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#VivoGreen: #Facciamo la #Spesa al #Negozio del #Futuro








 

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#VivoGreen: il #Negozio del #Futuro #Presente a #Terni

#RifiutiZeroUmbria @Cru_rz ha fatto la sua visita al negozio #VivoGreen di #Terni.









E' il #Negozio del #Futuro, dove si prova a #ridurre al #minimo gli #imballaggi, dove trovare #prodottisfusi o #prodottiallaspina, a #kmzero, dove viene #regalata #acqua alla #spina, un futuro che torna dal passato e che speriamo diventi #presente prima possibile #nonsoloaTerni per #ridurre #azzerare l'#impatto della #piccola e #grandedistribuzione che possiamo annoverare tra i #maggioriresponsabili della #produzionerifiuti #daimballaggio

Anna Rita Guarducci intervista David Milani, responsabile del negozio #VivoGreen


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Ecospiagge: 12 consigli per stabilimenti balneari sostenibili, accessibili e circolari

Siete tra coloro che d'estate preferite il mare? Ecco allora una serie di suggerimenti per individuare i lidi più ecologici. Si tratta di una serie accorgimenti- dalla mobilità sostenibile ai rifiuti inutili allo spreco d'acqua - per una stagione che possa essere circolare a partire dalle scelte individuali





Negli ultimi giorni l’estate ci è scoppiata addosso. E, come ripetono in tanti, il 2021 sarà un anno fondamentale per capire se torneremo a una normalità pre-pandemica o se impareremo a convivere con il Covid. Intanto, però, tra le lezioni apprese dal coronavirus c’è anche quella della sostenibilità. Il caldo afoso di queste ore è un ulteriore elemento che ci fa comprendere che non si può più prescindere dalle pratiche ambientali virtuose. Ecco allora una serie di consigli da seguire in spiaggia, e in special modo nei lidi dove andremo a trascorrere ampie parti delle nostre giornate.

Raccolta differenziata

Al giorno d’oggi disporre di un contenitore per la raccolta differenziata appare semplice eppure non dovremmo considerarla una cosa così scontata. Anche il loro numero e la dislocazione aiuta le persone a non buttare tutto a casaccio. In un eco-lido è buona norma poi apporre un cartello che spieghi come differenziare i vari rifiuti. Le regole, infatti, possono cambiare da Comune a Comune così come possono essere diversi i colori di riferimento. Guidare le persone nel corretto conferimento degli avanzi di un pranzo o di una lattina vuota sarà molto utile in un’ottica di stabilimento circolare.

Favorire la mobilità sostenibile

Come posso arrivare al lido? Questa è una di quelle domande che non devono essere sottovalutate specialmente nel caso di strutture scelte soprattutto da turisti che non conoscono il territorio. Se la spiaggia è raggiungibile facilmente con i mezzi pubblici o a piedi sarà utile indicarlo sui canali social e sul sito internet. Porre una rastrelliera (meglio se all’ombra) favorirà gli spostamenti in bicicletta o con strumenti di micro mobilità elettrica come i monopattini. Che ne dite poi di installare delle colonnine per la ricarica elettrica delle e-cars?

Tutta la forza del sole

Andiamo in spiaggia proprio per lui: il sole. Un eco-lido solitamente sfrutta questa risorsa non solo come attrattiva per la clientela, ma, soprattutto, installando pannelli solari-termici che consentiranno di avere gratuitamente acqua calda (perfetta per le docce) sfruttando l’energia pulita della stella del nostro sistema solare. Per soddisfare i fabbisogni elettrici potranno poi essere installati pannelli fotovoltaici. Cosa accade quando lo stabilimento è chiuso? L’energia prodotta finirà nella rete pubblica consentendo di contribuire al raggiungimento della transizione energetica.

Efficienza energetica

Anche se l’elettricità viene prodotta da fonti rinnovabili bisogna sempre ricordare che la prima forma di energia pulita è quella che non viene prodotta: l’efficienza. Dagli impianti di illuminazione agli apparecchi elettrici ed elettronici, ricordate sempre di scegliere prodotti che abbiano una classe energetica pari o superiore ad A.

Acqua piovana oro blu dal cielo

Uno stabilimento a vocazione verde cerca spesso di realizzare angoli con giardini o alberi che possano creare un’ombra naturale. Ove possibile, realizzare dei sistemi di raccolta delle acque piovane permetterà di garantire alle piante una fonte di approvvigionamento idrico.

Sprecare l’acqua? No grazie

Forse non tutti sanno che un modo per ridurre il fabbisogno idrico può essere ottenuto riutilizzando le acque grigie come quelle delle docce. Raccolte e opportunamente filtrate e trattate, potranno essere riutilizzate. Come? Ad esempio per riempire gli scarichi dei wc. Un perfetto esempio di economia circolare del ciclo delle acque. Inoltre, per ridurre gli sprechi sarà utile e opportuno installare docce e rubinetti a tempo.

Ecodetergenti, ecosaponi e creme solari

Negli stabilimenti – in particolar modo ai tempi del Covid – la pulizia è un’attività continua. Esistono molteplici detergenti in commercio il cui l’ “inci”, ovverosia la composizione, ottiene il semaforo verde (su Ecobiocontrol potrete facilmente controllare l’impatto ambientale degli ingredienti). Qualora non siate ferrati in chimica, saranno un valido aiuto le certificazioni come, ad esempio, l’Ecolabel (come recita il disciplinare europeo “tutte le sostanze tensioattive utilizzate nel prodotto devono essere biodegradabili in condizioni anaerobiche”) o quelle che vengono conferite ai prodotti ottenuti con ingredienti biologici. In ogni caso anche ridurre le dosi dei detersivi usati – dei quali troppo spesso viene fatto un abuso – potrà essere di per sé un primo importante passo.

Lo stesso discorso è valido per i saponi e le creme solari spesso in vendita negli store dei lidi. Bisogna ricordare che, quando entriamo in acqua, potrebbero essere rilasciate sostanze chimiche nocive per la flora e la fauna marina. Considerate che in luoghi incantevoli come le Hawaii o la Micronesia sono vietate le protezioni che non siano biodegradabili. Shampoo e bagnoschiuma poi, specie se vengono dispersi nell’ambiente (come nel caso di docce all’aperto), debbono essere banditi: per lavar via la salsedine sarà sufficiente un po’ d’acqua.

