Visualizzazione post con etichetta #Australia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta #Australia. Mostra tutti i post

Basta un poco di zucchero e… la batteria dura di più. Scoperta in Australia

 












Gli studiosi dell'Energy Institute dell'Università Monash di Melbourne hanno usato un additivo a base di glucosio negli elettrodi di batterie a ioni di litio utilizzate per i veicoli elettrici

Semplicemente aggiungendo zucchero, scienziati australiani hanno

In Australia mega progetto da 50 GW di rinnovabili per produrre idrogeno verde

L'idrogeno sarà convertito in ammoniaca liquida per l'esportazione. Si punta così a entrare nel futuro vasto mercato dei carburanti green.



L’Australia potrebbe ospitare un mega-centro per la produzione di idrogeno 100% verde da fonti rinnovabili grazie al progetto Western Green Energy Hub.

Con questo progetto, riporta S&P Global Platts citando il principale promotore dell’iniziativa, InterContinental Energy, si intende installare 50 GW di fonti rinnovabili su circa 15.000 km quadrati nello Stato del Western Australia.

Saranno 30 GW di eolico e 20 GW di fotovoltaico, secondo le informazioni diffuse dalla società, nata nel 2014 e basata a Hong Kong, il cui obiettivo è sviluppare enormi impianti per produrre carburanti puliti da energie rinnovabili.



Il progetto sarà costruito in diverse fasi puntando a produrre 3,5 milioni di tonnellate/anno di idrogeno verde al 2030, da convertire in circa 20 milioni di tonnellate di ammoniaca liquida a zero emissioni, destinata all’esportazione.

Al momento il consorzio Western Green Energy Hub, di cui fanno parte anche CWP Global e Mirning Green Energy, non ha diffuso informazioni più dettagliate su impianti e tecnologie, ad esempio sulle caratteristiche degli elettrolizzatori che produrranno H2 green da rinnovabili.

Sul loro sito web si legge che il costo totale stimato del progetto, uno dei più grandi al mondo in campo energetico, è di circa 70 miliardi di dollari.

Gli investitori puntano così a entrare nel futuro vasto mercato dei carburanti verdi di origine rinnovabile, da utilizzare nei trasporti (navi, camion) e nei processi industriali, nell’ambito delle politiche di decarbonizzazione su scala globale.

Ricordiamo che la stessa Unione europea scommette molto sull’idrogeno, e sui combustibili da esso derivati, per abbattere le emissioni di CO2 in determinati settori, come trasporti e industrie pesanti, dove è più difficile elettrificare direttamente i consumi energetici.

Bisognerà vedere se le super-iniziative come quella lanciata in Australia riusciranno a produrre idrogeno e/o ammoniaca a costi competitivi e quali saranno i mercati di esportazione.

fonte: www.qualenergia.it



#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

#Iscriviti QUI alla #Associazione COORDINAMENTO REGIONALE UMBRIA RIFIUTI ZERO (CRU-RZ) 


=> Seguici su Blogger 
https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram 
http://t.me/RifiutiZeroUmbria
=> Seguici su Youtube 

L'Australia lancia piano sulla plastica

Tra i punti del programma limitazioni per alcuni imballaggi monouso, potenziamento di raccolta differenziata e riciclo, informazione ai consumatori.









Il Governo australiano ha annunciato, attraverso il ministro per l'Ambiente Sussan Ley, l'avvio di un programma nazionale contro la diffusione dei rifiuti plastici nell'ambiente (National Plastics Plan), che mette ordine nella raccolta differenziata dei rifiuti e impone limiti alla distribuzione di alcuni prodotti monouso.

“Gli australiani consumano ogni anno 1 milione di tonnellate di plastica monouso, un volume insostenibile", ha spiegato Ley nel presentare il piano, che si articola su cinque livelli: legislazione, investimenti, obiettivi di settore, ricerca e sviluppo, educazione dei cittadini.
Gli obiettivi sono ridurre la quantità di rifiuti plastici e potenziarne il riciclo, trovare alternative alla plastica ove non necessaria (ed eliminare quelle più problematiche) e ridurre l'impatto sull'ambiente. Attualmente solo il 13% delle plastiche monouso viene riciclata, mentre il resto finisce in discarica o nell'ambiente. Secondo il governo australiano, sarebbero 130mila le tonnellate di plastica che finiscono ogni anno in mare.


Tra le azioni individuate nel piano, che si dipanerà tra il 2021 e il 2030, ci sono iniziative per ripulire le spiagge dai rifiuti plastici, nuove linee guida sull'etichettatura per informare i consumatori, restrizioni alla vendita di imballaggi e contenitori per alimenti e bevande in polistirene espanso, potenziamento della raccolta differenziata, costituzione di una task force per affrontare la dispersione dei mozziconi di sigaretta, introduzione di filtri nelle lavatrici per evitare il rilascio di microplastiche dai tessuti, passaggio a imballaggi riutilizzabili, riciclabili o compostabili. Sarà anche organizzato un summit sulla plastica incentrato sul design sostenibile.

Per quanto concerne le restrizioni sugli imballaggi in plastica, la road map prevede la messa al bando, dal luglio 2022, dei packaging oxodegradabili, ovvero di tutti quelli biodegradabili che non rispettano gli standard internazionali (AS4736-2006, AS5810-2010 e EN13432) e dei flakes di EPS per il riempimento protettivo; da dicembre 2022 saranno vietati anche gli imballaggi per alimenti e bevande in polistirene espanso; infine, sempre a partire da dicembre 2022, saranno messe al bando le etichette in PVC per packaging.

fonte: www.polimerica.it


#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

Enter your email address:

Delivered by FeedBurner

Riciclo delle mascherine, in Australia diventano strade

Riciclo delle mascherine monouso in una nuova tipologia di asfalto, più elastico, resistente e stabile: la sperimentazione australiana.



