vegana. Nel novembre del 2020 – come si può leggere sul sito – la necessità di reinventasi e di dare un segnale di cambiamento, modificando anche le modalità in cui era avvenuto il delivery durante il primo periodo di lockdown, ha portato le tre fondatrici di Altatto all’idea di fornire un pasto da asporto “zero waste”.
La crescita del delivery – che e un’opzione irrinunciabile per i ristoratori di questi tempi– ha portato con sé un impatto ambientale e una produzione notevoli di rifiuti di cui si dispiacciono gli stessi operatori più sensibili del settore.

Altatto ha cercato una soluzione e l’ha trovata ispirandosi anche alla tradizione dei dabbawala indiani, un sistema composto da più contenitori sovrapposti che vengono ritirati e poi consegnati in India con il cibo caldo.
L’offerta con vuoto a rendere di Altatto, una schiscetta in acciaio inox, è per ora disponibile due volte a settimana e viene consegnata intorno all’ora di pranzo adoperando mezzi elettrici. Va ordinata attraverso il sito entro le 18 del giorno prima. Si può scegliere tra due menù completi, che possono essere riscaldati nel forno e consumati anche a cena.
La prima volta vengono addebitati 10 euro extra, cifra che corrisponde al prezzo della schiscetta. Già dall’ordine successivo si può scegliere l’opzione del vuoto a rendere che viene ritirato contestualmente alla consegna del pasto, e non si paga più per il contenitore. I clienti che vogliono ritirare di persona, e in particolare coloro che abitano fuori Milano, zona non coperta dal servizio di delivery, possono farlo presso il ristorante nell’orario in cui si effettuano le consegne.
L’esperienza di Altatto si presta ad essere implementata, per coinvolgere più milanesi qualora fosse condivisa dal circuito di ristoranti vegetariani e vegani, e non solo. Già solamente l’adozione da parte di tutti i ristoranti dello stesso modello di schiscetta favorirebbe il diffondersi dell’iniziativa e anche, perché no, un aumento dei clienti per tutto il circuito. Perché alla fine l’unione fa la forza, senza che ognuno debba rinunciare alle sue specificità.
Silvia Ricci
fonte: economiacircolare.com
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Quando è troppo: over-packaging nel sistema cibo
Due candide uova sode sgusciate e impacchettate: adagiate, quasi fossero preziosi soprammobili, in una vaschetta di plastica, con coperchio trasparente e involto di cartoncino con marchio, certificazioni e scadenza. L’ultimo esempio di over-packaging alimentare che ha sollevato un’ondata di indignazione da tastiera non proviene dal regno del fast-food d’oltreoceano, e neanche da un convenience store asiatico con i mandarini a spicchi nel banco frigo. Le uova “salvatempo” si possono comprare nei supermercati della vecchia Europa. E, del resto, non sono poi una trovata tanto diversa dalle insalate pronte che spopolano negli uffici, senza che nessuno se ne indigni.
Ma come, e soprattutto perché, si è arrivati dalle uova fresche avvolte nella carta di giornale ai capolavori di sovra-imballaggio che oggi riempiono i banchi frigo?
Necessità ed eccessi
Se ci sono eccessi che quasi urlano l’assurdità della loro esistenza dagli scaffali del supermercato, in genere non è però semplice definire un confine netto tra packaging, utile e legittimo, e over-packaging, per definizione superfluo e dannoso. Erik Ciravegna, docente di Design del packaging alla Pontificia Università Cattolica del Cile, è relativista. “Bisogna innanzitutto contestualizzare. Quello che oggi ci sembra senza senso, negli anni ‘90 veniva salutato come un’innovazione nel campo della consumer experience e del marketing”. Insomma, se ci si mette nei panni delle aziende che devono vincere la concorrenza ed emergere su mercati sempre più affollati, allora l’idea del “ti sbuccio l’uovo così risparmi tempo” può anche apparire una novità brillante.
Al di là delle trovate infelici, il packaging ha comunque alcune funzioni fondamentali a cui non può venire meno. Come spiega Ciravegna, deve innanzitutto proteggere e conservare il suo contenuto; deve essere funzionale a tutta la catena logistica, dal trasporto all’esposizione in negozio; deve farsi veicolo di informazioni sul prodotto; deve identificare un brand e attirare l’attenzione dell’acquirente. È insieme un supporto logistico indispensabile e un mezzo di comunicazione potente. “Il segreto sta nel trovare il punto di equilibrio fra eccesso, che impatta sull’ambiente, e carenza di imballaggio, che può portare ad altri tipi di problemi, come il deterioramento precoce del cibo, la sua contaminazione, la mancanza di protezione per alimenti particolarmente delicati”.