Lotta alla plastica monouso e ai rifiuti inutili

Acqua e bevande in vetro o lattina, contenitori monouso biodegrabili e compostabili, possibilità di utilizzo di piatti, bicchieri e tazzine riutilizzabili in ceramica: sono solo alcune delle soluzioni plastic free che si possono adottare nei lidi. Basta fare un bagno in mare per ricordarci che queste scelte sono essenziali. Su alcuni lungomari oggi si trovano anche le cosiddette casette dell’acqua: basta una borraccia e ci si può dissetare senza dover acquistare acqua imbottigliata (spesso in contenitori di plastica).

Nell’anno (o meglio nel biennio) del Covid è aumentato il numero delle persone che hanno deciso di utilizzare il bancomat per effettuare i pagamenti riducendo così ogni contatto interpersonale. Come riportato recentemente da SumUp, crescono anche i pagamenti effettuati sotto l’ombrellone tramite smartwatch. Utilizzando tali dispositivi mobili, lo scontrino viene sostituito da un sms e in questo modo otterremo un rifiuto (peraltro non riciclabile) in meno in spiaggia.

Un ecomenù del territorio

Spesso gli stabilimenti balneari offrono ai propri clienti la possibilità di mangiare: che sia un pasto veloce o sia servito in un vero e proprio ristorante, la struttura sostenibile dovrà servire prodotti locali e di stagione evitando l’offerta di cibi esotici o tipicamente invernali. Lasciatevi sedurre da sapori a km zero, meglio ancora se bio.

Accessibilità

Fortunatamente, la sostenibilità dei luoghi è sempre più intesa non solo in relazione all’impatto ambientale ma anche ai principi dell’inclusione e dell’accessibilità degli spazi. Sarà opportuno realizzare strutture che consentano a tutti l’accesso alla spiaggia. In tal senso sarà fondamentale predisporre e attrezzare le strutture tenendo conto delle esigenze delle persone con disabilità motoria e/o cognitivo-comportamentale, pensando anche agli anziani o alle famiglie con bambini.

Come trovare tali strutture? Ad esempio sul portale spiagge.it – selezionando i lidi con “spiagge accessibili a disabili” – che consente di prenotare il proprio lettino comodamente tramite una app, evitando anche di fare viaggi a vuoto.

Cicche in spiaggia no grazie

I filtri delle sigarette possono impiegare diversi anni prima di degradarsi e, nel frattempo, mozzicone dopo mozzicone, invadono le spiagge divenendo un pericolo per pesci e uccelli che possono scambiarli per cibo. Molti gestori balneari hanno dichiarato guerra a questi piccoli ma grandi pericoli e, in alcuni casi, è stato reso obbligatorio per i fumatori l’uso di posacenere tascabili.

In alcuni stabilimenti gli avventori che consegnano ai gestori un bicchiere pieno di cicche ottengono in regalo una birra fresca mentre in altri sono attivi sistemi come i “Cicca Goal” attraverso i quali – grazie a due contenitori dedicati ad altrettante squadre – i fumatori vengono invitati a gettare correttamente la sigaretta nel secchio indicando la squadra per la quale fanno il tifo per un sondaggio tra villeggianti sui colori del cuore.

Fare informazione ambientale e culturale

In ogni caso è opportuno che uno stabilimento che applica le buone pratiche dell’ecosostenibilità pubblicizzi le sue scelte dotandosi di cartelloni e sistemi di informazione che aiutino le persone a seguire le regole, ma anche a scoprire e rispettare l’ecosistema che le circonda. Ad esempio è buona regola invitare gli avventori a non portar via nulla dal mare – dalle stelle marine alle conchiglie – spiegandone le ragioni e facendo comprendere l’importanza di preservare i fragili equilibri dell’ecosistema.

Se poi si ha il privilegio dii trovarsi in un luogo dove avviene la nidificazione delle tartarughe, si potranno indicare le buone regole di una spiaggia tartafriendly per non danneggiare le uova (i cui nidi vengono spesso recintati dai volontari e dai centri di recupero di tartarughe marine) evitando ogni interazione con le tartarughe appena nate. Ricordate, infine, di fornire ai vostri ospiti informazioni sulle bellezze artistico-naturalistiche e sulle manifestazioni della zona, per promuovere un turismo di prossimità.

fonte: economiacircolare.com




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LineaVerdeLife: VivoGreen, il supermercato del futuro

 




LineaVerdeLife


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Con le comunità dell’energia arriva l’elettricità a km zero

Le fonti rinnovabili potranno alimentare case, uffici e imprese nell’area vicina al punto in cui l’energia viene prodotta










Una rivoluzione da 17 gigawatt di energia pulita in 10 anni: tanti sarebbero, secondo Legambiente, i nuovi impianti installati da qui al 2030 grazie alle nuove norme sulle comunità energetiche: un ritmo più che triplicato rispetto ai circa 460 megawatt/anno attuali. E forse tra qualche anno nemmeno ricorderemo più l’epoca in cui poche grandi centrali alimentate con fonti fossili producevano tutta l’energia per i nostri frigoriferi, i macchinari delle imprese, i semafori.

La pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto Incentivi ha reso finalmente realizzabili – grazie al recepimento anticipato di parte della direttiva europea sulle rinnovabili (RED II) – l’autoconsumo collettivo e le comunità energetiche. Il primo permette, a chi abita o lavora nello stesso edificio, di produrre e consumare insieme energia sul posto. Le seconde, una vera rivoluzione già attiva in altri Paesi del nord Europa come Danimarca e Germania, consente di dare vita a vere comunità composte di tanti soggetti (persone fisiche, piccole e medie imprese, istituzioni locali) purché vicini tra loro: il confine lo stabilisce la connessione alla medesima cabina di trasformazione di media/bassa tensione.