Una nuova idea per il riciclo delle mascherine usa e getta che da più di un anno sono entrare a far parte del quotidiano, protagoniste della protezione della salute contro l’azione del Covid19.

L’incredibile produzione imposta dagli eventi e il relativo utilizzo di massa hanno favorito una presenza spropositata di articoli monouso, spesso abbandonati per strada e non adeguatamente gettati. Un team di esperti della Royal Melbourne Institute of Technology ha deciso di riutilizzarle mescolandole a un altro elemento di scarto, ovvero l’aggregato di calcestruzzo riciclato.

Un’idea davvero singolare nata da una continua sperimentazione e che presto potrebbe trasformarsi in una nuova forma di asfalto stradale. Una soluzione che potrebbe contenere e prevenire tonnellate di rifiuti, al contempo favorire la realizzazione di una tipologia di manto stradale più forte, flessibile e conforme agli standard di sicurezza.

Mascherine monouso, una presenza inquinante

La diffusione del Covid-19 ha prodotto una problematica collaterale non di poco conto, ovvero la presenza delle mascherine monouso difficilmente riciclabili. Se abbandonate nell’ambiente possono impiegare anche 450 anni a decomporsi, un’enormità preoccupate. Intaccando gli ecosistemi con la loro presenza, in particolare se non adeguatamente stoccate o gettate nell’immondizia.

Tanto da trasformarsi in parte attiva dei rifiuti che drammaticamente ogni anno finiscono in mare, interferendo con l’esistenza degli abitanti marini. Molti rimangono imprigionati all’interno delle stesse mascherine altri li scambiano per meduse finendo per inghiottirle, aumentando così la quantità di microplastiche nei nostri piatti.

Riciclo delle mascherine, l’idea australiana

L’idea vincente di riciclo della RMIT University potrebbe cambiare le sorti del Pianeta grazie a questa nuova tipologia di asfalto, composto da mascherine triturate e macerie di calcestruzzo demolito.

La sperimentazione è ancora in corso ed è portata avanti dal miglior polo universitario australiano di arte e design, che ha così verificato l’efficacia del singolare mix in grado di rendere il manto stradale più elastico e resistente agli agenti esterni quali acqua e acidi. Lo studio verrà pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment. Queste le parole di Mohammad Saberian, autore della sperimentazione:

Questo studio iniziale ha esaminato la fattibilità del riciclaggio di maschere facciali monouso nelle strade e siamo stati entusiasti di scoprire che non solo funziona, ma offre anche vantaggi ingegneristici reali.

Ci auguriamo che questo apra la porta per ulteriori ricerche, per elaborare modi di gestire i rischi per la salute e la sicurezza su larga scala e indagare se altri tipi di DPI [dispositivi di protezione individuale] siano adatti al riciclaggio.

Fonte: World Highways


#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

Vietati i monouso in South Australia

Uno dei sei stati dell'Australia introdurrà a marzo limiti alla vendita di articoli e imballaggi monouso. Dal 2022 anche per bicchieri e contenitori in EPS.











Anche l'Australia si avvia a mettere al bando gli articoli monouso in plastica: ad aprire la strada è il South Australia, uno dei sei stati che compongono la nazione australiana, con una legge varata lo scorso settembre, ma che entrerà in vigore il prossimo 1° marzo.

In quella data scatterà il divieto a vendere o a distribuire anche gratuitamente cannucce, posate e agitatori, ad esclusione di quelli riutilizzabili o prodotti con plastica compostabile. Un provvedimento che segue molto da vicino quello entrato in vigore in Europa con l'approvazione della Direttiva SUP.

Il divieto sarà esteso un anno più tardi - dal 1° marzo 2022 - anche a bicchieri, tazze e contenitori da asporto (clamshell) in polistirene espanso e a tutti gli articoli in plastica oxo-degradabile; questi ultimi non potranno più essere prodotti o venduti nel paese.

La legge fa parte di un più ampio programma per la riduzione dei rifiuti plastici battezzato Replace the Waste.

fonte: www.polimerica.it


#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

Tecnologia di riciclo italiana agli antipodi

Amut è capofila per un impianto chiavi in mano destinato alla selezione e riciclo bottle-to-bottle di PET post-consumo in Australia.











Amut torna in Australia dopo vent'anni per fornire, nello Stato di Victoria, un impianto "chiavi in mano" destinato alla selezione e il riciclo bottle-to-bottle di PET post-consumo, trasformato in scaglie, con una capacità annua di 23.000 tonnellate. Particolarità dell'impianto sono il recupero a monte del materiale contaminante per un successivo riutilizzo, la possibilità di trattare anche lotti di contenitori in PET e vassoi a bassa viscosità e l'attenzione verso i consumi di energia e acqua, quest'ultima preziosa nel continente australiano.

La linea di selezione e lavaggio, che entrerà in funzione l'anno prossimo, prevede un sistema automatico per rimuovere il filo di ferro dalle balle e la tecnologia brevettata dal costruttore novarese per la rimozione a secco di tutte le etichette. Il sistema di selezione automatica, tramite sensori NIR, è in grado di separare dal flusso di rifiuti plastici le bottiglie in poliolefina, quelle di PET colorato, contenitori o vassoi in PET, lattine di alluminio, separati e conservati in appositi bunker per essere in seguito pressati in balle a seconda del loro secondo utilizzo.
Inoltre, per garantire la completa rimozione delle etichette adesive a pressione e della colla a caldo, insieme a tutti i contaminanti organici, l'impianto verrà dotato di un doppio "Friction Washer", anche questo brevettato da Amut.

