Visualizzazione post con etichetta #Università. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta #Università. Mostra tutti i post

Un nuovo materiale per estrarre idrogeno dall’acqua marina

 










Dall’Università della Florida centrale arriva un innovativo composto su scala nanometrica, stabile e di lunga durata, in grado di

Basta un poco di zucchero e… la batteria dura di più. Scoperta in Australia

 












Gli studiosi dell'Energy Institute dell'Università Monash di Melbourne hanno usato un additivo a base di glucosio negli elettrodi di batterie a ioni di litio utilizzate per i veicoli elettrici

Semplicemente aggiungendo zucchero, scienziati australiani hanno

Con il progetto BeviMI, tre università di Milano si alleano per promuovere l’acqua del rubinetto














Tre università milanesi si alleano per promuove il consumo di acqua del rubinetto e combattere la plastica. È il progetto BeviMi, presentato in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua del 22 marzo da Politecnico di Milano, Università degli Studi di Milano e Università di Milano-Bicocca in collaborazione con il Comitato italiano contratto mondiale acqua (Cicma), che ha ideato e proposto l’iniziativa che, tra studenti, docenti e personale universitario, coinvolgerà potenzialmente 150 mila persone.

Il progetto, cofinanziato dalla Fondazione Cariplo nell’ambito di “Plastic Challenge – Sfida alle plastiche monouso”, punta a sostenere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg) dell’Onu promuovendo consumi responsabili e riducendo l’impatto ambientale nell’ambiente universitario, monitorando allo stesso tempo gli effetti degli interventi realizzati. L’iniziativa, inoltre, è stata proposta come progetto pilota replicabile in qualsiasi università italiana, ma anche scuole, enti pubblici e aziende.

In particolare, il progetto si propone di valorizzare i distributori d’acqua già presenti nelle università partecipanti per ridurre il ricorso a bottigliette di plastica. Per farlo, dal prossimo anno accademico (ad emergenza Covid-19 superata, si spera), sarà disponibile un’applicazione per smartphone attraverso cui ogni studente potrà misurare il proprio contributo alla riduzione CO2 e plastica prodotta, diventando così consapevole dell’impatto ambientale evitato.

Parallelamente, per promuovere il riciclo “bottle to bottle” delle bottiglie di Pet, nelle università saranno installati degli eco-compattatori, che saranno messi a disposizione da Coripet, il consorzio volontario per il riciclo del Pet. Inoltre, le università attiveranno un monitoraggio del consumo di acqua di rete, della riduzione del consumo di plastica e del riciclo, oltre a uno studio sull’impatto ambientale dei diversi materiali usati per la realizzazione delle borracce.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!


#Iscriviti QUI alla #Associazione COORDINAMENTO REGIONALE UMBRIA RIFIUTI ZERO (CRU-RZ) 


=> Seguici su Blogger 
https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram 
http://t.me/RifiutiZeroUmbria
=> Seguici su Youtube 

Scoperto un nuovo minerale blu per le batterie di nuova generazione

Arriva dal paesaggio lavico del Kamchatka, la nuova promessa per le batterie ricaricabili a ioni di sodio










Bello da vedere e con molta probabilità anche utile a livello energetico: è il nuovo minerale scoperto da un gruppo di ricerca dell’Università di San Pietroburgo. La “petrovite“, così chiamata in onore del cristallografo russo Tomas Petrov, è stato rinvenuto in una colata lavica. E per il team che lo ha portato alla luce, il cristallo potrebbe rivelarsi utile nelle batterie di nuova generazione.

La petrovite si presenta come si presenta sotto forma di aggregati globulari blu di cristalli esagonali con inclusioni gassose. È composto da atomi di ossigeno coordinati in maniera insolita, zolfo, sodio e rame, a formare tra loro una struttura rara e altamente porosa. Ed è proprio questa impalcatura, composta da spazi vuoti e canali, a poter dare una mano all’energy storage.


Per le sue ricerche il gruppo, guidato da Stanislav Filatov, professore presso il Dipartimento di Cristallografia dell’Università russa, si è concentrato su un terreno molto prezioso. Il cristallo proviene dal paesaggio vulcanico formatosi in seguito alle grandi eruzioni del Tolbachik negli anni ’70 e negli anni ’10 di questo secolo, nel Kamchatka. “Questo territorio è unico nella sua diversità mineralogica. Negli ultimi anni, i ricercatori hanno scoperto qui dozzine di nuovi minerali, molti dei quali sono unici al mondo”, ha spiegato l’Ateneo.

