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Lo spreco di cibo a SuperQuark

 










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Utilizzare lo spreco di cibo per combattere la fame

In Pakistan tre studenti di economia hanno creato un sistema per salvare i più poveri dalla fame: utilizzare lo spreco di cibo che raccolgono e distribuirlo grazie ai sociale media e a un apposito modello di business sostenibile



Huzaifa Ahmad è uno studente della Lahore University of Management Sciences-LUMS in Pakistan. È cresciuto vedendo che ogni giorno la madre accoglieva in casa i poveri e li sfamava con quello che aveva cucinato. Un giorno riflette sul paradosso di avere gente affamata da una parte e gente che butta il cibo dall’altra, ne parla con i suoi amici Qasim Javid Khan e Musa Aamir e decidono di passare all’azione. Il primo passo – spiega Brendan O’MalleyFonte su University World News – è stato creare una pagina Facebook postando una richiesta: «Chi ha cibo in eccesso ci contatti». Il post è diventato virale in un baleno, il problema era dove portare il cibo e come conservarlo. Il caso ha voluto che nella LUMS ci fosse un incubatore di imprese sociali, il Social Innovation Lab-SIL.

Il difetto del modello di beneficenza è quello di affidarsi a un leader carismatico, bisogna invece dargli una struttura affinché possa durare oltre l’impegno della singola persona. È quello che il SIL ha spiegato ai tre ragazzi, insegnando loro come affrontare in modo strutturato il problema della fame, dell’insicurezza alimentare e dello spreco alimentare. A quel punto si è cominciato a pensare in termini di sostenibilità, di modelli di business, di marketing. Ad esempio, perché raccogliere il cibo solo il sabato e la domenica? Huzaifa, Qasim e Musa dovevano sviluppare un modello che non facesse affidamento solo su di loro ma funzionasse anche quando erano al college e hanno dato un nome al progetto: Rizq, che in arabo significa provviste.

Il tam tam sui social media

Il primo “collaboratore” importante è stato un ristorante di Lahore che ha fornito loro il cibo in eccesso anziché buttarlo. L’esempio, divulgato sui social media, è stato seguito da molti, tanto da rendere necessario l’acquisto di un furgone – riconoscibile dallo slogan “Non sprecare, condividi il cibo” – per il recupero e la consegna del cibo ai più poveri di Lahore.

Forti degli studi in economia, i ragazzi hanno cominciato a mappare le aree di povertà della città e quelle dove invece è possibile reperire cibo in eccesso. Studiando i modelli globali e le reti di banche alimentari si sono resi conto che in Pakistan non ce n’erano, allora hanno creato il primo banco alimentare nella comunità dove portavano il cibo recuperato. Poi è seguito un programma per le mense scolastiche in zone svantaggiate e un altro per identificare le famiglie in difficoltà e procurare loro scorte di cibo a metà prezzo. La sostenibilità economica è arrivata addebitando un costo ai ristoranti (liberarli delle eccedenze significa liberarli dei rifiuti, quindi è un servizio) e alle ONG che distribuiscono il cibo a 1.200 famiglie ogni mese.

Cambiare i giovani per cambiare la società

Il Covid-19 ha dato una spinta ulteriore al progetto, che ha acquisito una dimensione nazionale è si è diffuso in altre città del Pakistan. Tanto impegno contro lo spreco alimentare e la fame è stato premiato dalla regina Elisabetta II con il Commonwealth Points of Light Award. I passi successivi sono stati la creazione di prodotti con il marchio “Love Does Feed”, il cui ricavato delle vendite viene reinvestito in Rizq, e la campagna “Stars Against Hunger”: le star dello sport mettono in vendita i loro abiti firmati per finanziare i progetti contro la fame.

Il successo di Rizq è stato immediato tra i giovani, anche grazie alla diffusione nelle università e attraverso i social media, e può contare su circa 10.000 volontari. I tre ragazzi ritengono che trasmettere ai giovani messaggi positivi di solidarietà sociale sia il primo passo per cambiare le comunità e poi la società.

Huzaifa, Qasim e Musa intendono seguire un modello di economia circolare e rigenerativa – ripresa anche da Talloires Network of Engaged Universities (un’associazione internazionale che promuove l’impegno civile nell’istruzione superiore) – convinti che anche le università possano agire per il cambiamento sociale.

fonte: www.rinnovabili.it


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Studio: le città hanno un ruolo chiave nella battaglia contro lo spreco alimentare

Un nuovo studio, realizzato con la collaborazione della Fondazione CMCC, mette in luce il ruolo decisivo delle città nella lotta agli sprechi alimentari. Un metodo specifico valuterà le politiche e le iniziative sullo spreco alimentare urbano applicabile a qualsiasi città





















Le città si stanno affermando come attori chiave nella lotta allo spreco alimentare: qui si concentra ormai oltre la metà della popolazione mondiale, dato che i centri urbani occupano oggi circa il 3% della superficie terrestre e che per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione urbana ha superato quella rurale e vi viene consumato tra il 70% e l’80% delle risorse alimentari prodotte; è sempre qui che si stanno sperimentando tutta una serie di azioni per rendere più sostenibile il sistema alimentare. Dall’esame di 40 città europee in 16 diversi Paesi, uno studio pubblicato di recente sulla rivista Resources - Special issue Food Loss and Waste: The Challenge of a Sustainable Management through a Circular Economy Perspective presenta una nuova metodologia per valutare le politiche e le iniziative delle città per la lotta allo spreco alimentare.

Attraverso un’analisi della letteratura del settore, gli autori dello studio hanno cercato di delineare una mappa di quelle che sono le iniziative a livello urbano per la lotta allo spreco alimentare. Sono inoltre andati a vedere quale fosse la loro relazione con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, evidenziando il ruolo fondamentale che le città possono avere per il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Lo studio ha evidenziato la grande molteplicità di politiche e di attori coinvolti nella lotta allo spreco alimentare, uno specchio interessante, più in generale, delle azioni sul sistema alimentare: molte delle politiche implementate sono finalizzate a fornire informazioni corrette ai cittadini e ad accrescere la loro consapevolezza (campagne e azioni di sensibilizzazione), altre sono politiche basate su strumenti del mercato, come ad esempio incentivi fiscali, o politiche regolatorie, che stabiliscono degli obiettivi da raggiungere. Ci sono poi le cosiddette iniziative di nudging, interventi che vogliono andare, in maniera non coercitiva, a influenzare l’adozione di determinati comportamenti ritenuti di valore positivo per la società. L’analisi mette in luce anche come molte città (in Italia, Bari, Bologna, Milano, Torino, Genova, Venezia e Cremona, con iniziative sia pubbliche che private) stiano utilizzando la lotta allo spreco per andare ad alleviare la povertà alimentare e l’esclusione sociale delle fasce più vulnerabili della popolazione, per esempio attraverso sistemi di donazione delle eccedenze di cibo, o la creazione di nuove opportunità di lavoro nell’economia circolare.