I progettisti hanno pensato anche al recupero delle chiusure in materiale poliolefinico, grazie alla presenza di due vaschette di separazione, poste prima e dopo i due Friction Washer; dal materiale, asciugato mediante centrifuga, verranno eliminate le etichette residue mediante un sistema di separazione ad aria, prima dello stoccaggio in big bag.

Al fine di contenere la quantità di materiali fini è prevista una seconda macinazione per le scaglie cosiddette oversize, prima del'ingresso nei silos di miscelazione e, successivamente, nel controllo scaglie mediante rivelatori NIR che agiscono su polimero, colore e metallo.

Per Amut si tratta di un ritorno in Oceania: nel 2000, pochi mesi prima dell'apertura dei Giochi Olimpici di Sydney , il costruttore italiano aveva consegnato a Coca Cola Amat il primo impianto al mondo per il riciclo di bottiglie in PET post-consumo, finalizzato alla produzione di rPET grado alimentare.

fonte: www.polimerica.it

#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

Luca Mercalli: La terra sfregiata

L’acqua alta sempre più frequente a Venezia e i devastanti incendi dei mesi scorsi in Australia dimostrano che ormai non possiamo più tornare indietro, ma soltanto cercare di contenere i danni provocati dal cambiamento climatico. Il vero problema, ricorda Luca Mercalli, è che non siamo pronti ad affrontare la crescita delle temperature, quella che, ad esempio, nell’estate del 2003 in Europa ha fatto 70.000 morti












Gli incendi devastanti dell’Australia nel giro di un paio di mesi (tra il 2019 e il 2020, ndr) hanno bruciato qualcosa come 100 mila chilometri quadrati di territorio, praticamente quanto l’intero Nord Italia. Ed è solo uno dei tanti fenomeni naturali che devastano i territori. Poi c’è Venezia, con un altro tipo di fenomeno, più continuo, più impercettibile all’inizio, ma poi inesorabile: l’aumento del livello del mare. Il 12 novembre del 2019 Venezia ha sperimentato la seconda acqua alta più alta della sua storia (la prima è stata quella del 1966). Ma quel che conta ancora di più è la frequenza del fenomeno. Noi abbiamo dati misurati perfettamente a Venezia dal 1870. Se andiamo a vedere la frequenza delle acque alte, quelle distruttive, notiamo che l’ultimo decennio ne ha totalizzate novantacinque sopra un metro e dieci, mentre se andiamo più indietro nel tempo, prima degli anni Sessanta, c’erano non più di tre-cinque episodi per decennio. Cioè da cinque episodi siamo passati a novantacinque. Vuol dire che prima avevamo un episodio ogni due anni e adesso ne abbiamo nove all’anno!

È un fenomeno globale, il livello del mare si sta alzando in tutto il mondo a causa della fusione dei grandi ghiacciai, soprattutto della Groenlandia e in parte anche dell’Antartide. Parallelamente le acque oceaniche si riscaldano e aumentano di volume. I due fenomeni connessi provocano già oggi – secondo dati misurati da satellite – un aumento del livello dei mari di tre millimetri e mezzo. Come sempre la gente aspetta spettacoli hollywoodiani e, per prendere coscienza del cambiamento, avrebbe bisogno di vedere un aumento di trenta centimetri all’anno. Ma a quel punto saremmo perduti. Tre millimetri e mezzo di aumento annuo sono forse pochi per percepirne il pericolo a vista, ma sono tantissimi per erodere le nostre spiagge e minacciare le nostre zone portuali. Essi fanno sì che Venezia abbia oggi quindici centimetri di mare in più rispetto a un secolo fa. Questo vuol dire che d’ora in poi tutte le acque alte saranno quindici centimetri più alte di cent’anni fa. E a fine secolo? Se si applicasse l’accordo di Parigi del 2015 (che fissa, per il 2100, il limite di 2°C di aumento della temperatura), si ritiene di poter mantenere l’innalzamento del mare entro mezzo metro, ma se non si fa nulla si potrà superare il metro. Ciò vorrebbe dire, per Venezia, l’acqua alta tutti i giorni dell’anno, e un metro in più durante le acque alte “cattive”, quelle in cui lo scirocco si combina con la marea. Allora, invece di sfiorare i due metri, arriveremo a tre. Ma cosa vuol dire tre metri di mare a Venezia? Vuol dire il mai visto, vuol dire qualcosa a cui la città non può far fronte, vuol dire avere l’acqua ai primi piani delle case.

E poi pensiamo alle ondate di calore estivo. Anche qui siamo in un settore in cui potremmo pagare un prezzo molto elevato. Attualmente nella Pianura padana la temperatura massima mai misurata appartiene a Forlì: 43°C il 4 agosto del 2017. Nel giugno del 2019 in Francia, in Provenza, abbiamo toccato i 46°C. Ora, da qui ad arrivare ai 50°C il passo è breve. Noi climatologi ci aspettiamo che entro i prossimi dieci o venti anni vedremo nelle città italiane del nord – Milano, Bologna etc. – delle temperature massime superiori ai 45°C e prossime ai 50°C. Sono temperature da Pakistan, da India. Temperature che noi non siamo pronti ad affrontare. Qualcuno dirà: «Mi chiudo in un ufficio con il condizionatore a manetta», ma lo puoi fare per un giorno, non se questi fenomeni diventano sistematici per un periodo lungo dell’estate. Il costo di ciò si calcola in termini di vite umane, di vittime, ed è la popolazione anziana e malata la prima a soccombere: l’estate del 2003 in Europa ha fatto 70.000 morti! Ma è un prezzo che si calcola anche in termini energetici, perché è chiaro che se tutti, per sopravvivere, metteranno i condizionatori al massimo, i consumi di energia (e le bollette) aumenteranno in modo esponenziale. Pagheremo un prezzo in tutte le attività che hanno a che fare con l’ambiente esterno, dall’edilizia all’agricoltura: i lavoratori che oggi lavorano fuori non potranno continuare a farlo in quelle condizioni, senza rischiare la vita. In questo senso le nostre città diventeranno un luogo di grande vulnerabilità climatica per le ondate di calore. […]

