L’energia generata localmente da fonti rinnovabili e gestita da comunità energetiche. L’agricoltura, convertita al biologico, alla piccola taglia, alla multicoltura e alla prossimità. La mobilità, affidata a sistemi di trasporto condivisi e flessibili (di massa e a domanda). L’edilizia affidata alla valorizzazione del già costruito e all’efficientamento energetico. Chi mai ci
Come prepararsi alla conversione ecologica
Progetto RECOCER, una cabina di regia per le Comunità energetiche
La Regione del Friuli Venezia Giulia ha assegnato 5,4 milioni di euro alla Comunità Collinare del Friuli. Obiettivo: realizzare uno dei ...
Ambiente, territorio e cittadinanza attiva: il ruolo delle comunità energetiche

L’energia proveniente dalla fonti rinnovabili è oggi sempre più accessibile grazie allo sviluppo delle tecnologie produttive. Una prima soluzione utilizzata in Italia sono stati i sistemi di accumulo da collegare ai propri impianti fotovoltaici, così da consumare l’energia al bisogno. Oggi c'è un modo per ottimizzare lo sfruttamento dell’energia prodotta dai pannelli solari: si tratta delle Comunità energetiche previste dalla Direttiva 2018/2001 sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili - RED II (art. 21 e 22) ed introdotte in Italia dal DL 162/2019 (art.42 bis). Il 20 aprile scorso è stata tra l'altro approvata definitivamente dal Parlamento la Legge di delegazione europea 2019-2020 che rende operative le disposizioni della Direttiva RED II e nel Recovery plan, approvato il 27 aprile dal Parlamento, sono stanziati appositi fondi (2,2 miliardi) proprio per le Comunità energetiche e l'autoconsumo.
La normativa prevede nello specifico due forme di autoconsumo collettivo:
autoconsumo collettivo, ovvero soggetti presenti all’interno dello stesso edificio (esclusi soggetti professionali del mondo energia) in cui è presente uno o più impianti alimentati esclusivamente da fonti rinnovabili; gli impianti possono essere di proprietà di soggetti terzi,
Comunità energetiche: clienti finali residenziali, pubblica amministrazione e PMI (esclusi soggetti professionali del mondo energia) che possono associarsi e autoconsumare energia prodotta da uno o più impianti da fonti energia rinnovabile; per condividere l’energia prodotta, gli utenti possono utilizzare le reti di distribuzione già esistenti e utilizzare forme di autoconsumo virtuale.
Nell'immagine che segue sono illustrate le diverse tipologie di autoconsumo (Fonte: Una guida per orientare i cittadini nel nuovo mercato dell’energia).
Per promuovere l’utilizzo di tali sistemi in Italia è stata stabilita una tariffa d’incentivo, per ripagare l’energia autoconsumata istantaneamente; per accedervi, l’impianto deve essere installato dopo il 1º marzo 2020 e la tariffa è così stabilita: per l'autoconsumo collettivo 100€ ogni MWh prodotto, per le Comunità energetiche 110 €/Mwh.
Le Comunità energetiche
Cittadini, imprese e attività commerciali possono dunque produrre, scambiare e gestire insieme l’energia elettrica prodotta da un impianto messo a disposizione da uno o più soggetti che partecipano alla Comunità; per aderire alla Comunità energetica si stipula, con i proprietari dell’impianto che condivide l’energia extra prodotta dai pannelli fotovoltaici, un contratto che stabilisce, tra le altre cose, le modalità di condivisione dell’energia stessa. Uno dei principali vincoli è ovviamente che gli utenti devono trovarsi vicino all’impianto generatore o su reti sottese alla stessa cabina di trasformazione. Gli impianti utilizzati, oltre ad essere esclusivamente alimentati da fonti rinnovabili, possono raggiungere una potenza massima complessiva di 200 kW; in ciascuna Comunità, però, ci possono essere più impianti di produzione.
Nel nostro Paese queste realtà stanno piano piano prendendo forma: ne è un esempio il caso di Magliano Alpi, in provincia di Cuneo, dove è l'amministrazione comunale che ha promosso la Comunità energetica, utilizzando un pannello fotovoltaico posizionato sul tetto del palazzo comunale. Ad oggi sono sette gli altri aderenti, quattro famiglie, uno studio tecnico e un laboratorio di falegnameria. A breve partirà anche ad Ampezzo, in provincia di Udine, un altro progetto pilota di Comunità energetica.
L'Italia, insieme ad altri 7 paesi, è partner del progetto europeo LIGHTNESS che ha proprio l'obiettivo di incentivare le Comunità energetiche a livello europeo; nell'ambito dell'iniziativa è prevista la formazione di una Comunità presso un condominio di Cagliari dove saranno effettuati interventi come l’installazione di un impianto solare e l’isolamento dell’edificio.
Secondo le stime dello studio Elemens per conto di Legambiente (“Il contributo delle Comunità Energetiche alla decarbonizzazione“), il potenziale attuale è stimato in circa 11 GW ed è relativo in gran parte allo sviluppo di impianti fotovoltaici su edifici condominiali, ma recependo a pieno la direttiva RED II il perimetro delle Comunità energetiche potrebbe allargarsi, permettendo la realizzazione di altri 6 GW di comunità (soprattutto fotovoltaico).
Sempre secondo lo studio, la diffusione delle comunità energetiche contribuirebbe a fornire un maggior impulso all’elettrificazione dei consumi nel settore termico dal momento che il minor costo dell’energia autoconsumata rispetto a quella prelevata dalla rete renderebbe ancor più conveniente l’installazione di sistemi di riscaldamento quali le pompe di calore, che verrebbero così alimentate dall’energia prodotta dagli impianti a fonti rinnovabili presenti all’interno della comunità energetica, con ulteriori benefici ambientali in termini di riduzione delle emissioni.
Per approfondimenti consulta:
“We the Power”, film che racconta lo sviluppo e la diffusione delle Comunità energetiche in Europa, spiegando cosa fanno, quali principi seguono, quali sono i loro progetti e le difficoltà incontrate
Progetto Europeo GECO - Le Comunità energetiche in Italia – Una guida per orientare i cittadini nel nuovo mercato dell'energia
GSE Regole tecniche per l'accesso al servizio di valorizzazione e incentivazione dell'energia elettrica condivisa
Energy Center del Politecnico di Torino - Manifesto delle comunità energetiche
fonte: http://www.arpat.toscana.it/
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L'Alta Francia, dove la transizione ecologica funziona

Nel Governo guidato da un Draghi che proclama l’importanza non solo di “una buona moneta”, ma anche di “un buon pianeta”, il tema della transizione ecologica è inaspettatamente diventato di grande attualità politica. Ma pochi sanno che l’idea di un ministero della Transizione ecologica viene da lontano, e precisamente dalla Regione francese del Nord Pas de Calais, oggi Hauts-de-France.
Era il 2012. Jeremy Rifkin aveva incontrato al Comitato delle regioni, a Bruxelles, Claude Lenglet, un ingegnere che a Meudon, nei sobborghi di Parigi, aveva progettato il primo edificio francese che produceva più energia di quanta ne consumava per la multinazionale delle costruzioni Bouygues. E’ un edificio da 25.000 metri quadrati che consuma 62 chilowattora annui per metro quadro e ne produce 64. Lenglet era stato nominato responsabile delle politiche ambientali della regione del Nord Pas de Calais, e disse a Rifkin che Daniel Percheron, presidente della Regione del Nord Pas de Calais, voleva incontrarlo.
L’intesa fra i due fu totale. Fu concordato un Master Plan per la “transizione ecologica a una economia di Terza Rivoluzione Industriale”, un nuovo modello economico attento alle leggi della termodinamica e rispettoso degli ecosistemi locali e globali.
