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Negozio Leggero, dove fare la spesa alla spina per un nuovo commercio di vicinato

Negozi dove poter acquistare prodotti alimentari, per la casa e per la persona, alla spina o con il vuoto a rendere. Una delle prime esperienze in Italia è il Negozio Leggero, nato a Torino dall’idea di cinque ragazzi e ragazze impegnati da lungo tempo nell’ambito della riduzione dei rifiuti e che in questi anni sono riusciti ad avviare numerosi progetti “leggeri” per ripensare collettivamente il nostro modo di fare la spesa.














Torino - Di negozi sfusi, alla spina e zero waste ne sentiamo sempre più parlare in questi anni: sono diventati per molte persone un nuovo modo di acquistare generi alimentari, una filosofia di vita per un consumo più consapevole e quando si comincia a frequentarli, diventa molto difficile tornare indietro. Sì, perché attraverso un gesto quotidiano come fare la spesa, diventiamo tutti parte di quel cambiamento più urgente che mai, non solo individuale ma soprattutto collettivo. I negozi sfusi diventano quindi un punto di partenza per ripensare ai nostri stili di vita partendo dalle piccole cose quotidiane come ciò che mangiamo e beviamo, i detersivi che utilizziamo, i cosmetici che acquistiamo, quanta plastica produciamo.

L’articolo di oggi è dedicato a uno tra i primi negozi sfusi in Italia, che in questi anni, per il successo che ha avuto, si è diffuso in sempre più città uscendo perfino dai confini nazionali, come nel caso della Francia e della Svizzera: stiamo parlando del Negozio Leggero. Molti di voi lo conosceranno già, ma per chi fosse la prima volta, è questa l’occasione per scoprirne 
 di più.

 

Possiamo considerare il Negozio Leggero un precursore in Italia in fatto di negozi alla spina. La prima attività ha infatti aperto a Torino nell’aprile del 2009, anno in cui in Europa ancora non esistevano progetti simili, che condividessero la volontà di creare una rete diffusa sul territorio. Come scritto sul sito, “è stato il primo negozio al mondo in cui acquistare prodotti senza imballi o con vuoto a rendere”. La parola d’ordine è zero waste: attraverso il negozio fisico e online, la vendita alla spina permette di acquistare prodotti di qualità a filiera controllata senza imballaggio, alleggerendo la produzione dei rifiuti domestici e la spesa. Non solo: acquistando prodotti sfusi si minimizzano anche gli sprechi perché, come ben sappiamo, si compra solo ciò di cui si ha realmente bisogno.

«Abbiamo dato a Negozio Leggero la forma del franchising – spiegano i fondatori – perché volevamo far arrivare il progetto in più territori e volevamo farlo con persone che ci assomigliano, che hanno voglia di fare impresa e allo stesso tempo dare il proprio contributo al cambiamento». I negozi leggeri sono infatti pensati per essere facilmente replicabili e per questo nascono come punti vendita di piccole e medie dimensioni che possono essere avviati ovunque, diventando parte di un commercio di prossimità che offre un’alternativa diversa e sostenibile.

Ideatore del progetto è l’ente di ricerca ambientale Ecologos che negli anni è riuscito a disimballare oltre 1.500 prodotti di qualità, a filiera controllata e provenienti da produttori medio-piccoli che garantiscono condizioni di lavoro eque. La rete in franchising è invece gestita dalla società Rinova, costituita da giovani imprenditori e impegnata nello sviluppo di tecnologie e sistemi volti alla riduzione dei rifiuti: insieme, queste due realtà lavorano in modo coordinato per portare una virtuosità “circolare” nel commercio locale e fare in modo che il cambiamento di un singolo individuo porti al cambiamento della collettività verso uno stile di vita più sano ed etico.

Come ha raccontato Cinzia Vaccaneo, founder di Negozio Leggero, «scegliere sfuso non è solo semplice e sostenibile, ma anche conveniente: chi acquista risparmia in media dal 30% al 70% rispetto all’equivalente confezionato e riduce notevolmente la produzione di rifiuti. Abbiamo calcolato che una famiglia di quattro persone che fa la spesa abitualmente al Negozio Leggero arriva a risparmiare in un anno oltre 200 chili di rifiuti».

In negozio è possibile portare i propri recipienti da casa e riempirli con la quantità desiderata di prodotto, altrimenti sono presenti diverse soluzioni come contenitori riutilizzabili, principalmente in vetro, da acquistare solo la prima volta e da riutilizzare quelle seguenti. Ovviamente non ci sono delle quantità definite per l’acquisto minimo e si possono comprare dai pochi grammi a qualche chilo, in base alle esigenze di ciascuno, così 
da ridurre gli scarti alimentari.


Il team di Negozio Leggero

Al suo interno si trova poi tutta la gamma di prodotti cosmetici e per alcuni generi alimentari è stato utilizzato il sistema di vuoto a rendere che permette di avere prodotti sigillati in imballaggi di vetro che, una volta riportati in negozio, vengono opportunamente igienizzati e riutilizzati nel circuito. «La parola d’ordine per la cosmetica è sicuramente “plastic free” e i prodotti per la cura della persona a marchio Negozio Leggero, oltre ad essere senza parabeni, EDTA, siliconi, oli minerali e derivati animali, sono tra i pochissimi, e per alcuni prodotti, gli unici, ad essere confezionati nel vetro, materiale nobile che ci permette di riutilizzare i contenitori innumerevoli volte».