La curva di Soras è stata sviluppata da Innventia AB, società di ricerca e sviluppo con sede in Svezia.
Responsabilità e corresponsabilità
“Il packaging, quello di plastica in particolare, è sempre additato come il cattivo del film. Ma chi l’ha fatto diventare ‘cattivo’?”. A Erik Ciravegna non piace “dare la colpa” a una categoria, men che meno a degli oggetti inanimati: preferisce un più onesto principio di corresponsabilità. “Il problema non è la plastica, che è un materiale dalle proprietà eccezionali, utilissimo in svariate occasioni. Il problema siamo noi, le nostre abitudini a cui non sappiamo rinunciare, il modo in cui produciamo la plastica, la usiamo, la smaltiamo. Il problema è il monouso”.
Un problema diventato di proporzioni insostenibili. Secondo il report “Unwrapped”, redatto nel 2018 da Zero Waste Europe e Friends of the Earth per Rethink Plastic, la domanda di plastica in Europa ha raggiunto i 49 milioni di tonnellate annue, di cui il 40% utilizzate per il packaging, quasi tutto monouso. Si stima che il 95% del valore del packaging vada perduto dopo il primo utilizzo e le Nazioni Unite hanno calcolato che il costo globale in termini di capitale naturale per la plastica nell’industria alimentare si aggiri intorno a i 15 miliardi di euro all’anno.
Ora, se è vero che la responsabilità è di tutti, bisogna trovare un modo per innescare un circolo virtuoso, che incoraggi i consumatori ad abbandonare le cattive abitudini, incentivi i produttori a servirsi di imballaggio riutilizzabile e spinga la grande distribuzione a vendere i prodotti con il minimo packaging necessario. “Bisognerebbe radunare tutti attorno a un tavolo e cominciare a progettare insieme le soluzioni”, chiosa Ciravegna.
È quello che cerca di fare, in un certo senso, la Sustainable Packaging Coalition, che riunisce su base volontaria aziende, istituzioni educative e organizzazioni governative (ma le Ong sono escluse) per promuovere la cultura dell’imballaggio sostenibile. Fanno parte della coalizione nomi come Barilla, Bonduelle, DelMonte, Ferrero, Kellogg, McDonald’s, Nestlè, Starbucks, Walmart. Ai membri tuttavia – come ci spiega la gentile addetta stampa – non viene chiesto nessun impegno vincolante che riguardi i loro affari.
Il retail ci prova
Se da qualcuno bisogna cominciare a innescare il circolo virtuoso, forse i primi della lista sono i supermercati. La “throwaway convenience culture”, come è additata in un report di Greenpeace e Environmental Investigation Agency UK, è ormai la forma mentis che determina la maggior parte delle nostre scelte di consumo, soprattutto alimentari. Non c’è da stupirsene, visto che è la grande distribuzione a interagire direttamente con gli acquirenti: un grande potere, da cui deriva una grande responsabilità. Ma cosa sta facendo il settore del retail? Raccogliere le voci dei diretti interessati su un tema che li vede al banco degli imputati non è semplice. Chi ha risposto alla chiamata di MR lo ha fatto con comunicati stampa sulle proprie politiche di sostenibilità. Come Auchan Retail, che annuncia la sua adesione all’European Plastics Pact e l’impegno a eliminare entro il 2022 la plastica per l’ortofrutta self-service e i servizi di ristorazione. Mentre Tesco rimanda alle sue iniziative di ecodesign per snellire il packaging di alcuni prodotti o passare a plastiche più facilmente riciclabili.
Per il mondo delle Ong gli sforzi, benché apprezzabili, non sono abbastanza. “Le stime degli imballaggi in plastica immessi sul mercato dai rivenditori negli stati europei suggeriscono che i supermercati da soli sono responsabili di circa 900.000 tonnellate di imballaggi in plastica per paese ogni anno”, si legge nel già citato “Unwrapped”. “Siamo consapevoli che diversi supermercati stanno provando a fare qualcosa, in particolare quelli che implementano sistemi di vendita packaging-free. - commenta Larissa Copello de Souza, campaigner di Zero Waste Europe - Ma ci sono ancora molte barriere, come i regolamenti su igiene e sicurezza, diversi da paese a paese, che impediscono di vendere determinati prodotti senza packaging o in contenitori riutilizzabili”.