Nel workshop iniziale di 4 giorni che si tenne nella capitale Lilla, gli esperti locali si incontrarono con gli esperti internazionali della task force guidata dallo stesso Rifkin per progettare una trasformazione economica radicale verso una economia di Terza Rivoluzione Industriale. Un processo basato su un mix di innovazioni: un sistema energetico distribuito costituito da migliaia di piccoli impianti di energia rinnovabile con tecnologie dell’idrogeno; la prima comunità dell’energia secondo i principi esposti dal pro rettore della Sapienza Livio de Santoli; un modello di consumi ispirato ai principi dell’economia circolare in cui il concetto di rifiuto non esiste più. Infine si prevedeva anche un radicale processo di reindustrializzazione basato sul modello delle stampanti 3D e la manifattura additiva, e una nuova sharing economy (chiamata “Economie de la fonctionnalité”) per dare massima efficienza alla produzione di beni e servizi.
Per la regione Nord Pas de Calais non si trattava di una impresa da poco perché era stata la culla del modello tradizionale basato sulla seconda rivoluzione industriale e sui fossili, con i suoi bacini carboniferi, le sue acciaierie e le sue grandi fabbriche automobilistiche.
Per raggiungere questi obiettivi era necessario creare una cabina di regia unica che potesse coordinare le politiche energetiche, ambientali, alimentari, agricole, industriali, commerciali e sociali prima disperse in una pletora di dipartimenti e assessorati diversi. Per questo Rifkin propose un nuovo sistema di governance con la creazione di un Assessorato alla Terza Rivoluzione Industriale e alla Transizione Ecologica che venne affidato proprio a Claude Lenglet. L’Assessorato aveva una dotazione di 200 miliardi di euro da investire in un arco di tempo lungo: fino al 2050.
Si trattava di un investimento che secondo il Master Plan avrebbe comportato risparmi energetici ed economici, per lo stesso periodo, di 320 miliardi, con un saldo attivo di 120 miliardi. Lo scenario convenzionale che continuava a mantenere la dipendenza dalle fonti fossili, avrebbe invece comportato una spesa netta al 2050 di minimo 400 miliardi di euro senza alcun ritorno. Anche il saldo occupazionale al 2050 era positivo: nello scenario di transizione, si prevedeva un saldo netto positivo di 165.000 posti di lavoro, nello scenario fossile il saldo era negativo, e cioè si perdevano 102.000 posti di lavoro.
Dopo la fusione amministrativa fra il Nord Pas de Calais e la Picardia, che diede luogo a una nuova regione da 7 milioni di abitanti chiamata Hauts de France, il Master Plan venne esteso alla nuova entità amministrativa e la Transizione ecologica venne trasferita dall’assessorato a una vicepresidenza regionale che venne affidata al numero due della Regione.
A quel punto Ségolène Royale (in procinto di diventare ministro dell’Ambiente), dopo un lungo colloquio con Rifkin, decise di sposare il progetto trasferendolo sul piano nazionale. Nacque così il ministero all’Ecologia, che concentrava le competenze di sviluppo economico, energia, trasporti, ambiente ed edilizia popolare e si diede l’obiettivo di elaborare e far approvare quanto prima una legge per la transizione ecologica e la crescita verde
Vennero aggiunte le competenze relative all’economia circolare, alla digitalizzazione e all’economia della condivisione. A quel punto il ministero venne ridenominato “ministero per la Transizione ecologica” e fu riconfermato in tutte le successive amministrazioni e oggi, nell’amministrazione Macron è guidato una ministra di origine italiana, Barbara Pompili.
Ma nel frattempo l’esperimento è andato avanti nella Regione Nord – Pas de Calais / Hauts de France a vari livelli. Il primo sono i nuovi modelli finanziari green che possono essere sostenuti direttamente dai cittadini. Ad esempio la regione ha promosso l’azionariato diffuso dalla sua pagina web con la start up innovativa Cow Funding che ha già finanziato progetti come il bike sharing elettrico, l’acqua in bottiglia di plastica con vuoto riutilizzabile, il fotovoltaico sui tetti degli asili nido.
Il secondo riguarda le nuove figure professionali richieste dalla transizione ecologica (esperti di idrogeno, smart grid, economia circolare, sharing economy). A Lilla è nata la Scuola di Formazione della Terza Rivoluzione Industriale, i cui locali sono stati ricavati in una ex fabbrica. Il Centro Specialistico ha preso il nome di Università Zero Carbonio. La più grande università della regione, l’Université Catholique de Lille, è già impegnata su questo fronte.
Il terzo livello è l’educazione all’economia circolare basata su campagne di comunicazione che sono all’ordine del giorno in Francia e di cui in Italia non si vede neanche l’ombra.
fonte: www.huffingtonpost.it
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Emergenza climatica, rinnovabili e paesaggio: tutte le contraddizioni da affrontare

Parlare di cambiamenti climatici e di paesaggio obbliga ad una doppia lettura.
L’emergenza climatica sta infatti aggredendo i territori, in alcuni casi in modo evidente e progressivamente più drammatico.
Tutti ricordiamo le decine di milioni di alberi abbattuti dalla tempesta Vaia nel Nord-est italiano, i disastri legati alla forza devastante di uragani e cicloni, gli incendi che hanno distrutto migliaia di chilometri quadrati di foreste in California, in Australia, in Brasile, in Siberia, in Congo… con la natura ferita e milioni di animali bruciati vivi; le coste erose dall’innalzamento del livello degli oceani e dei mari, la desertificazione che avanza, la Groenlandia e l’Antartide che si sgretolano….
Si deve dunque intervenire, e rapidamente!
D’altra parte, alcune azioni per ridurre le emissioni e affrontare la sfida climatica possono comportare un’alterazione dei paesaggi.
Si tratta di modifiche che si aggiungono a quelle apportate dall’uomo con l’abusivismo, le cave, le discariche illegali di rifiuti, le raffinerie e le acciaierie sulle coste e con la costante sottrazione di spazio alla natura.
Proprio questo modello di sviluppo comporta anche una impressionante crescita delle emissioni climalteranti.
Non stupisce quindi la sollecitazione di coloro che propongono la rivisitazione di un modello non più sostenibile.
Resta il fatto che occorre agire da subito sul fronte climatico. Gli accordi internazionali, come quello di Parigi del 2015, rappresentano un risultato importante. Ma poi servono urgentemente soluzioni da attivare per contenere le emissioni.
Fra queste, diviene sempre più importante il contributo delle fonti rinnovabili. Certo, in un contesto di maggiore efficienza che include anche cambiamenti degli stili di vita.
Naturalmente l’installazione di impianti solari ed eolici può comportare un’alterazione del paesaggio e il loro inserimento va dunque pianificato con attenzione, cosa che non sempre è stata fatta in passato. Vanno inoltre coinvolte le comunità locali, e anche questo non sempre è avvenuto.
Per quanto riguarda il paesaggio, le reazioni dal punto di vista estetico variano molto in relazione alle diverse sensibilità.
Nel “sorriso di Angelica” di Andrea Camilleri, ad esempio, si legge:
“… un mari di bocche di lioni supra al quali, a ‘ntervalli regolari, si slanciavano altissime pale eoliche. Livia ne ristò affatata. Certo che avete dei paesaggi…”.
Ma nella società ci sono anche posizioni di netta chiusura.
Resta il fatto che, per arrivare alla neutralità climatica entro il 2050, obiettivo dell’Italia e degli altri paesi europei, il contributo delle rinnovabili dovrà crescere notevolmente.
Concentriamoci sul solare, che in Italia rappresenterà la tecnologia regina del sistema energetico sul lungo periodo.
Sono state effettuate diverse valutazioni sul potenziale legato alla parziale occupazione delle superfici degli edifici.
In un recente documento di Eurach si è stimata la potenza installabile utilizzando il 2,5% dell’area occupata dalle diverse tipologie di edifici. Si arriverebbe a 45 GW, poco sotto i 52 GW previsti dal Piano nazionale energia clima del governo al 2030 (A Strategic Plan for Research and Innovation to Relaunch the Italian Photovoltaic Sector).
Un Piano, che però andrà rapidamente rivisto per adeguarsi alla decisione della UE di portare l’obiettivo di riduzione dei gas climalteranti al 2030 dal -40% rispetto ai valori del 1990 al -55%.