Oltre alla rete del Negozio Leggero, negli anni sono stati sviluppati altri progetti per una sostenibilità a 360°: l’ultimo nato è Liberi dalla plastica, il primo “giornale di bordo” nato su Instagram che raccoglie dati, promuove soluzioni all’uso indiscriminato della plastica monouso, e dialoga con le esperienze reali degli utenti.

«Il nostro lavoro di ricerca ci permette inoltre di monitorare costantemente quanto incide a livello ambientale la mancata produzione di imballaggi: ad esempio, in un anno l’eliminazione delle confezioni sulle sole vendite di vino e detersivo porta un risparmio complessivo di risorse pari a 104.290 kWh di energia, 34 tonnellate di CO2 non emessa in atmosfera e oltre 9,8 milioni di litri di acqua che non sono stati utilizzati per la produzione e lo smaltimento del packaging in eccesso».



Da anni la diffusione dei negozi leggeri è in crescita. Il più recente progetto è il Negozio Leggero di Rivoli (TO), avviato da Sara Forlani e Stefano Premoli. Due giovani che contribuiscono a diffondere la rivoluzione zero waste: Sara lavora da sempre a contatto con il pubblico e partecipa attivamente in campagne di sensibilizzazione ambientale mentre Stefano, economista ed editore, negli ultimi anni ha deciso di dedicarsi a scelte imprenditoriali nel campo della sostenibilità ambientale. Insieme si sono lanciati in questa nuova avventura, per fare la propria parte verso un consumo più sano, etico e circolare che ci auguriamo diventi sempre più un’abitudine condivisa.

fonte: www.italiachecambia.org


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Biova Project: “Così trasformiamo il pane invenduto in birra artigianale” – Io faccio così #324

Lo sapevate che dal pane si può realizzare una gustosa birra artigianale di qualità, recuperando chili di prodotto invenduto nelle panetterie e nei supermercati? E sapevate che in Piemonte tutto questo è già diventato realtà? Biova Project è una startup innovativa che combatte lo spreco alimentare e che, in poco tempo, è diventata un vero e proprio movimento composto da tantissime persone che dimostrano che proprio dalle briciole… può nascere la rivoluzione!





Ogni giorno in Italia rimangono invenduti 13 mila quintali di pane, una cifra davvero impressionante. Secondo uno studio condotto dall’Associazione Internazionale del Panificio Industriale, in media una persona ne consuma circa 52 chili all’anno. Pensate: in pratica con il pane scartato ogni giorno si potrebbero alimentare 25 mila persone per un anno! Il pane rappresenta un prodotto particolare, poiché la domanda varia moltissimo da giorno a giorno e, ahimè, siamo comunemente abituati ad associare il “pane fresco” con il pane “appena sfornato”, come se quello giunto a fine giornata non fosse più buono! Ma sappiate che già nell’antichità questo prodotto era considerato sacro e gli egizi ricavavano dal pane raffermo un’ottima bevanda. Allora perché non ispirarci alle antiche tradizioni?





Oggi vi raccontiamo la storia di un progetto che nel suo piccolo, ma con grandi risultati, contribuisce ogni giorno a salvare parte di quell’enorme quantitativo di pane che rimane invenduto sugli scaffali di panetterie, supermercati, catene di ristoranti o fast food. Parliamo di Biova Project, startup innovativa torinese che nasce nel 2019, i cui soci fondatori sono Franco Dipietro, Emanuela Barbano e Simone Oro. Insieme stanno lavorando a un modello virtuoso attraverso la trasformazione del nostro pane da “scarto” a nuova risorsa, ritrovandone la sacralità in un modo certamente originale. Una “piccola goccia nell’oceano”, come loro si definiscono. Ma per porre un freno agli sprechi, come raccontano i nostri protagonisti, forse sarà proprio una birra a salvare il mondo!

«Biova è il nome di una tipica pagnotta piemontese», ci spiega Franco. «A lei ci siamo ispirati, poiché ci racconta di una lunga e centenaria tradizione. Ma per noi la biova è simbolicamente tutto il pane, è quello ancestrale, che da sempre ne identifica tutte le tipologie». Così nasce il progetto, da un sogno ormai divenuto realtà: trasformare tutto quel pane di scarto in un prodotto nuovamente commercializzabile.

«L’idea ci è venuto dopo aver conosciuto da vicino la problematica dello spreco alimentare, perché finché la conosci solo attraverso i numeri, non riesci a quantificarla davvero. Emanuela ed io abbiamo collaborato con progetti che si occupano di recuperare le eccedenze di cibo, specialmente dai catering aziendali. Quando vedi il quantitativo di cibo che avanza e sei consapevole del suo destino, cambia automaticamente anche il tuo atteggiamento nei confronti di questo problema».