Cosa ha da offrire la petrovite alle batterie di nuova generazione? Per ora è prematuro fornire numeri precisi, ma la particolare struttura del minerale ha rivelato interessanti potenzialità per la tecnologia d’accumulo a ioni di sodio. Proprio come le più famose batterie ricaricabili al litio, quelle al sodio funzionano inviando ioni avanti e indietro tra una coppia di elettrodi in un elettrolita liquido. Tuttavia i modelli attuali hanno alcuni limiti. Uno di questi è che con le versioni moderne durante il ciclo di carica e scarica, i cristalli di sodio inattivi tendono ad accumularsi sulla superficie del catodo; un problema che può velocemente degradare le prestazioni e la funzionalità.

Per i ricercatori la struttura della petrovite risulta promettente per la conduttività ionica e potrebbe essere utilizzata come materiale catodico per batterie agli ioni di sodio. “Al momento, il problema più grande per questo uso è la piccola quantità di un metallo di transizione – il rame – nella struttura cristallina del minerale. Potrebbe essere risolto sintetizzando in laboratorio un composto con la stessa struttura della petrovite”, ha affermato Filatov. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Mineralogical Magazine (testo in inglese).

fonte: www.rinnovabili.it


#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

Microplastiche in frutta e verdura. Lo studio dell’Università Catania fa sorgere nuovi interrogativi. L’articolo di FreshCutNews


Riceviamo volentieri e pubblichiamo questa nota sulla presenza di microplastiche nel cibo pubblicata sul sito FreshCutNews insieme a una lunga intervista a una delle autrici della ricerca, Margherita Ferrante. È doveroso sottolineare che il riscontro di micro- e nanoplastiche nella frutta e nella verdura è importante, ma non bisogna essere allarmisti. Dopo avere appurato la presenza di queste particelle, il problema è fare una seria valutazione del rischio effettivo. La stessa autrice dello studio precisa che si deve ancora “dimostrare quale sia il reale danno che viene dalle microplastiche e, soprattutto, se questo danno ci sia”.

Come dire, noi le abbiamo trovate, ma fino a quando non ci sarà una valutazione del potenziale rischio non bisogna strumentalizzare la notizia. Ferrante precisa che è in corso uno studio sui pesci e che una ricerca simile è stata fatta tempo fa sull’acqua minerale riscontrando anche in quel caso la presenza di micro- e nanoplastiche. Un gruppo di ricercatori italiani ha trovato microplastiche all’interno di frutta e verdura



Un gruppo di ricercatori italiani ha trovato microplastiche all’interno di frutta e verdura


Uno studio, per la prima volta al mondo, riporta le concentrazioni di microplastiche (grandezza inferiore a 10 micrometri, ovvero 10 millesimi di millimetro) contenute in mele, pere, patate, carote, lattuga e broccoli. La scoperta sconcertante è che le microplastiche, una volta degradate dal terreno, sono assorbite dagli ortaggi, entrano nella parte edibile di frutta e verdura e vengono assunte dall’uomo. I dati raccolti dalla ricerca condotta dal gruppo del Laboratorio di Igiene ambientale e degli alimenti dell’Università di Catania, mostrano una contaminazione variabile. Con dimensioni medie da 1,51 a 2,52 micrometri, queste microplastiche degradate hanno una presenza media variabile da 223 mila a 52 mila particelle per grammo di vegetale in frutta e verdura. L’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) ha già chiesto alla Commissione Europea un primo passo verso una futura valutazione dei potenziali rischi per i consumatori derivanti dalla presenza di micro- e nanoplastiche negli alimenti.

“Abbiamo potuto realizzare questo studio – spiega Margherita Ferrante, docente di Igiene generale e applicata all’Università di Catania, nonché direttrice del laboratorio – grazie ad un nuovo metodo di analisi brevettato quest’anno, che ci permette di analizzare particelle piccolissime delle dimensioni inferiori ai 10 micrometri fino a 100 nanometri. Fino ad ora non si era riusciti ad osservare microplastiche di dimensioni più piccole del mezzo millimetro”. 



Tra i vegetali analizzati, la lattuga è quella con la minore concentrazione di microplastiche

Già con un livello di osservazione più approssimativo, era stato accertato che ingeriamo microplastiche per l’equivalente del peso un bancomat a settimana (5 grammi circa alla settimana, circa 21 grammi al mese). “Con questa nuova ricerca apprendiamo che la plastica che ingeriamo è anche di dimensioni finora non esplorate se si considerano le particelle più degradate e quindi quasi invisibili – precisa Margherita Ferrante – Tra gli ortaggi e la frutta analizzata, le mele sono quelle che ne assorbono una maggior quantità. Per ogni grammo di frutta ci sono 3 microgrammi di plastica. La lattuga, per contro, è quella che presenta meno microplastiche nella sua composizione: 0,7 microgrammi per ogni grammo di prodotto. Adesso stiamo cercando di calcolare il peso effettivo della materia inerte sul totale del prodotto vegetale e stiamo per chiudere anche una ricerca analoga sulle specie ittiche che prospetta risultati sicuramente interessanti”.