Si potrà produrre e consumare sul posto energia rinnovabile senza passare per la rete elettrica nazionale. Con il vantaggio di ridurre le perdite di rete. “Un cambiamento”, sottolinea Gianni Girotto, presidente della commissione Industria del Senato, uno dei fautori di questa possibilità, “che sposta il baricentro della produzione e del consumo di energia sul territorio, sui Comuni, sulle comunità locali, sulle piccole imprese. Un cambio culturale del modello produttivo industriale che determinerà vantaggi e benefici ambientali, sociali ed economici per tutti”.

La nascita delle energy community, secondo Legambiente, porterebbe investimenti di oltre 13 miliardi di euro e quasi 40 mila posti di lavoro, tra quelli diretti per la realizzazione degli impianti e quelli legati a gestione, efficientamento, integrazione con la mobilità sostenibile. Altra conseguenza non irrilevante sarebbe l’aumento del gettito fiscale di circa 1,1 miliardi di euro. Per non parlare dei vantaggi ambientali: 47 milioni di tonnellate di CO2 in meno al 2030.

Una stima, spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, delle “potenzialità nel nostro Paese di uno scenario di condivisione e autoproduzione dell’energia, che ha grandi vantaggi perché permette di sviluppare le rinnovabili dove c’è la domanda: nei quartieri, nei distretti produttivi, nelle aree interne e agricole”. Per l’Italia, aggiunge, questo “vuol dire anche rilanciare il settore edilizio, che può puntare su progetti integrati di efficienza energetica e di rinnovabili con le comunità energetiche e con la connessione alla mobilità elettrica”.

Ottenere questi risultati dipenderà dal recepimento integrale della direttiva. Oggi si possono realizzare progetti fino a 200 kW: il disegno di legge delega è alla Camera per l’approvazione, poi spetterà al governo presentare un decreto legislativo.

E dipenderà dall’adesione degli italiani. Per questo la Commissione industria del Senato sta lavorando affinché le amministrazioni locali incoraggino “politiche sociali attive” che coinvolgano i cittadini nella creazione delle comunità energetiche. Anche grazie a sportelli informativi.

Nel cammino per la crescente penetrazione dall’autoconsumo nelle comunità entra anche Enea, uno dei partner italiani del progetto europeo COME RES (Community Energy for the uptake of renewables in the electricity sector), finanziato con circa tre milioni di euro dal programma Horizon 2020: “Nell’ambito di questo progetto Enea mette a disposizione le competenze tecnico scientifiche per la progettazione delle comunità energetiche”, spiega Elena De Luca ricercatrice del Dipartimento tecnologie energetiche e fonti rinnovabili. “Oltre alla capacità di fare rete a livello territoriale per lo stretto rapporto con decisori politici a livello nazionale e locale, operatori del mercato energetico, associazioni di categoria e del terzo settore, cittadini”

fonte: www.huffingtonpost.it


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Elisa Catalini racconta la sua Ecobottega: da sfuso e riuso, alle consegne a domicilio

MONTEGIORGIO - Elisa Catalini è una giovane commerciante che, a maggio di due anni fa, ha dato vita ad un' attività che era caduta in disuso: la spesa sfusa e il riciclo. E oggi si trova di fronte al paradosso di un commercio all'antica che incontra il progresso dell'online










In un mondo che sta andando verso un futuro imprevedibile c’è chi sceglie di ancorarsi sempre più alla genuinità del passato pur adattandosi alle esigenze del presente.
Elisa Catalini, titolare di Amati Ecobottega, piccolo negozio nell’entroterra fermano, precisamente Montegiorgio, in attesa di avere il suo catalogo online (pronto per il nuovo anno) presenta il catalogo natalizio con servizio “prenota e ritira”, ormai imprescindibile in questa realtà pandemica che ci ha catapultati tutti nell’era digitale.
I prodotti a km zero, per la cura della casa o della persona, sono così in grado di percorrere strade di ogni genere per raggiungere i clienti a domicilio: una filiera corta e controllata, di piccoli produttori e agricoltori locali di cui Elisa conosce e tramanda le storie, piene di sacrifici e buona volontà. Una sorta di mediazione tra loro e i consumatori che hanno l’opportunità di conoscere ciò che acquistano.

Quello che propongo è un modo di fare la spesa come una volta ; spiega la giovane titolare di bottega. Entrare in un piccolo negozio ci permette di scambiare opinioni e consigli e ricreare quei valori e rapporti che il progresso in qualche modo sta distruggendo. Ma questo particolare momento non consente sempre e a tutti di poter uscire in libertà, così ho deciso che siano comunque i prodotti a mantenere queste relazioni con la nostra terra, le nostre abitudini. Puntare sui sapori e sulla qualità ci permette di godere di quella serenità che solo le cose buone e genuine sanno procurare. La mia filosofia è semplice, sottolinea,  scelgo il biologico per l’attenzione alla salute, con prodotti derivanti da coltivazioni senza uso di fertilizzanti chimici. Vendo ‘sfuso’ per diminuire gli sprechi acquistando solo il necessario e per ridurre l’inquinamento eliminando gli imballi superflui. Acquisto e vendo a Km0 per sostenere il nostro territorio, valorizzando le economie locali con il vantaggio di acquistare prodotti freschi e di stagione.

Nella ecobottega Amati si trova, infatti, un assortimento di prodotti che spazia dai generi alimentari sfusi (pasta, cereali, legumi, frutta secca, semi, spezie, tè, infusi, caffè, biscotti di forni selezionati, biscotti senza glutine, senza zucchero e solo con farine integrali) ai ‘Vegan Food’ (prodotti senza ingredienti di origini animale) e alimenti ‘gluten free’ o altri alimenti per chi soffre di intolleranze alimentari. Ma non solo. Nella bottega di Montegiorgio è possibile acquistare anche cosmetici naturali e biologici a km0 come pure ecodetergenti alla spina (dai prodotti per il bucato a quelli per la pulizia della casa e l’igiene personale).
Basta scegliere la quantità desiderata. Una spesa “sfusa” che permette quindi il riciclo e il riuso.