Lo spreco, un quadro generale

Lo spreco alimentare è, in effetti, uno dei problemi più urgenti legato alla produzione del cibo: l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura (FAO) stima che più di un terzo del cibo sia perso o sprecato lungo l’intera catena di produzione del cibo. Se si considerano gli impatti sull’ambiente, lo spreco alimentare rappresenta fino al 10% delle emissioni globali di gas serra, mentre l’impronta idrica annuale della fase agricola dello spreco alimentare è di 250 km3, pari a cinque volte il volume del lago di Garda e più alta di qualsiasi impronta idrica nazionale legata ai consumi alimentari. Il rapporto Speciale dell’IPCC Climate Change and Land (2018) stima che fino al 37% delle emissioni globali totali siano attribuibili al sistema alimentare considerato nel suo complesso, dalla produzione fino al consumo e allo spreco. In Europa, con 88 milioni di tonnellate di cibo sprecato ogni anno (pari a 173 kg a testa) si stima inoltre che il 15% degli impatti totali sull’ambiente della catena di produzione del cibo siano attribuibili proprio agli sprechi alimentari.

“La gestione dello spreco alimentare è una sfida complessa”, spiega Marta Antonelli, senior scientist presso la Fondazione CMCC e Direttore Ricerca di Fondazione Barilla, “e le città possono andare a incidere direttamente su tanti settori o elementi del sistema alimentare urbano, che poi determinano le dimensioni della sicurezza alimentare per i cittadini. Come? Attraverso l’azione sui mercati rionali, le mense scolastiche, le mense caritatevoli, gli incentivi per ridurre gli sprechi, etc. La città di Milano, per esempio, ha ridotto la tassa sui rifiuti a chi dimezzava i propri livelli di spreco alimentare, e si è impegnata con tutta una serie di azioni, fra cui questo tipo di incentivi, a dimezzare lo spreco alimentare entro il 2030.” “La lotta allo spreco alimentare è una di quelle azioni che definiscono un sistema alimentare urbano integrato”, sottolinea Marta Antonelli. “Se andassimo a vedere le azioni che i diversi comuni italiani hanno intrapreso sul sistema alimentare, vedremmo che le azioni sono molteplici; quello che è ancora raro è avere una gestione integrata, cioè che guardi veramente al cibo dal campo alla tavola, fino alla gestione del rifiuto, in maniera integrata, multisettoriale, e di conseguenza anche multi-attoriale. In molte città si assiste adesso alla nascita di nuovi organismi di supporto, i cosiddetti “Food Policy Council”, esperienze partecipative, bottom up e multi-attoriali, che hanno avuto un ruolo importante anche nel creare quelle reti di advocacy che hanno richiesto al sistema istituzionale locale un approccio al cibo diverso, più sostenibile e integrato.”

Lo studio sottolinea l’importanza di fornire alle istituzioni cittadine strumenti efficaci per raccogliere dati sui livelli di spreco alimentare urbano, per valutare anche quantitativamente l’entità del problema e l’efficacia delle politiche messe in atto. Al momento, le lacune in fatto di metriche e dati sono notevoli. “È essenziale infine - conclude Antonelli - che le politiche messe in campo dalle città per la lotta allo spreco alimentare siano in linea con gli obiettivi definiti dall’Agenda 2030. Nel nostro studio, abbiamo visto che i legami con gli obiettivi di sviluppo sostenibile erano molteplici, ma che solo in pochissimi casi (Cremona, Liège, Milano e Montpellier) il riferimento era esplicito e diretto. Raramente le città usano gli obiettivi di sviluppo sostenibile come cornice politica di riferimento, e questo rende difficile una valutazione dell’impatto dei loro interventi sull’agenda della sostenibilità. Le città sono attive in tanti ambiti diversi del sistema alimentare, ma spesso manca una visione integrata, che metta in luce il fatto che se agisco sullo spreco alimentare posso anche indirizzare e intercettare altri obiettivi, come quelli di produzione agricola, attraverso una gestione circolare, o lavorare sull’esclusione socio-economica e sulla povertà alimentare. In questo senso la strategia “Farm to Fork” rappresenta il primo passo a livello europeo e internazionale per mettere sullo stesso piano aspetti del sistema alimentare che finora erano sempre stati trattati separatamente, partendo per esempio dal mettere sullo stesso piano salute umana e sostenibilità.”
L’analisi descritta nello studio potrà essere facilmente replicata e applicata ad altri contesti, anche non europei, e in futuro potrebbe essere utilizzata dalle città di quei Paesi in via di sviluppo che stanno iniziando adesso ad affrontare simili sfide.

Leggi la versione integrale dello studio:
Urban Food Waste: A Framework to Analyse Policies and Initiatives

fonte: www.e-gazette.it/

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Babaco Market: ecco come evitare spreco di frutta e verdura

















Evitare lo spreco facendo ricorso alla tecnologia, dando una mano ai piccoli agricoltori. Una frontiera sempre più esplorata e preziosa nell'ottica dei progetti di sviluppo sostenibile e di economia circolare. Così è nata Babaco Market, l’ultima creazione in casa MyFoody, start up impegnata ormai da un paio d’anni nel recupero delle eccedenze alimentari prossime alla scadenza. Babaco è un delivery antispreco di frutta e verdura che consegna a casa tutti quei prodotti che andrebbero gettati per piccoli difetti di buccia o con forme e misure più piccole del solito che non vengono accettati dai canali tradizionali, come i supermercati.

Come funziona il servizio antispreco



Il meccanismo per ordinare è semplice: si puoi scegliere tra la Bonsai Box, 6 kg di prodotti a 19 euro o la Jungle Box, 10 kg a 27 euro (consegna 1.90 euro), con un risparmio del 30% circa sul prezzo normale di quei generi: ogni box contiene almeno 8/10 tipi di frutta o verdura fresche, imballate senza l’utilizzo di plastica a favore di materiali riciclabili ed eco-sostenibili. Al momento dell’iscrizione si può scegliere fra un abbonamento settimanale o quindicinale e nell’eventualità disdirlo liberamente quando si vuole. Già di per sé progetto interessante, a valorizzare la mission di MyFoody è la provenienza dei prodotti: i babaco box contengono esclusivamente frutta e verdura di stagione acquistata da agricoltori attenti alla qualità e agli standard di coltivazione e piccoli produttori italiani.