Tra le plastiche più presenti rinvenute dentro gli ortaggi analizzati, ci sono il polietilene e il polistirolo che sono i materiali più usati in agricoltura, nelle serre, ad esempio, per le pacciamature, o ancora, nei vivai. La ricerca è stata pubblicata nei giorni scorsi con il titolo “Micro and nano-plastics in edible fruit and vegetables. The first diet risks assessment for the general population” sulla rivista di settore Environmental Research (Elsevier).

Articolo di Mariangela Latella publicato su FreshCutNews

fonte: www.ilfattoalimentare.it


RifiutiZeroUmbria - #DONA IL #TUO 5 X 1000 A CRURZ - Cod.Fis. 94157660542


=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz 
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria


Uno studio ha accertato la presenza di microplastiche in frutta e verdura

La ricerca è stata condotta dal gruppo del laboratorio di igiene ambientale e degli alimenti dell'Università di Catania




Per la prima volta uno studio indica le concentrazioni di microplastiche contenute nella parte edibile di alcuni dei frutti e delle verdure più consumati in Italia. La ricerca è stata condotta dal gruppo del laboratorio di igiene ambientale e degli alimenti dell'Università di Catania porta la firma dei ricercatori Gea Oliveri Conti, Margherita Ferrante, Claudia Favara, Ilenia Nicolosi, Antonio Cristaldi, Maria Fiore e Pietro Zuccarello dell'ateneo catanese insieme con Mohamed Banni del Laboratoire de Biochimie et Toxicologie Environnementale di Sousse in Tunisia ed è stata pubblicata nei giorni scorsi nell'articolo "Micro- and nano-plastics in edible fruit and vegetables. The first diet risks assessment for the general population" sull'importante rivista di settore Environmental Research (Elsevier).

Nello studio del Laboratorio etneo, diretto dalla professoressa Margherita Ferrante, sono pubblicati i dati derivanti dall'applicazione del brevetto catanese su vegetali edibili (tra la frutta mele e pere, mentre tra le verdure patate, carote, lattuga e broccoli) aprendo uno scenario mai prima d'ora ipotizzato. I dati mostrano una contaminazione variabile con dimensioni medie delle microplastiche da 1,51 a 2,52 microns e un range quantitativo medio da 223mila (52.600-307.750) a 97.800 (72.175-130.500) particelle per grammo di vegetale rispettivamente in frutta e verdura.

"Il gruppo di lavoro - spiegano la professoressa Margherita Ferrante e la ricercatrice Gea Oliveri Conti - sta, inoltre, ampliando gli alimenti investigati. Attualmente è in fase di elaborazione un ulteriore articolo sui dati derivanti dai filetti eduli di pesce. L'articolo riporta, inoltre, le Estimated Daily Intakes (Assunzioni giornaliere stimate) per adulti e bambini, divenendo di fatto il primo studio che quantifica l'esposizione a microplastiche inferiori ai 10 microns della popolazione generale mediante l'ingestione di tali alimenti".

La ricerca dimostra che l'impatto dei rifiuti plastici presenti nei mari e nei corsi d'acqua sugli habitat naturali e sulla fauna selvatica rappresenta un problema emergente di livello globale e l'Efsa (European Food Safety Autority), di concerto con la Commissione europea, ha già richiesto un primo passo verso una futura valutazione dei potenziali rischi per i consumatori derivanti dalla presenza di microplastiche e nanoplastiche negli alimenti, in particolare nei prodotti ittici. Questa tematica era stata oggetto nel 2019 di una inchiesta svolta dal giornalista Luca Ciliberti dal titolo "Che cosa mangiamo" con la partecipazione del Laboratorio di Igiene ambientale e degli alimenti dell'Università di Catania e anche di una interrogazione sulla presenza di microplastiche e relative contaminazioni nei vegetali presentata a Bruxelles dall'europarlamentare Ignazio Corrao. Nell'aprile dello scorso anno l'allora vicepresidente Jyrki Katainen a nome della Commissione europea aveva risposto all'interrogazione che la presenza di microplastiche negli ortaggi, dimostrata dallo studio etneo, costituisce un elemento di assoluta novità.

fonte: www.agi.it


#RifiutiZeroUmbria - #DONA IL #TUO 5 X 1000 A CRURZ - Cod.Fis. 94157660542

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz 
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria 

Farmaci e fitofarmaci come risultato dell’economia circolare




Laboratorio di sostanze naturali del dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali (Dafne) dell'Università degli Studi della Tuscia ha messo a punto nuovi modelli di economia circolare applicata agli scarti agricoli, per i settori farmaceutico e fitofarmaceutico.