In questo nuovo quadro, secondo Elettricità Futura che raccoglie i vari produttori elettrici del paese, il 70% dei consumi elettrici lordi dovrà essere soddisfatto da energie rinnovabili (oggi siamo al 36-38%).
Il Ministro Cingolani ha parlato di una quota pari al 72%. È dunque probabile che la potenza fotovoltaica al 2030 dovrà arrivare a valori attorno ai 70 GW (oggi siamo a 21 GW).
Ma, soprattutto, va ricordato che per il 2050 la strategia di lungo termine del Governo (pdf) prevede una potenza solare di 240 GW, oltre dieci volte superiore all’attuale.
Aumenteranno quindi notevolmente le installazioni decentrate, oggi oltre 800.000, anche grazie alla diffusione delle Comunità energetiche. Troveremo nuove soluzioni, magari si diffonderanno le vetrate solari, i moduli solari flessibili… Ma non c’è dubbio che dovremo installare anche molti impianti fotovoltaici a terra.
Di che superficie parliamo? Considerando un utilizzo delle superfici degli edifici quadruplo rispetto a quello considerato dallo studio Eurach, a metà secolo il mix di centrali solari convenzionali e agrovoltaiche occuperebbe una superficie pari a quella di un quadrato di una cinquantina di chilometri di lato, naturalmente grazie ad una molteplicità di interventi opportunamente distribuiti sui territori.
Parliamo di un’area inferiore al 2% dei 3,5 milioni di ettari della superficie agricola inattiva nel paese.
Le contraddizioni su paesaggio e lotta climatica
Partiamo dalla preoccupazione sull’alterazione del paesaggio perché consente di riflettere sulla necessità di affrontare un tema, quello dell’inserimento delle rinnovabili, che diventerà la principale, anche se non l’unica, criticità da affrontare nel processo di decarbonizzazione dei prossimi anni e decenni.
E consideriamo due casi emblematici delle contraddizioni che emergono.
Il Club Alpino Italiano (Cai) ha preso posizione contro la proposta di inserire nel Piano nazionale di recupero e resilienza la realizzazione di 1.000 piccoli invasi sulle zone di montagna e di alta collina, vista invece di buon occhio da Coldiretti.
I laghetti dovrebbero infatti servire come riserva d’acqua per l’agricoltura e contribuirebbero a ridurre il rischio di alluvioni. Inoltre, l’abbinamento tra laghetti a quote diverse consentirebbe di creare sistemi di pompaggio utili alla gestione della rete elettrica in presenza della futura larga diffusione di solare ed eolico.
Ma questa opposizione viene dallo stesso Cai che più volte ha lanciato l’allarme sulla progressiva scomparsa dei ghiacciai. In effetti, negli ultimi 50 anni la loro riduzione nelle Alpi è stata pari al 35-40%, con preoccupanti implicazioni.
Diceva Herman Hesse che “le lacrime sono il frutto del ghiaccio dell’anima che si scioglie“.
In tutto l’arco alpino nei mesi tra novembre e maggio, sotto i 2000 metri, dove cinquant’anni fa lo spessore medio della neve era di 1 metro oggi si misurano 60 cm e si è perso un mese di innevamento.
Ghiacci, neve, rocce che si frantumano sono solo alcuni degli impatti del cambiamento climatico sul paesaggio alpino…
Ma anche gli agricoltori stanno subendo gravi conseguenze dal riscaldamento globale. Coldiretti, ad esempio, ha più volte richiesto negli ultimi anni lo stato di calamità naturale per zone colpite da siccità, alluvioni, incendi…
La stessa associazione ha però finora contestato la realizzazione di grandi impianti fotovoltaici a terra.
Gli amanti della montagna e gli agricoltori sono, insomma, degli attenti sensori dei cambiamenti del clima in atto. Ma al tempo stesso si oppongono ad alcune importanti misure volte ad evitare un’evoluzione catastrofica del riscaldamento globale.
Questi due esempi illustrano il delicato equilibrio tra la preservazione della bellezza e della ricchezza del paesaggio e gli interventi volti a limitare i rischi dell’emergenza climatica.
Naturalmente andranno trovate soluzioni attente anche per aumentare il consenso sociale, decisivo per raggiungere obiettivi così ambiziosi.
E vanno definite con chiarezza aree di esclusione e limitazioni alla taglia delle centrali solari.
Significativamente, si iniziano a considerare opzioni nuove, come l’agrivoltaico che consiste nell’istallazione dei moduli ad un’altezza e ad una interdistanza tale da consentire di coltivare, in alcuni casi migliorando la qualità dei prodotti grazie all’ombreggiamento. Un risultato che si è apprezzato in alcune sperimentazioni su vigneti nella Francia meridionale. In un futuro che vedrà giornate sempre più calde, soluzioni come questa potrebbero essere apprezzate.
Si dirà, che questi interventi, se possono essere considerate validi perché consentono di mantenere o di incrementare i posti di lavoro agricoli, alterano comunque il paesaggio.
Ma va ricordato che il paesaggio si è sempre evoluto ed è la risultanza tra l’azione dell’uomo e la natura. Come dice il filosofo Rosario Assunto: “… il paesaggio è natura nella quale la civiltà rispecchia sé stessa”.
E, di fronte ai rischi gravissimi dell’emergenza climatica, bisogna rapidamente attrezzarsi.
È significativo che le tre più importanti associazioni ambientaliste, Legambiente, Wwf e Greenpeace stiano convergendo sulla necessità di accelerare la diffusione delle rinnovabili. Rilevante, ad esempio, l’ultimo documento comune sul parco eolico off-shore al largo delle coste della Sicilia.
Considerato che nei prossimi anni e decenni si dovranno installare molti impianti green in Italia, in Europa e nel resto del mondo, occorrerà pervenire ad una posizione equilibrata, per quanto possibile condivisa, sul loro inserimento nel territorio.
fonte: www.qualenergia.it
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Comunità dell’energia rinnovabile, in provincia di Napoli si parte
Sul tetto della sede della fondazione sarà infatti installato un impianto solare da 53 Kw e per la prima volta in Italia l’energia prodotta sarà condivisa con le famiglie del quartiere.
Nei prossimi giorni – spiega Legambiente – sarà costituita formalmente la comunità energetica e il 22 marzo partirà il cantiere che durerà circa dieci giorni. Successivamente verrà fatta domanda di allaccio alla rete elettrica, e nel mese di aprile l’impianto inizierà a funzionare con la distribuzione di energia pulita alla Fondazione e alle famiglie.
“Il progetto – sottolineano i promotori – sarà il primo a essere realizzato in attuazione del Decreto Milleproroghe 2020”, che ha recepito la Direttiva 2001/2018 sulle comunità energetiche per progetti fino a 200 kW (anche se, come abbiamo scritto, in queste settimane diverse altre iniziative analoghe sono in fase avanzata: ad esempio una comunità energetica sarà inaugurata il 12 marzo a Magliano Alpi, in Piemonte, e una si sta realizzano a Paternò, provincia di Catania).
Grazie a questa innovazione normativa, nata da un emendamento di Legambiente e Italia Solare votato da tutti i partiti, si ricorda, la proprietà degli impianti e l’energia prodotta può essere condivisa attraverso la rete. È previsto poi entro quest’anno il completo recepimento della direttiva europea, per cui questo tipo di progetti di energia pulita e condivisa potrà avere uno grande sviluppo in tutto il Paese.
“In Italia ci sono oltre due milioni di famiglie in condizione di povertà energetica, che oggi possiamo aiutare con l’autoproduzione e condivisione di energia da rinnovabili e attraverso interventi che riducono i consumi delle abitazioni come prevede il progetto che porteremo avanti a San Giovanni a Teduccio”, commentano Edoardo Zanchini e Mariateresa Imparato, rispettivamente vicepresidente nazionale e presidente regionale di Legambiente.
“Il rilancio del Sud – proseguono -passerà per progetti di questo tipo, che valorizzano il contributo del sole dentro progetti di rigenerazione sociale e urbanistica. La transizione ecologica di tutte e tutti che parte dal basso e tiene dentro al cambiamento le comunità”.