Una mano ai piccoli agricoltori


Nella selezione dei fornitori, infatti, Babaco preferisce i piccoli coltivatori o comunque chi si impegna a preservare, attraverso il proprio lavoro, le specificità del proprio territorio. Per questo potreste avere la fortuna di trovare nelle box prodotti unici provenienti anche da presidi Slow Food. Il servizio è attualmente attivo solo a Milano ma l’intenzione è di renderlo esteso al resto d’Italia. I prodotti rimasti invenduti dalle babaco box saranno devoluti a Recup, associazione charity che combatte lo spreco alimentare e l’esclusione sociale redistribuendo i prodotti attraverso la rete dei mercati rionali.

fonte: https://www.impakter.it


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Sprechi alimentari, ecco come ridurli con l’intelligenza artificiale

La Pmi bolognese sfrutta le capacità degli algoritmi predittivi per aiutare le aziende a ottimizzare la gestione delle risorse



Ridurre i prodotti freschi invenduti e limitare il pericolo di “out of stock”: quale operatore del food non vorrebbe perseguire un obiettivo simile? Il problema degli sprechi è un problema di fondo che accumuna tutti gli attori del grocery. Efficienza ed organizzazione dei processi spesso non bastano in fase di produzione e di gestione del magazzino, e allora possono entrare in gioco le ultime frontiere della tecnologia.

Gli algoritmi predittivi, in particolare, sono la specialità di Hopenly, Pmi innovativa bolognese (è stata fondata nel 2014) la cui peculiarità è per l'appunto quella di sfruttare le capacità dell'intelligenza artificiale per raccogliere ed elaborare numeri e di aiutare le aziende (di qualsiasi industria, dalle banche all'alimentare) a leggere i dati e a trasformarli in azioni.

Come? Incrociando le informazioni disponibili con una serie di altre variabili (gli acquisti online per esempio) e superando il limite della classica statistica basata solo su serie storiche. E se parlare di margini di errore azzerati nelle previsioni è eccessivo, la tecnologia aiuta sicuramente a riordinare e semplificare i dati per prendere decisioni più oculate, ad automatizzare le operazioni manuali e a liberare di conseguenza risorse (il personale interviene solo per gestire gli imprevisti, in positivo o in negativo) per attività a maggior valore aggiunto.

«Crediamo che l'intelligenza artificiale – spiega Barbara Vecchi, founder e ceo di Hopenly – possa aiutare manager e imprenditori ad eliminare gli sprechi e ad alleggerire il magazzino, limitando i costi di produzione inutili. I modelli basati su algoritmi permettono infatti di anticipare i trend di domanda futuri e consentono un deciso vantaggio competitivo, tanto più in un contesto dove la concorrenza sarà sempre più agguerrita. Per i prodotti freschi, in particolare, il ridotto tempo a disposizione per la vendita limita anche la pianificazione di promozioni e sconti».


Il ceo di Hopenly Barbara Vecchi con il Cto della società

La tecnologia digitale, insomma, può fare davvero la differenza e quando si tratta di grandi numeri il rischio del tutto esaurito a scaffale (o di un eccesso di produzione e quindi di un possibile spreco) può essere molto impattante.

Un esempio? Una storica azienda italiana del settore alimentare, affidandosi ad Hopenly, ha ridotto in un anno l'invenduto di prodotti freschi per 170mila euro (il 2,6% del fatturato) e ha mantenuto il magazzino di merce non fresca sotto i 100mila euro, per un risparmio totale di circa 300mila euro. L'investimento per realizzare un modello automatizzato di previsione della produzione, come conferma Vecchi al Sole24ore.com – «è stato di 40mila euro e il fulcro del progetto, realizzato a inizio 2019 e ancora in fase di sviluppo, è quello di testare una nuova tecnologia a supporto della pianificazione. Per farlo abbiamo dotato l'azienda di un algoritmo in grado di offrire su base settimanale una stima delle vendite delle future 4-5 settimane comparando parametri quali lo storico degli ultimi tre anni, le festività, le promozioni e la stagionalità».

La ricetta per offrire al mondo alimentare soluzioni di questo tipo è tutto sommato semplice. «Lavoriamo sempre su algoritmi e librerie open source – assicura in proposito la founder di Hopenly – perché nella data science il software libero offre tutta la trasparenza di ciò che facciamo. Studiamo quindi costantemente i lavori di sviluppatori e ricercatori di tutto il mondo e assembliamo gli algoritmi per creare un modello ad hoc per le necessità del cliente e del suo dato. Più si scende in profondità e più si viene in possesso di informazioni su cui allenare gli algoritmi, e per evitare il rischio di avere dati viziati dai mutamenti del mercato, effettuiamo un'analisi di contesto dettata dall'esperienza».

La replicabilità di questo modello, al netto di piccoli adattamenti o di un nuovo algoritmo più performante, è uno dei suoi punti forza, per quanto le aziende possiedano spesso molteplici fonti dati (e quindi differenti software e database) o necessitino di variabili che arrivano da altre sorgenti (dati meteo di altre regioni, festività come i patroni o i flussi turistici). E senza dimenticare che fra prodotti freschi e beni durevoli c'è molta differenza: «Sono due mondi apparentemente simili ma che richiedono modelli diversi perché diverso è il contesto e le sue dinamiche di acquisto».
Il messaggio di fondo, però, non cambia: l'intelligenza artificiale può dare un contributo enorme alla gestione della supply chain alimentare. E i numeri (anzi i dati) lo dimostrano.

fonte: https://www.ilsole24ore.com



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Indagine spreco alimentare, il 77% delle famiglie ha buttato del cibo


