AmaTi ecobottega” da maggio 2018 è un luogo dove si può scegliere sia la qualità che la quantità usando propri contenitori per risparmiare rispettando l’ambiente. Un’attività nata dalla passione di Elisa Catalini per le cose buone, naturali e per il nostro territorio, con l’intento di essere un punto di riferimento per chi è alla ricerca di cibo sano e per chi è rispettoso dell’ambiente. Un sistema di acquisto consapevole che propone, oltre al confezionato, una gamma di prodotti sfusi, stoccati in appositi dispenser e contenitori per offrire la libertà di scegliere le quantità di cui si ha bisogno incentivando il riciclo e il riuso
E per Natale tante idee regalo a partire da soli 2,50 €: cesti, Xmas Box, shopper e packaging rigorosamente biodegradabile. Fare un regalo senza rischi è possibile grazie alla consegna a domicilio scegliendo i prodotti dal catalogo natalizio dove trovare anche tanti consigli sul miglior utilizzo dei prodotti e gustose ricette.
“Regalare prodotti sani, di qualità, utili ed ecosostenibili significa donare rispetto, condivisione e un momento di gioia a chi li riceverà.”. Sorride Elisa Catalini pronta a rispondere alle esigenze di questo tempo con la genuinità di quel passato che è decisamente ancora attuale.
AmaTi Ecobottega è a Piane di Montegiorgio (FM) in Via Faleriense Est, 31 Email: info@amatiecobottega.it  Telefono/whatsapp: "tel://3395099281"



fonte: www.cronachefermane.it


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Il valore dell’energia rinnovabile a chilometro zero

Torniamo a parlare dei benefici della produzione e del consumo locale di energia. Una ricerca dalla California conferma che anche l’approccio delle Comunità Energetiche può essere efficace nella riduzione delle emissioni.




Se è vero che l’energia da fonte rinnovabile ha un impatto ambientale inferiore a quella fossile, in entrambi i casi la vicinanza del luogo di produzione e di consumo contribuisce sensibilmente alla riduzione degli sprechi.

I luoghi di produzione dell’energia, sia da fonti fossili che da rinnovabili, spesso non coincidono con quelli di maggior consumo, l’energia viene trasportata anche per lunghe distanze con sprechi e inefficienze importanti.

Una ricerca californiana appena pubblicata su Frontiers in Sustainability, dal titolo “Local Energy: Spatial proximity of energy providers to their power resources” (in basso il link alla ricerca) rivela che in un’epoca in cui cresce l’interesse per la generazione locale di energia, i fornitori di energia continuano a rifornirsi di risorse, anche rinnovabili, lontani dai carichi della domanda e spesso di provenienza ignota.

Gli autori della ricerca, Madison K. Hoffacker e Rebecca R. Hernandez, hanno scoperto che, in media, le risorse energetiche acquistate dai distributori della California provenivano da 270 miglia di distanza, a nord fino al Canada e a est fino all’Oklahoma. Di queste, invece, il 100% da carbone e da nucleare proveniva dalla stessa California.

“Siamo rimasti entrambi sorpresi da questi risultati – hanno commentato – che ci dicono che la produzione dell’energia distribuita in California è prodotta molto lontano dai suoi consumatori”.

Lo studio ha inoltre rilevato che solo il 20% circa dell’energia acquistata era locale. Il restante 80% è ciò che gli autori chiamano “outsited“: energia generata al di fuori dell’ambito in cui opera il fornitore. Infatti, il 42% proveniva da fuori dello Stato.

I luoghi per la generazione non vengono selezionati semplicemente perché producono la massima energia, ma perché spesso è dove la terra costa poco (almeno negli Stati Uniti).

Perché è importante la distanza tra luogo di produzione e consumo?

Un altro studio pubblicato circa un anno fa su Nature Climate Change da Kavita Surana e Sarah M. Jordaan (in basso il link alla ricerca) ha rivelato che le perdite nella generazione di elettricità dovute alla trasmissione inefficiente e alle perdite di distribuzione determinano nel mondo circa un miliardo di tonnellate equivalenti di emissioni all’anno di anidride carbonica.

Secondo le loro stime, il contenimento delle inefficienze nella trasmissione e delle perdite di distribuzione porterebbe a una riduzione di tali emissioni da 411 a 544 milioni di tonnellate equivalenti.

Insieme, questi studi propongono un parallelo tra la produzione e il consumo di energia e quello del cibo, facendo emergere come l’attitudine del consumatore a verificare la provenienza del cibo prima di acquistarlo non trovi riscontro nell’acquisto e il consumo dell’energia.

“Nel settore alimentare – scrivono Hoffacker e Hernandez – la preoccupazione per la sostenibilità della filiera agricola, in particolare gli impatti ambientali associati al trasporto di alimenti su lunghe distanze, ha portato alla nascita di movimenti a favore del “local food” e a metriche per valutare i progressi raggiunti (ad es. Miglia alimentari).

Per comprendere le relazioni tra risorse energetiche e utilizzatori e il loro impatto sulla sostenibilità è necessario un approccio analogo, che riduca al minimo la distanza tra i fornitori di energia e i clienti e renda noto il luogo di produzione.

Che succede in California?

“Negli ultimi due decenni in California c’è stato un crescente interesse di persone che sostengono un approvvigionamento energetico più pulito e più resiliente “, ha detto a Qualenergia.it Madison Hoffacker. “Si sono adottati così sistemi di energia rinnovabile autosufficienti per le loro famiglie e stimolato i propri fornitori locali di energia a seguire l’esempio su scala più ampia”.

Da circa un decennio in California sono sorte le Community Choice Aggregation (CCA), aggregazioni a livello municipale che consentono ai governi locali di acquisire energia da fornitori alternativi anche per conto dei residenti e delle imprese, pur continuando a ricevere il servizio di trasmissione e distribuzione dal fornitore di servizi esistente.

In genere, aggregando la domanda le comunità riescono a negoziare tariffe migliori con fornitori competitivi e scegliere fonti di energia più pulite.

Le CCA sono diventate quindi un’opzione interessante per le comunità che desiderano un maggiore controllo locale sulle proprie fonti di elettricità, più energia rinnovabile e a prezzi inferiori di quanto offerto dall’utility tradizionale.