Lo studio degli scarti del settore primario per il riutilizzo nelle più svariate applicazioni è da anni al centro del programma del Laboratorio di sostanze naturali del dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali (Dafne) dell'Università degli Studi della Tuscia.

Fin dall’antichità, sostanze naturali di tutti i tipi sono state impiegate a scopi farmacologici e terapeutici e, sebbene sia riconosciuto il potere curativo di alcune piante medicinali, il lavoro del Laboratorio si fonda sul dato certo che le piante sono una fonte di composti e molecole bioattive utilizzabili a diversi scopi. Tra questi composti un ruolo di rilievo è giocato dai metaboliti secondari, di cui fanno parte sostanze fenoliche derivanti proprio dagli scarti di alcune produzioni agricole.

Un esempio arriva dagli studi effettuati sulla pianta Actinidia Deliciosa, ovvero la pianta del kiwi, dai quali è emerso che l’estratto della buccia del frutto stesso è ricco di fenoli dal forte potere antinfiammatorio per una particolare linea cellulare umana. Allo stesso modo, l’estratto della buccia della melagrana è utile per la riduzione dello stress infiammatorio.

Accanto a questi elementi che, come detto, hanno proprietà tali da renderli adatti all’impiego nel settore farmaceutico, ve ne sono altri che si prestano a essere applicati in campo fitofarmaceutico. È in questi casi che si concretizza il modello ideale di economia circolare, in cui lo scarto proveniente dall’agricoltura è riutilizzato, eliminando la produzione di rifiuti, per alimentare il settore stesso.

Un esempio arriva dal progetto di ricerca Violin (Valorization of italian olive products through innovative analytical tools), finanziato dalla Fondazione Cariplo, il quale ha preso in considerazione lo studio degli scarti del settore oleario. Dalle analisi è risultato che da alcuni elementi di scarto della catena della produzione dell’olio è possibile ricavare un composto fenolico con proprietà antiossidanti, antinfiammatorie e antimicrobiche utili per il trattamento di alcuni patogeni batterici che colpiscono l’olivo, causando perdite di rilievo nella produzione di olive.

fonte: https://www.nonsoloambiente.it

Perché l’inquinamento da Pm10 può agevolare la diffusione del virus

La correlazione evidenziata dall’analisi dei dati delle Arpa congiunta ai numero dei contagiati: il Pm10 agirebbe da vettore del virus



Le correlazioni vengono al pettine: l'inquinamento, soprattutto quello atmosferico, potrebbe aver preparato il terreno al Coronavirus e alla sua diffusione. Quantomeno i dati evidenziano una relazione tra i superamenti dei limiti di legge per il Pm10 e il numero di casi infetti da Covid-19.

Lo dimostra uno studio curato da una dozzina di ricercatori italiani e medici della Società italiana di Medicina Ambientale (Sima). Leonardo Setti dell'Università di Bologna e Gianluigi de Gennaro dell'Università di Bari hanno passato gli ultimi venti giorni sui dati registrati nel periodo tra il 10 e il 29 febbraio e li hanno incrociati: da una parte quelli provenienti dalle centraline di rilevamento delle Arpa, le agenzie regionali per la protezione ambientale, dall'altra i dati del contagio da Covid19 riportati dalla Protezione Civile, aggiornati al 3 marzo, lasso temporale necessario considerando il ritardo temporale intermedio di 14 giorni pari al tempo di incubazione del virus. La conclusione è che si evidenzia una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di Pm10 e PM2,5 e il numero di casi infetti da Covid-19.

La Pianura padana è in codice rosso anche nello studio: qui si sono osservate le curve di espansione dell’infezione che hanno mostrato accelerazioni anomale, in evidente coincidenza, a distanza di due settimane, con le più elevate concentrazioni di particolato atmosferico.

Il Pm10 avrebbe, secondo la ricerca, esercitato un'azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell'epidemia. Leonardo Setti lo mette in luce: «Le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio in Pianura padana hanno prodotto un'accelerazione alla diffusione del Covid19. L'effetto è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai».

Potrebbe quindi essere questo uno dei motivi per cui la Pianura padana, rispetto alle altre zone d'Italia, ha cullato il virus in maniera più concentrata. A questo proposito è emblematico il caso di Roma, in cui la presenza di contagi era già manifesta negli stessi giorni delle regioni padane senza però innescare un fenomeno così virulento. Brescia è tra le città più colpite per inquinamento e caso di focolai di Coronavirus.