L’Osservatorio sulle eccedenze, recuperi e sprechi alimentari del CREA ha realizzato una indagine con dati provenienti da diversi paesi europei. Oltre all'Italia, Olanda, Spagna, Germania e Ungheria.
Lo studio, effettuato nel 2018, ha interessato 1.142 famiglie rappresentative della popolazione italiana, coinvolgendo i responsabili degli acquisti alimentari e della preparazione dei pasti. Il campione è stato selezionato nel rispetto di genere, età, livello di istruzione e reddito e per dimensione della famiglia.
Ne è emerso che il 77% delle famiglie intervistate ha gettato via del cibo nella settimana precedente all’indagine, percentuale che si riduce con l’aumentare dell’età del responsabile acquisti, con il diminuire del reddito e in famiglie che vivono al sud e isole. Lo spreco maggiore si è riscontrato nelle famiglie monocomponenti e nei segmenti di età più giovane. I prodotti alimentari più sprecati sono verdura, frutta fresca e pane, seguiti da pasta, patate, uova, budini, derivati del latte (yogurt, formaggi), per un totale in media di 370 g/settimana/famiglia. Il dato italiano sullo spreco alimentare è allineato con quello olandese (365 g/settimana) e molto inferiore a quello spagnolo (534 g/settimana), tedesco (534 g/settimana) e ungherese (464 g/settimana).
E' vero anche che più della metà del campione intervistato condanna fermamente la pratica di gettare via il cibo, riconoscendone l’impatto negativo e le ricadute in diversi ambiti: economico (70%), sociale (conseguenze su disponibilità di cibo nel mondo, 59%) e ambientale (55%).
Le famiglie italiane, infine, si dichiarano capaci di gestire le attività in cucina, fattore di rilevante prevenzione: circa due terzi degli intervistati, infatti, dichiara di pianificare gli acquisti e di non fare acquisti di impulso, meno di un quinto afferma di non saper riutilizzare gli avanzi o pianificare le giuste quantità di alimenti da acquistare e solo il 5% sostiene di non finire quello che nel piatto e di non conservare gli avanzi. Tuttavia solo il 42% decide in anticipo i menù settimanali.
«Quello a cui siamo assistendo – ha dichiarato Laura Rossi, coordinatore dell’Osservatorio e ricercatrice del CREA Alimenti e Nutrizione – è un vero e proprio cambio di passo per lo spreco alimentare, inteso come tassello fondamentale dello sviluppo sostenibile. Dalle istituzioni internazionali e nazionali, dagli operatori economici e sociali, dai banchi alimentari e perfino da semplici cittadini, che ridistribuiscono a livello territoriale le eccedenze alimentari agli indigenti, arrivano segnali forti di una crescente sensibilità su questi temi: normative specifiche, progetti educativi mirati e nuove modalità di gestione dei prodotti alimentari sia nelle aziende che a casa».
fonte: www.oggigreen.it

Illuminazione pubblica, l’Italia spreca

L’Italia è uno dei Paesi più luminosi del continente e non bada a spese. Tanto che il consumo di energia elettrica pro capite per l'illuminazione pubblica è il doppio di quello della media europea, e quasi il triplo di quello della Germania. E le province più povere sprecano più corrente delle altre











L’Italia è uno dei Paesi più luminosi del continente e non bada a spese. Tanto che il consumo di energia elettrica pro capite per l'illuminazione pubblica è il doppio di quello della media europea, e quasi il triplo di quello della Germania. Addirittura, le province che vivono nelle peggiori condizioni economiche sprecano più corrente delle altre. A darne notizia è stato l’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano, diretto da Carlo Cottarelli, sulla base di un lavoro a cura di Fabio Falchi e di Riccardo Furgoni, pubblicato sul Journal of Environmental Management.
Lo studio confronta i consumi per illuminazione pubblica tra l’Italia e gli altri paesi europei. Due mappe mostrano i flussi luminosi sprecati, quelli cioè diretti verso il cielo, di nessuna utilità per i cittadini, ma che incentivano l’inquinamento luminoso. Se consideriamo i flussi luminosi rilevati da satellite di ogni provincia europea, in rapporto alla popolazione, i Paesi in cui la quantità di luce sprecata pro capite è più elevata sono Portogallo, Spagna e Italia. I paesi più virtuosi sono invece quelli dell’Europa centrale e orientale. Lo stesso vale per i flussi di luce rapportati al prodotto interno lordo. Anche in questo caso, Portogallo, Spagna e Italia sono i paesi meno virtuosi, a differenza dei paesi del Centro Europa e dell’Europa dell’Est.
L’analisi poi mette a confronto le province italiane con quelle degli altri paesi europei, ordinando 1359 province europee, secondo i flussi di luce pro capite, dalla più virtuosa alla più sprecona. Nel primo 40% della graduatoria nemmeno l’ombra di una provincia italiana: bisogna arrivare alla 567esima riga per trovare Napoli, seguita da Bolzano (578esima) e da Genova (660esima). Tutte le altre nostre province stanno nella seconda metà della classifica e ben 58 province italiane su 110 (il 53%) sono nell’ultimo 20 per cento della classifica europea. Tra le più luminose: Olbia-Tempio (1305esima), L’Aquila (1263esima) e Aosta (1262esima).
“La paura del buio costringe gli italiani a spendere oltre il triplo di quello che spendono i tedeschi” dichiara il fisico Fabio Falchi. “Le persone pensano che sia sufficiente illuminare un luogo per renderlo sicuro. Abbiamo città 10 volte più illuminate rispetto a cinquant’anni fa però i crimini e gli incidenti si verificano sempre. Basterebbe optare per un’atmosfera un po’ più “romantica” nei nostri centri storici, in modo, tra l’altro, da non rovinarne l’atmosfera con luci abbaglianti e di tonalità fredde, spettrali. Si otterrebbe un vantaggio per le casse dello Stato e per il nostro comfort visivo. Il nostro occhio infatti quando è sottoposto a sbalzi di luce, da una via molto illuminata ad una buia, non riesce ad adattarsi velocemente al cambiamento.”
Spendiamo troppo e male. L’Osservatorio sui conti pubblici italiani, in una nota del 21 maggio 2018, ha messo in evidenza che il Belpaese, nel 2017, ha utilizzato 6.000 GWh, con un consumo pro capite di 100 kWh, e che i costi sostenuti per illuminazione pubblica italiana ammontano a 1,7 miliardi di euro, pari a 28,7 euro pro capite rispetto a una media di 16,8 euro dei principali paesi europei. Altra curiosità che emerge dalla nota è che nell’ultimo decennio il consumo è rimasto sostanzialmente stabile.
“Si potrebbe risparmiare diverse centinaia di milioni l’anno sprecando meno illuminazione pubblica senza spegnere la luce nelle strade dove circolano le persone” dichiara Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio dei conti pubblici. “Servono impianti migliori e occorre non illuminare dove non è necessario. Aiuterebbe anche a ridurre l’inquinamento luminoso”
Il risparmio potenziale, stimato nelle Proposte per una Revisione della Spesa Pubblica del marzo 2014, era di circa 300 milioni da realizzare in tre anni. E le misure previste erano distinte tra misure di breve e di medio periodo. Le prime avrebbero consentito di generare risparmi a costo zero, ma nessuna di queste è stata adottata. Le seconde, invece, consistevano nella sostituzione di impianti di illuminazione inefficienti e nel passaggio a illuminazione a LED. In effetti, il passaggio a LED è avvenuto in molti comuni, ma presenta importanti criticità legate ai criteri ambientali adottati. “Quasi tutti i led usati fino ad ora” spiega Falchi “hanno un elevatissimo contenuto di luce blu che inquina di più perché si diffonde facilmente nell’atmosfera, e influisce sui nostri ritmi circadiani. La soluzione è utilizzare i led a luce bianco calda o luce ambrata. La tecnologia moderna ci consente anche di regolare la luce con sensori di movimento.”
Attraverso queste misure l’Osservatorio ha stimato che i consumi pro capite italiani potrebbero essere ridotti nel medio-lungo periodo del 50%. E non sarebbe una novità in Europa. La Germania ne è un esempio: tra il 2007 e il 2016 ha ridotto la spesa pro capite del 53%. 
In Italia il consumo di energia elettrica pro capite per l'illuminazione pubblica nel 2017 è stato il doppio di quello della media europea. La spesa complessiva per illuminazione pubblica è di 1,7 miliardi di euro, pari a 28,7 euro pro capite rispetto a una media di 16,8 euro dei principali paesi europei. Alcune misure di efficientamento potrebbero generare un risparmio notevole senza creare disagi alla collettività, realizzando un importante contenimento della spesa e una forte riduzione dell’inquinamento luminoso.

fonte: www.lastampa.it

Troppo di tutto

INUTILE SCIUPO.