Non possiamo tornare indietro, possiamo soltanto cercare di contenere il danno, di evitare lo scenario peggiore. Anche nella ipotesi migliore, cioè quella di un aumento della temperatura di soli 2°C e dell’innalzamento del mare di solo mezzo metro, i cambiamenti che ho descritto ci saranno. Solo saranno, sperabilmente, a un livello più “maneggevole” rispetto allo scenario peggiore, quello della mancata applicazione dell’Accordo di Parigi, che porterebbe, a fine secolo, a un aumento della temperatura di 5°C o 6°C in più e a un innalzamento dei mari di un metro e venti. Allora, se leggiamo con gli occhi giusti i segnali di quello che già sta avvenendo nel mondo, tra aumento della temperatura, fusione dei ghiacci dell’Oceano Artico e dei ghiacciai delle nostre montagne, ondate di calore, eventi estremi più intensi (più alluvioni e più uragani), capiamo che dovremmo fare di tutto, da un lato, per adottare stili di vita meno invasivi nei confronti dell’ambiente e, dall’altro, per prepararci ad affrontare eventi che ormai sono in canna, e rispetto ai quali non possiamo tornare indietro…

Ormai siamo condannati a vivere con un clima malato, quello che possiamo decidere è quanto può essere grave l’entità di questa malattia.

Estratto da La terra sfregiata. Conversazioni su vero e falso ambientalismo, di Luca Mercalli con Daniele Pepino (Edizioni Gruppo Abele, 2020), pubblicato su Volerelaluna.

fonte: www.comune-info.net


#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

Sidney è la prima città alimentata al 100% da energia rinnovabile




Alla fine Sydney ce l’ha fatta raggiungendo un grandioso traguardo: vive utilizzando il 100% di elettricità rinnovabile generata da parchi eolici e solari. Questo significa che qualsiasi attività che richiede l’uso di elettricità, dai lampioni ai campi sportivi, dalle piscine al palazzo comunale, è alimentata con energia rinnovabile al 100% di provenienza locale.

Di fatto così, Sidney è la prima città che spera in un futuro totalmente sostenibile che nei prossimi dieci anni avrà secondo le stime un risparmio annuale di mezzo milioni di dollari e soprattutto una riduzione delle emissioni di carbonio di circa 200mila tonnellate, corrispondenti alla potenza utilizzata da 6mila famiglie.

L’energia pulita viene da tre generatori: la Bomen Solar Farm a Wagga Wagga, il paro eolico Sapphire Wind Farm vicino a Inverell e il parco solare Shoalhaven a Nowra. Circa tre quarti dell’energia pulita è prodotta sfruttando l’azione dal vento, mentre la parte rimanente è di derivazione solare.L’investimento è stato di 60milioni di dollari. Una mossa che fa bene all’ambiente, ma anche ai cittadini perché si sono creati moltissimi posti di lavoro. Creare elettricità in questo modo riduce le emissioni di CO2 nell’ambiente e crea anche maggiore consapevolezza. Il progetto era partito lo scorso luglio e già si stanno raccogliendo i primi risultati.

Fonte: Ecoportal

#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!


=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

Creata la cella solare che produce idrogeno con un’efficienza del 17,6%

I ricercatori dell’Australian National University (ANU) hanno stabilito un nuovo record nella conversione diretta della luce solare in idrogeno. Un risultato che apre nuove possibilità per la produzione del vettore a basso costo





Nuovo record mondiale in campo energetico. Un team di scienziati dell’Australian National University (ANU) ha creato una cella solare che produce idrogeno con un’efficienza del 17,6 per cento. Un valore mai raggiunto prima nelle tecnologie di conversione diretta di acqua e luce in carburanti solari. I ricercatori hanno paragonato il processo utilizzato dal dispositivo alla fotosintesi vegetale. “Un percorso elegante e potenzialmente economico per accumulare energia solare è convertire la luce solare direttamente in idrogeno in una cella fotoelettrochimica, in maniera analoga al processo di fotosintesi sfruttato dalla natura”.

Nel dettaglio, la nuova cella solare che produce idrogeno è stata creata in “tandem”, stratificando materiali di perovskite a basso costo sopra una convenzionale unità al silicio, al fine di aumentarne l’efficienza. “Ciò rappresenta la massima efficienza finora raggiunta per un sistema [fotoelettrochimico] basato su semiconduttori economici per la scissione dell’acqua”, afferma il documento di ricerca.


“L’energia generata dall’assorbimento della luce solare è proporzionale al gap di banda di un semiconduttore”, spiega la dott.ssa Siva Karuturi, co-autrice dello studio. “Il silicio, il materiale fotovoltaico attualmente più popolare sul mercato, può produrre solo un terzo dell’energia necessaria per dividere l’acqua. Se utilizziamo un semiconduttore con una larghezza di banda doppia rispetto a quella di Si, il problema si risolve”.

Tuttavia, maggiore è il gap di banda, minore è la capacità di catturare la luce solare di un semiconduttore. Per evitare questa sorta di compromesso prestazionale, il team ha impiegato due semiconduttori in tandem con intervalli di banda più piccoli che, non solo catturano i raggi in modo efficiente, ma insieme producono l’energia necessaria per generare spontaneamente idrogeno.