L'idea che l'inquinamento da Pm10 sia facilitatore delle infezioni non è nuova, a partire da polmonite e morbillo. La letteratura è lì a dimostrarlo e a suggerire norme importanti per ridurre l'inquinamento.

Il presupposto con il Coronavirus è lo stesso: il particolato funge da carrier per il trasporto del virus. Anche nell'etere. Forse tanto quanto una stretta di mano: «Più ci sono polveri sottili – afferma Gianluigi de Gennaro, dell'Università di Bari - più si creano autostrade per i contagi. È necessario ridurre al minimo le emissioni».

È noto che il particolato atmosferico funziona da vettore di trasporto per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus che si “attaccano” (con un processo di coagulazione) anche per ore, giorni o settimane. Inoltre, sarebbero lunghe le distanze che il virus potrebbe percorrere così trasportato.

Lo studio mette in luce un altro fattore: «L'attuale distanza considerata di sicurezza – fa notare Alessandro Miani, Presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) riferendosi allo spazio di un metro - potrebbe non essere sufficiente». Così come evidentemente non sono sufficienti le misure finora adottate per contenere l'inquinamento atmosferico.

fonte: https://www.ilsole24ore.com

La plastica riciclata in aiuto della stampa 3D, il progetto arriva dalla Danimarca



















Mogens Hinge con Gitte Buk Larsen


Il Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Aarhus, in Danimarca, vuole rivoluzionare l’uso della plastica riciclata nella stampa 3D. L’obiettivo è riciclare i rifiuti di plastica in un prodotto a filamento standard, poiché l’industria non ha gli standard del filamento di qualità di stampa. Questo schema proviene in particolare dal dipartimento di ingegneria, e dal professore associato Mogens Hinge in collaborazione con la società di trasformazione e riciclaggio della plastica Aage Vestergaard Larsen A / S. Il progetto ha già ricevuto finanziamenti per 84.000 euro.

“Se il progetto avrà successo, rivoluzionerò il consumo di materiale delle stampanti 3D. Stiamo parlando della possibilità di utilizzare i rifiuti di plastica per creare nuovi filamenti di alta qualità. Avrà un impatto significativo per l’ambiente e il clima a lungo termine. ” ha dichiarato Gitte Buk Larsen responsabile marketing di Aage Vestergaard Larsen A / S.

Secondo il professor Hinge, la necessità della riforma è dovuta alla crescente necessità di filamenti di stampa 3D, poiché l’industria è in rapida crescita e la pratica dell’uso della plastica è spesso fatto ad hoc e priva di standard. Questo rende l’industria dell’utilizzo della plastica nella stampa 3D un “selvaggio West”.

Secondo Hinge, il filamento per la stampa 3D può variare in termini di qualità, anche se il prodotto è realizzato con lo stesso tipo di plastica e proviene dallo stesso fornitore.

L’obiettivo finale del progetto dell’università è quello di produrre un filamento standardizzato e completamente documentato che sia, naturalmente, di alta qualità e stabile, e come detto è realizzato in plastica riciclata.
Impatto positivo sull’ambiente?


Oggi l’industria è principalmente costituita da materie plastiche nuove o vergini, spiega Mogens Hinge. Il riciclaggio della plastica ha minori emissioni di CO2. Diverse aziende stanno affrontando il problema dei rifiuti di plastica della stampa 3D e il 2020 è destinato a essere un anno di rinnovata attenzione e impegno per la sostenibilità.

Il professor Hinge ritiene che l’industria della stampa 3D apprezzerà l’approccio: “È già possibile, ma non è ancora stato fatto. Penso che questo sia il prossimo passo necessario per mettere in produzione la tecnologia di stampa 3D (FDM). ” Il progetto si chiama “Sviluppo di filamenti per la stampa 3D a base di plastica riciclata” è diretto da Aage Vestergaard Larsen A / S.

fonte: https://www.digitalic.it

Come produrre idrogeno dai rifiuti alimentari in poche mosse

Il metodo, messo a punto dagli scienziati della Purdue University, prevede la macinazione degli scarti e l’utilizzo di un bioreattore con lieviti per creare idrogeno in circa 18-24 ore





Gli italiani buttano in media 800 grammi di cibo a testa ogni settimana, per un valore complessivo di quasi 12 miliardi di euro persi a livelli nazionale ogni anno. Ridurre questi scarti richiede a monte una attenta gestione delle risorse. Allo stesso tempo necessita, a valle, di strumenti che possano ridurne l’impatto ambientale, trasformando eventuali sprechi in nuove opportunità. Uno di questi è al centro delle attenzioni della Purdue University, nell’Indiana, Stati Uniti. Qui, infatti, un gruppo di scienziati ha migliorato in maniera sostanziale la produzione di idrogeno dai rifiuti alimentari.