Mentre 2,7 milioni di italiani chiedono aiuto per mangiare, in famiglia si gettano
12 miliardi in alimenti, la grande distribuzione ne brucia 3. Nel mondo il 30% finisce nella spazzatura



In un mondo in cui 800 milioni di persone non hanno cibo e in cui nel 2050, per sfamare
9 miliardi, dovremo produrre il 70% in più di alimenti, un terzo della produzione globale
di cibo viene sprecata, tra cibo perso durante la produzione e quello letteralmente
gettato nel secchio. Metà della frutta e degli ortaggi, il 25% della carne – equivalente
a 75 milioni di mucche – il 35% del pesce, il 20% dei prodotti lattiero-caseari.
1,3 miliardi di tonnellate di cibo, 1,6 se si considera la parte non edibile degli alimenti,
secondo i dati 2019 della Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition.
E purtroppo lo spreco è destinato ad aumentare del 61,5% entro il 2030, con un allontanamento dall’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo sostenibile, che prevede per
quella data il dimezzamento dello spreco attuale. La differenza tra paesi è scioccante:
si sprecano 95-115 kg di cibo procapite all’anno in Europa e in America, contro i 6-11 kg
nell ’Africa sub-Sahariana e del Sud-est asiatico.
UN TERZO di cibo sprecato, purtroppo, significa anche acqua buttata - 250.000 miliardi
di litri, tre volte il lago di Ginevra - Significa suolo consumato invano - 1,4 miliardi
di ettari, il 30% della superficie agricola disponibile - E ancora, soldi sprecati: secondo
uno studio pubblicato dalla Fao, Food Wastage Footprint – full cost accounting, i
costi vivi e nascosti ammonterebbero a 2.600 miliardi di dollari, di cui 700 miliardi di
costi ambientali e 900 sociali.
Gettare cibo non è più solo un enorme problema morale, ma anche ambientale, perché
aggrava il riscaldamento globale Lo spiegano bene sia il rapporto “Combattere spreco
e perdite alimentari, la chiave per tutelare l’ambiente”, dell’Istituto superiore
per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra), sia l’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) su "Cambiamento climatico e territorio": allo spreco alimentare sono associate emissioni di gas serra per circa 3,3 miliardi di tonnellate, pari a circa l’8% delle emissioni totali (se fosse una nazione, lo spreco alimentare sarebbe al terzo posto come paese emettitore dopo Cina e Usa). Tra l’altro, i cambiamenti climatici aggravano le perdite da filiera, visto che eventi avversi possono distruggere interi raccolti.
In Italia, dove 2,7 milioni di persone sono costrette a chiedere aiuto per il cibo, lo
spreco ammonta a 15 miliardi di euro, quasi un punto di Pil, di cui oltre 3 miliardi è lo spreco da filiera (il 21,1%) e quasi 12 lo spreco familiare, il più grave e più difficile da aggredire (Rapporto Waste Watcher/Last Minute Market 2019). Infatti, sul fronte degli
sprechi della grande distribuzione – ipermercati e supermercati – moltissimo si è
fatto, grazie anche alla legge Gadda 166 del 2016, che ha stabilito che gli operatori del
settore alimentare possano cedere gratuitamente le eccedenze alimentari ad associazioni
e istituzioni caritatevoli.
Pur senza arrivare all’obbligo francese (la Francia è tra le più virtuose, insieme
al Ruanda e alla Colombia), la legge ha prodotto un aumento delle donazioni del
36% al 2018, secondo il Banco Alimentare, protagonista in Italia nel recupero dello spreco
90.000 sono state le tonnellate di alimenti recuperati nel 2018 e donati a circa 7.569
strutture caritative, arrivando ad aiutare 1,5 milioni di persone bisognose, con un risparmio di 13 milioni di tonnellate di Co2. “La sensibilità generale di tutti gli attori della
filiera con i quali noi collaboriamo è aumentata - spiega Giovanni Bruno, Presidente
della Fondazione Banco Alimentare - ma ad oggi dobbiamo tenere conto del fatto che non tutte le strutture caritative con noi convenzionate sono dotate di celle frigorifere adatte a gestire alimenti deperibili”. Un altro intervento che potrebbe ridurre significativamente lo spreco è quello nelle scuole, che, come spiega sempre Bruno, dovrebbero essere
dotate di un abbattitore, “che fa scendere le temperature in un tempo brevissimo, impedendo la proliferazione batterica del cibo”. L’obiettivo, però, è ancora lontano. Più facile da attuare subito, invece, è una robusta educazione alimentare, sia in casa che a
scuola. È l’ambito in cui lavora da anni la società Last Minute Market, presieduta dal
professor Andrea Segré, attraverso la campagna “Spreco Zero”, che ha appena lanciato
un kit, scaricabile, di buone pratiche per le scuole, nelle cui mense si perdono 90
grammi di cibo a pasto per studente.
COME SPIEGA nel libro Il metodo spreco zero(Bur), le azioni per ridurre lo spreco sono
tantissime, dal compilare liste precise prima di comprare, all’effettuare acquisti ridotti
e ripetuti, dal consultare le etichette (ricordando che la data associata all’indicazione
“consumare preferibilmente il”non è una scadenza) al chiedere la famosa doggy bag con gli avanzi al ristorante.
“Con un po’ di impegno si può arrivare ad avere il bidone della spazzatura senza
nessuno spreco, risparmiando 450 euro l’anno”, precisa Segré, che suggerisce anche
di non acquistare prodotti espressivamente sottocosto.
Ma le pratiche che abbattono lo spreco sono, per fortuna, sempre più diffuse: alcune
in arrivo – l’industria produrrà confezioni che aumentino la shelf life, la vita da
scaffale, del prodotto, mentre si discute di differire la scadenza del latte – altre invece
già attive. Come i frigoriferi condivisi in strada in cui i ristoranti mettono le eccedenze,
diffusissimi ad esempio a Shanghai (dove hanno raggiunto 230.000 famiglie). E
poi app utili come Too Good To Go, che segnalano i ristoranti più vicini presso cui ritirare
cibo cucinato a pochi euro. Il digitale, infine, è stato fondamentale anche per il
progetto di un Banco Alimentare virtuale – Virtual Food Network - avviato da Red de
Alimentos Chile: una piattaforma che mette in connessione chi produce eccedenze
con i vari Banchi Alimentari. Con la rete, davvero, lo spreco non dovrebbe avere più ragion d’essere.

fonte: www.ilfattoquotidiano.it

Too Good To Go, arriva l’app contro lo spreco alimentare

Una app per combattere lo spreco alimentare ed evitare che cibo ancora buono finisca nella spazzatura: come funziona e quali sono i vantaggi.







