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ReFoodgees, il progetto che ogni sabato redistribuisce mille chili di frutta e verdura al mercato Esquilino di Roma

Nato a fine 2018, sulla scia del precedente Roma Salvacibo realizzato al mercato dell'Alberone in collaborazione con Eco dalle Città, oggi ReFoodgees è un'attività ampia e consolidata, capace non solo di redistribuire una tonnellata di cibo ogni sabato ma anche di fare da trait d'union fra tante persone e progetti sociali presenti nella zona. Ecco cosa ci ha raccontato la sua presidente, Viola de Andrade Piroli, poco prima della pausa estiva



“Siamo alla frutta, abbiamo bisogno di una pausa” ci dice al telefono Viola De Andrade Piroli di ReFoodgees, facendo un’involontaria battuta, lei che è la presidente dell’associazione che ogni sabato al mercato Esquilino di Roma recupera e redistribuisce gratis centinaia di chili di frutta e verdura, ma anche di pane, pizza e focaccia, donati dai commercianti. Quasi tre anni vissuti intensamente, senza praticamente mai fermarsi, neppure per il Covid. Il progetto (e l’associazione omonima) è nato a fine 2018, sulla scia del precedente Roma Salvacibo realizzato al mercato dell’Alberone, in collaborazione con Eco dalle Città. Oggi ReFoodgees è un’attività ampia e consolidata, un punto di riferimento al rione multietnico dell’Esquilino, capace di fare da trait d’union fra tante persone e progetti sociali presenti nella zona. Ecco cosa ci ha raccontato la sua presidente, poco prima dello stop che vedrà il banchetto chiudere ad agosto per ripresentarsi a settembre con nuove proposte.

Viola com’è andato questo 2021?

L’andamento ha inevitabilmente risentito di questo momento particolare. Noi non ci siamo mai fermati, neanche quando eravamo in zona rossa. Quei sabati erano veramente surreali, perchè Roma il sabato pomeriggio solitamente è il caos, mentre in giro non c’era nessuno. Era tutto chiuso, tranne pochissime attività, tra cui il nostro banchetto, che essendo un banco di ortofrutta ci ha permesso di avere l’autorizzazione per aprire e fare la distribuzione. Ovviamente con un’attenzione estrema a mascherine e distanziamento e con una massiccia riduzione dei tanti volontari che ci aiutano.

Quanti siete attualmente?

Bè siamo circa una ventina di persone operative, a volte anche di più, anche trenta, che lavorano tra due gazebi grandi da quaranta chili ognuno e una decina di tavoli, divisi tra una prima linea dove serviamo la frutta e la verdura e la parte espostiva dietro, dove le persone vedono quello che c’è e chiedono quello di cui hanno bisogno. 



Quanto cibo recuperate mediamente?

Ormai siamo attestati su una media di mille chili di frutta e verdura ogni sabato.

Chi sono i principali beneficiari?

Il pubblico è estremamente eterogeneo. Rispecchia sia il quartiere dell’Esquilino dove lavoriamo, che è multietnico, sia il mercato stesso, che vende frutta, verdura, spezie e quant’altro che si trovano solo qui. Alcune persone vengono da tutta Roma a fare la spesa all’Esquilino, sia italiani che stranieri. È difficile fare delle percentuali, ci sono nordafricani, sudamericani, centroamericani, asiatici, e anche come età il pubblico è vasto e diversificato, ci sono sia giovani che anziani. Ci sono tante neo mamme, questo sì.

Come mai?

Perchè è un target su cui puntiamo. Tra le tante cose che facciamo, oltre a ridistribuire il cibo, c’è l’idea di metterci in rete con attività del territorio che si occupano di altri aspetti legati al sostegno di persone in difficoltà socio-economica. Uno di questi è quello della neo natalità. Siamo in contatto con Piano Terra, una onlus proprio qui dell’Esquilino, che si occupa dei primi tre anni del bambino. Prima facevamo molte attività con i bimbi, al mercato ne venivano tanti con le famiglie e questo ci aiutava anche nell’approfondire le relazioni con i loro genitori. A causa del covid hanno iniziato a venirne molti di meno e contemporaneamente abbiamo visto che passavano dal banchetto molte donne incinte, o che avevano appena partorito, alcune delle in condizioni di fragilità, perchè sole, poco inserite o con una scarsa conoscenza dei propri diritti. Grazie al banchetto, che rispetto ad un ufficio chiuso o ad uno sportello è più accessibile e immediato, siamo riusciti ad indirizzare diverse donne in difficoltà a realtà specifiche che le hanno aiutate e con le quali si è creata una bella sinergia. Siamo molto contenti.



C’è qualcuno che viene al banchetto anche per motivi espressamente ecologisti o anti-spreco?

Sì c’è anche quella componente, soprattutto tra i più giovani. Vengono spesso anche dei food blogger, molto interessati dalle attività anti spreco, e noi stessi ci adopereremo ancora di più per sensibilizzare maggiormente in quel senso. Ci piacerebbe che fare la spesa gratis con frutta e verdura recuperata al mercato diventasse motivo di vanto, o quanto meno una pratica comunemente accettata, visto che è passato il messaggio, alcune volte, che quello recuperato e redistribuito gratis qui all’Esquilino fosse cibo di seconda scelta o per poveri. Questo non è un progetto per poveri, lo ribadiamo sempre ogni volta che ne parliamo all’esterno. È un progetto per tutti, perchè il cibo è la cosa più democratica che esiste, ed è un progetto che ha alla base la lotta allo spreco alimentare e quindi il sostegno all’ambiente. Tutti i mercati d’Italia e del mondo dovrebbero avviare progetti anti spreco del genere.

Per la ripartenza di settembre è prevista qualche novità?

Sì certo, una su tutte è la cucina dei prodotti con il coinvolgimento di cuoche e cuochi. Anche questo, come le attività con le neo mamme, nasce da un’esigenza che abbiamo riscontrato nel corso delle attività del sabato e cioè la richiesta di lavoro da parte di tante persone. E in questo contesto le donne migranti ci sembravano la categoria più fragile, che spesso ha anche grandi competenze in ambito culinario che rimangono inespresse se non tra le mure domestiche. Abbiamo selezionato un gruppo che è stato mandato al corso Hccp per donne migranti organizzato da Slow Food e due di quelle che lo hanno completato sono state ingaggiate regolarmente, per cucinare pagate nel corso di un fine settimana 100 pasti, distribuiti poi gratuitamente. È stata come la puntata pilota di un progetto che vorremmo diventasse stabile.