Fino a ieri questa modalità di generazione del vettore energetico impiegava la degradazione batterica, un processo lento e legato a complesse pre-elaborazioni fisiche, chimiche o biologiche della biomassa.

Per semplificare i passaggi e accelerare la generazione di idrogeno dai rifiuti alimentari, gli scienziati dell’ateneo statunitense hanno sostituito i batteri con i lieviti. Una modifica apparentemente piccola che ha permesso però al team di ridurre al minimo le fasi di pre-elaborazione del materiale di scarto.

“Volevamo creare un processo semplice per trasformare tutti gli sprechi alimentari in una fonte di energia pulita”, ha spiegato Robert Kramer, professore di energia e ambiente della NiSource Charitable Foundation e professore di fisica alla Purdue University Northwest. “Il nostro sistema in pratica consente a un utente di prelevare i rifiuti alimentari, macinarli, posizionarli in un reattore e utilizzare il nostro processo per creare idrogeno in circa 18-24 ore. È molto più veloce degli altri metodi impiegati sino a oggi”.

Kramer, che è anche direttore del Purdue Northwest Energy Efficiency and Reliability Center, ha convalidato la tecnologia utilizzando una varietà di ceppi di lievito. I primi test permettono di stimare un miglioramento dell’efficienza produttiva processo nell’ordine del 20-25 per cento rispetto al metodo che sfrutta la fermentazione batterica.

Secondo i ricercatori il nuovo procedimento potrebbe essere facilmente integrato con la tecnologia solare termica per creare una fonte di energia autonoma. Kramer ha anche sottolineato come il metodo Purdue non comporti alcun rischio di esplosione per l’idrogeno prodotto.

fonte: www.rinnovabili.it

Batterie stampabili al litio per un’elettronica da indossare

Gli scienziati dell’Università Politecnica di San Pietroburgo sono in grado di realizzare elettrodi in miniatura utilizzando una stampante a getto d’inchiostro



















Qual è il dispositivo più piccolo che riusciate a immaginare, funzionante con batterie a ioni di litio? Uno smartwatch? Un mouse wireless? Una penna per tavoletta grafica? All’Università Politecnica di San Pietroburgo l’immaginazione è andata ben oltre riuscendo a figurarsi un futuro di minuscoli biosensori e dispositivi elettronici basati sulla tecnologia a ioni di litio. Per renderlo possibile gli scienziati dell’ateneo russo hanno intenzione di realizzare speciali batterie stampabili in grado di dare una nuova “scossa” alla micro-elettronica.
Attualmente questi dispositivi di accumulo, quando prodotti da processi convenzionali,  hanno un’alta densità di energia, il che significa che possono immagazzinarne una grande quantità di elettricità in un piccolo volume. Tuttavia, il progresso in questo campo ha raggiunto il suo limite tecnologico a livello dimensionale, e scendere ulteriormente sotto alcuni parametri è una sfida molto impegnativa sul fronte tecnico. Come mostra l’articolo pubblicato sulla rivista scientifica Energy Technology (testo in inglese), per far compiere un balzo evolutivo alla tecnologia a ioni di litio, occorre pensare fuori dalla scatola.

Uno degli ultimi trend indagati dall’elettronica indossabile o flessibile, prevede di ricorrere a sistemi di stampaggio diretto dei componenti su un substrato. Ovviamente gli elettrodi prodotti dalla stampa a getto d’inchiostro non possono fornire una densità di energia sufficientemente elevata, così come quella offerta dalle batterie tradizionali. “Per ridurre questa differenza”, spiega Maxim Maximov, a capo della ricerca – proponiamo di utilizzare composti promettenti a base di materiale catodico arricchito con litio e manganese con una maggiore capacità”.
Il team di scienziati, guidati da Maximov, ha impiegato il nuovo materiale catodico sintetizzato in una soluzione colloidale stabile e ottimizzato i suoi parametri reologici per la stampa a getto d’inchiostro in termini di viscosità, tensione superficiale e angolo di contatto. Il risultato sono catodi a film sottile spessi meno di 10 μm“Abbiamo dimostrato la possibilità di produrre elettrodi con questo materiale mediante la stampa a getto di inchiostro – ha aggiunto il capo-gruppo – e scoperto che l’intensità energetica del catodo stampato se quello realizzato con la tecnologia tradizionale sono vicine”. Il prossimo passo della squadra sarà cercare di ottenere un ulteriore miglioramento della densità, realizzando i primi protidi di batterie stampate.

fonte: www.rinnovabili.it

Microplastiche: dall’UniCt un brevetto per scovarle

Il metodo dell’ateneo catanese supera i limiti delle tecniche finora utilizzate per l’individuazione delle microparticelle di plastica, basate principalmente su meccanismi di filtraggio e di “selezione dimensionale”. Il brevetto rende il LIAA l’unico laboratorio al mondo in grado di individuare le microplastiche con dimensioni inferiori a 10 micrometri.


