Franco ed Emanuela si sono occupati di sviluppare un sistema che potesse andare a intercettare gli scarti nel momento giusto, ovvero quando sono ancora adatti a essere trasformati attraverso la birrificazione. Ma come funziona il progetto? Per prima cosa, i produttori – per esempio commercianti o panettieri – mettono da parte, all’interno di ceste, l’invenduto della giornata. Raggiunta la quantità necessaria, i dipendenti e i volontari di Biova Project lo recuperano e lo portano all’interno di appositi centri, dove viene tostato per bloccarne il deperimento. Dopo essere stato tritato e poi impacchettato all’interno di sacchi – rigorosamente riciclati – viene trasportato ai birrifici della città che, come per magia, lo trasformano in birra.




«Per noi è importante essere attivi sul territorio nel punto più vicino al recupero e per questo motivo lavoriamo attraverso partnership con birrifici, fornendo da una parte un servizio di recupero e dall’altra un servizio di consegna». Il cerchio si chiude, infatti, quando la birra prodotta viene distribuita proprio a quelle panetterie e a quei supermercati che hanno donato il loro pane.

L’aspetto interessante, nella fase di trasformazione, è che il pane va sostituire fino al 30% della materia prima normalmente utilizzata per fare la birra, come nel caso del malto d’orzo. Ecco perché il processo di economia circolare è particolarmente efficace: oltre al recupero del pane invenduto infatti, si risparmia anche l’utilizzo della materia prima che servirebbe per realizzare una birra equivalente. Come ci racconta Franco, «i birrai che collaborano con noi e che noi consideriamo veri “alchimisti”, sono i migliori nel preparare una particolare ricetta e hanno una profonda etica che ci accomuna, legata al recupero degli alimenti».

Biova Beer è molto più di una birra, è un movimento diffuso e attivo che sta partecipando a un cambiamento collettivo. «Uno dei fattori principali di successo della nostra attività è il coinvolgimento di tantissimi attori sul territorio: dai panettieri di quartiere che mettiamo in contatto per recuperare gli sprechi alle associazioni di panificazione provinciali, dai grandi produttori di pane come le S.p.a alle grandi catene di supermercati. A volte arriviamo addirittura a essere un centinaio di persone che collaborano per un periodo di tempo su un preciso progetto. Ecco perché ci consideriamo un movimento: perché con noi possono partecipare diverse professionalità oltre che cittadini attivi interessati ad agire insieme e concretamente contro lo spreco alimentare».




Ad oggi Biova Project è attivo sul territorio piemontese, lombardo e ligure. Le sue birre si possono trovare sull’e-commerce, in diversi grandi supermercati, nelle piccole attività locali e sono distribuite anche a hotel, caffetterie e ristoranti. «Quest’ultimo anno, tra le difficoltà e le limitazioni del Covid-19, siamo riusciti a salvare una tonnellata di pane e a produrre circa 15.000 litri di birra, vendendoli praticamente tutti. Perché noi lo spreco…ce lo beviamo!».

La missione di Biova Project è parte integrante della transizione verso quel mondo con meno sprechi e con più attenzione all’ambiente che tanto sogniamo e che vediamo sempre più concretizzarsi in questi anni. Un progetto innovativo e replicabile che ci auguriamo possa diffondersi in sempre più contesti territoriali, nella speranza che prima o poi il mondo non avrà più bisogno di trovare soluzione agli sprechi.

fonte: www.italiachecambia.org


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Orto 2.0: si coltiva sullo smartphone ma si mangia vera frutta e verdura. La piattaforma software che unisce produttore e consumatore


















La società cooperativa agricola Orto 2.0 nasce nell’estate del 2017 in risposta a uno dei problemi principali del settore agroalimentare: ottenere una certificazione reale su provenienza, metodo di coltivazione e freschezza dei prodotti orticoli. Ad oggi, la struttura della grande distribuzione organizzata (GDO) sembra accogliere perfettamente alcune inefficienze di mercato, dalle aste al ribasso, alle tempistiche dilatate della distribuzione, fino all’effetto specializzazione che colpisce i produttori diretti, incentivando l’adozione di mono coltivazioni per accaparrarsi una fetta di mercato maggiore con una maggiore offerta, generando così esternalità negative anche sull’ambiente. Il modello che proponiamo punta a troncare la filiera della grande distribuzione organizzata eliminando molti, se non tutti gli attori che la compongono. Orto 2.0 riesce a fondere le due figure cardine della filiera: il produttore e il consumatore, grazie allo sviluppo di una piattaforma software (app Android, iOS) che mette in contatto diretto i due attori.


Ogni utente può creare il suo orto virtuale di 50 metri quadrati, personalizzando 8 file di coltivazione

Attraverso uno smartphone, ogni utente può creare il suo orto virtuale di 50 metri quadrati, personalizzando 8 file di coltivazione con diverse varietà di ortaggi stagionali. Durante la compilazione, un algoritmo guida gli utenti nella creazione di un orto perfettamente consociato, sfruttando così alcune leggi tacite di convivenza delle piante scelte, rendendo efficienti la produzione e l’autodifesa dell’orto dai fattori esterni. Una volta compilato, il team di Orto 2.0 si occupa di tutta la fase di coltivazione, dalla semina alla raccolta, lanciando una serie di notifiche all’utente per aggiornarlo sullo stato delle proprie piante.