Nell’ultimo giorno di attività prima della pausa, ReFoodgees ha “recuperato e redistribuito 1299 chili di frutta, verdura, pane… e tanto tanto amore”, come si legge sulla pagina facebook del progetto. Le attività riprenderanno sabato 4 settembre.

fonte: www.ecodallecitta.it


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In cauda venenum


Il confinamento pandemico ci ha proibito le grandi e belle tavolate, ma c’è da augurarsi che almeno nell’intimità i pranzi e le cene natalizi non siano mancati. Molte saranno le persone preoccupate per le sentenze che generalmente dopo le feste emettono le bilance. Almeno altrettanto dovrebbero esserlo, però, per la quantità di pesticidi assunti, quasi sempre a fine pasto, soprattutto con la frutta: il veleno è nella coda, con puntuale riferimento all’incolpevole scorpione, recita una nota locuzione latina. Non si tratta, naturalmente, di colpevolizzare chi mangia qualche mandarino di troppo ma di segnalare, ancora una volta, le responsabilità del modello imperante di agricoltura intensiva e di ricordare, per fare solo un esempio, che l’Italia ha incredibilmente posticipato la messa al bando del glifosato al 2022. I dati che ha reso noti nei giorni scorsi la campagna Stop Pesticidi di Legambiente sono pessimi: solo il 52% dei campioni analizzati sono privi di tracce di pesticidi e i numeri peggiori riguardano proprio la frutta. L’89,2% dell’uva da tavola e l’85,9% delle pere contiene almeno uno di quei residui che, cumulati, possono favorire l’insorgere di asma allergica e di altre malattie respiratorie che possono creare un quadro nefasto sempre, ma particolarmente rischioso in periodi come questi. Liberare l’agricoltura dalla dipendenza della chimica è più necessario e urgente che mai

foto tratta da Pixabay

Il dossier Stop Pesticidi, elaborato da Legambiente e presentato questa mattina nella diretta streaming trasmessa su www.legambiente.it, http://agricoltura.legambiente.it, www.lanuovaecologia.it e sui rispettivi canali social e realizzato in collaborazione con Alce Nero, ci dice che i pesticidi più diffusi negli alimenti in Italia sono Boscalid, Dimethomorph, Fludioxonil, Acetamiprid, Pyraclostrobin, Tebuconazole, Azoxystrobin, Metalaxyl, Methoxyfenozide, Chlorpyrifos, Imidacloprid, Pirimiphos-methyl e Metrafenone. Sono per la maggior parte fungicidi e insetticidi utilizzati in agricoltura che arrivano sulle nostre tavole e che, giorno dopo giorno, mettono a repentaglio la nostra salute. I consumatori stanno chiedendo prodotti sempre più sani e sostenibili ma il business dell’agricoltura intensiva sembra non voler cedere il passo. L’edizione 2020 del rapporto dell’associazione ambientalista fotografa una situazione che vede risultare regolare e privo di residui di pesticidi solo il 52% dei campioni analizzati. Senza dubbio, un risultato non positivo e che lascia spazio a molti timori in merito alla presenza di prodotti fitosanitari negli alimenti e nell’ambiente. Analizzando nel dettaglio i dati negativi, si apprende che i campioni fuorilegge non superano l’1,2% del totale ma che il 46,8% di campioni regolari presentano uno o più residui di pesticidi.

Cattive notizie anche in merito alla quantità di residui derivanti dall’impiego di prodotti fitosanitari in agricoltura: i laboratori pubblici regionali ne hanno trovato traccia in campioni di ortofrutta e prodotti trasformati in elevata quantità. Preoccupanti inoltre i dati del multiresiduo, che – è bene ricordarlo – la legislazione europea non considera non conforme a meno che ogni singolo livello di residuo non superi il limite massimo consentito, benché sia noto da anni che le interazioni di più e diversi principi attivi tra loro possano provocare effetti additivi o addirittura sinergici a scapito dell’organismo umano. Proprio il multiresiduo risulta essere più frequente del monoresiduo, essendo stato rintracciato nel 27,6% del totale dei campioni analizzati, rispetto al 17,3% dei campioni con un solo residuo.

Pixabay

Come negli anni passati, la frutta è la categoria in cui si concentra la percentuale maggiore di campioni regolari multiresiduo. Ad essere privo di residui di pesticidi è solo il 28,5% dei campioni analizzati, mentre l’1,3% è irregolare e oltre il 70%, nonostante sia considerato regolare, presenta uno o più residui chimici. L’89,2% dell’uva da tavola, l’85,9% delle pere, e l’83,5% delle pesche sono campioni regolari con almeno un residuo. Le mele spiccano con il 75,9% di campioni regolari con residui e registrano l’1,8% di campioni irregolari. Alcuni campioni di pere presentano inoltre fino a 11 residui contemporaneamente. Situazione analoga per il pompelmo rosso e per le bacche di goji che raggiungono quota 10 residui. Diverso il quadro per la verdura: se, da una parte, si registra un incoraggiante 64,1% di campioni senza alcun residuo, dall’altro fanno preoccupare le significative percentuali di irregolarità in alcuni prodotti come i peperoni in cui si registra l’8,1% di irregolarità, il 6,3% negli ortaggi da fusto e oltre il 4% nei legumi. Tali dati, se analizzati in riferimento alla media degli irregolari per gli ortaggi, che è dell’1,6%, destano preoccupazione. Ad accomunare la gran parte delle irregolarità è il superamento dei limiti massimi di residuo consentiti per i pesticidi (54,4%) ma non mancano casi in cui è stato rintracciato l’utilizzo di sostanze non consentite per la coltura (17,6%). Nel 19,1% dei casi, poi, sono presenti entrambe le circostanze. Le sostanze attive che più hanno determinato l’irregolarità sono l’organofosforico Chlorpyrifos nell’11% dei casi e il neonicotinoide Acetamiprid nell’8% dei casi. Altro dato da sottolineare è la presenza di oltre 165 sostanze attive nei campioni analizzati. L’uva da tavola e i pomodori risultano quelli che ne contengono la maggior varietà, mostrando rispettivamente 51 e 65 miscele differenti.