L’impianto solare di San Giovanni a Teduccio sarà realizzato dall’impresa 3E di Napoli. Il lavoro di Legambiente e di Fondazione Famiglia di Maria continuerà con le bambine e i bambini, le mamme e le associazioni del quartiere. Saranno protagonisti di percorsi di educazione ambientale, di azioni di cittadinanza attiva monitorando i loro consumi e elettrici e le dispersioni di calore delle loro abitazioni attraverso la campagna Civico 5.0 sulla qualità dell’abitare, info day per scuole superiori sulle possibilità occupazionali legate ai green jobs e per le associazioni e cittadini del quartiere su bonus e occasioni per migliorare la qualità dell’abitare e del vivere e abbassare costi e consumi.
fonte: www.qualenergia.it
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I primi cittadini ‘prosumer’ nella comunità energetica a Magliano Alpi

“L’energia è intelligenza, e voi siete un Comune intelligente”. In questo modo Beppe Grillo – intervenuto in collegamento telefonico – mette la firma e offre la sua ‘benedizione’ alla presentazione di quella che viene definita “la prima comunità energetica realizzata in Italia”, al Comune di Magliano Alpi, a Cuneo, in Piemonte. Il M5s si sente infatti responsabile di questa trasformazione che – il presidente della commissione Industria a Palazzo Madama Gianni Girotto – definisce, in questo caso riferendosi al Comune di Magliano Alpi, “la pietra miliare della rivoluzione in atto”.
La Comunità è stata costituita il 18 dicembre 2020 con il supporto dell’Energy Center del Politecnico di Torino. Qualche giorno fa anche Legambiente aveva presentato una Comunità energetica (la ‘prima’), vicino Napoli, che viene anche richiamata dal comico fondatore del M5s.
“Oggi è una giornata storica, rovesciamo la piramide energetica. Ci sono sempre stati pochi operatori che servivano milioni di utenti, qui si rovescia tutto ed è il cittadino ad essere protagonista. In questi giorni la transizione ecologica è sulla bocca di tutti: questa è la vera transizione ecologica – osserva Gianni Girotto, presidente della commissione Industria a Palazzo Madama, intervenendo all’evento di inaugurazione – ci sono voluti anni per arrivare a questa situazione, ma alla fine ce l’abbiamo fatto. Si tratta di un modello che coniuga lavoro sostenibile e tutela dell’ambiente visto che produciamo energia rinnovabile con meno gas e meno petrolio. Facciamo questo per la tutela dei giovani e del loro futuro in Italia. Tutto questo avviene con un forte risparmio economico sulla bolletta energetica. In due mesi i progetti si possono realizzare, questo strumento è dei cittadini. Non ci saranno grandi imprese a dettare legge, le comunità sono a gestione del cittadino o dell’ente pubblico”.
Operativa da dicembre 2020, la Comunità di Magliano Alpi ‘auto-consuma’ in gran parte l’energia prodotta, garantendo a tutti i suoi membri un approvvigionamento energetico vantaggioso, e fornendo un contributo concreto alla lotta contro la povertà energetica.
“La transizione ecologica è anche transizione energetica: per questo motivo le competenze in materia di impianti da fonti di energia rinnovabile sono passate dal Mise al Mattm per creare il Mite – dice la sottosegretaria alla Transizione ecologica Ilaria Fontana – affinché avvenga però, non possiamo parlare soltanto di fonti di energia. Dobbiamo estendere il nostro punto di vista, includendo anche l’efficientamento energetico e il risparmio energetico”.
“Il termine ‘comunità’ è fondamentale per una nuova identità culturale nella quale la produzione e il consumo di energia sono una responsabilità da sentire propria, facendola diventare parte della quotidianità e alimentando così il sentimento verso maggiore sostenibilità – rileva Fontana – la comunità energetica estende il concetto di autoconsumo, spesso individuato oggi come qualcosa che possiamo fare soltanto da soli per le proprie case o in condominio. In realtà è assolutamente possibile sostenere una domanda locale di energia anche fuori dalle abitazioni consentendo una riduzione della domanda di energia dalla rete”.
L’idea alla base delle Comunità energetica è quella di tenere insieme le più recenti innovazioni tecnologiche, che stanno generando nuove opportunità di sviluppo industriale e nuova occupazione. Un nuovo modello basato su produzione ed uso sostenibile dell’energia, prodotta da fonti rinnovabili, per la creazione di valore e rilanciare il territorio dopo l’emergenza sanitaria. La normativa europea punta alla centralità dei cittadini che sono allo stesso tempo produttori e consumatori (in una parola ‘prosumer’).
“Da oggi siete un Comune elevato. Siete in quattro a farlo, siete ancora pochi ma questo non deve scoraggiare perché i più grandi cambiamenti della storia sono sempre stati portati avanti da piccoli gruppi – osserva Grillo citando anche la rivoluzione capitalista cinese messi in piedi alla fine degli anni ’70 da 20 famiglie – un piccolissimo Comune sta facendo una cosa grandissima: vi do la mia benedizione. Serve una nuova cultura energetica, un cambiamento di pensiero e di cultura. L’energia deve diventare il centro dell’intelligenza. Voi siete Comuni intelligenti. L’energia è intelligenza“.
fonte: www.rinnovabili.it
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Con le comunità dell’energia arriva l’elettricità a km zero
La pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto Incentivi ha reso finalmente realizzabili – grazie al recepimento anticipato di parte della direttiva europea sulle rinnovabili (RED II) – l’autoconsumo collettivo e le comunità energetiche. Il primo permette, a chi abita o lavora nello stesso edificio, di produrre e consumare insieme energia sul posto. Le seconde, una vera rivoluzione già attiva in altri Paesi del nord Europa come Danimarca e Germania, consente di dare vita a vere comunità composte di tanti soggetti (persone fisiche, piccole e medie imprese, istituzioni locali) purché vicini tra loro: il confine lo stabilisce la connessione alla medesima cabina di trasformazione di media/bassa tensione.
Si potrà produrre e consumare sul posto energia rinnovabile senza passare per la rete elettrica nazionale. Con il vantaggio di ridurre le perdite di rete. “Un cambiamento”, sottolinea Gianni Girotto, presidente della commissione Industria del Senato, uno dei fautori di questa possibilità, “che sposta il baricentro della produzione e del consumo di energia sul territorio, sui Comuni, sulle comunità locali, sulle piccole imprese. Un cambio culturale del modello produttivo industriale che determinerà vantaggi e benefici ambientali, sociali ed economici per tutti”.
La nascita delle energy community, secondo Legambiente, porterebbe investimenti di oltre 13 miliardi di euro e quasi 40 mila posti di lavoro, tra quelli diretti per la realizzazione degli impianti e quelli legati a gestione, efficientamento, integrazione con la mobilità sostenibile. Altra conseguenza non irrilevante sarebbe l’aumento del gettito fiscale di circa 1,1 miliardi di euro. Per non parlare dei vantaggi ambientali: 47 milioni di tonnellate di CO2 in meno al 2030.
Una stima, spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, delle “potenzialità nel nostro Paese di uno scenario di condivisione e autoproduzione dell’energia, che ha grandi vantaggi perché permette di sviluppare le rinnovabili dove c’è la domanda: nei quartieri, nei distretti produttivi, nelle aree interne e agricole”. Per l’Italia, aggiunge, questo “vuol dire anche rilanciare il settore edilizio, che può puntare su progetti integrati di efficienza energetica e di rinnovabili con le comunità energetiche e con la connessione alla mobilità elettrica”.
Ottenere questi risultati dipenderà dal recepimento integrale della direttiva. Oggi si possono realizzare progetti fino a 200 kW: il disegno di legge delega è alla Camera per l’approvazione, poi spetterà al governo presentare un decreto legislativo.
E dipenderà dall’adesione degli italiani. Per questo la Commissione industria del Senato sta lavorando affinché le amministrazioni locali incoraggino “politiche sociali attive” che coinvolgano i cittadini nella creazione delle comunità energetiche. Anche grazie a sportelli informativi.