Quando si parla di microplastiche, una delle questioni più problematiche riguarda non solo /*/la nostra capacità di eliminarle dall’ambiente ma, prima ancora, la stessa possibilità di riuscire a vedere e individuare questi minuscoli materiali inquinanti. Per questo motivo, un’enorme importanza assume la ricerca condotta dall’Università di Catania, che ha permesso di brevettare un metodo per scovare e quantificare, per quasi tutte le tipologie di plastica, le microparticelle inferiori a 10 micrometri.

Il brevetto, dal titolo “Metodo per l’estrazione e la determinazione di microplastiche in campioni a matrici organiche e inorganiche”, è frutto del lavoro del Laboratorio di Igiene Ambientale e degli Alimenti (LIAA) dell’ateneo catanese, che ha recentemente visto accettate tutte le 10 rivendicazioni avanzate in fase di deposito (inerenti alla novità del metodo, all’inventiva e all’applicabilità industriale), vale a dire le richieste che consentono di ottenere una tutela su specifici aspetti di un prodotto (sia esso uno strumento e un metodo).

Nello specifico, l’originalità di questa metodologia consiste nell’aver superato le attuali tecniche di individuazione delle microplastiche, che mostrano dei limiti proprio nell’identificazione e nella determinazione delle particelle inferiori ai 10 micrometri. Ad oggi, infatti, le metodologie di estrazione si basano principalmente su un processo di filtrazione per la raccolta delle microparticelle e delle microfibre plastiche, un processo che procede grazie ad un’esclusiva “selezione dimensionale” che, in quanto tale, non consente di riconoscere le particelle con diametro inferiore ai pori del filtro utilizzato. In questo modo, e necessariamente, rilevanti quantità di micro e nanoplastiche possono andare perse.
Il brevetto, che era già stato ottenuto in Italia ottenendo successivamente l’estensione a livello internazionale, rende il LIAA l’unico laboratorio in grado di individuare le microplastiche con dimensione inferiore ai 10 micrometri a livello mondiale, permettendo così all’Università di Catania di siglare collaborazioni scientifiche con altri atenei italiano e con centri di ricerca in Tunisia e Austria.

fonte: www.rinnovabili.it

Sos api: nell’ultimo anno si è perso il 40% delle colonie negli USA. Le cause sono ancora poco chiare

















L’anno compreso tra aprile 2018 e aprile 2019 è stato tragico, per le api americane, perché ha fatto registrare la perdita di colonie più alta da quando è attivo il monitoraggio, attorno al 40%.
È allarme dopo la pubblicazione dei dati annuali elaborati dall’Università del Maryland insieme all’organizzazione no profit Bee Informed Partnership: il quadro è in preoccupante peggioramento, e non si capisce come fare per invertire la rotta.
Le statistiche vengono elaborate ogni anno (da 13 anni) in base a quanto riferiscono oltre 4.700 apicoltori di tutti gli stati, che allevano poco meno di 320.000 colonie e che rappresentano circa il 12% del totale delle 2,69 milioni di colonie stimate in tutti gli Stati Uniti. Il giro d’affari legati all’impollinazione delle piante commerciali è stimato attorno ai 15 miliardi di dollari, e in mancanza delle impollinatrici il rischio, molto concreto, è che tutta l’industria alimentare tradizionale ne risenta.
Ma i dati sono impietosi. Secondo quanto riferito, nell’estate 2018 sono andate perse il 20,5% delle colonie di api, contro il 17,1% dell’estate precedente, mentre nello scorso inverno la perdita è stata del 37,7%, ben 8,9 punti percentuali al di sopra di quella dell’inverno 2017-2018. In totale, quindi, sono scomparse il 40,7% delle colonie, contro una media degli anni precedenti attorno al 37,7%.
Nonostante da anni si studi il fenomeno, le cause sono ancora poco chiare. I ricercatori dell’Università del Maryland citano la varroa, micidiale parassita un tempo tenuto sotto controllo da farmaci che ora sono inefficaci nel 90% dei casi, e altri parassiti di diverso tipo, forse non tutti noti. E poi la scomparsa dei pollini compositi dovuta all’agricoltura industriale, l’impiego di pesticidi e le variazioni climatiche alle quali le api sono sensibilissime. Per esempio, quando un inverno è troppo freddo il rischio di morte è molto elevato, ma quando è troppo mite la varroa e gli altri parassiti proliferano molto di più, così come altri fattori che hanno un effetto sinergico gli uni verso gli altri.
In attesa che si giunga a elaborare soluzioni più efficaci di quelle attuali, concludono gli autori, l’unico provvedimento concreto è quello di attenersi scrupolosamente ai consigli contenuti nelle linee guida ufficiali di università, enti di ricerca e associazioni come appunto Bee Informed Partnership.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