Tra i campioni esteri, la Cina presenta il tasso di irregolarità maggiore (38%), seguita da Turchia (23%) e Argentina (15%). In alcuni di questi alimenti non solo sono presenti sostanze attive irregolari, ma anche un cospicuo numero di multiresiduo. È il caso, ad esempio, di un campione di bacca di goji (10 residui) e di uno di tè verde (7 residui), entrambi provenienti dalla Cina. Degno di nota è anche un campione di foglie di curry proveniente dalla Malesia nel quale, su 5 residui individuati, 3 sono irregolari. Sul fronte dell’agricoltura biologica, su 359 campioni analizzati 353 risultano regolari e senza residui, ad eccezione di un solo campione di olive, di cui però non si conosce l’origine. Non è quindi possibile, allo stato attuale, sapere se l’irregolarità è da imputare a una contaminazione accidentale, all’effetto deriva o a un uso illegale di fitofarmaci. L’ottimo risultato è ottenuto, tra le altre cose, grazie all’applicazione di ampie rotazioni colturali e pratiche agronomiche preventive, che contribuiscono a contrastare lo sviluppo di malattie e a potenziare la lotta biologica tramite insetti utili nel campo coltivato.

foto Pixabay

“Serve una drastica diminuzione dell’utilizzo delle molecole di sintesi in ambito agricolo, grazie a un’azione responsabile di cui essere tutti protagonisti – ha dichiarato Angelo Gentili, responsabile agricoltura di Legambiente -. Per capire l’urgenza di questa transizione, si pensi alla questione del glifosato, l’erbicida consentito fino al 2022, nonostante il 48% degli Stati membri dell’Ue abbia deciso di limitarne o bandirne l’impiego per la sua pericolosità; l’Italia inizi dalla sua messa al bando. Inoltre, per diminuire la chimica che ci arriva nel piatto è necessario adeguare la normativa sull’uso dei neonicotinoidi, seguendo l’esempio della Francia che da anni ha messo al bando i 5 composti consentiti dall’Ue, e approvare al più presto il nuovo Piano di Azione Nazionale sull’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari”.

“Occorre liberare l’agricoltura dalla dipendenza dalla chimica – ha aggiunto il presidente di Legambiente Stefano Ciafani – per diminuire i carichi emissivi e favorire un nuovo modello, che sposi pienamente la sostenibilità ecologica come asse portante dell’economia made in Italy, diventando un settore strategico per il contrasto della crisi climatica. Riteniamo anche necessaria una svolta radicale delle politiche agricole dell’Unione, con una revisione della Politica Agricola Comune che superi la logica dei finanziamenti a pioggia e per ettaro per trasformarsi in sostegno all’agroecologia e a chi pratica agricoltura sostenibile e biologica. Le risorse europee, comprese quelle del piano nazionale di ripresa e resilienza, vanno indirizzate all’agroecologia, in modo da accelerare la transizione verso una concreta diminuzione della dipendenza dalle molecole pericolose di sintesi, promuovendo la sostenibilità nell’agricoltura integrata e in quella biologica come apripista del modello agricolo nazionale, con l’obiettivo di giungere in Italia al 40 % di superficie coltivata a biologico entro il 2030”.

Legambiente torna a chiedere che l’Italia allinei le sue politiche al Green deal e a quanto previsto dalle strategie europee Farm to fork e Biodiversità che ambiscono a ridurre entro il 2030 del 50% l’impiego di pesticidi, del 20% di fertilizzanti, del 50% di antibiotici per gli allevamenti, destinando una percentuale minima del 10% di superficie agricola ad habitat naturali. Ritiene, inoltre, strategico approvare la legge sull’agricoltura biologica, ferma al Senato della Repubblica, come strumento per sostenere il settore. Altro aspetto da non trascurare è quello dell’etica del cibo e della legalità: se gli alimenti devono essere sani, lo deve essere anche il lavoro che li produce così come sono rilevanti i rischi per la salute dei braccianti non regolarizzati derivanti dall’esposizione diretta ai pesticidi, in assenza dei più elementari dispositivi di protezione individuale previsti dalla normativa vigente. Per questo è importante attuare misure specifiche rispetto al fenomeno del caporalato, sia attraverso politiche di prevenzione che di controllo e vigilanza e di assistenza, reintegrazione e inserimento socio-lavorativo dei braccianti sfruttati e approvare con la massima urgenza la normativa contro le aste al doppio ribasso di prodotti agroalimentari da parte della grande distribuzione.

Nota metodologica dossier Stop pesticidi

Il dossier di Legambiente Stop Pesticidi riporta i dati elaborati nel 2019 dai laboratori pubblici italiani accreditati per il controllo ufficiale dei residui di prodotti fitosanitari negli alimenti. Tali strutture hanno inviato i risultati di 5.835 campioni di alimenti di origine vegetale, di provenienza italiana ed estera, genericamente etichettati dai laboratori come campioni da agricoltura non biologica. L’elaborazione dei dati prevede la loro distinzione in frutta, verdura, trasformati e altre matrici.

fonte: comune-info.net


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Frutta e verdura imperfetta, il movimento dell’ugly food contro lo spreco si diffonde anche in Italia

 

La lotta allo spreco, che interessa circa un terzo del cibo prodotto nel mondo, inizia anche in Italia a coinvolgere frutta e verdura imperfette, che nel mondo anglosassone vengono definite ugly food. Si tratta di un quantitativo enorme di vegetali ottimi dal punto di vista nutrizionale, ma non adatti alla grande distribuzione perché irregolari o fuori calibro rispetto a quanto imposto da alcuni regolamenti, e per questo quasi sempre buttati via direttamente dai produttori o, nelle situazioni migliori, utilizzati per alcuni mangimi animali. Da qualche anno, però, in diversi paesi è nato il movimento dell’ugly food, che ha lo scopo di valorizzare anche questi frutti e ortaggi, evitando loro di finire in discarica e anzi, raccogliendoli alla fonte, inserendoli nel mercato, soprattutto quello locale, a prezzi convenienti e facendoli anche diventare veicolo di una diversa consapevolezza del consumatore, come racconta Il Sole 24 Ore.
Due tra le esperienze più interessanti sono in corso a Milano, dove la start up Bella Dentro, attiva da due anni, dopo aver percorso tutta la città con un’Ape Car con la quale sono state vendute – e quindi salvate – 26 tonnellate di prodotti in un anno, sta per inaugurare il suo negozio in zona Caiazzo (in via Piranesi), e dare via all’e-commerce tramite il suo sito. 


La start up Bella Dentro, attiva a Milano, salva frutta e verdura imperfetta dalle aziende agricole e la vende a consumatori, ristoranti e gruppi di acquisto

Bella Dentro, fondata dai due giovani imprenditori Luca Bolognesi e Camilla Archi, raccoglie l’ortofrutta dalle cascine lombarde e soprattutto faentine e la fa confezionare dall’Officina Cooperativa Sociale di Codogno, dove lavorano molti ragazzi autistici e con deficit cognitivi, che diventano così protagonisti di un circuito virtuoso, come raccontato sulla pagina Facebook della start up. La frutta salvata viene venduta, oltre che per strada, anche a ristoranti e gruppi di acquisto solidale.