Nel cammino per la crescente penetrazione dall’autoconsumo nelle comunità entra anche Enea, uno dei partner italiani del progetto europeo COME RES (Community Energy for the uptake of renewables in the electricity sector), finanziato con circa tre milioni di euro dal programma Horizon 2020: “Nell’ambito di questo progetto Enea mette a disposizione le competenze tecnico scientifiche per la progettazione delle comunità energetiche”, spiega Elena De Luca ricercatrice del Dipartimento tecnologie energetiche e fonti rinnovabili. “Oltre alla capacità di fare rete a livello territoriale per lo stretto rapporto con decisori politici a livello nazionale e locale, operatori del mercato energetico, associazioni di categoria e del terzo settore, cittadini”
fonte: www.huffingtonpost.it
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Il valore dell’energia rinnovabile a chilometro zero

Se è vero che l’energia da fonte rinnovabile ha un impatto ambientale inferiore a quella fossile, in entrambi i casi la vicinanza del luogo di produzione e di consumo contribuisce sensibilmente alla riduzione degli sprechi.
I luoghi di produzione dell’energia, sia da fonti fossili che da rinnovabili, spesso non coincidono con quelli di maggior consumo, l’energia viene trasportata anche per lunghe distanze con sprechi e inefficienze importanti.
Una ricerca californiana appena pubblicata su Frontiers in Sustainability, dal titolo “Local Energy: Spatial proximity of energy providers to their power resources” (in basso il link alla ricerca) rivela che in un’epoca in cui cresce l’interesse per la generazione locale di energia, i fornitori di energia continuano a rifornirsi di risorse, anche rinnovabili, lontani dai carichi della domanda e spesso di provenienza ignota.
Gli autori della ricerca, Madison K. Hoffacker e Rebecca R. Hernandez, hanno scoperto che, in media, le risorse energetiche acquistate dai distributori della California provenivano da 270 miglia di distanza, a nord fino al Canada e a est fino all’Oklahoma. Di queste, invece, il 100% da carbone e da nucleare proveniva dalla stessa California.
“Siamo rimasti entrambi sorpresi da questi risultati – hanno commentato – che ci dicono che la produzione dell’energia distribuita in California è prodotta molto lontano dai suoi consumatori”.
Lo studio ha inoltre rilevato che solo il 20% circa dell’energia acquistata era locale. Il restante 80% è ciò che gli autori chiamano “outsited“: energia generata al di fuori dell’ambito in cui opera il fornitore. Infatti, il 42% proveniva da fuori dello Stato.
I luoghi per la generazione non vengono selezionati semplicemente perché producono la massima energia, ma perché spesso è dove la terra costa poco (almeno negli Stati Uniti).
Perché è importante la distanza tra luogo di produzione e consumo?
Un altro studio pubblicato circa un anno fa su Nature Climate Change da Kavita Surana e Sarah M. Jordaan (in basso il link alla ricerca) ha rivelato che le perdite nella generazione di elettricità dovute alla trasmissione inefficiente e alle perdite di distribuzione determinano nel mondo circa un miliardo di tonnellate equivalenti di emissioni all’anno di anidride carbonica.
Secondo le loro stime, il contenimento delle inefficienze nella trasmissione e delle perdite di distribuzione porterebbe a una riduzione di tali emissioni da 411 a 544 milioni di tonnellate equivalenti.
Insieme, questi studi propongono un parallelo tra la produzione e il consumo di energia e quello del cibo, facendo emergere come l’attitudine del consumatore a verificare la provenienza del cibo prima di acquistarlo non trovi riscontro nell’acquisto e il consumo dell’energia.
“Nel settore alimentare – scrivono Hoffacker e Hernandez – la preoccupazione per la sostenibilità della filiera agricola, in particolare gli impatti ambientali associati al trasporto di alimenti su lunghe distanze, ha portato alla nascita di movimenti a favore del “local food” e a metriche per valutare i progressi raggiunti (ad es. Miglia alimentari).
Per comprendere le relazioni tra risorse energetiche e utilizzatori e il loro impatto sulla sostenibilità è necessario un approccio analogo, che riduca al minimo la distanza tra i fornitori di energia e i clienti e renda noto il luogo di produzione.
Che succede in California?
“Negli ultimi due decenni in California c’è stato un crescente interesse di persone che sostengono un approvvigionamento energetico più pulito e più resiliente “, ha detto a Qualenergia.it Madison Hoffacker. “Si sono adottati così sistemi di energia rinnovabile autosufficienti per le loro famiglie e stimolato i propri fornitori locali di energia a seguire l’esempio su scala più ampia”.
Da circa un decennio in California sono sorte le Community Choice Aggregation (CCA), aggregazioni a livello municipale che consentono ai governi locali di acquisire energia da fornitori alternativi anche per conto dei residenti e delle imprese, pur continuando a ricevere il servizio di trasmissione e distribuzione dal fornitore di servizi esistente.
In genere, aggregando la domanda le comunità riescono a negoziare tariffe migliori con fornitori competitivi e scegliere fonti di energia più pulite.
Le CCA sono diventate quindi un’opzione interessante per le comunità che desiderano un maggiore controllo locale sulle proprie fonti di elettricità, più energia rinnovabile e a prezzi inferiori di quanto offerto dall’utility tradizionale.
I ricercatori hanno tuttavia rilevato che, avendo iniziato la loro attività di recente, le CCA stanno ancora costruendo i loro portafogli energetici e per questo potrebbero dover affrontare ostacoli aggiuntivi rispetto ad altre tipologie di fornitori nell’acquistare energia a livello locale.
La ricerca ha permesso, infatti, di scoprire, da un lato, che le CCA acquistano 2,5 volte l’energia rinnovabile rispetto agli altri fornitori e che questa costituisce quasi la metà dei loro portafogli energetici; dall’altro, che le CCA acquistano la loro energia 2,5 volte più lontano dei loro competitors.
E quale cambio di rotta con le Comunità Energetiche?
Il Politecnico di Milano stima che in uno scenario mediano di sviluppo di comunità dell’energia e autoconsumo collettivo in Italia, nei prossimi 5 anni potremmo avere 3,6 GW di fotovoltaico in più (pari al 55% dell’obiettivo Pniec al 2025) e, da qui al 2044, una riduzione dei costi di trasmissione di circa mezzo miliardo di euro e un taglio della CO2 di oltre 25 milioni di tonnellate, per un valore di altri 500-750 milioni di euro (vedi QualEnergia.it).
La Direttiva europea sulle Comunità Energetiche è dunque veramente sfidante: incentivare l’autoconsumo orario locale significa minimizzare la quota di energia che dall’impianto di produzione va oltre la cabina di MT/BT, quindi ridurre significativamente sprechi, inefficienze ed emissioni, consentendo di conoscere esattamente la provenienza dell’energia consumata.
In Italia, in particolare nell’ambiente cooperativo e in quello dei GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), da oltre dieci anni si parla dell’energia mutuando il concetto di “Km Zero” dalla filiera alimentare senza che tuttavia si sia ancora riscontrato un interesse analogo a quello registrato per il cibo.
Le cooperative energetiche – è il caso di ènostra, WeForGreen, Energia Positiva, di cui abbiamo ampiamente trattato – si sono infatti sempre scontrate con l’impossibilità di fornire localmente l’energia prodotta con gli impianti finanziati collettivamente.
Con diverse sfumature, in queste esperienze la quantità di energia venduta ai soci (in alcuni casi anche tramite fornitori terzi) proviene solo in piccola parte dai propri impianti, mentre la restante è acquistata da altri produttori. Ancorché rinnovabile certificata, la provenienza dell’energia e la distanza dal luogo di consumo sono infatti sconosciute.
Le stesse cooperative, inoltre, sono andate via via assumendo carattere nazionale e, ampliando l’area geografica di residenza dei soci, gli impianti di produzione si sono sempre più allontanati dai luoghi di consumo dell’energia.
Sarà interessante verificare se gli esiti della sperimentazione delle Comunità Energetiche appena avviata potranno riportare le cooperative energetiche alla dimensione di comunità di territorio oltre che di scopo.