La coltivazione segue i principi dell’agricoltura naturale, il terreno viene concimato con stallatico di cavallo e il diserbo è esclusivamente manuale. Inoltre, i trattamenti che seguono le piante, sono a base di macerati realizzati con alcuni scarti di produzione agricoli (aglio, foglie di pomodoro e ortica) e le consociazioni instaurate tra le piante dell’orto contribuiscono a una maggiore difesa reciproca.

Non appena l’orto entra in produzione, una notifica settimanale concorderà modalità e orari di ritiro o consegna del raccolto. Assicurando la presenza di un tutor al suo fianco, già dalle prime entrate nell’orto, la cooperativa punta a rendere autonomi il maggior numero di clienti, formandoli su metodi di raccolta e cura delle piante, riuscendo così a coinvolgere le persone nell’attività di produzione del proprio cibo, aumentandone così anche il valore, impattando la sfera emozionale ed esperienziale. Per chi invece non ha tempo a disposizione, ma vuole accedere comunque a questo modello, il servizio base offerto dalla cooperativa copre qualsiasi tipo di mansione nell’orto.

La coltivazione segue i principi dell’agricoltura naturale, la concimazione è con stallatico di cavallo e il diserbo è esclusivamente manuale

L’obiettivo della società è quello di replicare questi punti produttivi circostanti alle grandi città, per assicurare una maggiore vicinanza al cliente, offrendo la possibilità di avere una porzione di terra dove coltivare il proprio cibo, pur vivendo in un ambiente urbano che molto spesso assorbe tempo ed energie necessarie per seguire il processo di crescita delle piante. Il modello infatti, è volto a garantire un servizio fluido, qualitativo e puntuale. La cooperativa punta a dare a tutti la possibilità di avere uno spazio dove passare del tempo libero e contemporaneamente formarsi sulle tecniche di produzione, in un ambiente verde, fuori dalle caotiche dinamiche urbane con l’obiettivo di riavvicinare le persone alla natura e ai suoi cicli, perpetrando una Slow Colture del cibo.

Lorenzo Artibani. Per approfondire il progetto Orto 2.0 si può vedere la pagina Facebook e Instagram

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Nasce la mappa per fare la spesa senza supermercato

Dopo il successo del suo libro “Vivere senza supermercato”, Elena Tioli lancia una nuova iniziativa per supportare la costruzione di un’economia sostenibile, basata su relazioni di fiducia tra produttori e consumatori e su scelte di acquisto responsabili. Si tratta di una mappa della Piccola Distribuzione Disorganizzata: chiunque può segnalare sulla mappa le realtà attive nel proprio territorio e contribuire alla crescita di una comunità nazionale impegnata nel diffondere la possibilità del consumo critico e solidale.


















C’era una volta una consumista ossessiva, insoddisfatta cronica, fumatrice, dipendente a tempo indeterminato. Sembra l’inizio di una favola, e invece è la realtà di Elena Tioli. Meno di un lustro fa, Elena ha detto basta e ha cambiato la sua vita, iniziando dal lavoro e dalla spesa. Dal 2015 non è più entrata in un supermercato e, col tempo, ha acquisito una nuova coscienza nelle sue scelte d’acquisto, guadagnandone in salute, tempo e relazioni.

Una favola il cui lieto fine sembrava dovesse essere la pubblicazione di “Vivere senza supermercato”, il libro nel quale condivide non soltanto le tappe del suo percorso personale, ma anche una grande quantità di informazioni e conoscenze pratiche, utili a chi potrebbe decidere di percorrere la sua strada, in direzione contraria a quella comune. E invece no. Perché la favola si arricchisce ora di un nuovo episodio.

Da qualche tempo, infatti, Elena ha pubblicato sul sito del suo libro una mappa della Piccola Distribuzione Disorganizzata  – come giocosamente la chiama lei – ossia una mappa delle realtà che, nel settore alimentare, operano fuori dalla Grande Distribuzione Organizzata e che rispondono a requisiti minimi di sostenibilità ecologica e sociale.

Nata più o meno come un omaggio a quelle attività che, a cominciare da quelle del suo quartiere a Roma, le avevano consentito di vivere senza supermercato all’inizio della sua avventura, la mappa si è poi allargata; prima all’intero Municipio del quale il suo quartiere fa parte, e poi all’intera città di Roma. È lei stessa a rivelare che: “Mai avrei pensato che una simile idea potesse piacere tanto e che moltissime persone fossero così felici di farne parte.” E così, entusiasmo dopo entusiasmo, la mappatura è continuata fino a spingersi un po’ dappertutto in Italia.