Nel settembre 2020, poi, Bella Dentro ha ricevuto un riconoscimento importante: la Menzione d’onore del premio Compasso d’Oro, uno dei più importanti premi internazionali di design assegnato ogni anno dall’ADI (Associazione per il disegno industriale), come progetto di eccellenza nel food design, per lo stile che Bella Dentro utilizza per promuovere le sue iniziative.

Ma oltre a Bella Dentro, a Milano opera anche Babaco Market, un servizio di consegne anti-spreco lanciato dal fondatore di MyFoody Francesco Giberti: nei primi tre mesi di attività, Babaco ha salvato 5,5 tonnellate di ortofrutta imperfetta, con un risparmio medio del 30%  rispetto al costo al dettaglio.


NaturaSì e Legambiente hanno lanciato la linea di frutta e verdura anti-spreco Cosìpernatura

Infine, sembra che anche la distribuzione più ampia inizi ad accorgersi delle potenzialità del mercato del cibo “brutto”: NaturaSì propone, in 500 punti vendita, frutta e verdura della linea Cosìpernatura, un progetto lanciato con Legambiente grazie al quale si può acquistare frutta e verdura imperfette con con il 50% di sconto.

Le prime aziende a vendere prodotti ortofrutticoli brutti e imperfetti (tra le quali la Misfits Market, la Imperfect Produce e la Hungry Harvest) sono nate negli Stati Uniti qualche anno fa, e il loro successo è stato immediato, anche grazie alle riduzioni di prezzo simili a quelle che si vedono in Italia, dell’ordine del 30-50%. Va detto che tra gli ambientalisti americani c’è chi critica queste aziende perché non contribuirebbero a cambiare il modo industriale di produrre il cibo che, al contrario, terrebbero in piedi, per di più guadagnandoci. Tuttavia, fanno notare in molti, in attesa che il sistema cambi, start up e aziende di questo tipo rimettono sul mercato tonnellate di cibo a elevato valore nutrizionale che andrebbero perdute, aiutando i piccoli produttori a sopravvivere grazie a ciò che guadagnano con gli scarti; con i profitti, questi stessi agricoltori, non di rado in difficoltà economiche, possono invece investire e creare lavoro, facendo upcycling (questo il termine usato per definire il processo attraverso cui, oltre a non sprecare, si restituisce qualcosa che ha un valore superiore a quello del materiale di origine) grazie a frutta e verdura imperfette.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Microplastiche in frutta e verdura. Lo studio dell’Università Catania fa sorgere nuovi interrogativi. L’articolo di FreshCutNews


Riceviamo volentieri e pubblichiamo questa nota sulla presenza di microplastiche nel cibo pubblicata sul sito FreshCutNews insieme a una lunga intervista a una delle autrici della ricerca, Margherita Ferrante. È doveroso sottolineare che il riscontro di micro- e nanoplastiche nella frutta e nella verdura è importante, ma non bisogna essere allarmisti. Dopo avere appurato la presenza di queste particelle, il problema è fare una seria valutazione del rischio effettivo. La stessa autrice dello studio precisa che si deve ancora “dimostrare quale sia il reale danno che viene dalle microplastiche e, soprattutto, se questo danno ci sia”.

Come dire, noi le abbiamo trovate, ma fino a quando non ci sarà una valutazione del potenziale rischio non bisogna strumentalizzare la notizia. Ferrante precisa che è in corso uno studio sui pesci e che una ricerca simile è stata fatta tempo fa sull’acqua minerale riscontrando anche in quel caso la presenza di micro- e nanoplastiche. Un gruppo di ricercatori italiani ha trovato microplastiche all’interno di frutta e verdura



Un gruppo di ricercatori italiani ha trovato microplastiche all’interno di frutta e verdura


Uno studio, per la prima volta al mondo, riporta le concentrazioni di microplastiche (grandezza inferiore a 10 micrometri, ovvero 10 millesimi di millimetro) contenute in mele, pere, patate, carote, lattuga e broccoli. La scoperta sconcertante è che le microplastiche, una volta degradate dal terreno, sono assorbite dagli ortaggi, entrano nella parte edibile di frutta e verdura e vengono assunte dall’uomo. I dati raccolti dalla ricerca condotta dal gruppo del Laboratorio di Igiene ambientale e degli alimenti dell’Università di Catania, mostrano una contaminazione variabile. Con dimensioni medie da 1,51 a 2,52 micrometri, queste microplastiche degradate hanno una presenza media variabile da 223 mila a 52 mila particelle per grammo di vegetale in frutta e verdura. L’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) ha già chiesto alla Commissione Europea un primo passo verso una futura valutazione dei potenziali rischi per i consumatori derivanti dalla presenza di micro- e nanoplastiche negli alimenti.

“Abbiamo potuto realizzare questo studio – spiega Margherita Ferrante, docente di Igiene generale e applicata all’Università di Catania, nonché direttrice del laboratorio – grazie ad un nuovo metodo di analisi brevettato quest’anno, che ci permette di analizzare particelle piccolissime delle dimensioni inferiori ai 10 micrometri fino a 100 nanometri. Fino ad ora non si era riusciti ad osservare microplastiche di dimensioni più piccole del mezzo millimetro”. 



Tra i vegetali analizzati, la lattuga è quella con la minore concentrazione di microplastiche

Già con un livello di osservazione più approssimativo, era stato accertato che ingeriamo microplastiche per l’equivalente del peso un bancomat a settimana (5 grammi circa alla settimana, circa 21 grammi al mese). “Con questa nuova ricerca apprendiamo che la plastica che ingeriamo è anche di dimensioni finora non esplorate se si considerano le particelle più degradate e quindi quasi invisibili – precisa Margherita Ferrante – Tra gli ortaggi e la frutta analizzata, le mele sono quelle che ne assorbono una maggior quantità. Per ogni grammo di frutta ci sono 3 microgrammi di plastica. La lattuga, per contro, è quella che presenta meno microplastiche nella sua composizione: 0,7 microgrammi per ogni grammo di prodotto. Adesso stiamo cercando di calcolare il peso effettivo della materia inerte sul totale del prodotto vegetale e stiamo per chiudere anche una ricerca analoga sulle specie ittiche che prospetta risultati sicuramente interessanti”.

Tra le plastiche più presenti rinvenute dentro gli ortaggi analizzati, ci sono il polietilene e il polistirolo che sono i materiali più usati in agricoltura, nelle serre, ad esempio, per le pacciamature, o ancora, nei vivai. La ricerca è stata pubblicata nei giorni scorsi con il titolo “Micro and nano-plastics in edible fruit and vegetables. The first diet risks assessment for the general population” sulla rivista di settore Environmental Research (Elsevier).