Una app per combattere lo spreco alimentare. Si chiama Too Good To Go e punta a permettere di evitare che alimenti ancora buoni per il consumo finiscano nella spazzatura. Dopo il debutto nel 2015 in Danimarca ed essere arrivata a servire in totale 9 Paesi in Europa, l’applicazione ha raccolto oltre 8 milioni di utenti e permette loro di comprare a prezzi ribassati il cibo invenduto “troppo buono per essere buttato” di bar, ristoranti, pasticcerie, forni, hotel e supermercati.
L’app Too Good To Go è disponibile sia per dispositivi iOS che Android tramite le piattaforme App Store e Google Play. Il meccanismo è semplice: i commercianti e i ristoratori possono iscriversi al servizio e mettere in vendita a prezzi minimi le cosiddette Magic Box, confezioni speciali composte da prodotti risultati invenduti a fine giornata e per legge non vendibili il giorno successivo.
Si tratta di pacchi dal costo compreso tra i 2 e i 6 euro, che gli utenti potranno acquistare presso i locali aderenti all’iniziativa. Una volta pagato il prezzo basterà andare a ritirare la propria “Magic Box” nella fascia oraria indicata per scoprire cosa c’è all’interno. Oltre a contrastare lo spreco alimentare tutto ciò permetterà di risparmiare all’ambiente 2 kg di CO2 e, grazie all’invito a portare con sé le proprie borse o contenitori, di limitare l’utilizzo di imballaggi. Come ha dichiarato Eugenio Sapora, Country Manager di Too Good To Go per l’Italia:
Il nostro obiettivo è creare la più grande rete antispreco in Italia: ad oggi sono state oltre 11 milioni le Magic Box acquistate in Europa, il che ha permesso a livello ambientale di evitare l’emissione di più di quasi 23 milioni di tonnellate di CO2. Punto di partenza è Milano, dove hanno già aderito numerosi ristoratori, bar e pasticcerie.
Tra i primi ad aderire all’iniziativa i ristoranti biologici EXKi e i punti vendita Carrefour Italia, mentre Eataly prende parte con un progetto pilota dedicato presso la sede di Milano Smeraldo. A commento dell’iniziativa è intervenuto Alfio Fontana, responsabile CSR Carrefour Italia:
La lotta allo spreco alimentare è da sempre al centro di numerose iniziative concrete, promosse a livello mondiale da Carrefour Gruppo nella strategia della Transizione Alimentare. Fondamentale è che sempre più persone siano consapevoli dell’importanza della riduzione degli sprechi, oltre che di una corretta alimentazione. È importante inoltre il coinvolgimento di tutti gli stakeholder, con particolare attenzione ai nostri clienti. La proposta di soluzioni pratiche come l’app Too Good To Go consente di accelerare il raggiungimento dell’obiettivo di riduzione dello spreco alimentare, esigenza non solo sociale, ma anche ambientale.


A Milano le Magic Box verranno preparate anche da to.market, mentre faranno parte dell’offerta anche i Tramezzini Veneziani di Tramè e i prodotti del micropanificio artigianale Le Polveri. Ha concluso Mette Lykke, CEO Too Good To Go:
Too Good To Go è nato dalla semplice intenzione di risolvere il problema quotidiano dello spreco di cibo, che ha delle ripercussioni importanti dal punto di vista sociale, economico e ambientale. L’app offre a ciascuno di noi l’opportunità di impegnarsi nella lotta agli sprechi, permettendo ai ristoratori di conquistare nuovi clienti e ai consumatori di provare nuovi prodotti a prezzi minimi.
fonte: https://www.greenstyle.it

Nasce a #Milano , il primo quartiere dedicato allo #sprecoalimentare e alla donazione del #cibo.


















Nasce a #Milano , il primo quartiere dedicato allo #sprecoalimentare e alla donazione del #cibo. L'inaugurazione avverrà lunedì 14 gennaio alle 14.30. @FoodPolicyMi @ComuneMI @Assolombarda @RicettaQuBi
Ecco il modello logistico: 14 supermercati, 4 mense aziendali per recuperare 60 tonnellate/anno

Milano Food Policy - ZeroSprechi

Spreco alimentare, un terzo della frutta e verdura in Europa viene buttata. Allo studio metodi per ridurre le perdite e valorizzare gli scarti


