I ricercatori hanno tuttavia rilevato che, avendo iniziato la loro attività di recente, le CCA stanno ancora costruendo i loro portafogli energetici e per questo potrebbero dover affrontare ostacoli aggiuntivi rispetto ad altre tipologie di fornitori nell’acquistare energia a livello locale.

La ricerca ha permesso, infatti, di scoprire, da un lato, che le CCA acquistano 2,5 volte l’energia rinnovabile rispetto agli altri fornitori e che questa costituisce quasi la metà dei loro portafogli energetici; dall’altro, che le CCA acquistano la loro energia 2,5 volte più lontano dei loro competitors.

E quale cambio di rotta con le Comunità Energetiche?

Il Politecnico di Milano stima che in uno scenario mediano di sviluppo di comunità dell’energia e autoconsumo collettivo in Italia, nei prossimi 5 anni potremmo avere 3,6 GW di fotovoltaico in più (pari al 55% dell’obiettivo Pniec al 2025) e, da qui al 2044, una riduzione dei costi di trasmissione di circa mezzo miliardo di euro e un taglio della CO2 di oltre 25 milioni di tonnellate, per un valore di altri 500-750 milioni di euro (vedi QualEnergia.it).

La Direttiva europea sulle Comunità Energetiche è dunque veramente sfidante: incentivare l’autoconsumo orario locale significa minimizzare la quota di energia che dall’impianto di produzione va oltre la cabina di MT/BT, quindi ridurre significativamente sprechi, inefficienze ed emissioni, consentendo di conoscere esattamente la provenienza dell’energia consumata.

In Italia, in particolare nell’ambiente cooperativo e in quello dei GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), da oltre dieci anni si parla dell’energia mutuando il concetto di “Km Zero” dalla filiera alimentare senza che tuttavia si sia ancora riscontrato un interesse analogo a quello registrato per il cibo.

Le cooperative energetiche – è il caso di ènostra, WeForGreen, Energia Positiva, di cui abbiamo ampiamente trattato – si sono infatti sempre scontrate con l’impossibilità di fornire localmente l’energia prodotta con gli impianti finanziati collettivamente.

Con diverse sfumature, in queste esperienze la quantità di energia venduta ai soci (in alcuni casi anche tramite fornitori terzi) proviene solo in piccola parte dai propri impianti, mentre la restante è acquistata da altri produttori. Ancorché rinnovabile certificata, la provenienza dell’energia e la distanza dal luogo di consumo sono infatti sconosciute.

Le stesse cooperative, inoltre, sono andate via via assumendo carattere nazionale e, ampliando l’area geografica di residenza dei soci, gli impianti di produzione si sono sempre più allontanati dai luoghi di consumo dell’energia.

Sarà interessante verificare se gli esiti della sperimentazione delle Comunità Energetiche appena avviata potranno riportare le cooperative energetiche alla dimensione di comunità di territorio oltre che di scopo.

Certo è che se le Comunità Energetiche potranno moltiplicarsi e diffondersi saremo in grado anche di rivitalizzare e sviluppare le economie, le competenze e le professionalità locali.

La redistribuzione dell’economia nelle varie regioni italiane fa parte di un processo già innestato con il ritorno di migliaia di persone ai rispettivi luoghi di origine che, anche in modalità smart working, hanno ripreso a vivere, produrre e consumare (anche l’energia) lontano dalle grandi metropoli in un’ottica appunto di chilometri zero.

“Sono sempre colpita dalle somiglianze geografiche tra la California e l’Italia – dice Rebecca R. Hernandez – visto che affrontiamo molte delle stesse sfide nel raggiungimento degli obiettivi di una rapida transizione energetica verso le energie rinnovabili. Dare priorità alle rinnovabili locali produce ostacoli imprevisti, ma un numero crescente di studi (come quelli menzionati, ndr), dimostrano che la localizzazione della generazione di energia è una priorità che sia la California sia l’Italia non possono più ignorare”.

fonte: www.qualenergia.it


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Niente monoporzioni, a Bagno a Ripoli le mense ripartono nel segno del Plastic free e del Km 0

Pasti espressi, abolizione dell’usa e getta, materie prime del territorio, lotta agli sprechi. Nelle scuole del Comune la refezione scolastica riparte in sicurezza senza invertire la rotta.












BAGNO A RIPOLI (Fi) – Niente materiale a perdere, nessuna monoporzione, nessun pasto preconfezionato. L’emergenza sanitaria non fa invertire la rotta rispetto alla scelta “100% plastic free” adottata da tempo per le mense scolastiche di Bagno a Ripoli. Allo stesso modo i pasti continueranno a essere espressi, fatti con materie prime locali, biologiche e di filiera corta. Insomma sulla qualità delle sue mense scolastiche – tra le migliori d’Italia secondo Slow Food – Bagno a Ripoli non torna indietro.

Dalla prossima settimana SIAF, la società di refezione del Comune, dopo la chiusura forzata delle scuole causa lockdown tornerà a preparare il pasto per 1600 studenti, dalle materne alle medie.
Naturalmente qualche cambiamento ci sarà. Tutti i bambini pranzeranno in classe al proprio banco, che verrà igienizzato prima e dopo il pasto. Sarà potenziata la presenza in classe delle sporzionatrici di Siaf che potranno servire i bambini direttamente al loro posto o con soluzioni specifiche per ogni scuola individuate insieme al Comune e alle direzioni didattiche.

E’ stato fatto tutto il necessario per ripartire in sicurezza e nel rispetto dei protocolli anti-Covid, assicurano dal Comune e da Siaf, ma sulla qualità non si transige. Il menù conserva e rilancia l’impiego di prodotti di qualità, senza conservanti, materie prime locali, biologiche e di filiera corta, a partire dall’olio di Bagno a Ripoli fino alle verdure di stagione messe a disposizione dalle aziende agricole del territorio.

Alcuni piatti saranno tuttavia resi più semplici per rendere gli alunni più autonomi, specie i più piccoli. Alla “ciccia” da tagliare, così, si prediligono quest’anno i bocconcini di carne o il polpettone, più facili da mangiare da soli ma altrettanto buoni. E come sempre, la mensa scolastica di Bagno a Ripoli si conferma 100% plastic free, con la completa eliminazione del materiale a perdere dalle tavole dei bambini che consente alle scuole ripolesi di risparmiare 21 tonnellate di plastica all’anno.