Certo è che se le Comunità Energetiche potranno moltiplicarsi e diffondersi saremo in grado anche di rivitalizzare e sviluppare le economie, le competenze e le professionalità locali.
La redistribuzione dell’economia nelle varie regioni italiane fa parte di un processo già innestato con il ritorno di migliaia di persone ai rispettivi luoghi di origine che, anche in modalità smart working, hanno ripreso a vivere, produrre e consumare (anche l’energia) lontano dalle grandi metropoli in un’ottica appunto di chilometri zero.
“Sono sempre colpita dalle somiglianze geografiche tra la California e l’Italia – dice Rebecca R. Hernandez – visto che affrontiamo molte delle stesse sfide nel raggiungimento degli obiettivi di una rapida transizione energetica verso le energie rinnovabili. Dare priorità alle rinnovabili locali produce ostacoli imprevisti, ma un numero crescente di studi (come quelli menzionati, ndr), dimostrano che la localizzazione della generazione di energia è una priorità che sia la California sia l’Italia non possono più ignorare”.
fonte: www.qualenergia.it
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Il borgo di Biccari diventa la prima comunità energetica rinnovabile
“Il Comune di Biccari è costantemente impegnato nella ricerca di nuovi modelli e di soluzioni innovative per favorire benefici ambientali, sociali ed economici per la cittadinanza”, afferma il Sindaco Gianfilippo Mignogna, promotore dell’iniziativa. “Lavorare sulla comunità, sulla partecipazione attiva, sul protagonismo dei cittadini è una scelta che proviamo a declinare in tutte le azioni amministrative. A maggior ragione, per noi, è doveroso farlo nel campo energetico dal momento che la nostra Terra vive il paradosso di essere tra quelle più produttive dal punto di vista energetico ma anche più in difficoltà sotto il profilo socio-economico. Con ènostra condividiamo le stesse speranze e la stessa visione delle cose, perciò lavorare insieme sarà motivo di grande crescita per noi e di fiducia per tutta la nostra comunità”.
Con l’attivazione di una Comunità energetica in un quartiere del territorio di Biccari ènostra mira a raggiungere una serie di obiettivi, tra cui la risoluzione di alcune criticità tecniche e burocratiche, la modellizzazione di prelievi ed immissioni di energia al fine di poter massimizzare l’autoconsumo istantaneo dell’energia prodotta dall’impianto fotovoltaico e ottimizzare di conseguenza i benefici economici per chi partecipa alla comunità.
“Siamo ben lieti di poter realizzare questo progetto pilota con il Comune di Biccari”, spiega Sara Capuzzo, presidente di ènostra. “Sarà interessante verificare quali impatti, sociali e ambientali, oltre che economici, si potranno determinare, anche con il coinvolgimento della cooperativa di comunità, che già opera efficacemente in altri settori, e con un occhio di riguardo per i consumatori vulnerabili che risiedono nell’area interessata. Questa iniziativa rappresenta un passo importante verso una transizione energetica maggiormente desiderabile, accessibile ed equa, con la realizzazione di modelli di produzione diffusa e autoconsumo replicabili, che riconoscano ai cittadini il ruolo di protagonisti e rispondano alle esigenze dei territori”.
Il percorso di realizzazione della comunità energeica sarà caratterizzato da quattro fasi principali. La prima prevede uno studio di fattibilità, con l’individuazione del sito per l’installazione del fotovoltaico, la verifica della geografia delle cabine secondarie entro cui sviluppare il progetto e le analisi preliminari per massimizzare il match tra produzione e autoconsumo istantaneo. Nella fase due si effettueranno la raccolta delle adesioni, l’analisi dei dati di consumo reali, la progettazione preliminare dell’impianto fotovoltaico, il perfezionamento di statuto e regolamento. Per poi passare alla fase successiva con la realizzazione dell’impianto fotovoltaico, il collaudo e la messa in esercizio. L’ultimo step sarà quello relativo all’attivazione della comunità energetica rinnovabile e al percorso di formazione per abilitare le risorse locali alla gestione della comunità energetica, una volta a regime, e per ottimizzare l’uso dell’energia da parte degli aderenti.
L’iniziativa si va ad aggiungere a un’altra esperienza sperimentale promossa da ènostra: il progetto di autoconsumo collettivo presso il social housing Qui Abito, a Padova, selezionato tra i casi oggetto di studio da parte di RSE (v. news).
fonte: www.italiachecambia.org
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Autoconsumo e comunità energetiche, firmato il decreto incentivi

Il Ministro dello Sviluppo Economico ha firmato il decreto attuativo per l’autoconsumo collettivo e le comunità energetiche. A darne comunicazione lo stesso ministero diretto da Stefano Patuanelli. Obiettivo del provvedimento un’azione di supporto alle rinnovabili e di stimolo della “transizione energetica ed ecologica del sistema elettrico” italiano.
Il decreto attuativo per incentivare l’autoconsumo collettivo e le comunità energetiche conterrà risvolti “ambientali, economici e sociali per i cittadini”. Ha dichiarato il Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli:
Con grande soddisfazione ho firmato oggi il decreto che introduce un incentivo a sostegno delle comunità energetiche e dell’autoconsumo. Si tratta di una svolta importante, che consentirà di sviluppare ulteriormente nel nostro Paese la produzione di energia da fonti rinnovabili, permettendo al contempo ai cittadini, alle PMI, agli enti locali di consumare l’energia che producono.
Incentivi, cosa cambierà per i consumatori italiani
Come ricordato anche dal Ministero dello Sviluppo Economico, il decreto attuativo approvato va a rendere operativa una misura inserita nel decreto Milleproroghe (2019). Oggetto del provvedimento l’autoconsumo collettivo da parte di famiglie e altri nucluei inclusi nel medesimo condominio o edificio.
Regolamentate anche le comunità energetiche, aperte a enti locali, PMI, ma anche persone fisiche, con riferimento territoriale più ampio rispetto al singolo comprensorio. L’autoconsumo verrà promosso anche attraverso i sistemi di accumulo. Per la definitiva entrata in vigore si attende soltanto la registrazione da parte della Corte dei Conti.
Cosa cambia per i consumatori? Il Ministero dello Sviluppo Economico va a introdurre una tariffa relativa all’energia autoconsumata, con importi differenti tra autoconsumo collettivo e comunità energetiche:
100 euro/MWh per l’autoconsumo collettivo;
110 euro/MWh per le comunità energetiche rinnovabili.
In termini di tempo, l’incentivo viene riconosciuto per un arco di 20 anni. A gestirlo sarà il GSE (Gestore dei Servizi Energetici). Altra notizia importante è la misura sarà cumulabile con il Superbonus al 110%, ferma restando la necessità di rispettare i limiti previsti dalla legge.
Autoconsumo e comunità energetiche, Ministro Costa
In relazione all’approvazione del decreto attuativo è intervenuto anche il Ministro dell’Ambiente. Sergio Costa ha dichiarato in un post apparso sui suoi canali social:
Una vera rivoluzione in termini di produzione e consumo di energia. Da oggi famiglie in condomini o in singole case, aziende e imprese, enti locali e territoriali potranno attivarsi per produrre e auto consumare l’energia rinnovabile da impianti fino ai 200 kW di potenza. Quindi la condivisione avverrà tra più edifici liberando sempre più persone dal consumo di energia prodotta dal fossile.
Ha proseguito il Ministro Costa:
È l’inizio di un nuovo capitolo nella storia energetica e ambientale del nostro Paese. Un nuovo capitolo anche nel panorama energetico europeo, visto che l’Italia è tra i primi Paesi UE a inaugurare il modello dell’autoconsumo collettivo e delle comunità energetiche.
fonte: www.greenstyle.it
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A tutto gas. La Sardegna (e l’Europa) a un bivio
La storia di Benetutti affonda le sue radici all’inizio del secolo scorso, racconta Sini, quando un mugnaio iniziò a produrre energia elettrica per illuminare il tratto di strada dove si trovava il suo mulino e gli amministratori comunali di allora, esterrefatti dalla scoperta, decisero di acquisirne il brevetto. Sini non nasconde la sua soddisfazione, oggi, a pensare a quanta strada abbiano fatto da allora.