Ogni anno in Europa si sprecano 88 milioni di tonnellate di vegetali tra frutta e verdura, per un costo complessivo di 143 miliardi di euro. Ciascun cittadino europeo ne spreca 35,3 chili, 14,2 dei quali potrebbero essere tranquillamente mangiati. La situazione, dunque, non è affatto positiva anche se, per fortuna, c’è molto spazio per migliorare.
Questo, in sintesi, è il messaggio che emerge da uno studio appena pubblicato su Waste Management dal Direttorato delle risorse sostenibili della Commissione europea di Ispra. Nello specifico, le ricercatrici Serenella Sara, Valeria de Laurentiis e Sara Corrado hanno creato un modello per stimare lo spreco di 51 vegetali acquistati in sei paesi europei (Germania, Spagna, Danimarca, Olanda, Finlandia e Gran Bretagna) nel 2010, suddividendo poi i valori trovati in spreco evitabile (AW) e non evitabile (UW).
In base ai dati raccolti, ogni anno ciascun europeo produce 21,1 kg di sprechi non evitabili, per esempio provenienti dalle bucce dei vegetali, e 14,2 kg di sprechi che invece potrebbero essere scongiurati, associati soprattutto alla deperibilità dei prodotti e alle date di scadenza. In totale circa il 29% (pari appunto a 35,3 kg per persona) della frutta e della verdura acquistata in Europa viene buttato, ma almeno il 12% di questo patrimonio potrebbe essere consumato o utilizzato in altro modo.
Osservando i diversi tipi di alimenti, si nota poi che, per quanto riguarda la frutta, tra le fonti di rifiuti non evitabili le più rappresentate sono le banane (29%), seguite dalle mele (26%) e dalle arance (14%), mentre per le verdure, le patate sono le protagoniste assolute con il 36% del totale, seguite da piselli, cavoli, carote cetrioli e altri ortaggi, attorno al 10%. 
patate sbucciare preparare
Lo spreco non evitabile proviene in larga parte dalla buccia, dai semi e dai torsoli di frutta e verdura
Dal confronto della situazione nei diversi paesi emergono alcuni aspetti molto interessanti, perché non tutti gli europei si comportano allo stesso modo. Per esempio, nonostante in Gran Bretagna gli acquisti pro capite siano inferiori rispetto alla Germania, lo spreco non evitabile è praticamente uguale, mentre quello evitabile è superiore. Ciò significa che i cittadini britannici sono forse meno attenti tanto alla salute quanto al portafoglio, visto che sprecano di più pur acquistando di meno. In generale, risulta confermata la legge non scritta secondo la quale lo spreco tende a ridursi laddove i cittadini sono più istruiti e più benestanti, nonostante la quantità di frutta e verdura sia maggiore.
In che modo si può evitare che il cibo venga buttato? La risposta si trova nel Sustainable Development Goal (SDG) 12,3, che ha come obiettivo il dimezzamento dello spreco  da parte dei consumatori e  dei rivenditori entro il 2030. 
Tra gli strumenti individuati dalla Commissione i principali sono:
  • L’elaborazione, entro marzo 2019, di una metodologia comune a tutti gli stati membri per misurare in modo omogeneo e affidabile lo spreco di cibo.
  • L’utilizzo dello strumento chiamato EU Platform on Food Losses and Food Waste, attivo già dal 2016, che mette insieme le organizzazioni internazionali, gli organismi europei, gli stati membri e tutti gli attori della catena alimentare, uniti nello sforzo di individuare strategie efficaci per ridurre lo spreco, facilitare la cooperazione nel settore, analizzare l’efficacia delle misure adottate e condividere i risultati e le strategie.
  • L’adozione di linee guida europee per la donazione di cibo e la valorizzazione di tutto ciò che non può essere più utilizzato come alimento , ma che in molti casi può essere ancora impiegato nell’alimentazione animale (avendo ovviamente cura di farlo in sicurezza).
  • Il miglioramento delle diciture sulle etichettature, in particolare per quanto riguarda la data di scadenza.
Spremuta d arancia bucce pastazzo
Un gruppo di ricercatori ha realizzato un polimero per la conservazione alimentare a partire dallo scarto di crostacei, frutta e verdura
UN esempio di che cosa si potrebbe fare con il cibo sprecato in Europa, e non solo, è arrivato dai ricercatori del Georgia Institute of Technology statunitense, dove è stato realizzato un polimero che sfrutta scarti dei crostacei e di frutta e verdura. Il polimero ha una resistenza alla penetrazione dell’ossigeno fino al 67% superiore a quella del PET, il materiale derivato dal petrolio più usato nel confezionamento dei cibi e delle bevande, e potrebbe assicurare una vita più lunga a innumerevoli alimenti.
Come riferito su ACS Sustainable Chemistry and Engineering, il film del polimero è stato ricavato assemblando le nanofibre della chitina dei crostacei (ma anche degli insetti e di molte conchiglie), che sono cariche positivamente dal punto di vista elettrico, con i nanocristalli della cellulosa ricavata da vegetali, cariche negativamente, posizionati  in strati alternati. La tecnica usata ha permesso di ottenere un materiale molto resistente ai gas grazie alla sua struttura cristallina, molto più regolare e compatta rispetto a quella del PET, che presenta ampie zone amorfe o solo semi-cristalline.
Il processo va ottimizzato, soprattutto per quanto riguarda la produzione di grandi quantità di nanofibre di chitina su scala industriale, perché i costi sono ancora elevati rispetto al PET, ma quando ciò avverrà, le plastiche per alimenti derivate dal petrolio potrebbero avere un impiego minore e vista la diffusione delle plastiche per packaging nel settore alimentare, lo spreco non evitabile di vegetali potrebbe ridursi sensibilmente.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

Spreco alimentare. Approccio sistemico e prevenzione strutturale















Siamo degli spreconi! Nel mondo, secondo la FAO, nel 2007 un terzo della massa dei prodotti alimentari (un quarto in energia) diventa rifiuto alimentare. Si tratta di 1,6 miliardi di tonnellate di cibo per un valore di circa 660 kcal procapite al giorno e un costo di circa 700 miliardi di euro. Non bruscolini insomma.
Lo spreco alimentare è una delle principali questioni ambientali e socio-economiche che l’umanità si trova ad affrontareai cibi che diventano rifiuti alimentari sono associate emissioni di gas-serra per circa 3,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2), pari a oltre il 7% delle emissioni totali (nel 2016 pari a 51.9 miliardi di tonnellate di CO2). Se fossero una nazione, essi sarebbero al terzo posto nella classifica degli Stati emettitori di COdopo Cina e USA.
Ma lo spreco non è solo nella produzione di rifiuti, né solo quello casalingo. Anzi. Paradossalmente, mentre lo spreco mondiale nel consumo, dal 2007 al 2011, è diminuito del 23%, la dispersione di energie e risorse avviene per lo più a monte ed appare in decisivo aumento. Dal 2007 al 2011 si stima un +48% di sprechi tra produzione e fornitura. Tra le voci principali di spreco vi sono poi le perdite nette negli allevamenti animaliche pesano il 55% degli sprechi totali. Una cifra enorme che in Europa arriva a toccare addirittura il 73% e in Italia il 62%. Inoltre assistiamo ad un esplosione del cibo sprecato per sovralimentazione oltre i fabbisogni raccomandati, con un aumento medio nel mondo del 144% in 4 anni.
Ridurre lo spreco contribuirebbe in maniera decisiva a tagliare le emissioni di gas serra e raggiungere gli obiettivi di breve e lungo termine dell’Accordo di Parigi, limitando alcuni degli impatti del cambiamento climatico, tra cui gli eventi estremi come alluvioni e prolungati periodi di siccità e l’innalzamento del livello del mare.
 
Ma come fare? Ce lo spiega Giulio Vulcano, autore di “Spreco alimentare. Approccio sistemico e prevenzione strutturale”, uno studio prodotto nell’ambito di un’ampia attività di ricerca libera sulla sostenibilità socio-ecologica dei sistemi alimentari, iniziata da almeno 3 anni e in parte confluita nel Rapporto ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) “Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali”*.
 