Fino a ieri però la tecnica fotoeletrochimica risultava proibitiva in termini di costi proprio a causa di efficienze estremamente basse. Il valore del 17,6 per cento rappresenta un progresso fondamentale anche rispetto l’obiettivo fissato dal Dipartimento dell’Energia USA per le tecnologie Solar-to-Hydrogen; secondo il DoE, infatti, per essere competitive con altri metodi produttivi di idrogeno, dovrebbero avere una resa di almeno il 20 per cento.

La ricerca è stata pubblicata su Advanced Energy Materials (testo in inglese).

fonte: www.rinnovabili.it


#RifiutiZeroUmbria - #DONA IL #TUO 5 X 1000 A CRURZ - Cod.Fis. 94157660542
=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz 
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria 

Gli incendi boschivi in australia dimostrano che la malvagia idiozia auto-distruttiva del negazionismo climatico deve cessare



























Questo è il  titolo di un articolo pubblicato sulla rivista TIME in data 
15 gennaio 2020 scritto da Malcolm Turnball che è stato Primo Ministro 
dell'Australia dal 2015 al 2018.

Nell'articolo raccontano che i recenti incendi boschivi australiani sono 
senza precedenti per la loro distruttività immensa e che sono "la feroce 
ma inevitabile realtà del riscaldamento globale. Un clima più secco, più 
caldo vuol dire che ci saranno siccità più prolungate e un numero 
maggiore di incendi più violenti". L'ex Primo Ministro si chiede, se 
l'Australia è sul fronte della crisi climatica perchè non siamo anche 
leader mondiali per le azioni di contrasto al cambiamento climatico? 
"Nella maggior parte dei paesi domandare alle persone se credono nella 
scienza del cambiamento climatico è come come domandargli se credono 
nella (legge di) gravità. E' una semplice questione di fisica. Più gas 
serra ci sono in atmosfera, più caldo diventerà il nostro clima.

Ma in Australia come anche negli Stati Uniti questa questione è stata 
monopolizzata da un'alleanza tossica, negazionista sul clima di politica 
e mass media (in gran parte appartenente a Rupert Murdoch) di destra, 
come pure da (chi ha) interessi commerciali particolari, specialmente 
nell'industria del carbone."

"Tragicamente in Australia la destra  negazionista sul clima ha 
trasformato ciò che dovrebbe essere una questione pratica su come 
rispondere ad una vera minaccia fisica in una questione di valori e 
credenze.

Con le devastazioni degli incendi boschivi in corso le reti televisive 
ed i giornali della Murdoch News Corp. sono state attivamente impegnate 
ad affermare che le vere cause degli incendi sono i piromani e la 
mancanza di incendi controllati . Questo è stato recisamente  confutato 
dal capo del servizio incendi del(lo Stato) New South Wales, ma la 
campagna di disinformazione continua sia sui media tradizionali che sui 
social.

Malcolm Turnball racconta che la sua sconfitta elettorale  da parte di 
una minoranza di destra sostenuta da alleati nei mass media ha sabotato 
la  normativa NEG (National Energy Guarantee = Garanzia nazionale per 
l'energia) che era riuscito con larghe maggioranze a introdurre in 
Australia,   detta NEG  avrebbe portato a graduali riduzioni delle 
emissioni nel settore elettricità mantendo una affidabilità nella 
fornitura. Più avanti Turnball scrive che l'Australia ha "formidabili 
risorse eoliche e solari che possono consentirci di generare tutta la 
nostra elettricità da fonti rinnovabili e allo stesso tempo avere 
elettricità a minor costo. Le risorse rinnovabili sono già  le fonti 
nuove di elettricità a minor costi in Australia e nuovi sviluppi nelle 
tecnologie di immagazzinamento rendono le rinnovabili affidabili 24/7."

Nadia Simonini
Rete Nazionale Rifiuti Zero
https://time.com/5765603/australia-bushfires-prime-minister-essay/

Impiegare l’energia solare di notte? Ci pensano le batterie termiche

Prende spunto dai sistemi di stoccaggio del solare a concentrazione la nuova batteria creata dai ricercatori della Curtin University, in Australia. “Rivoluzionerà il panorama della produzione di energia rinnovabile a livello mondiale”



Un gruppo di ingegneri della Curtin University, nell’Australia occidentale sta lavorando alla prossima generazione di batterie termiche per l’accumulo dell’energia solare. L’obiettivo del team è quello rendere flessibile la produzione dei sistemi solari in maniera che possano offrire una alternativa valida ai combustibili fossili nel settore commerciale e dell’industria pesante a livello globale. Per raggiungere il target prefissato, gli scienziati hanno deciso di unire tecnologie comprovate all’utilizzo di nuovi materiali per progettare una soluzione innovativa, efficiente e flessibile.

Nel dettaglio, il progetto – guidato dal professor Craig Buckley della Curtin – prende spunto dal sistema d’accumulo sviluppato da United Sun Systems per i suoi impianti solari a concentrazione Dish Stirling, impianti costituiti da un concentratore circolare di forma parabolica e motore stirling posto nel fuoco di fronte allo specchio. Con la collaborazione della United Sun Systems e dell’azienda ITP Thermal, gli scienziati sono riusciti a migliorare design e funzionamento delle batterie termiche.
Il nuovo dispositivo utilizza un idruro metallico ad alta temperatura come mezzo di stoccaggio del calore e un serbatoio a gas a bassa temperatura per la conservazione di idrogeno o anidride carbonica. La formazione di un idruro di metallo in determinate condizioni è una reazione reversibile: ciò significa che tramite una fonte di calore può dissociarsi in metallo e idrogeno (immagazzinando l’energia termica sotto forma di energia chimica) e, viceversa, rilasciare calore durante la sua formazione a partire da leghe metalliche e idrogeno.
“Di notte o quando il cielo è nuvoloso, l’idrogeno o l’anidride carbonica vengono rilasciate dal serbatoio di stoccaggio del gas e assorbiti dai metalli inorganici del sistema per formare un metallo idruro che produce calore, e quest’ultimo è utilizzato per generare elettricità”, spiega lo scienziato Chris Moran.