A Benetutti, 104 impianti fotovoltaici e primo comune in Italia per potenza installata pro capite, è l’amministrazione comunale e non Enel ad essere proprietaria della rete elettrica e a produrre energia.
Oggi l’Azienda Elettrica Comunale conta 1.100 utenti. Produce energia elettrica essenzialmente da fotovoltaico, ma per via delle leggi esistenti non può accumularla e venderla. Con la fine del “mercato tutelato”, che il governo ha posticipato al 2022 e la direttiva europea sulle comunità energetiche, approvata nel 2018, Benetutti sarà in grado di accumulare l’energia che produce, deciderne il prezzo, commercializzarla e venderla persino ad altre città. «Da aprile a settembre siamo già autosufficienti ma nei restanti mesi siamo obbligati a comprare energia da Enel, con la fine del mercato tutelato potremo distribuire l’energia che produciamo», spiega Sini.

«Presto saremo in grado non solo di essere completamente autosufficienti dal punto di vista energetico ma anche di vendere l’energia che produciamo»Rosolino Sini
In un’area fatta di piccoli e piccolissimi comuni, scossa da una crisi economica e demografica senza precedenti negli ultimi anni, dove lo spopolamento è un calcolo impietoso che il sindaco Vincenzo Cosseddu deve fare ogni anno, produrre e vendere energia può aprire le porte a un nuovo futuro. «Vogliamo avere tariffe convenienti per i cittadini e attrarre aziende che hanno bisogno di energia, portare qui giovani e lavoro», dice Cosseddu. Non solo: «A Benetutti la smart grid porterà risparmi nella bolletta energetica fino al 30%».
A Rosolino Sini, che all’Azienda Elettrica di Benetutti ha iniziato a lavorare come semplice impiegato 35 anni fa, piace parlare di “democrazia energetica”: «Vuol dire affrancarsi da risorse che non ci appartengono, come gas o petrolio, e produrre energia mettendo a frutto quello che abbiamo in abbondanza, come sole e vento per esempio».
L’emergenza climatica ha imposto un cambio di paradigma a livello globale.
Gli obiettivi di politica europei e nazionali prevedono una completa decarbonizzazione del sistema energetico entro il 2050. Entro il 2025 la Sardegna dovrà spegnere le cinque centrali a carbone che attualmente ne alimentano la rete termoelettrica. È così che Benetutti, da piccolissimo esempio di buone pratiche locali, è diventato il simbolo di una rivoluzione energetica possibile. E la Sardegna, teatro di una battaglia tra modelli energetici che si consuma su scala globale.
Unica regione italiana a non avere una rete del gas, in Sardegna si è scatenato uno scontro tra chi, come molti scienziati, accademici e associazioni ambientaliste, pensa che la regione possa fare da apripista a un modello energetico sostanzialmente basato sull’utilizzo di fonti rinnovabili e elettrificazioni dei consumi (auto elettriche, pompe di calore per il riscaldamento, ecc.). E chi, in prima linea le compagnie petrolifere, ha visto negli imminenti obiettivi di decarbonizzazione una lauta opportunità di sviluppo per il settore del gas.
In un primo momento, il gas è stato presentato dalle grandi società petrolifere come una soluzione “semplice” alla necessità di utilizzare fonti di energia a minor impatto sul clima. «In Italia, come del resto in molti altri Paesi, è stato possibile decidere il phase-out dal carbone anche perchè la lobby del gas è molto forte e fin dall’inizio il gas è stato fatto passare come una soluzione alla decarbonizzazione», spiega Matteo Leonardi, esperto di politica energetica per la società di consulenza RefE.
Dopo il fallimento del progetto Galsi, il gasdotto che dalle coste dell’Algeria doveva portare gas in Italia passando per la Sardegna, naufragato tra scandali e inchieste per corruzione che hanno travolto i vertici delle principali società coinvolte, a maggio 2019 un nuovo progetto di metanodotto per portare gas in Sardegna è stato presentato da Enura, joint venture di Snam, la principale società di trasporto del gas in Italia, e Società Gasdotti Italia.
Il progetto, fortemente voluto dalla Regione Sardegna, prevede la costruzione di 400 chilometri di metanodotto da Nord a Sud dell’isola che, uniti a una più complessa rete infrastrutturale fatta di rigassificatori, depositi costieri e reti cittadine per il trasporto del gas, avrà il potenziale di portare sull’isola fino a 1,8 miliardi di metri cubi di gas.
I lavori sono partiti lo scorso novembre, con il primo appalto da 5,5 milioni di euro per la progettazione di condutture del tratto Sud del metanodotto assegnato da Snam alla società Technip senza gara di appalto. Molti però sono i nodi ancora da sciogliere.
Il primo è la questione del prezzo. Trattandosi di infrastruttura le reti di trasporto energetiche finiscono in tariffa: «Significa che a pagare l’investimento alla fine sono i consumatori sulla base di tariffe decise da Arera e inserite nella bolletta dei consumi energetici», spiega Federico Pontoni, ricercatore all’Università Bocconi di Milano.
Nel caso del metanodotto sardo, opera che secondo le stime di Enura costerebbe 590 milioni di euro, Arera, l’autorità pubblica che regola e controlla i settori dell’energia e del gas naturale, ha chiarito che solo con una legge ad hoc del governo si potranno spalmare i costi dell’infrastruttura su tutto il territorio nazionale. Senza quella, è il sottotesto, saranno i sardi a pagare l’infrastruttura volute da Snam. Una doccia fredda per i sostenitori del progetto che potrebbe avere come conseguenza il fatto che, se il gas in Sardegna dovesse essere troppo costoso, i sardi potrebbero decidere di non utilizzarlo.
Non solo. Sul tavolo del governo c’è anche il progetto presentato da Terna, la società che gestisce le reti per la trasmissione dell’energia elettrica, che prevede una connessione elettrica tra Sardegna, Sicilia e continente tramite cavo di trasmissione ad alta tensione HVDC. A luglio 2019, Arera ha richiesto e commissionato uno studio indipendente per valutare costi e benefici del progetto di metanizzazione alla società privata RSE. Lo studio di RSE, costato 160 mila euro e che avrebbe dovuto essere pubblicato la scorsa primavera,non è ancora stato reso pubblico.
Rispondendo alle domande di IrpiMedia, l’ufficio stampa di Arera ha dichiarato che «l’Autorità ha ricevuto una versione pressoché definitiva dello studio commissionato alla società RSE e ha richiesto alcuni chiarimenti in vista della sua successiva pubblicazione».
«La mancanza di gas, che è sempre stata vista come un cronico ritardo, dovrebbe essere trattata oggi come un enorme vantaggio», sostiene Alfonso Damiano, professore di ingegneria elettrica all’Università di Cagliari.
Damiano ha collaborato alla stesura del Piano energetico regionale per la Regione Sardegna ed è anche tra i fautori, insieme a Sardegna Ricerche, ente sardo per la ricerca e lo sviluppo tecnologico, del modello Benetutti. «Dati alla mano, la produzione da fonti rinnovabili copre già circa la metà della domanda sarda di energia», spiega. «Anche per il riscaldamento in Sardegna si usano soprattutto biomasse e pompe di calore, Gpl e gasolio coprono una fetta minima dei consumi – conclude Damiano -. Il punto è che l’elettrificazione dei consumi è più conveniente economicamente e la maggior parte delle persone lo ha capito».
I dati del consumo energetico in Sardegna

A pochi chilometri di distanza dal centro abitato di Cagliari, Sardegna Ricerche ha un parco tecnologico all’avanguardia. Stanno studiando come produrre idrogeno da fonte rinnovabile, e riutilizzarlo per produrre energie elettrica. È lì che il modello di smart grid di Benetutti è stato messo a punto. I ricercatori sono convinti che quel modello, data la morfologia della Regione, sia replicabile in almeno un centinaio di altri Comuni sardi.