Borracce alle matricole, differenziata in dipartimento e corsi sostenibili: le università abbracciano l'ambiente

Interventi concreti da Venezia a Catania. Sul tema una due giorni della Conferenza dei rettori a Udine. E dal 2013 ad oggi 68 atenei pubblici e privati hanno aderito alla Rete per lo sviluppo sostenibile

























ROMA - L’università italiana si spende per l’ambiente e la sua sostenibilità. Non è più solo una questione di corsi di laurea a trazione ecologica nei dipartimenti più diversi: ovviamente Agraria, ma anche Ingegneria, Architettura e Giurisprudenza (il Diritto all’ambiente si studia all’Università di Bologna e aFerrara, all’Università della Tuscia e a Teramo). Gli atenei singoli, uno dopo l’altro, stanno facendo scelte concrete per dare il proprio contributo negli anni della condivisione e del messaggio green. Oggi sono sessantotto, quindi la maggioranza, gli atenei pubblici e privati che aderiscono alla Rete delle università per lo sviluppo sostenibile (partita nel novembre 2013).

Il prestigioso Ateneo di Ca’ Foscari, Venezia, con il prossimo anno accademico – quindi a settembre - doterà tutte le matricole di borracce in metallo, una vera e propria dotazione per eliminare dai corridoi e dalle aule le bottiglie di plastica. Una scelta già messa in atto in questi mesi dall'ateneo di Roma Tre. Ancora, in tutti i principali incontri e nelle riunioni istituzionali di Ca' Foscari – Senato accademico, consigli di amministrazione, riunioni di valutazione - sui tavoli si vedranno caraffe d’acqua e bicchieri compostabili. Il servizio di catering sarà scelto sulla base della miglior offerta di cibo (biologico, vegetariano, a chilometro zero) e il non utilizzo di stoviglie e bicchieri monouso. L’Università estenderà la diffusione delle colonnine dell’acqua nelle principali sedi e sostituirà in tutte le macchine del caffè i bicchieri e le palette di plastica con equivalenti biodegradabili consentendo di selezionare l’opzione “senza erogazione del bicchiere” per incentivare l’utilizzo di tazze personali. Il rettore Michele Bugliesi ricorda come Ca’ Foscari abbia attivato da tempo la raccolta differenziata interna e il controllo dei consumi energetici.

Anche l’Università di Catania, dopo una campagna plastic free, in questi giorni arriva alla raccolta differenziata nelle diverse strutture dell’Ateneo. Il professor Federico Vagliasindi, Dipartimento di Ingegneria civile e Architettura, spiega: “Queste buone pratiche sono state avviate in passato con iniziative disorganiche che hanno avuto successo solo nel breve termine, senza lasciare un'organizzazione consolidata. Vogliamo creare un sistema di raccolta differenziata permanente applicabile in ateneo e che coinvolga tutte le componenti universitarie”. Nell’intera città di Catania la raccolta differenziata è al 123 per cento, decisamente bassa.
 
Uno studio dell’Università di Parma condotto insieme a Milano Bicocca – e pubblicato su "Ecological Economics" – spiega come un aumento del tasso di raccolta differenziata del 10 per cento produrrebbe una riduzione di rifiuti pro-capite dall’1,5 al 2 per cento: mezzo milione di tonnellate in meno ogni anno. In Italia nel 2017 sono stati prodotti 489 chili di rifiuti urbani pro-capite, un dato in linea con la media europea. La percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani, va detto, è cresciuta in modo significativo negli ultimi ventidue anni passando dal 5 per cento nel 1995 al 55,5 per cento nel 2017.
 
La partecipazione accademica alle sorti ambientali di tutti ha portato la Conferenza dei rettori (Crui) a organizzare una "due giorni" a Udine – ieri e oggi – nell’ambito dei “Magnifici incontri”. Otto temi in discussione nei tavoli di lavoro a partire da questo concetto: “Le università svolgono un ruolo cruciale sia nella formazione delle generazioni future che nella trasmissione della conoscenza all’intera società”.
 
A Udine si è costruito il discorso attorno all’Agenda 2030 e alla presa d’atto che l’attuale modello di sviluppo è insostenibile non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale.


fonte: https://www.repubblica.it