“In questo rapporto – ci spiega Giulio –viene passata in rassegna la letteratura internazionale e sono analizzate le connessioni più rilevanti tra lo spreco alimentare e altri temi, così da costruire una visione d’insieme socio-ecologica che comprende il consumo di suolo, di acqua, di energia e di altre risorse, il degrado dell’integrità biologica, i cambiamenti climatici, l’alterazione dei cicli dell’azoto e del fosforo, la sicurezza e la sovranità alimentare, la bioeconomia circolare”.
“Sebbene gli studi siano agli inizi e le metodologie di indagine necessitino di essere ancora sviluppate – continua Giulio – dall’esame dei quadri concettuali esistenti si può già giungere ad una proposta di definizione sistemica che comprende elementi fondamentali di spreco finora poco considerati come, per esempio, perdite nette da allevamenti animali e sovralimentazioneinoltre sono indicate in dettaglio le cause e i condizionamenti strutturali lungo i vari tipi di filiera. La causa più generale di spreco è nella sovrapproduzione di cibo, distribuito in modo ineguale”. In particolare sono emerse differenti quantità di spreco associate a diversi modelli di sistema alimentare.




























Come si può prevenire lo spreco? Soprattutto favorendo le reti alimentari corte, locali, ecologiche, solidali e di piccola scala dove gli sprechi sono decisamente inferiori rispetto ai sistemi convenzionali –risponde Giulio – Nelle filiere corte, locali e biologiche (vendita diretta, mercati degli agricoltori) lo spreco è mediamente 3 volte inferiore a quello dei sistemi della grande distribuzione”. Un divario che aumenta ulteriormente se consideriamo filiere ecologiche e solidali: “Proprio così! In reti alimentari ancor più capillari su base ecologica, locale, solidale e di piccola scala come gruppi di acquisto solidale e agricolture supportate da comunità (CSA, dove i consumatori sono anche produttori) lo spreco è mediamente 8 volte inferiore”.
Numeri che non lasciano spazio a dubbi: per risolvere le disfunzioni e gli sprechi dei sistemi alimentari è essenziale rendere accessibili le alternative ecologiche e solidali ad una parte sempre più ampia della popolazione.
E in Italia, come siamo messi? Anche nel nostro Paese, come nel resto del mondo, questo problema è stato per lungo tempo ampiamente sottostimato, poco indagato e documentato. E sebbene negli ultimi anni ci sia stata una maggiore presa di coscienza, l’approccio per mitigare lo spreco alimentare si è comunque sempre concentrato sul destino dei rifiuti alimentari, producendo sì risultati significativi – anche grazie ad una legge che, tra le prime in Europa, contrasta il fenomeno (L. 166/2016) – ma rivelandosi comunque una soluzione parziale e limitata al cibo già prodotto in eccesso.
Ad oggi infatti l’impronta ecologica (ovvero la capacità di un determinato territorio di rigenerare risorse e assorbire rifiuti) dello spreco alimentare nostrano impiega circa il 50% della biocapacità  totale, soprattutto a causa degli effetti negativi nelle fasi produttive. “Considerando anche la sovralimentazione e le considerevoli perdite derivanti dagli allevamenti animali – ci spiega Giulio – si calcola che lo spreco sistemico rispetto ai fabbisogni raccomandati, potrebbe essere almeno il 63% della produzione iniziale (4160 kcal/procapite/giorno) in Italia. Questo significa che più della metà del cibo prodotto viene sprecatoNel mondo lo spreco sistemico è circa il 50% (1900 kcal/procapite/giorno) contribuendo in modo determinante al superamento dei limiti planetari di resilienza e stabilità ecologica”.




























“Considerando le impronte ecologiche dei sistemi alimentari e dei loro sprechi, per rientrare nelle biocapacità dei territori di rigenerare le risorse e assorbire i rifiuti in tempi limitati, gli sprechi sistemici (con sovralimentazione e uso per allevamenti) vanno ridotti ad almeno un terzo degli attuali nel mondo e ad almeno un quarto in Italia. Un obiettivo minimo potrebbero essere livelli medi di spreco sistemico al di sotto del15-20%, con una transizione verso le reti alimentari alternative”.
 
Insomma ciò che serve è una vera e propria strategia che aumenti la resilienza ecologica e sociale trasformando strutturalmente i sistemi alimentari. “In questo senso la rilocalizzazione ecologica e solidale dei sistemi agro-alimentari su piccola scala può diventare il principale indirizzo di una strategia complessa per garantire sicurezza e autosufficienza alimentare, nonché capacità di adattamento e prevenzione di fronte ai pericoli naturali e antropici che si stanno manifestando” commenta Giulio.
Purtroppo, malgrado l’evidenza, nel nostro Paese come altrove sembra si stia prendendo la direzione opposta. Le piccole e medie aziende, quelle che in Italia sono la maggioranza (secondo i più recenti dati Istat l’84% delle imprese agricole italiane non supera i 10 ettari) e dalle quali potrebbe e dovrebbe partire la strategia di riduzione degli sprechi, è in profonda crisi. Secondo l’ultimo censimento generale dell’agricoltura del 2010, circa l’80% di tutte le aziende agricole (circa 1.300.000) ha un fatturato inferiore ai 20.000 euro l’anno, il 67% è sotto i 10.000 euro l’anno, circa il 55% è sotto i 7.000 euro (microimprese) e, seppur godendo di un regime fiscale agevolato, non riesce a tenere il passo con la grande distribuzione organizzata e a competere con i grandi produttori. “Negli ultimi anni si è avuta un’enorme riduzione del numero delle piccole e medie aziende e del numero degli addetti – ci spiega Giulio – In Italia l’1% delle aziende controlla il 30% delle terre agricole e il 3% dei proprietari detiene il 48% della Superficie Agricola Utilizzata. Circa 22.000 aziende con una taglia superiore ai 100 ettari si spartiscono oltre 6,5 milioni di ettari di superficie agricola, e negli ultimi 10 anni c’è stato un crollo del numero delle aziende con una taglia sotto i 20 ettari. La piccola agricoltura, quella con una taglia inferiore ai 20 ettari e che è il cuore dell’agricoltura italiana, viene così drasticamente ridotta”.
 
Con tutto ciò che ne consegue, non solo in termini di occupazione, lavoro e reddito, ma anche e soprattutto in termini di sovranità alimentare, biodiversità, sostenibilità e, ovviamente sprechi alimentari e di risorse.
 
Agevolare queste realtà non solo sarebbe una strategia vincente in termini occupazionali ma permetterebbe anche al nostro Paese di ridurre significativamente gli sprechi. In linea con gli Accordi di Parigi e con le direttive ONU per lo sviluppo sostenibile: “Le Nazioni Unite, infatti, da tempo hanno inserito tra le proprie priorità il dimezzamento (in energia alimentare pro capite), entro il 2030, degli sprechi globali in vendita al dettaglio e consumo e (genericamente) la riduzione di perdite in produzione e fornitura. Un obiettivo che necessita di un importante e immediato cambio di passo – conclude Giulio – che riguarda indubbiamente le politiche nazionali e sovranazionali, ma anche e soprattutto le decisioni dei produttori insieme alle scelte dei consumatori“.

fonte: http://www.decrescitafelice.it