“Se l’attenzione alle materie prime è da sempre il pallino della nostra mensa – dichiara il sindaco Francesco Casini – a dispetto della difficoltà del momento si rilancia l’attenzione all’ambiente con l’addio alla plastica e la lotta agli sprechi alimentari, e si rafforza il concetto del pranzo a scuola come momento educativo fondamentale per i più piccoli”.

fonte: https://www.toscanachiantiambiente.it

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Packaging ecosostenibile, materiali virtuosi e politiche green

Ricorrere a imballaggi virtuosi è una scelta in grado di apportare dei benefici sia ai produttori e alle aziende che ai consumatori




Prendersi cura della natura, del pianeta e delle sue risorse affinché la Terra rimanga un luogo bello e ospitale per le molte generazioni a venire è un dovere che riguarda tutti. Se i privati cittadini sono sempre più chiamati a fare la loro parte nella quotidianità, compiendo scelte green e improntate al rispetto dell’ambiente (la raccolta differenziata, l’acquisto di alimenti e materiali a chilometro zero, la scelta di prodotti plastic free e così via) è indubbio che una parte ancor più essenziale in questo contesto sono chiamate a interpretarla le grandi aziende, in ogni settore.

C’è un elemento che è costantemente presente nelle nostre giornate, in qualsiasi contesto e ad ogni ora: il packaging, gli imballaggi che ogni giorno riceviamo e apriamo. Una mole gigantesca di plastica e altri materiali, che finisce puntualmente nella spazzatura. Ecco perché uno degli obiettivi più importanti in tema di ecosostenibilità riguarda proprio la progettazione e la realizzazione da parte delle aziende di packaging ‘green’. Ricorrere a imballaggi virtuosi, infatti, è una scelta in grado di apportare dei benefici sia ai produttori e alle aziende che ai consumatori (che diventano sempre più sensibili). 


Progettare e diffondere imballaggi riciclabili e riutilizzabili

L’imballaggio il più delle volte è molto più ‘impattante’ e ingombrante del prodotto stesso. Anzi, capita spesso di percepire la sua presenza quasi come eccessiva o superflua (a cominciare dai sacchetti in plastica o le bustine per separare frutta e verdura ma non solo). Le soluzioni ci sono ma per trovarle devono essere interessati esperti del settore.

Definire e avviare la produzione di imballaggi sempre più virtuosi, riciclabili e riutilizzabili è la strada maestra che le aziende devono imboccare per raggiungere – nella prossima decade – obiettivi ambiziosi in tema di impatto ambientale. La cui riduzione, in primis, passa dall’abbattimento dei consumi di plastica vergine derivata dal petrolio. Occorre procedere con passi decisi all’alleggerimento del packaging e all’aumento dell’impiego di plastica riciclata in quest’ultimo.

Inoltre, ogni volta che sia possibile, si dovrà privilegiare l’utilizzo di materiali del tutto alternativi. Le politiche green sono ormai sempre più trasversali e quello della tutela del pianeta è un mantra che ha raggiunto una diffusione capillare e globale.
Le regole per un packaging rispettoso dell’ambiente e della salute umana

Il concetto di packaging è ampio e complesso, comprende tutti quei contenitori che rivestono i prodotti, mantenendoli al sicuro da contaminazioni esterne. Il loro compito è dunque proteggerli, senza mettere in pericolo la salute umana. Ma gli imballaggi possono ricoprire anche ulteriori funzioni, per esempio quella estetica dal momento che si tratta di elementi forti nell’ambito del marketing aziendale. Devono essere sviluppati, inoltre, con una funzionalità etica: il consumatore, cioè, deve ricevere un chiaro messaggio relativo all’importanza di tutelare il futuro della Terra. Ci sono tre ambiti principali che entrano in gioco quando si parla di ecosostenibilità: ambiente, economia e sociale.

Naturalmente il packaging per essere virtuoso e rispettare i diktat dell’ecosostenibilità deve ridurre il suo impatto ai minimi livelli sia per quanto riguarda l’ambiente che in relazione agli altri due ambiti. Per quanto riguarda materiali e prodotti migliori da utilizzare per il packaging sarà utile indicare in primis la plastica riciclata, raccolta dagli oceani e dalle spiagge, nei confronti della quale è in corso una campagna informativa e di sensibilizzazione internazionale. Poi, tra gli altri, ci sono PET (polietilene tereftalato), ovvero plastica 100% riciclabile la cui trasparenza è in grado di far risaltare il contenuto, ma anche polipropilene, anch’esso ideale per intraprendere politiche green aziendali poiché – con il PET – è la plastica ideale per il riciclo. La scelta dell’ecosostenibilità è in grado di orientare e influenzare i mercati, aumentando la brand reputation del marchio e dei relativi prodotti.

fonte: www.rinnovabili.it


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Orto 2.0: si coltiva sullo smartphone ma si mangia vera frutta e verdura. La piattaforma software che unisce produttore e consumatore


















La società cooperativa agricola Orto 2.0 nasce nell’estate del 2017 in risposta a uno dei problemi principali del settore agroalimentare: ottenere una certificazione reale su provenienza, metodo di coltivazione e freschezza dei prodotti orticoli. Ad oggi, la struttura della grande distribuzione organizzata (GDO) sembra accogliere perfettamente alcune inefficienze di mercato, dalle aste al ribasso, alle tempistiche dilatate della distribuzione, fino all’effetto specializzazione che colpisce i produttori diretti, incentivando l’adozione di mono coltivazioni per accaparrarsi una fetta di mercato maggiore con una maggiore offerta, generando così esternalità negative anche sull’ambiente. Il modello che proponiamo punta a troncare la filiera della grande distribuzione organizzata eliminando molti, se non tutti gli attori che la compongono. Orto 2.0 riesce a fondere le due figure cardine della filiera: il produttore e il consumatore, grazie allo sviluppo di una piattaforma software (app Android, iOS) che mette in contatto diretto i due attori.