L’iniziativa mira a sviluppare un sistema di energia solare che produca elettricità 24 ore al giorno, sette giorni su sette, rendendosi commercialmente redditizio per l’industria. “Come per i sistemi a batteria al litio che la Curtin University sta anche sviluppando, l’installazione di un sistema di immagazzinamento dell’energia a basso costo tramite batterie termiche rivoluzionerà il panorama della produzione rinnovabile a livello mondiale consentendo alle energie pulite di competere veramente con i combustibili fossili”. La ricerca continuerà a lavorare sullo sviluppo di nuove tecnologie per integrare lo stoccaggio di energia termochimica attraverso batterie termiche in un sistema Stirling.

fonte: www.rinnovabili.it

NUOVO STUDIO AUSTRALIANO: «Così nel 2050 la civiltà umana collasserà per il climate change»

Un’allarmante analisi dei ricercatori del National Center for Climate Restoration australiano delinea uno scenario in cui entro il 2050 il riscaldamento globale supererà i tre gradi centigradi, innescando alterazioni fatali dell'ecosistema globale e colossali migrazioni da almeno un miliardo di persone. Ecco cosa potrebbe avvenire anno dopo anno





Un decennio perduto. Tra il 2020 e il 2030 i policy-maker mondiali sottovalutano clamorosamente i rischi del climate change, perdendo l’ultima occasione per mobilitare tutte le risorse tecnologiche ed economiche disponibili verso un unico obiettivo: costruire un’economia a zero emissioni cercando di abbattere i livelli di CO2, per avere una possibilità realistica di mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei due gradi. L’ultima occasione viene clamorosamente bruciata.

Il risultato è che nel 2030, come avevano ammonito tredici anni prima gli scienziati Yangyang Xu e Veerabhadran Ramanthan in una pubblicazione scientifica che aveva fatto discutere, le emissioni di anidride carbonica raggiungono livelli mai visti negli ultimi due milioni di anni. Nel ventennio successivo si tenta di porre rimedio alla situazione, ma è troppo tardi: nel 2050 il riscaldamento globale raggiunge tre gradi, di cui 2,4 legati alle emissioni e 0,6 al cosiddetto “carbon feedback”, la reazione negativa del pianeta al riscaldamento globale.
L’anno 2050 rappresenta l’inizio della fine. Buona parte degli ecosistemi terrestri collassano, dall’Artico all’Amazzonia alla Barriera corallina. Il 35% della superficie terrestre, dove vive il 55% della popolazione mondiale, viene investita per almeno 20 giorni l’anno da ondate di calore letali. Il 30% della superficie terrestre diventa arida: Mediterraneo, Asia occidentale, Medio Oriente, Australia interma e sud-ovest degli Stati Uniti diventano inabitabili. Una crisi idrica colossale investe circa due miliardi di persone, mentre l’agricoltura globale implode, con raccolti crollati del 20% e prezzi alle stelle, portando ad almeno un miliardo di “profughi climatici”. Guerre e carestie portano a una probabile fine della cività umana così come la intendiamo oggi.
Solo un romanzo di fantaecologia? Purtoppo no: quello che abbiamo letto qui sopra è uno studio scientifico ben documentato dei ricercatori del National Center for Climate Restoration australiano, guidati da David Spratt e Ian Dunlop, dal sinistro titolo “Existential climate-related security risk”.
L’ipotesi dello studio è che esistano rischi di riscaldamento globale non calcolati dagli Accordi di Parigi e in grado di porre “rischi esistenziali” alla civiltà umana. Le ipotesi di climate change delineate nel 2015 dagli Accordi di Parigi, pari a un aumento di tre gradi entro il 2100, non tengono infatti conto del meccanismo di “long term carbon feedback” con cui il pianeta tende ad amplificare i mutamenti climatici in senso negativo, quindi portando a un ulteriore aumento della temperatura.
Se si tiene conto anche del “carbon feedback”, secondo diverse fonti tra le quali scienziati del calibro di Yangyang Xu e Veerabhadran Ramanathan, esiste un concreto rischio di arrivare a tre gradi di riscaldamento già nel 2050, che salirebbero a cinque gradi entro il 2100. La cività umana non farebbe in tempo a vederli, poiché la maggior parte degli scienziati ritiene che un aumento di quattro gradi distruggerebbe l’ecosistema mondiale portando alla fine della civiltà come la conosciamo oggi. Una china pericolosa in cui, come nota Hans Joachim Schellnhuber del Potsdam Institute, probabilmente «la specie umana in qualche modo sopravviverà, ma distruggeremo tutto quello che abbiamo costruito negli ultimi duemila anni».
Il vero problema, sottolinea lo studio australiano, è rappresentato da alcune “soglie di non ritorno” climatiche come la distruzione delle calotte polari e il conseguente innalzamento del livello del mare. “Soglie di non ritorno” molto pericolose che, una volta oltrepassate, trasformerebbero il climate change in un evento non lineare e difficilmente prevedibile con gli strumenti oggi a disposizione della scienza. Dopo il superamento di quei “punti di non ritorno” il riscaldamento globale si autoalimenterebbe anche senza l'azione dell'uomo, rendendo inutile ogni tardivo tentativo di eliminare le emissioni. Quello della fine della civiltà umana è un rischio minimo ma non assente, sottolinea Ramanathan, che lo stima al 5% («e chi prenderebbe un aereo sapendo che ha il 5% di possibilità di schiantarsi?», nota lo scienziato). È oggi che dobbiamo agire, conclude lo studio: domani potrebbe essere troppo tardi.
fonte: https://www.ilsole24ore.com

Plastica: 414 milioni di pezzi trovati in una remota isola australiana

Trovati oltre 414 milioni di pezzi di plastica nelle remote Isole Cocos, a 2mila chilometri dall'Australia.