A parte i prodotti idonei per la vendita alla spina, ci sono diverse altre tipologie di merci su cui intervenire. Veri incubi per lo spreco di imballaggio sono ad esempio le monoporzioni, di cui si è registrato un boom negli ultimi anni. Ma anche tutti i cibi pre-cucinati, gli ortaggi pre-lavati, la frutta tagliata, così come i “formati risparmio” che raggruppano, avvolte in strati di plastica o carta, più confezioni singole. La scusa ufficiale dei retailer è che vogliono far risparmiare soldi ai clienti ed evitare sprechi. Ma quello che i dati contenuti in “Unwrapped” dimostrano è esattamente il contrario: i pacchi formato famiglia inducono ad acquistare più del necessario, portando quindi a uno spreco di soldi e di prodotti; i cibi pronti deperiscono in fretta e hanno più probabilità di finire nella spazzatura, come succede ogni anno a 178 milioni di buste di insalata pre-lavata nel Regno Unito; e, in generale, l’uso di packaging in plastica e lo spreco di cibo sono aumentati simultaneamente dagli anni ‘50 ad oggi.
Che fare?
Per trovare le soluzioni serve allontanare i ragionamenti settoriali e abbracciare un approccio olistico.
Allargando lo sguardo, la prima cosa evidente è che “passare semplicemente dalla plastica a un altro materiale, come la carta, non è la soluzione, soprattutto se andiamo avanti con il monouso”, fa notare Larissa Copello. Diversi brand come McDonald’s, Starbucks, Nestlè, Nesquik hanno annunciato con orgoglio nuove tazze, cannucce o confezioni in carta – si legge nel report “Throwing away the Future” di Greenpeace (2019) – senza però preoccuparsi davvero degli impatti della filiera della carta o della effettiva riciclabilità dei presunti packaging sostenibili (come per le cannucce di McDonald’s, in cui spessore e adesivi usati sono incompatibili con gli attuali sistemi di riciclaggio).
Fondamentale è allora puntare sull’eco-design, per avere imballaggi progettati per non produrre rifiuti. “Molto utile - continua Copello - sarebbe avere packaging standardizzato riutilizzabile per la catena logistica, in modo che i produttori possano condividerne i costi e rimetterlo in circolo per ogni trasporto. Ma per questo servirebbe un intervento legislativo dall’Europa, da cui dovrebbe arrivare anche un forte supporto ai modelli di business ‘zero rifiuti’ come i negozi senza packaging. Che tra l’altro collaborano con i produttori locali, promuovendo la filiera corta e superando quindi molti dei problemi legati al trasporto dei prodotti”. Alla fine si torna alle uova avvolte nella carta del giornale dell’altroieri: a pensarci, un perfetto esempio di circolarità.
Per approfondire: scarica e leggi il numero 33 di Materia Rinnovabile dedicato al sistema cibo.
fonte: www.renewablematter.eu
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Critiche alle Linee guida sulla Direttiva SUP

In una nota diramata dalle principali associazioni europee del settore plastica, carta e imballaggio viene analizzata e criticata la bozza che sta circolando delle Linee guida della Commissione europea relative alla direttiva sugli articoli monouso in plastica (direttiva SUP, 2019/904 del 5 giugno 2019).
I firmatari - tra i quali PlasticsEurope, EuPC, Plastics Recyclers Europe, Eumpes - si dicono preoccupati per l'ampliamento del campo di applicazione rispetto al testo pubblicato in GUCE e per i riflessi sulla tenuta del mercato unico per il comparto degli imballaggi. Invece di fornire i chiarimenti necessari alla sua applicazione - si legge nel documento - le linee guida potrebbero ostacolare la riduzione dei rifiuti e la transizione verso un'economia circolare per la plastica.
Le associazioni rispondono al documento con due osservazioni volte a garantire il raggiungimento degli obiettivi politici fissati dalla direttiva SUP.
La prima riguarda l'assenza di un riferimento per il recepimento armonizzato della direttiva a livello comunitario, lasciando così troppa discrezionalità a livello nazionale, anche perché le disposizioni fondamentali della direttiva SUP non sarebbero state chiarite in modo adeguato nel testo. Toccherebbe invece alle linee guida favorire un recepimento omogeneo e armonizzato per prevenire la frammentazione del mercato, l'incertezza e gli ostacoli al commercio intracomunitario che potrebbero innescarsi da interpretazioni diverse a livello locale.

Un altro esempio riguarda all'allegato, Parte A, che identifica gli articoli soggetti ad una riduzione dei consumi (quindi non vietati), tra i quali i contenitori per alimenti pronti per il consumo senza ulteriore preparazione, per esempio cottura, bollitura o riscaldamento. Nelle linee guida in bozza si afferma che lavaggio, pelatura o affettatura, come nel caso di frutta e verdura, non dovrebbero essere considerati una preparazione e quindi non andrebbero considerati criteri di esclusione dall'ambito di applicazione.
fonte: www.polimerica.it
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