Articolo di Mariangela Latella publicato su FreshCutNews

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Uno studio ha accertato la presenza di microplastiche in frutta e verdura

La ricerca è stata condotta dal gruppo del laboratorio di igiene ambientale e degli alimenti dell'Università di Catania




Per la prima volta uno studio indica le concentrazioni di microplastiche contenute nella parte edibile di alcuni dei frutti e delle verdure più consumati in Italia. La ricerca è stata condotta dal gruppo del laboratorio di igiene ambientale e degli alimenti dell'Università di Catania porta la firma dei ricercatori Gea Oliveri Conti, Margherita Ferrante, Claudia Favara, Ilenia Nicolosi, Antonio Cristaldi, Maria Fiore e Pietro Zuccarello dell'ateneo catanese insieme con Mohamed Banni del Laboratoire de Biochimie et Toxicologie Environnementale di Sousse in Tunisia ed è stata pubblicata nei giorni scorsi nell'articolo "Micro- and nano-plastics in edible fruit and vegetables. The first diet risks assessment for the general population" sull'importante rivista di settore Environmental Research (Elsevier).

Nello studio del Laboratorio etneo, diretto dalla professoressa Margherita Ferrante, sono pubblicati i dati derivanti dall'applicazione del brevetto catanese su vegetali edibili (tra la frutta mele e pere, mentre tra le verdure patate, carote, lattuga e broccoli) aprendo uno scenario mai prima d'ora ipotizzato. I dati mostrano una contaminazione variabile con dimensioni medie delle microplastiche da 1,51 a 2,52 microns e un range quantitativo medio da 223mila (52.600-307.750) a 97.800 (72.175-130.500) particelle per grammo di vegetale rispettivamente in frutta e verdura.

"Il gruppo di lavoro - spiegano la professoressa Margherita Ferrante e la ricercatrice Gea Oliveri Conti - sta, inoltre, ampliando gli alimenti investigati. Attualmente è in fase di elaborazione un ulteriore articolo sui dati derivanti dai filetti eduli di pesce. L'articolo riporta, inoltre, le Estimated Daily Intakes (Assunzioni giornaliere stimate) per adulti e bambini, divenendo di fatto il primo studio che quantifica l'esposizione a microplastiche inferiori ai 10 microns della popolazione generale mediante l'ingestione di tali alimenti".

La ricerca dimostra che l'impatto dei rifiuti plastici presenti nei mari e nei corsi d'acqua sugli habitat naturali e sulla fauna selvatica rappresenta un problema emergente di livello globale e l'Efsa (European Food Safety Autority), di concerto con la Commissione europea, ha già richiesto un primo passo verso una futura valutazione dei potenziali rischi per i consumatori derivanti dalla presenza di microplastiche e nanoplastiche negli alimenti, in particolare nei prodotti ittici. Questa tematica era stata oggetto nel 2019 di una inchiesta svolta dal giornalista Luca Ciliberti dal titolo "Che cosa mangiamo" con la partecipazione del Laboratorio di Igiene ambientale e degli alimenti dell'Università di Catania e anche di una interrogazione sulla presenza di microplastiche e relative contaminazioni nei vegetali presentata a Bruxelles dall'europarlamentare Ignazio Corrao. Nell'aprile dello scorso anno l'allora vicepresidente Jyrki Katainen a nome della Commissione europea aveva risposto all'interrogazione che la presenza di microplastiche negli ortaggi, dimostrata dallo studio etneo, costituisce un elemento di assoluta novità.

fonte: www.agi.it


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Luca e Camilla: “Il nostro lavoro? Salvare dallo spreco la frutta bella dentro!”

Restituire dignità ai prodotti ortofrutticoli classificati come “scarto” a causa di una selezione del raccolto basata su standard puramente estetici e non qualitativi promuovendo una filiera distributiva alternativa a quella tradizionale, più etica e sostenibile. Questo l’obiettivo di Bella Dentro, la start up ideata da Luca e Camilla, due giovani imprenditori che hanno cambiato vita per realizzare questo progetto.




A causa di criteri puramente estetici imposti dalla grande distribuzione e completamente indipendenti dalla qualità effettiva del raccolto in termini di gusto e proprietà nutritive, ogni anno una grandissima quantità di frutta a verdura viene scartata. A partire da questo presupposto e da un’idea di due giovani imprenditori – Luca e Camilla – è nata qualche tempo da a Milano Bella Dentro, la start-up che salva la frutta dallo spreco dei canoni estetici, da oggi sostenuta da Fondazione Social Venture Giordano Dell’Amore (1), braccio strategico e operativo di Fondazione Cariplo nell’ambito dell’impact investing, che ha investito 300.000 euro in equity, per sostenere l’impatto sociale e culturale dell’iniziativa. Abbiamo intervistato Luca e Camilla, fondatori di Bella Dentro.

Come è nato il progetto?


Nel 2016 ci siamo imbattuti in un reportage di National Geographic sullo spreco alimentare con un focus su quanto venisse sprecato in ogni fase della filiera agroalimentare dalla produzione al consumo. Ci ha colpito il fatto che gran parte di questo spreco avvenisse proprio nella prima fase, (quella del raccolto, parlando di ortofrutta) e ancor di più che fosse principalmente dovuto a canoni estetici e non qualitativi. Ci siamo documentati e abbiamo scoperto che per sottostare agli standard non solo europei ma anche dei vari giganti della grande distribuzione, per poter assicurare ai consumatori un’omogeneità del tutto innaturale, si ha uno scarto fisso del 20% sulla produzione totale, che nei casi di grandine può arrivare fino al 50-60%”.

Entrambi facevamo tutt’altro nella vita, ma avevamo voglia di provare a creare/costruire qualcosa di nostro. Io (Camilla) lavoravo a Milano nel settore advertising e iniziative speciali per clienti moda e design di una multinazionale americana dell’editoria, Luca invece ha sempre studiato e lavorato all’estero fino ad arrivare al ruolo di Brand Manager in una grande multinazionale americana di largo consumo in svizzera.

Luca da tempo pensava di tornare in Italia, ma voleva farlo solo con un progetto in proprio da realizzare. Questo argomento e reportage hanno toccato e stimolato così profondamente entrambi che abbiamo capito sarebbe stato il movente giusto per provare a realizzare i nostri sogni ed ambizioni, così, nel luglio del 2017 ci siamo licenziati entrambi, Luca è tornato a Milano e abbiamo cominciato i nostri studi sul campo fino a dar vita ufficialmente a Bella Dentro nel gennaio 2018.





Come opera Bella Dentro? Che cosa offre ai consumatori?