Invasione di plastica in un piccolo e remoto arcipelago australiano. Si tratta delle Cocos Islands (Keeling), lungo le cui coste sono stati rinvenuti oltre 414 milioni di pezzi composti da materiali plastici. Tra questi più di un milione di scarpe e un numero di spazzolini da denti superiore a 370mila. A riportarlo uno studio pubblicato sulla rivista “Scientific Reports“.

L’inquinamento da plastica avrebbe raggiunto con tutta probabilità le Cocos Islands via mare, spiegano nel report, in quanto le 238 tonnellate di rifiuti individuate non corrisponderebbero all’esiguo numero di abitanti (circa 500). Questo arcipelago è inoltre composto da 27 piccole isole, di cui la maggior parte risulta disabitata, distanti 2.750 chilometri da Perth (costa occidentale australiana). Talmente lontana dagli stili di vita consumistici da venire soprannominata dai turisti “l’ultimo paradiso incontaminato dell’Australia“.

Lo studio avrebbe riportato indicazioni tutt’altro che in linea con questo soprannome: le spiagge dell’arcipelago sarebbero costellate di scarpe, sandali, tappi di bottiglia e cannucce. Come ha sottolineato Jennifer Lavers, autrice dello studio ed eco-tossicologa marina della University of Tasmania, la stima di 414 milioni di detriti è conservativa (non potendo misurare al di sotto dei 10 cm di profondità e non avendo accesso ad alcune spiagge considerate “estremamente inquinate da detriti”):


L’inquinamento da plastica è ovunque nei nostri oceani e le isole remote sono il posto ideale per uno sguardo obiettivo sul volume di detriti in plastica che stanno circolando nel mondo. Isole come queste sono come i canarini nelle miniere di carbone e sta diventando sempre più urgente agire nei confronti degli avvertimenti che ci stanno inviando.





Fonte: Eurekalert

Accumulo energetico, il mercato è pronto al boom

Gli analisti pronosticano un vertiginoso aumento degli impianti di storage su scala di rete: la capacità aumenterà di 13 volte in appena 6 anni



















Per il settore dell’accumulo energetico, gli ultimi cinque anni sono stati una specie di grande prova per il momento clou, vale a dire quello che vedrà il mercato degli impianti su scala di retecrescere in maniera esplosiva in quasi tutto il mondo. Questa, perlomeno, è l’immagine dipinta dall’ultimo rapporto di Wood Mackenzie Power & Renewable, il Global Energy Storage Outlook 2019: 2018 Year in Review e Outlook to 2024. L’analisi offre un’analisi approfondita del comparto dello stoccaggio e pronostica un vertiginoso aumento della capacità installata globalmente: dall’attuale 12 GWh (dato di fine 2018) a un mercato di 158 GWh nel 2024. Ciò equivale a 71 miliardi di investimenti in sistemi di stoccaggio (escludendo l’idroelettrico a pompaggio), con ben 14 miliardi appartenenti solo all’ultimo anno della previsione

Come è facile intuire, questa crescita sarà concentrata negli Stati Uniti e in Cina, che insieme rappresenteranno il 54% della distribuzione geografica globale. Seguiranno in ordine per velocità di sviluppo del mercato nazionale, Giappone, Australia e Corea del Sud, e più distanti Germania, Canada, India e Regno Unito. Ciascuno di questi mercati sta adottando il proprio approccio nell’integrazione di sistemi di accumulo nella gestione del sistema energetico. Ma tutti condividono un impegno verso aggressivi obiettivi di crescita per le rinnovabili.
Negli USA sono alcuni Stati campione a fare la differenza grazie a politiche e programmi ad hoc – come in California, New York e Massachusetts – o le utility energetiche attraverso progetti sul larga scala; è questo il caso delle aziende elettriche che operano nelle Hawaii, Texas, Minnesota e Colorado. Per Cina e Corea del Sud è il governo centrale a spronare il mercato attraverso una puntuale pianificazione dei progetti. In Australia, al contrario, lo sviluppo viene soprattutto dal basso, dalle installazioni sul lato residenziale del mercato che stanno rendendo l’energia autoprodotta più conveniente di quella tradizionale. I piccoli impianti distribuiti sono un mercato consolidato anche per quello che riguarda Giappone e Germania.


Spiega Ravi Manghani, responsabile della ricerca per WoodMac “Negli ultimi cinque anni, il mondo ha iniziato a sperimentare lo stoccaggio; nei prossimi cinque, diventerà una risorsa chiave della rete”. Lo scorso anno le implementazioni di grandi impianti di accumulo energetico sono cresciute del 147% su base annua per raggiungere i 3,3 GW di potenza e i 6 GWh di capacità. Si tratta di quasi il doppio del tasso di crescita annuale registrato dal 2013. Più composta e matura sarà invece la crescita nei prossimi anni pur mantenendo un ottimo tasso, pari al 38%.

fonte: www.rinnovabili.it

Giro del mondo in auto elettrica: spesi appena 267 euro

Dopo tre anni e 95 mila Km è stato portato a termine il giro del mondo in auto elettrica che è costato solamente poco meno di 270 euro di energia.




Molti pensato che con le auto elettriche non si possa viaggiare fuori dai confini della propria città. Niente di più sbagliato perché c’è chi ci ha fatto addirittura il giro del mondo. Protagonista di questa avventura Wiebe Walker, che ha percorso oltre 95.000 Km partendo dall’Olanda per arrivare alla fine in Australia.