Il problema delle energie rinnovabili è legato all’intermittenza delle fonti, che richiedono adeguati sistemi di stoccaggio, e la stabilizzazione della rete in termini di potenza, soprattutto per i consumi industriali. A Benetutti per stabilizzare la rete stanno sperimentando biogas prodotto da biomasse.
«Spegnere le centrali a carbone senza avere alternative per supportare il sistema di rinnovabili significa spegnere l’isola», mette in guardia Alfonso Damiano. «Un po’ di gas va incluso nella transizione». Ma quanto?
L’Università di Cagliari ha quantificato in 500 milioni di metri cubi il valore medio di riferimento. Una cifra che, spiega Damiano, andrà diminuendo progressivamente, fino ad annullarsi, per effetto della stabilizzazione delle fonti rinnovabili. Il fabbisogno stimato dalla Regione varia da una cifra minima di 460 milioni di metri cubi a una massima di 900 milioni di metri cubi. La dorsale, unita ai depositi costieri di gas naturale liquefatto già presentati e autorizzati, avrà una capacità di movimentazione pari a quasi 1,8 miliardi di metri cubi di gas metano, secondo i calcoli fatti dal comitato No Metano. «Una quantità spropositata, e un chiaro sostegno del gas e non sviluppo del gas a sostegno delle rinnovabili», commenta Paola Pisilio del comitato sardo No Metano: «L’obiettivo sembra quello di creare un hub del gas in Sardegna».
Un progetto basato sull’elettrificazione e sul potenziamento degli impianti solari ed eolici non avrebbe solo vantaggi immediati in bolletta, ma aprirebbe la porta a sviluppi ancora più ambiziosi. Uno studio realizzato dal Politecnico di Milano, e commissionato dal WWF, prevede infatti per la Sardegna la possibilità di costruire un modello di sviluppo interamente basato su rinnovabili, affiancate da un potenziamento degli accumuli idroelettrici e dallo sviluppo di idrogeno verde.
Si chiama gas naturale ma è una fonte di energia fossile che produce gas serra.
I dati Ispra parlano chiaro. In Italia il gas è responsabile di circa il 45% dell’anidride carbonica emessa nel 2017, mentre il petrolio è responsabile di circa il 44% delle emissioni e il carbone del rimanente 11%. Non solo. Legate al gas sono le cosiddette emissioni fuggitive, micro dispersioni degli impianti che si verificano durante l’esplorazione, la produzione e la distribuzione del gas: una quantità minima di queste emissioni – appena il 3% – è in grado di annullare completamente il vantaggio che il metano ha sul carbone. E poi c’è il cosiddetto fenomeno del lock-in: le infrastrutture del gas sono complesse, costose e una volta realizzate è difficile liberarsene per molti anni.
«La domanda di gas è in diminuzione e ciò nonostante assistiamo a una proliferazione di impianti e progetti con il risultato che poco o nulla viene fatto sul fronte degli investimenti in energie rinnovabili», nota Mariagrazia Midulla del WWF.
In Italia il gas è responsabile del 45% dell’anidride carbonica emessa nel 2017, il petrolio del 44% e il carbone del rimanente 11%
Il progressivo riscaldamento della temperatura, unito all’efficientamento energetico e allo sviluppo delle energie rinnovabili hanno prodotto un progressivo calo dei consumi energetici in Italia. Nel 2018 la domanda di gas in Italia è scesa del 3,3% rispetto al 2017. Nel 2019 il calo è stato pari al 2%. La pandemia di Covid-19 ha fatto precipitare i consumi di gas nei primi mesi del 2020.
A fronte di un fabbisogno pari circa a 70 miliardi di metri cubi di gas all’anno l’Italia può contare su una capacità di importazione pari a 130 miliardi di metri, spiega Massimiliano Varriale del WWF. Dati che non tengono conto della capacità di importazione aggiuntiva generata dal gasdotto TAP e dal metanodotto sardo.
Spesso poi le infrastrutture sono sottoutilizzate, e a pagarne il prezzo, in bolletta, sono i cittadini. Per esempio, i terminali di gas naturale liquefatto (GNL). In Italia ce ne sono tre e nel 2018 hanno immesso in rete una quantità di gas irrisoria rispetto al totale. Nel 2019 i terminali di Panigaglia (La Spezia) e Livorno, di cui Snam è rispettivamente proprietaria e co-proprietaria, hanno immesso in rete, rispettivamente, il 5% e il 3% del totale. Nel 2018 le percentuali erano ancora più basse pari, rispettivamente al 2% e all’1%.
In seguito allo spegnimento delle centrali a carbone in tutto il paese, che come in Sardegna dovranno chiudere entro il 2025, e grazie al capacity market, un meccanismo di garanzia in base al quale le centrali termoelettriche a gas ricevono una remunerazione anche se non lavorano, in Italia si è assistito a un boom di progetti per la costruzione o la riconversione di centrali a gas. «È una situazione esplosiva, assistiamo a una proliferazione di impianti che hanno scarsa giustificazione dal punto di vista del fabbisogno energetico», dice Massimiliano Varriale.
Non succede solo in Italia. Negli scenari messi a punto dalle compagnie del gas una domanda sempre in crescita viene usata per giustificare la costruzione di nuove infrastrutture. E se nonostante gli obiettivi di policy messi in campo per far fronte all’emergenza climatica, progetti per nuove infrastrutture del gas proliferano in Europa la ragione sta anche nel fatto che le grandi imprese del gas, responsabili della costruzione di terminali e gasdotti, sono le stesse imprese che aiutano i governi a scegliere quali infrastrutture sviluppare.
L’associazione europea degli operatori delle reti di trasmissione del gas, ENTSOG, è stata creata nel 2009 con l’obiettivo di elaborare le previsioni della domanda di gas in Europa. È formata dalle principali società europee del gas, 44 membri da 24 paesi europei e, spiegano i ricercatori di Corporate Europe Observatory, dalla sua creazione ha costantemente sovrastimato il fabbisogno di gas. La ragione è semplice: «Il 75% delle infrastrutture del gas costruite in Europa sono progetti presentati dalle società stesse che fanno parte del network ENTSOG».
In un rapporto pubblicato recentemente – dal titolo Pipe Down – la Ong inglese Global Witness ha fatto i conti. «Le grandi società del gas si sono accaparrate circa il 90% dei sussidi che l’Unione europea destina alle infrastrutture del gas, oltre 4 miliardi di euro». Sono le stesse società che regolarmente sovrastimano il fabbisogno di gas in Europa.
Snam fa parte del network ENTSOG: secondo i calcoli di Global Witness la società ha ricevuto 813 milioni di euro dal 2015 al 2019 per progetti cosiddetti di “interesse comune”, una lista dei principali progetti infrastrutturali redatta dalla Commissione europea. Altri 714 milioni di euro sono finiti a finanziare progetti di cui anche Snam, insieme ad altre società, faceva parte.
Anche in Italia Snam siede ai tavoli governativi dove vengono decise le politiche energetiche. Fornisce dati, elabora scenari e previsioni, e sulla base di quei dati propone nuove infrastrutture da costruire. Per esempio, la società italiana ha partecipato alla stesura della Strategia energetica nazionale nel 2017, il piano energetico sulla base del quale è stato poi redatto il più recente Piano Nazionale per le Infrastrutture, l’Energia e il Clima (PNIEC) che pure largamente attinge a dati e scenari forniti da Snam.
Poi ci sono le attività di lobbying a cui le società del gas destinano ingenti risorse. Secondo un’indagine condotta dall’associazione Re:Common, Snam, insieme alle altre tre principali società europee del gas, hanno speso complessivamente 900 mila euro e impiegato 14 lobbisti nel 2018. «Nel 2019 queste aziende sono riuscite a ottenere quasi 50 incontri con i massimi funzionari politici della Commissione europea per discutere i loro ultimi progetti di gasdotti o offerte di acquisizione», spiegano i ricercatori di Re Common. La sola Snam ha speso una cifra compresa tra 200 e 300 mila euro nel 2019, secondo i dati del registro della trasparenza UE.
fonte: https://irpimedia.irpi.eu
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