Ogni utente può creare il suo orto virtuale di 50 metri quadrati, personalizzando 8 file di coltivazione

Attraverso uno smartphone, ogni utente può creare il suo orto virtuale di 50 metri quadrati, personalizzando 8 file di coltivazione con diverse varietà di ortaggi stagionali. Durante la compilazione, un algoritmo guida gli utenti nella creazione di un orto perfettamente consociato, sfruttando così alcune leggi tacite di convivenza delle piante scelte, rendendo efficienti la produzione e l’autodifesa dell’orto dai fattori esterni. Una volta compilato, il team di Orto 2.0 si occupa di tutta la fase di coltivazione, dalla semina alla raccolta, lanciando una serie di notifiche all’utente per aggiornarlo sullo stato delle proprie piante.

La coltivazione segue i principi dell’agricoltura naturale, il terreno viene concimato con stallatico di cavallo e il diserbo è esclusivamente manuale. Inoltre, i trattamenti che seguono le piante, sono a base di macerati realizzati con alcuni scarti di produzione agricoli (aglio, foglie di pomodoro e ortica) e le consociazioni instaurate tra le piante dell’orto contribuiscono a una maggiore difesa reciproca.

Non appena l’orto entra in produzione, una notifica settimanale concorderà modalità e orari di ritiro o consegna del raccolto. Assicurando la presenza di un tutor al suo fianco, già dalle prime entrate nell’orto, la cooperativa punta a rendere autonomi il maggior numero di clienti, formandoli su metodi di raccolta e cura delle piante, riuscendo così a coinvolgere le persone nell’attività di produzione del proprio cibo, aumentandone così anche il valore, impattando la sfera emozionale ed esperienziale. Per chi invece non ha tempo a disposizione, ma vuole accedere comunque a questo modello, il servizio base offerto dalla cooperativa copre qualsiasi tipo di mansione nell’orto.

La coltivazione segue i principi dell’agricoltura naturale, la concimazione è con stallatico di cavallo e il diserbo è esclusivamente manuale

L’obiettivo della società è quello di replicare questi punti produttivi circostanti alle grandi città, per assicurare una maggiore vicinanza al cliente, offrendo la possibilità di avere una porzione di terra dove coltivare il proprio cibo, pur vivendo in un ambiente urbano che molto spesso assorbe tempo ed energie necessarie per seguire il processo di crescita delle piante. Il modello infatti, è volto a garantire un servizio fluido, qualitativo e puntuale. La cooperativa punta a dare a tutti la possibilità di avere uno spazio dove passare del tempo libero e contemporaneamente formarsi sulle tecniche di produzione, in un ambiente verde, fuori dalle caotiche dinamiche urbane con l’obiettivo di riavvicinare le persone alla natura e ai suoi cicli, perpetrando una Slow Colture del cibo.

Lorenzo Artibani. Per approfondire il progetto Orto 2.0 si può vedere la pagina Facebook e Instagram

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Il km zero è un sogno per due terzi degli abitanti del pianeta: il sistema alimentare mondiale è sempre più globalizzato

















Consumare alimenti prodotti vicino a casa, il cosiddetto km zero, è vantaggioso per l’ambiente, perché abbatte l’impronta associata al trasporto e allo stoccaggio. Inoltre mette al riparo dagli effetti di eventi catastrofici ed emergenze globali come la pandemia da Covid-19. Ma non è alla portata di tutti. Al contrario, meno di un abitante della Terra su tre se lo può permettere, perché le filiere sono ormai globalizzate e perché in aree vastissime non ci sono le condizioni climatiche per far crescere, per esempio i cereali o altre colture fondamentali.
L’impossibilità di creare autosufficienza alimentare per tutti emerge da uno studio condotto da alcune università australiane, statunitensi ed europee coordinate da quella di Aalto, in Finlandia, pubblicato su Nature Food.  I ricercatori hanno creato un modello apposito considerando le condizioni climatiche minime per far crescere i cereali e legumi adatti ai vari climi temperati, tropicali… Hanno quindi calcolato la distanza tra colture e insediamenti umani, sia nella situazione attuale, che in un ipotetico scenario migliore, in cui lo spreco dovesse diminuire in misura significativa e i sistemi di coltivazione diventare più efficienti, ottenendo una situazione molto diversificata.
Se in Europa e Nord America i consumatori riescono ad avere la stragrande maggioranza dei cereali  che consumano da fonti situate entro 500 km, a livello globale la distanza media è di 3.800 km, e supera i mille km per una percentuale di popolazione che varia dal 26 al 64%. In generale  solo il 27% della popolazione mondiale ha accesso a cereali coltivati in zone temperate a meno di 100 km, valore che diventa 22% per quelli tropicali, 28% per il riso e 27% per i legumi. Per quanto riguarda il mais la percentuale scende ulteriormente, arrivando all’11%, un dato che più di ogni altro fotografa la grande concentrazione delle produzioni industriali di mais in enormi zone dedicate, mentre per i tuberi tropicali ci si ferma al 16%, per ragioni climatiche. Osservando poi la mappa dell’intera Terra preparata dagli autori, si nota come le popolazioni nella situazione peggiore che dipendono dall’importazione di alimenti essenziali siano quelle più povere e residenti nelle aree con il clima peggiore.
Per come è strutturato oggi il mercato, concludono i ricercatori, il sistema alimentare mondiale in definitiva non è in grado di assicurare l’autosufficienza a larghe fasce di popolazione. Ma migliorare la produzione locale e km zero avrebbe un sicuro impatto positivo da molteplici punti di vista, anche se in zone densamente popolate potrebbe esacerbare problemi di distribuzione e inquinamento delle acque. 
fonte: www.ilfattoalimentare.it

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Non ci salvano i supermercati ma chi coltiva e chi raccoglie

Avere meno del 4% degli occupati in agricoltura è una pistola costantemente puntata alla tempia del nostro paese, che un giorno lontano era chiamato il Giardino d’Europa. E ora con l'emergenza coronavirus manca anche chi raccoglie. Cosa mangeremo?


