In questa mappa è presente “l’Italia dei piccoli produttori, dei negozi che vendono senza imballaggi, degli agricoltori che si prendono cura della terra, dei mercati a chilometro zero, delle aziende familiari e delle filiere corte, delle botteghe e dei negozi di quartiere, dei gruppi di acquisto solidale”, spiega lei stessa sul sito. “L’Italia che, quando mette mano al portafogli, si ferma per un attimo a chiedersi se quei soldi finiranno a una delle multinazionali che stanno divorando il pianeta o a chi il pianeta sta provando a salvarlo”.
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Come tutte le mappature nate su base volontaria, la mappa dell’Italia senza supermercato è tutt’altro che un lavoro compiuto ed esaustivo. Va invece considerato un work in progress, al quale chiunque può dare un contributo. Basta collegarsi al sito ed inserire una realtà di propria conoscenza che abbia almeno qualcuna di queste caratteristiche: filiera corta, chilometro zero, GAS-Gruppi di Acquisto Solidali, gli alveari, mercati contadini, artigiani, biologico (anche se non certificato), assenza o sostenibilità degli imballaggi (es. cassette, sfuso, buste in tela), produttori che rispettano la stagionalità.

Elena ci tiene a precisare che sulla mappa nessuno fa pubblicità a pagamento e che nessuno garantisce per nessuno: “Ci fidiamo di chi inserisce un’azienda, un gruppo, un negozio, perché pensiamo sia normale che ciascuno si assuma le proprie responsabilità e che sia bello costruire qualcosa di utile insieme”. Ciò non toglie che, qualora sulla mappa vengano inserite realtà non in linea con i principi sopra espressi, basterà segnalarle e verranno rimosse.

Insomma, un’iniziativa che ha lo scopo di fornire un nuovo strumento per creare una comunità nazionale sempre più grande, impegnata nel diffondere la possibilità del consumo critico e solidale, basata su relazioni di fiducia fra produttori responsabili e consumatori consapevoli. “Per favorire un’economia virtuosa, etica e sostenibile, in cui oltre al guadagno personale si pensa al bene comune”. E se poi, come nelle favole più belle, questa diventerà una mappa del tesoro per tanti altri, starà a voi raccontarcelo.

fonte: www.italiachecambia.org

Ricongiungersi ai territori

Gruppi di acquisto solidale, Csa, orti comunitari e altre forme di consumo critico hanno bisogno di pensarsi come gruppi di co-produttori. Dall’autodeterminazione alimentare all’autogoverno territoriale per uscire dal dominio del mercato


