Il protagonista di questa avventura 100% elettrica è partito il 15 marzo 2016 a bordo della sua Volkswagen Golf Variant elettrica soprannominata, per l’occasione, Blue Bandit. Il traguardo del giro del mondo in elettrico è stato raggiunto il 7 aprile 2019. L’obiettivo dell’iniziativa era dimostrare la fattibilità e i vantaggi dei veicoli elettrici.

L’auto utilizzata per questa impresa dispone di un motore elettrico da 150 Kw e può raggiungere i 180 Km/h. Il pacco batteria agli ioni di litio dell’auto offre una capacità di 37 kWh e garantisce sulla carta circa 200 Km di autonomia. In realtà, la macchina utilizzata in questo viaggio non era nata elettrica, ma era stata convertita appositamente. Wiebe Walker ha voluto puntare il dito sui vantaggi ambientali ed economici del suo viaggio. In totale ha speso solamente 300 dollari di elettricità in tre anni, cioè poco meno di 270 euro (267 euro per la precisione). Se i 95.000 Km fossero stati percorsi con il motore termico la spesa sarebbe lievitata a 4.552 dollari.

Tutto il viaggio è stato documentato all’interno del blog “Plug me in“, aggiornato dallo stesso Wiebe Walker. Blog in cui il protagonista di questa avventura è riuscito a condensare le sue principali passioni quali i viaggi e la fotografia. Il giro del mondo in 1.119 giorni è stato sostenuto economicamente non solo da alcuni sponsor, ma anche dalla generosità delle persone che hanno offerto vitto ed alloggio.

Wiebe Walker con la sua Blue Bandit è passato anche in Italia e precisamente per Arezzo. Questo giro del mondo in automobile ha mostrato come le auto elettriche siano una realtà affidabile anche per viaggi molto duri e difficili.

Al momento della partenza, nel 2016, la tecnologia delle auto elettriche, soprattutto sul fronte delle batterie, era molto più indietro rispetto ad oggi e questo la dice molto lunga sulle potenzialità degli attuali modelli a batteria o di quelli che arriveranno nell’immediato futuro.


fonte: www.greenstyle.it

'Baby' coralli in declino sulla Grande Barriera





















La deposizione di uova di corallo è precipitata sulla Grande Barriera Corallina dopo i recenti eventi di sbiancamento di massa. E' quanto rivela un nuovo studio dei ricercatori australiani pubblicato sulla rivista 'Nature', gettando dubbi sulla resistenza della bersagliata meraviglia della natura e sulla sua capacità di recupero. La Grande Barriera Corallina, al largo della costa nord-orientale dell'Australia, è il più grande sistema corallino del mondo, che copre un'area più grande dell'Italia, ed è uno degli ecosistemi più biodiversi del Pianeta.


La barriera corallina ha visto due eventi di sbiancamento di massa nel 2016 e nel 2017, attribuiti al riscaldamento globale, che ha visto una "perdita senza precedenti di coralli adulti". In seguito, spiegano i ricercatori, il numero di nuove larve di corallo è sceso dell'89% rispetto ai livelli storici.
"I coralli morti non fanno piccoli" ha detto un autore dello studio, Terry Hughes, direttore dell'Arc Centre of Excellence for Coral Reef Studies alla James Cook University (Jcu) nel Queensland. Lo studio ha misurato il numero di coralli adulti sopravvissuti all'estremo stress termico e quanti nuovi coralli hanno prodotto per ripopolare nel 2018.
In alcune delle parti settentrionali della barriera, quelle più vicino all'equatore che ha visto acque più calde, il numero di nuovi coralli è crollato del 95%. Lo studio ha anche rilevato che la composizione dei nuovi coralli è cambiata, il che influirà anche su una ripresa più lenta del normale e sulla capacità di fronteggiare futuri eventi di sbiancamento.
"Il numero di larve di corallo che vengono prodotte ogni anno e dove viaggiano prima di stabilirsi su una scogliera sono elementi vitali della resilienza della Grande Barriera Corallina - ha detto il coautore Andrew Baird - Il nostro studio dimostra che la resilienza della barriera corallina è ora gravemente compromessa dal riscaldamento globale".
I ricercatori affermano che la misura in cui la Grande Barriera Corallina sarà in grado di ristabilirsi rimane incerta, dato il previsto aumento della frequenza degli eventi climatici estremi nei prossimi due decenni.
La Grande Barriera Corallina ha sperimentato eventi di sbiancamento di massa quattro volte negli ultimi 20 anni, tutti attribuiti al riscaldamento globale. Lo sbiancamento dei coralli si verifica quando un aumento della temperatura del mare o l'acidificazione delle acque danneggia le alghe microscopiche, un organismo vivente all'interno dei coralli che fornisce loro energia oltre ai caratteristici colori vibranti e vivaci.
Gli scienziati affermano che se le attuali emissioni di gas serra non vengono frenate, la barriera è destinata a sbiancare due volte ogni dieci anni dal 2035 e ogni anno dopo il 2044.
Il mese scorso, in un altro studio condotto nell'arcipelago di Palau nel Pacifico occidentale, i ricercatori hanno scoperto che i coralli hanno bisogno dai 9 ai 12 anni per riprendersi completamente in seguito a grandi eventi ambientali come sbiancamenti di massa e danni legati alle tempeste. A parte lo sbiancamento dei coralli di massa del 2016-2017, la Grande Barriera Corallina si sta attualmente riprendendo da un focolaio di stelle corona di spine, così come da danni provocati dal Ciclone Debbie nel 2016 e dalle inondazioni degli ultimi mesi che hanno portato detriti, sabbia e acqua di scarsa qualità verso l'oceano.

fonte: https://www.adnkronos.com/