Avere meno del 4% degli occupati in agricoltura è una pistola costantemente puntata alla tempia del nostro paese, che un giorno lontano era chiamato il Giardino d’Europa. Nel settore primario (sarà un caso che si chiama così?) agricolo che determina la nostra sopravvivenza lavora una percentuale ridicola di lavoratori, se paragonata agli altri settori. E come se ciò non fosse già molto pericoloso, si tratta in grandissima parte di una agricoltura che dipende totalmente dalle fonti fossili.
Basta una qualsiasi crisetta di approvvigionamento e ci ritroviamo alla fame. Questo perchè i nostri decisori politici sono così lungimiranti che per rendere le cose ancora più eccitanti, hanno deciso di farci dipendere energeticamente per più del 75% dall’estero e dai combustibili fossili. Qualsiasi cosa succede o decide chi all’estero ha la mano sui nostri rubinetti energetici, noi siamo spacciati.
E per non farci mancare proprio nulla in fatto di rischio, l’agricoltura dipende molto dalla manodopera di persone che spesso vengono da paesi esteri e per questo più facilmente sfruttabili. Con la cosiddetta emergenza coronavirus, mancano o sono bloccati molti dei lavoratori che raccolgono gli alimenti nei campi, soprattutto in un periodo come quello primaverile/estivo che, per chi pensa che il cibo cresca direttamente negli scaffali dei supermercati, è fondamentale.
Improvvisamente si è scoperta la dipendenza da quei lavoratori che qualcuno vorrebbe ributtare a mare quando fa comodo per avere voti elettorali ma che poi sono quelli senza i quali i raccolti delle campagne sono a rischio. E quei lavoratori fanno comodo anche alle aziende prive di scrupoli, alle mafie, ai caporali, ai supermercati e al consumatore perché senza di loro, che lavorano pesantemente per qualche spicciolo l’ora, non potremmo comprare il cibo a prezzi irrisori.
La nostra politica ora si è accorta che lasciare marcire il cibo nei campi potrebbe essere un problemino che nessun supermercato può risolvere. Quindi si cercano come sempre soluzioni di corsa che non possono che essere delle non soluzioni dove vige l’improvvisazione e l’ipocrisia. Si invocano sanatorie, regolarizzazioni temporali o fisse, anche per quei lavoratori dalla carnagione più scura della nostra che ci servono per raccogliere gli alimenti. Oppure si invocano i lavoratori rumeni che però sembra ci stiano facendo il gesto dell’ombrello, visto che non si può prima creare il panico, fare scappare tutti, chiudere in casa la gente e poi quando fa comodo, chiedere l’aiuto di chi si è terrorizzato. Altri vogliono mandare nei campi quelli che percepiscono il reddito di cittadinanza o i disoccupati in genere. Ottima idea ma se ci mandiamo i nostri ariani italici (ammesso che ci vogliano andare), mica possiamo dare loro qualche spicciolo all’ora come percepiscono ad esempio quei lavoratori dalla carnagione più scura della nostra; mica li possiamo fare vivere ammassati nelle baracche, senza acqua, senza servizi igienici, senza nulla; mica li possiamo trattare come bestie nei furgoni del trasporto della mafia e dei caporali. Qualche diritto e una paga dignitosa gliela si deve pure garantire, se non altro perché sono appunto della nostra stessa razza ariana italica e assai difficilmente accetterebbero le condizioni disumane che invece non ci turbano se sono sottoposte ai non italici.
Ma se succede tutto questo, poi gli alimenti quanto ci verranno a costare? Di sicuro non il poco che costano adesso grazie proprio a chi viene sfruttato in maniera vergognosa. E chi sarebbe poi disposto a pagare quel cibo il giusto prezzo?
In questa fase suggerirei a gente come Salvini di combattere la sua personale battaglia del grano e di andare lui a torso nudo modello Papeete a raccogliere gli alimenti nei campi, magari nel sud Italia, così da dare il buon italico/padano esempio alle masse. Lo faccia come campagna elettorale anche solo per un mesetto di seguito, farà un figurone.
Oppure ora mi rivolgerei a tutti i fanatici invasati della supertecnologia chiedendogli di mandare eserciti di droni e robot vari a raccogliere nei campi in un attimo tutto quello che serve e consegnarcelo direttamente sull’uscio di casa. Immagino che sia tecnicamente fattibilissimo, non costi nemmeno nulla e così risolviamo tutti i problemi. Attendo istruzioni in merito dai suddetti fanatici, anzi mi chiedo come mai non ci sia già una task force che stia risolvendo la situazione nel tempo di un click. Ma chissà, forse se si aggrava il problema si deciderà di accelerare la fine dell’emergenza corona virus perché senza mangiare si muore davvero come mosche.
In ogni caso la soluzione per non ritrovarsi più in simili assurde e pericolose situazioni è ritornare a coltivare la terra ovunque sia possibile e per favore non si tiri fuori la solita insostenibile scusa che i terreni costano, perché per farsi almeno un orto, non servono di certo ettari. Inoltre ci sono gli usi civici e ovunque terre incolte, abbandonate, di chi non sa cosa farci e che possono essere chieste in affitto, in comodato d’uso, ecc. Poi ci sono gli orti collettivi comunali, di quartiere, di circoscrizione e se non ci sono, fondateli voi. Queste sono tutte strade percorribilissime senza essere ricchi o spendere chissà quali soldi.
Quindi è bene aumentare l’autoproduzione e per il resto si può acquistare direttamente dai piccoli produttori biologici locali che sono strangolati dalla grande distribuzione, quella che ci dicono che ci sta salvando, quando l’unica cosa che sta facendo sono affari giganteschi. Per fare ciò è possibile anche creare o rivolgersi ai gruppi di acquisto collettivo che sono sparsi in tutta Italia e che da anni fanno un lavoro prezioso come ad esempio qui dalle nostre parti è molto attivo il gruppo storico di acquisto collettivo Pulmino contadino . Sempre in questa ottica si può guardare all’attività encomiabile di strutture come il movimento wwoof che supporta da sempre proprio il mondo agricolo di prossimità. Ma queste sono solo alcune delle tante soluzioni a portata di mano per qualsiasi persona di buona volontà.
Paolo Ermani
fonte: www.ilcambiamento.it

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