L’unica sovranità interessante, quella alimentare


Come noto, la prima possibilità che un individuo ha a disposizione per prendere nelle proprie mani la sua vita è quella di scegliere come cibarsi; di come riappropriarsi dei mezzi della propria auto-riproduzione. Chiamiamola autodeterminazione alimentare o principio della sovranità alimentare che – secondo la dichiarazione di Nyelni, nel Mali del 2007, fatta propria dalla Fao – riguarda “il diritto delle persone a un cibo culturalmente appropriato e sano, prodotto con mezzi sostenibili che rispettano l’ambiente e il diritto a definire i propri sistemi agricoli e alimentari. La sovranità alimentare pone al centro dei sistemi e delle politiche alimentari le aspirazioni e i bisogni di coloro che producono, distribuiscono e consumano cibi, anziché le richieste delle aziende e dei mercati”.
Nelle “società opulente” le possibilità di scelta alimentare sono parecchie(e l’apparato industriale agro-alimentare-farmaceutico lo sa benissimo!). Possiamo seguire le suggestioni che vengono dal piacere del palato. Possiamo seguire le pulsioni psico-gastronomiche che compensano le carenze affettive. Possiamo seguire precetti medico-salutisti. Possiamo conformare le nostre abitudini alimentare a principi etici (veganesimo).
I movimenti consumeristici, in generale, mirano a sviluppare la capacità critica delle persone e a creare strumenti per aumentare le loro possibilità di scelta a tutti i livelli: individuale e familiare (informazione, auto e co-produzione, ecc.), amicale e di prossimità (gruppi di acquisto collettivi, orti sociali condivisi, ecc.), comunitario (Comunity Supported Agriculture, Patti città-campagna, menù delle mense, ecc.), pubblico istituzionale (Food Policy).
Tutte le esperienze che tendono alla autodeterminazione alimentare si scontrano inevitabilmente con numerosi ostacoli e condizionamenti esogeni: economici (la necessità di raggiungere una redditività minima degli operatori in un contesto di costi di produzione sempre più elevati e di concorrenza in dumping), limitate possibilità di accesso a terreni fertili e a materie prime di qualità (inquinamenti, consumo di suolo, privatizzazione delle sementi, ecc.),organizzativi (servizi e mezzi di movimentazione, conservazione, trasformazione… in mano a oligopoli), normativi (standard per la commercializzazione, regolamenti di igiene, appalti di fornitura, sistemi fiscali, ecc.), psicologici (mentalità comune plasmata dalla pubblicità, dal discreditamento del biologico contadino a favore degli Ogm o, comunque, del biologico industriale certificato, ecc.). Per evitare tali blocchi esterni, l’unica strada è riuscire a superare la separazione tra le figure del consumatore finale e del produttore. Va ricomposta l’intera filiera dall’approvvigionamento delle materie prime, alla coltivazione, alla raccolta, alla trasformazione, al confezionamento, alla distribuzione … fino alla utilizzazione finale e oltre: riuso delle eccedenze e degli scarti.
Autogoverno territoriale
Ha detto Alberto Magnaghi nell’ultimo convegno della Società dei Territorialisti: “Le interrelazioni fra soggetti e temi differenti costituiscono le condizioni dellautogoverno territoriale e della democrazia di comunità: si tratta di costruire relazioni (funzionali e coprogettuali) fra le comunità di produttori di beni alimentari bioecologici e le comunità urbane di autorigenerazione delle periferie, di cohousing e di auto valorizzazione dei beni comuni urbani; costruire obiettivi comuni per la gestione di patti e di scambi città-campagna, città-collina, entroterra costieri, montagna; fra neoagricoltori, biodistretti rurali e abitanti urbani sulla autoproduzione di cibo e servizi eco sistemici; fra attori dei contratti di fiume (di lago, di paesaggio), per l’autogoverno delle reti ecologiche, gli equilibri idraulici, la fruizione delle riviere fluviali urbane e rurali; fra le comunità eco museali e gli osservatori del paesaggio per la conoscenza attiva dei patrimoni territoriali come imput per i soggetti promotori di sistemi produttivi locali, fondati sulla messa in valore delle peculiarità dei patrimoni stessi, e così via”. (A. Magnaghi, Relazione introduttiva a La democrazia dei luoghi e forme di autogoverno comunitario, Castel del Monte 15/17 Novembre 2018).
Il percorso da seguire potrebbe essere sintetizzato in uno slogan: dai gruppi di acquisto ai gruppi di coproduzione; dai “patti” tra consumatori e produttori all’ “alleanza” tra abitanti, cittadini e rurali (agricittadini). La logica del “patto” presenta qualche antipatia perché è di natura contrattuale/commerciale tra soggetti che rimangono separati se non contrapposti nei rispettivi interessi immediati (attenti a non fregarsi a vicenda!). La logica dell’alleanza, invece, è fusionale, interdipendente, simbiotica, fiduciari, donativa: io mi impegno a magiare ciò che tu produci e tu produci ciò che io mangio; tu mi liberi dalla costrizione di dover andare a comprare ciò di cui ho bisogno al supermercato, io ti libero dal giogo che ti obbliga a conferire la tua produzione a intermediatori “terzi”, al mercato all’ingrosso. Insieme usciamo dalla logica di mercato in cui la domanda e l’offerta vengono inesorabilmente determinate dal prezzo e non dal buono, dall’utile, dall’equo, dal sostenibile. Finalmente, si ricompone la separazione tra produzione e consumo; la scissione alienante tra attività lavorativa etero diretta e riproduzione della vita.
Ma come si può immaginare di realizzare tale alleanza? La risposta sta nel riconoscimento dell’esistenza di un comune interesse, di una cointeressenza nella costruzione di un livello superiore d’azione che solo può farci raggiungere un benessere collettivo, un buon vivere e una buona vita. Ricordiamoci sempre che “nessuno si salva da solo”! Pensiamoci come una comunità scelta, aperta, inclusiva, solidale, propositiva, capace di creare reti orizzontali non gerarchiche (che non “irretiscano” e burocratizzino le relazioni umane spontanee e dirette che solo le associazioni volontarie di cittadini sanno garantire), ma al contrario che connettano quelle esperienze accumunate dagli stessi valori di fondo: imprese che operano secondo modelli cooperativistici e mutualistici, fondazioni di comunità, gruppi di finanza etica, di coworking e open source, cohousing ed ecovillaggi, ecc. ecc. Insomma, tutto il grande e largo mondo dell’economia eco-solidale (SSE, Social end Solidarity Economy, nel linguaggio internazionale adottato dalle agenzie Onu). Comprendendo in questo mondo anche i gruppi, i comitati, le associazioni, i movimenti che si battono per la salute e la salubrità degli habitat naturali, contro le distruzioni ambientali e la giustizia sociale.
Agire localmente
Le vecchie categorie del produttore e del consumatore si ritrovano unite in un progetto integrato e multiattoriale di comunità fondate sulla qualità delle vite e dei lavori. I consumatori critici e i produttori consapevoli alzano il loro punto di vista su un orizzonte allargato che consente una visione d’insieme. Assieme elaborano un progetto complessivo multifattoriale di comunità territoriale. Creano quella “calda e civile coralità produttiva” evocata da Giacomo Becattini. Assieme rivendicano un governo e una gestione del patrimonio territoriale locale fondato sulla cura dei luoghi e sulla rifunzionalizzazione dei sistemi primari che supportano i servizi ecosistemici. Assieme immaginano una “ergonomia del territorio”, un assetto idro-geo-morfologico funzionale alla rigenerazione e al potenziamento dei cicli biologici e della biodiversità.
In tal modo le funzioni urbane e quelle agricole si andranno ad intrecciare, cosicché i loro abitanti saranno chiamati ad una cooperazione multisettoriale. Gli assetti organizzativi del territorio (infrastrutture, piattaforme, servizi, ecc.) verranno via-via ri-funzionalizzati partendo dallo scopo primario di garantire a tutti gli abitanti la autonomia e la autodeterminazione alimentare della comunità. Poiché si sa che le grandi trasformazioni si attuano a piccoli passi, questo processo di trasformazione globale non può che partire restituendo all’azione locale la centralità del processo. Come dice Sergio De La Pierre va riconosciuto “il valore universale del locale”.
Man mano che crescerà la consapevolezza e il desiderio di una tale pianificazione dal basso della domanda alimentare commisurata alle possibilità reali produttive del territorio, si creeranno istituti di autogoverno (cooperative di produzione e consumo, cooperative e fondazioni di comunità, politiche urbane per lo sviluppo agricolo e rurale, Food Policy Council, ecc.), vere “palestre di democrazia”, come le chiama Francesca Forno.
Paolo Cacciari
*Testo dell’intervento all’incontro promosso da Aequos e Des-Varese a Saronno il 25 novembre 2018, “Lezioni di futuro. I Gas nell’economia solidale: storia e prospettive”
fonte: comune-info.net