Ci proponiamo di restituire dignità ai prodotti classificati come “scarto” – poiché esteticamente imperfetti ma “belli dentro” – promuovendo una filiera distributiva alternativa a quella tradizionale, più etica e sostenibile. In concreto, acquistiamo direttamente dagli agricoltori quei prodotti orto-frutticoli di ottima qualità, che solitamente non vengono accettati dalle cooperative e dalla grande distribuzione; successivamente ne promuoviamo la vendita – presso privati, aziende e ristoranti – attraverso eventi e attività di comunicazione realizzati ad hoc per sensibilizzare i consumatori sulla naturalezza, la qualità, il gusto e le proprietà nutritive di tali alimenti.

Per poter salvare sempre più frutta e verdura superando i limiti imposti dalla deperibilità dell’ortofrutta fresca abbiamo cominciato a creare una linea di prodotti trasformati sempre a marchio Bella Dentro realizzati partendo dai prodotti salvati.

L’obiettivo è innescare un circolo virtuoso che leghi le scelte di consumatori e produttori, consentendo ai primi di fare acquisti convenienti e di buon senso e ai secondi di ottenere il giusto compenso anche per la parte di produzione altrimenti non valorizzata. In sostanza, vogliamo migliorare la consapevolezza delle persone, andando oltre la forma e le apparenze, a beneficio della sostenibilità ambientale, economica e sociale dell’intera 

filiera.




Qual è l’impatto sociale di Bella Dentro?

Ad oggi, gli agricoltori italiani sono costretti a scartare dal 30 al 70% del raccolto che non soddisfa gli standard estetici richiesti dal mercato. Si pensi ai cosiddetti prodotti “segnati” – non perfettamente omogenei – per via di urti causati dal vento, sfregamento con altri frutti/rami contigui e grandine, o a quelli fuori calibro (troppo grandi o troppo piccoli) ovvero dalla forma irregolare: conformazioni del tutto inevitabili e naturali nel corso della vita di una pianta.

Considerando l’insostenibilità di simili processi, Bella Dentro si propone di: immettere sul mercato tali prodotti valorizzandone la qualità e riducendone gli sprechi eccessivi e talvolta ingiustificati – in un anno ha salvato dal macero 26 tonnellate di ortofrutta; garantire il giusto compenso ai produttori che investono tempo e risorse per creare un prodotto buono – quello “bello dentro” – ma per il quale oggi si vedrebbero riconosciuto al massimo il 10% del valore di mercato (criterio sociale); donare in beneficenza tutto l’invenduto; sensibilizzare sui temi dello spreco della filiera agroalimentare, condividendo in particolare la propria esperienza con scuole elementari, medie e licei al fine di aumentare la conoscenza e la consapevolezza delle nuove generazioni riguardo a tale tematica.

Cosa riserva il futuro?

Per il primo anno e mezzo di attività abbiamo promosso la vendita ambulante grazie alla nostra “Ape Bella Dentro”, in giro per Milano, ma stiamo lavorando all’apertura del primo negozio stabile. Inoltre a breve avvieremo un laboratorio di trasformazione alimentare insieme a L’Officina Cooperativa Sociale, realtà dedita all’impiego e alla formazione di ragazzi affetti da autismo e gravi ritardi cognitivi, attraverso cui creeremo una nuova linea di prodotti essiccati da vendere sia in negozio che online.
“Il team di Bella Dentro ha guadagnato la nostra fiducia grazie alla capacità di offrire una soluzione mirata a un problema diffuso nel settore ortofrutticolo. Riteniamo, infatti, doveroso impegnarci nel contrasto allo spreco alimentare, generato – sia monte che a valle della filiera produttiva – tanto da un pregiudizio dei consumatori, quanto da logiche di mercato che basano la selezione del raccolto su standard puramente estetici e non qualitativi. Con il nostro investimento intendiamo supportare la diffusione di un nuovo modello produttivo che sia in grado, al tempo stesso, di ridurre gli scarti ingiustificati, ricompensare adeguatamente i coltivatori del proprio lavoro e promuovere una maggiore consapevolezza nelle scelte di consumo di molti acquirenti. Sono questi i contenuti profondamente innovativi del modello di attività di Bella Dentro”, ha dichiarato Marco Gerevini, Consigliere di amministrazione della Fondazione Social Venture GDA.


fonte: www.italiachecambia.org



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Effetto cocktail: la situazione dell’accumulo dei pesticidi in Europa è sotto controllo


















Dopo molti anni di studi e di collaborazione con l’Istituto nazionale olandese per la salute pubblica e l’ambiente (RIVM), l’EFSA ha pubblicato i primi due studi su un argomento cruciale: l’effetto cocktail (o cumulativo), in questo caso dei pesticidi, sulla tiroide e sul sistema nervoso. È questo, più che la valutazione della singola sostanza, il parametro che fornisce una visione chiara sulla pericolosità di un certo composto chimico assunto cronicamente, e magari da più alimenti ogni giorno.
La conclusione generale, in entrambi i casi, è rassicurante, anche se il livello di certezza raggiunto dall’analisi dei dati varia. Per i consumatori europei il rischio dell’esposizione alimentare cumulativa è inferiore alla soglia che fa scattare meccanismi normativi, cioè ai limiti di sicurezza, e questo vale per tutte le fasce di popolazione.
Va detto che le sostanze analizzate sono quelle individuate dagli esperti come specifiche per questo tipo di rischio. I regolamenti europei prevedono che si tenga conto dell’effetto cocktail quandosi redigono i vari dossier e che questi ultimi siano aggiornati via via che si rendono disponibili nuove tecniche di analisi.


effetto cocktail
Non ci sarebbero rischi specifici per la tiroide derivanti dall’effetto cocktail dei pesticidi usati in Europa

Nello specifico, per quanto riguarda la tiroide, sono stati valutati i principali possibili effetti patologici (l’ipotiroidismo, l’ipertrofia delle cellule follicolari, il tumore e l’iperplasia) di oltre cento sostanze con due diversi sistemi di analisi (uno dell’EFSA e uno del RIVM). Le due strutture  hanno incrociato i dati inviati dai sistemi di monitoraggio degli stati membri nel periodo dal 2014 al 2016, con quelli di dieci  studi sulla popolazione condotti in diversi paesi e su fasce di età differenti (bambini, ragazzi e adulti). Il risultato è che sono sempre rispettati i limiti, e quindi non ci sarebbero rischi specifici per la tiroide derivanti dall’effetto cocktail dei pesticidi usati in Europa.
Alla stessa conclusione è giunto anche il secondo studio, condotto su più di 100 sostanze, e sullo stesso insieme di dati, sui possibili danni al cervello (tra i quali l’attività di un enzima associato alle demenze e le alterazioni motorie).
Ora il lavoro prosegue. “Nei prossimi anni” si legge nel comunicato “verranno effettuate valutazioni sugli effetti dei pesticidi su altri organi e sulle funzioni organiche. L’EFSA sta attualmente definendo un dettagliato piano di attuazione con la Commissione europea”.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

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Orti urbani: potrebbero produrre frutta e verdura a sufficienza per il 15% degli abitanti della città. Basta coltivare il 10% delle aree verdi


















La produzione di frutta e verdura nelle grandi città potrebbe crescere molto, aiutando così i cittadini a dipendere di meno dai grandi circuiti produttivi internazionali: se si dedicasse a questo scopo il 10% degli spazi disponibili, si potrebbe facilmente arrivare a coprire il fabbisogno giornaliero di frutta e verdura del 15% della popolazione urbana. Le stime arrivano dall’Institute for Sustainable Food dell’Università di Sheffield, in Regno Unito, che ha pubblicato su Nature Food una serie di numeri e di valutazioni molto interessanti relativi alla stessa città.
Nella città inglese i giardini, i parchi, le aiuole ai bordi delle strade, gli orti urbani e quelli sui tetti coprono infatti circa il 45% della superficie comunale, una percentuale simile a quella che si riscontra in molte altre città britanniche. Nello specifico, gli orti ricoprono l’1,3% dello spazio, mentre i giardini delle case il 38%. Inoltre ci sarebbe un altro 15% potenzialmente coltivabile, se si sfruttasse una parte di tutti gli altri spazi verdi esistenti. Se tutto ciò fosse dedicato alla produzione di cibo, la superficie coltivata passerebbe dagli attuali 23 a 98 metri quadrati per abitante. In questo modo si arriverebbe facilmente a produrre la frutta e la verdura necessaria a nutrire, con cinque porzioni al giorno, 709 mila persone, cioè più della popolazione attuale di Sheffield (il 122%). Restando su un più realistico 10% dei giardini delle case, sommato a un altro 10% degli spazi verdi e agli orti urbani già attivi, si raggiungerebbe il 15% del fabbisogno locale, cioè si fornirebbero frutta e verdura a oltre 87 mila persone.


Gli orti urbani potrebbero fornire frutta e verdura al 15% della popolazione delle città, coprendo solo il 10% delle aree verdi disponibili

Ma c’è di più. I ricercatori hanno infatti preso in considerazione anche un’altra modalità facilmente applicabile: la coltivazione idroponica o acquaponica (che comprende anche l’allevamento di pesci in un sistema circolare), da installare sui tetti piatti utilizzando materiali riciclati come supporto, energia rinnovabile per il fabbisogno giornaliero e acqua piovana. A Sheffield ci sono 32 ettari di tetti piatti utilizzabili, pari a 0,5 metri quadri per persona, ma data l’alta resa di questi metodi di coltivazione potrebbero comunque avere un impatto significativo sulla produzione urbana. Per esempio, l’86% dei pomodori attualmente consumati in città è importato, ma se anche solo il 10% dei tetti ospitasse una coltivazione idroponica, si potrebbe rifornire di pomodori l’8% della popolazione, per una delle cinque porzioni giornaliere di frutta e verdura. Un numero che arriverebbe al 60% se fossero utilizzati tre quarti dei tetti disponibili.
Il Regno Unito produce in patria solo il 16% della frutta e il 53% della verdura che consuma, e sta cercando di incrementare la produzione locale non solo a causa della Brexit ma perché vuole essere meno esposta a fattori che possono influire sull’approvvigionamento come quelli climatici, alle malattie veicolate dagli alimenti e alle oscillazioni economiche del mercato globale. Per questo gli autori concludono che “combinando lo sfruttamento delle superfici disponibili con le attuali tecnologie potremmo creare delle Smart Food Cities nelle quali le contadini urbani supporterebbero le loro comunità fornendo cibo sicuro e fresco”.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

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Frutta e verdura arrivano nelle scuole, ma sono imballate nella plastica e tagliate a fette

















Se da un lato portare frutta e verdura nelle scuole al posto di snack e cibo spazzatura, è una bellissima iniziativa del ministero delle Politiche Agricole, dall’altro non possiamo ignorare che mele, pere, carote e tanto altro, vengono distribuite in un packaging che lascia a desiderare perché fatto di plastica. 

Mentre gli scienziati da tempo ci informano che se non riduciamo l’uso di plastica entro il 2050 in mare ci saranno più rifiuti che pesci, sui social mamme e papà, si scatenano dopo aver visto gli snack che vengono consegnati ai loro bambini che frequentano le scuole che hanno aderito al programma europeo “Frutta e verdura nelle Scuole”.
Il progetto, per il secondo anno consecutivo, è nobile e ha come obiettivo quello di “incoraggiare i bambini al consumo di frutta e verdura e sostenerli nella conquista di abitudini alimentari sane, diffondendo messaggi educativi sulla generazione di sprechi alimentari e sulla loro prevenzione”.
E fin qui, nulla da dire. Da tempo, noi promuoviamo frutta e verdura di stagione come alternativa a spuntini e merende dei nostri bambini, condannando snack con conservanti e coloranti, oltre che grassi di ogni tipo. Per questo l’iniziativa sta riscuotendo tantissimo successo e negli anni sono stati coinvolti 1 milione di alunni.
Se la scuola continua il lavoro fatto dalle famiglie a casa, non ci si può non aspettare un ottimo risultato. Ma se dal punto di vista della sicurezza alimentare, dell’insegnare ai bambini la stagionalità, nell’incentivare e promuovere la filiera italiana e la biodiversità, non abbiamo nulla da aggiungere, lo stesso non possiamo dire del piano della sostenibilità ambientale a livello di imballaggi.
La frutta e la verdura infatti sono distribuiti in sacchetti di plastica e molti nostri lettori ci hanno inviato delle foto che mostrano i prodotti a fette nella plastica. Ma se pensiamo per un attimo ai numeri che il progetto tocca, non possiamo non allarmarci su quanta plastica viene prodotta ogni anno.

Perché mettere la frutta nei sacchetti di plastica?