Spreco alimentare. Approccio sistemico e prevenzione strutturale















Siamo degli spreconi! Nel mondo, secondo la FAO, nel 2007 un terzo della massa dei prodotti alimentari (un quarto in energia) diventa rifiuto alimentare. Si tratta di 1,6 miliardi di tonnellate di cibo per un valore di circa 660 kcal procapite al giorno e un costo di circa 700 miliardi di euro. Non bruscolini insomma.
Lo spreco alimentare è una delle principali questioni ambientali e socio-economiche che l’umanità si trova ad affrontareai cibi che diventano rifiuti alimentari sono associate emissioni di gas-serra per circa 3,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2), pari a oltre il 7% delle emissioni totali (nel 2016 pari a 51.9 miliardi di tonnellate di CO2). Se fossero una nazione, essi sarebbero al terzo posto nella classifica degli Stati emettitori di COdopo Cina e USA.
Ma lo spreco non è solo nella produzione di rifiuti, né solo quello casalingo. Anzi. Paradossalmente, mentre lo spreco mondiale nel consumo, dal 2007 al 2011, è diminuito del 23%, la dispersione di energie e risorse avviene per lo più a monte ed appare in decisivo aumento. Dal 2007 al 2011 si stima un +48% di sprechi tra produzione e fornitura. Tra le voci principali di spreco vi sono poi le perdite nette negli allevamenti animaliche pesano il 55% degli sprechi totali. Una cifra enorme che in Europa arriva a toccare addirittura il 73% e in Italia il 62%. Inoltre assistiamo ad un esplosione del cibo sprecato per sovralimentazione oltre i fabbisogni raccomandati, con un aumento medio nel mondo del 144% in 4 anni.
Ridurre lo spreco contribuirebbe in maniera decisiva a tagliare le emissioni di gas serra e raggiungere gli obiettivi di breve e lungo termine dell’Accordo di Parigi, limitando alcuni degli impatti del cambiamento climatico, tra cui gli eventi estremi come alluvioni e prolungati periodi di siccità e l’innalzamento del livello del mare.
 
Ma come fare? Ce lo spiega Giulio Vulcano, autore di “Spreco alimentare. Approccio sistemico e prevenzione strutturale”, uno studio prodotto nell’ambito di un’ampia attività di ricerca libera sulla sostenibilità socio-ecologica dei sistemi alimentari, iniziata da almeno 3 anni e in parte confluita nel Rapporto ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) “Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali”*.
 
“In questo rapporto – ci spiega Giulio –viene passata in rassegna la letteratura internazionale e sono analizzate le connessioni più rilevanti tra lo spreco alimentare e altri temi, così da costruire una visione d’insieme socio-ecologica che comprende il consumo di suolo, di acqua, di energia e di altre risorse, il degrado dell’integrità biologica, i cambiamenti climatici, l’alterazione dei cicli dell’azoto e del fosforo, la sicurezza e la sovranità alimentare, la bioeconomia circolare”.
“Sebbene gli studi siano agli inizi e le metodologie di indagine necessitino di essere ancora sviluppate – continua Giulio – dall’esame dei quadri concettuali esistenti si può già giungere ad una proposta di definizione sistemica che comprende elementi fondamentali di spreco finora poco considerati come, per esempio, perdite nette da allevamenti animali e sovralimentazioneinoltre sono indicate in dettaglio le cause e i condizionamenti strutturali lungo i vari tipi di filiera. La causa più generale di spreco è nella sovrapproduzione di cibo, distribuito in modo ineguale”. In particolare sono emerse differenti quantità di spreco associate a diversi modelli di sistema alimentare.




