Tonnellate di plastica difficili da smaltire e che spesso poi, finiscono nell’ambiente distruggendo la biodiversità e uccidendo i nostri amici animali. Ma si può insegnare da una parte una corretta alimentazione e dall’altro non pensare al problema dell’inquinamento plastico? 
Lo scorso anno, greenMe.it aveva lanciato la campagna social #svestilafrutta proprio contro l'abuso degli imballaggi in plastica, perché anche all'epoca c'eravamo chiesti: ha senso confezionare frutta e verdura che già per natura, grazie alla buccia, hanno una loro protezione? 
Tornando alla campagna ministeriale, sul sito poi si parla di prodotti a filiera corta e km zero, ma questi prodotti non solo sono tagliati a fette, ma contengono antiossidanti per evitare che si rovinino prima del consumo. Ricordiamo che ogni anno vengono spesi 3,6 milioni di euro per portare frutta e verdura nelle nostre scuole, ma già dallo scorso anno le polemiche non sono mancate, adesso a ridosso di una nuova distribuzione, il dibattito è infuocato.
Allora ci chiediamo, questa bellissima iniziativa, piuttosto che prevedere frutta a fette imbustata e tagliata a pezzetti con rischio di contaminazione e muffa, non potrebbe essere distribuita senza packaging e soprattutto intera senza bisogno di antiossidanti?
fonte: www.greenme.it

Spreco alimentare, un terzo della frutta e verdura in Europa viene buttata. Allo studio metodi per ridurre le perdite e valorizzare gli scarti


















Ogni anno in Europa si sprecano 88 milioni di tonnellate di vegetali tra frutta e verdura, per un costo complessivo di 143 miliardi di euro. Ciascun cittadino europeo ne spreca 35,3 chili, 14,2 dei quali potrebbero essere tranquillamente mangiati. La situazione, dunque, non è affatto positiva anche se, per fortuna, c’è molto spazio per migliorare.
Questo, in sintesi, è il messaggio che emerge da uno studio appena pubblicato su Waste Management dal Direttorato delle risorse sostenibili della Commissione europea di Ispra. Nello specifico, le ricercatrici Serenella Sara, Valeria de Laurentiis e Sara Corrado hanno creato un modello per stimare lo spreco di 51 vegetali acquistati in sei paesi europei (Germania, Spagna, Danimarca, Olanda, Finlandia e Gran Bretagna) nel 2010, suddividendo poi i valori trovati in spreco evitabile (AW) e non evitabile (UW).
In base ai dati raccolti, ogni anno ciascun europeo produce 21,1 kg di sprechi non evitabili, per esempio provenienti dalle bucce dei vegetali, e 14,2 kg di sprechi che invece potrebbero essere scongiurati, associati soprattutto alla deperibilità dei prodotti e alle date di scadenza. In totale circa il 29% (pari appunto a 35,3 kg per persona) della frutta e della verdura acquistata in Europa viene buttato, ma almeno il 12% di questo patrimonio potrebbe essere consumato o utilizzato in altro modo.
Osservando i diversi tipi di alimenti, si nota poi che, per quanto riguarda la frutta, tra le fonti di rifiuti non evitabili le più rappresentate sono le banane (29%), seguite dalle mele (26%) e dalle arance (14%), mentre per le verdure, le patate sono le protagoniste assolute con il 36% del totale, seguite da piselli, cavoli, carote cetrioli e altri ortaggi, attorno al 10%. 
patate sbucciare preparare
Lo spreco non evitabile proviene in larga parte dalla buccia, dai semi e dai torsoli di frutta e verdura
Dal confronto della situazione nei diversi paesi emergono alcuni aspetti molto interessanti, perché non tutti gli europei si comportano allo stesso modo. Per esempio, nonostante in Gran Bretagna gli acquisti pro capite siano inferiori rispetto alla Germania, lo spreco non evitabile è praticamente uguale, mentre quello evitabile è superiore. Ciò significa che i cittadini britannici sono forse meno attenti tanto alla salute quanto al portafoglio, visto che sprecano di più pur acquistando di meno. In generale, risulta confermata la legge non scritta secondo la quale lo spreco tende a ridursi laddove i cittadini sono più istruiti e più benestanti, nonostante la quantità di frutta e verdura sia maggiore.
In che modo si può evitare che il cibo venga buttato? La risposta si trova nel Sustainable Development Goal (SDG) 12,3, che ha come obiettivo il dimezzamento dello spreco  da parte dei consumatori e  dei rivenditori entro il 2030. 
Tra gli strumenti individuati dalla Commissione i principali sono:
  • L’elaborazione, entro marzo 2019, di una metodologia comune a tutti gli stati membri per misurare in modo omogeneo e affidabile lo spreco di cibo.
  • L’utilizzo dello strumento chiamato EU Platform on Food Losses and Food Waste, attivo già dal 2016, che mette insieme le organizzazioni internazionali, gli organismi europei, gli stati membri e tutti gli attori della catena alimentare, uniti nello sforzo di individuare strategie efficaci per ridurre lo spreco, facilitare la cooperazione nel settore, analizzare l’efficacia delle misure adottate e condividere i risultati e le strategie.
  • L’adozione di linee guida europee per la donazione di cibo e la valorizzazione di tutto ciò che non può essere più utilizzato come alimento , ma che in molti casi può essere ancora impiegato nell’alimentazione animale (avendo ovviamente cura di farlo in sicurezza).
  • Il miglioramento delle diciture sulle etichettature, in particolare per quanto riguarda la data di scadenza.
Spremuta d arancia bucce pastazzo
Un gruppo di ricercatori ha realizzato un polimero per la conservazione alimentare a partire dallo scarto di crostacei, frutta e verdura
UN esempio di che cosa si potrebbe fare con il cibo sprecato in Europa, e non solo, è arrivato dai ricercatori del Georgia Institute of Technology statunitense, dove è stato realizzato un polimero che sfrutta scarti dei crostacei e di frutta e verdura. Il polimero ha una resistenza alla penetrazione dell’ossigeno fino al 67% superiore a quella del PET, il materiale derivato dal petrolio più usato nel confezionamento dei cibi e delle bevande, e potrebbe assicurare una vita più lunga a innumerevoli alimenti.
Come riferito su ACS Sustainable Chemistry and Engineering, il film del polimero è stato ricavato assemblando le nanofibre della chitina dei crostacei (ma anche degli insetti e di molte conchiglie), che sono cariche positivamente dal punto di vista elettrico, con i nanocristalli della cellulosa ricavata da vegetali, cariche negativamente, posizionati  in strati alternati. La tecnica usata ha permesso di ottenere un materiale molto resistente ai gas grazie alla sua struttura cristallina, molto più regolare e compatta rispetto a quella del PET, che presenta ampie zone amorfe o solo semi-cristalline.
Il processo va ottimizzato, soprattutto per quanto riguarda la produzione di grandi quantità di nanofibre di chitina su scala industriale, perché i costi sono ancora elevati rispetto al PET, ma quando ciò avverrà, le plastiche per alimenti derivate dal petrolio potrebbero avere un impiego minore e vista la diffusione delle plastiche per packaging nel settore alimentare, lo spreco non evitabile di vegetali potrebbe ridursi sensibilmente.
fonte: www.ilfattoalimentare.it