Come si può prevenire lo spreco? Soprattutto favorendo le reti alimentari corte, locali, ecologiche, solidali e di piccola scala dove gli sprechi sono decisamente inferiori rispetto ai sistemi convenzionali –risponde Giulio – Nelle filiere corte, locali e biologiche (vendita diretta, mercati degli agricoltori) lo spreco è mediamente 3 volte inferiore a quello dei sistemi della grande distribuzione”. Un divario che aumenta ulteriormente se consideriamo filiere ecologiche e solidali: “Proprio così! In reti alimentari ancor più capillari su base ecologica, locale, solidale e di piccola scala come gruppi di acquisto solidale e agricolture supportate da comunità (CSA, dove i consumatori sono anche produttori) lo spreco è mediamente 8 volte inferiore”.
Numeri che non lasciano spazio a dubbi: per risolvere le disfunzioni e gli sprechi dei sistemi alimentari è essenziale rendere accessibili le alternative ecologiche e solidali ad una parte sempre più ampia della popolazione.
E in Italia, come siamo messi? Anche nel nostro Paese, come nel resto del mondo, questo problema è stato per lungo tempo ampiamente sottostimato, poco indagato e documentato. E sebbene negli ultimi anni ci sia stata una maggiore presa di coscienza, l’approccio per mitigare lo spreco alimentare si è comunque sempre concentrato sul destino dei rifiuti alimentari, producendo sì risultati significativi – anche grazie ad una legge che, tra le prime in Europa, contrasta il fenomeno (L. 166/2016) – ma rivelandosi comunque una soluzione parziale e limitata al cibo già prodotto in eccesso.
Ad oggi infatti l’impronta ecologica (ovvero la capacità di un determinato territorio di rigenerare risorse e assorbire rifiuti) dello spreco alimentare nostrano impiega circa il 50% della biocapacità  totale, soprattutto a causa degli effetti negativi nelle fasi produttive. “Considerando anche la sovralimentazione e le considerevoli perdite derivanti dagli allevamenti animali – ci spiega Giulio – si calcola che lo spreco sistemico rispetto ai fabbisogni raccomandati, potrebbe essere almeno il 63% della produzione iniziale (4160 kcal/procapite/giorno) in Italia. Questo significa che più della metà del cibo prodotto viene sprecatoNel mondo lo spreco sistemico è circa il 50% (1900 kcal/procapite/giorno) contribuendo in modo determinante al superamento dei limiti planetari di resilienza e stabilità ecologica”.




























“Considerando le impronte ecologiche dei sistemi alimentari e dei loro sprechi, per rientrare nelle biocapacità dei territori di rigenerare le risorse e assorbire i rifiuti in tempi limitati, gli sprechi sistemici (con sovralimentazione e uso per allevamenti) vanno ridotti ad almeno un terzo degli attuali nel mondo e ad almeno un quarto in Italia. Un obiettivo minimo potrebbero essere livelli medi di spreco sistemico al di sotto del15-20%, con una transizione verso le reti alimentari alternative”.
 
Insomma ciò che serve è una vera e propria strategia che aumenti la resilienza ecologica e sociale trasformando strutturalmente i sistemi alimentari. “In questo senso la rilocalizzazione ecologica e solidale dei sistemi agro-alimentari su piccola scala può diventare il principale indirizzo di una strategia complessa per garantire sicurezza e autosufficienza alimentare, nonché capacità di adattamento e prevenzione di fronte ai pericoli naturali e antropici che si stanno manifestando” commenta Giulio.
Purtroppo, malgrado l’evidenza, nel nostro Paese come altrove sembra si stia prendendo la direzione opposta. Le piccole e medie aziende, quelle che in Italia sono la maggioranza (secondo i più recenti dati Istat l’84% delle imprese agricole italiane non supera i 10 ettari) e dalle quali potrebbe e dovrebbe partire la strategia di riduzione degli sprechi, è in profonda crisi. Secondo l’ultimo censimento generale dell’agricoltura del 2010, circa l’80% di tutte le aziende agricole (circa 1.300.000) ha un fatturato inferiore ai 20.000 euro l’anno, il 67% è sotto i 10.000 euro l’anno, circa il 55% è sotto i 7.000 euro (microimprese) e, seppur godendo di un regime fiscale agevolato, non riesce a tenere il passo con la grande distribuzione organizzata e a competere con i grandi produttori. “Negli ultimi anni si è avuta un’enorme riduzione del numero delle piccole e medie aziende e del numero degli addetti – ci spiega Giulio – In Italia l’1% delle aziende controlla il 30% delle terre agricole e il 3% dei proprietari detiene il 48% della Superficie Agricola Utilizzata. Circa 22.000 aziende con una taglia superiore ai 100 ettari si spartiscono oltre 6,5 milioni di ettari di superficie agricola, e negli ultimi 10 anni c’è stato un crollo del numero delle aziende con una taglia sotto i 20 ettari. La piccola agricoltura, quella con una taglia inferiore ai 20 ettari e che è il cuore dell’agricoltura italiana, viene così drasticamente ridotta”.
 
Con tutto ciò che ne consegue, non solo in termini di occupazione, lavoro e reddito, ma anche e soprattutto in termini di sovranità alimentare, biodiversità, sostenibilità e, ovviamente sprechi alimentari e di risorse.
 
Agevolare queste realtà non solo sarebbe una strategia vincente in termini occupazionali ma permetterebbe anche al nostro Paese di ridurre significativamente gli sprechi. In linea con gli Accordi di Parigi e con le direttive ONU per lo sviluppo sostenibile: “Le Nazioni Unite, infatti, da tempo hanno inserito tra le proprie priorità il dimezzamento (in energia alimentare pro capite), entro il 2030, degli sprechi globali in vendita al dettaglio e consumo e (genericamente) la riduzione di perdite in produzione e fornitura. Un obiettivo che necessita di un importante e immediato cambio di passo – conclude Giulio – che riguarda indubbiamente le politiche nazionali e sovranazionali, ma anche e soprattutto le decisioni dei produttori insieme alle scelte dei consumatori“.

fonte: http://www.decrescitafelice.it