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Vedrà la luce in Sardegna la prima batteria alla CO2

Su progetto e tecnologia dell’italiana Energy Dome, l’innovativo impianto d’accumulo vanterà 2,5 MW di potenza e una capacità 4 MWh. Con la promessa di abbassare il costo livellato dell’energy storage nei prossimi anni




L’anidride carbonica potrebbe finalmente avere la possibilità di diventare una soluzione della crisi climatica anziché una delle cause. Come? Ad esempio attraverso l’innovativa “batteria alla CO2“, progettata e realizzata dall’italiana Energy Dome. Una soluzione all’avanguardia che potrebbe conservare l’energia a meno della metà del costo delle grandi batterie a ioni di litio. D’altra parte il biossido di carbonio, spiega l’azienda, costituisce il fluido perfetto per immagazzinare elettricità a costi contenuti. Rappresenta infatti uno dei pochi gas condensabili e conservabili come un liquido a pressione e temperatura ambiente.

La batteria alla CO2 rappresenta un’evoluzione del cosiddetto Liquid Air Energy Storage (LAES), tecnologia che utilizza l’elettricità per raffreddare l’aria fino a quando non si liquefa. Per fornire energia, i sistemi LAES riportano l’aria liquida allo stato gassoso, utilizzando quel gas per far girare una turbina e generare elettricità. In questo caso l’impianto di base è simile ma la soluzione di Energy Dome consente l’accumulo ad alta densità senza la necessità di impiegare temperature criogeniche.

Il primo sistema di questo genere sorgerà in Sardegna con una taglia di 2,5MWe e 4MWh, ma sarà progettato per consentire future espansioni di capacità. “Questo progetto dimostrativo – spiega la società – è pensato per essere gestito commercialmente e generare entrate operando sui mercati dell’energia e dei servizi ausiliari”. La tecnologia Energy Dome offre prestazioni eccezionali, raggiungendo un’efficienza di “round-trip” (ovvero da energia elettrica ad energia elettrica). E un costo di stoccaggio livellato (LCOS) altamente competitivi per accumuli da 3 a oltre 16 ore.

“L’impianto CO2 Battery Demo dimostrerà sia l’efficienza della tecnologia sia la capacità della tecnologia di fornire servizi energetici e di regolazione sulla rete elettrica, testando la tecnologia su scala rilevante e superando i rischi tecnici, che si riferiscono principalmente al rischio di integrazione dei componenti (TRL 9)”.

fonte: www.rinnovabili.it



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La Rifiuthlon Hybrid Tour aggiunge nuove tappe in Sardegna

Dopo aver toccato nei mesi di giugno e luglio Porto Liscia, Sassari, Carloforte, Sant'Antioco, San Basilio e Vallermosa, la gara di raccolta rifiuti a premi ideata da Aics Ambiente farà tappa ad agosto a Castelsardo, Santa Teresa di Gallura ed Alghero, trasformando i giovanissimi in ‘moschettieri dell'ambiente’









Sono tantissimi i comuni della Sardegna che hanno chiesto di diventare tappa del Rifiuthlon Hybrid Tour, la gara di raccolta rifiuti a premi ideata da Aics Ambiente per avvicinare i più giovani alle tematiche ambientali. Dopo aver toccato nei mesi di giugno e luglio Porto Liscia, Sassari, Carloforte, Sant'Antioco, San Basilio e Vallermosa, la Rifiuthlon farà dunque tappa il 6, 7 e 8 agosto rispettivamente Castelsardo, Santa Teresa di Gallura ed Alghero, dove ad attenderla ci sarà un piccolo esercito di giovanissimi aspiranti ‘moschettieri dell'ambiente’. In ogni tappa del Rifiuthlon Hybrid Tour (che si muove sulle ruote di una Clio ibrida gentilmente offerta alla manifestazione da RRG Italia Groupe Renault) sono, infatti, i cittadini e i turisti più giovani i veri protagonisti.

A loro vengono consegnati in ogni tappa degli stick con pinza, delle pettorine e delle sacche di cotone per la raccolta di piccoli rifiuti. Ma alla fine della gara tutti i partecipanti vengono premiati per il loro contributo alla tutela dell'ambiente con una medaglia che attribuisce loro il titolo appunto di 'moschettieri dell'ambiente'.

"Ovviamente non si tratta di una vera gara. E al termine, oltre alle medaglie per tutti, c'è sempre una ulteriore premiazione, che in modo giocoso e divertente aiuta ad acquisire informazioni importanti per il rispetto dell'ambiente. La Rifiuthlon non è insomma un'attività di pulizia di un sito/area ma un sistema formativo integrato per giovani cittadini. Un gioco d'estate che semina la sostenibilità del futuro" spiega Andrea Nesi, Presidente di Aics Ambiente, che fa appello ai genitori perché aiutino i figli a partecipare all'iniziativa.

fonte: www.greencity.it


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Edizero, la nuova vita sostenibile degli scarti

Si può fare industria pulita preservando il territorio, anzi valorizzandolo come nel caso di Edizero, l’azienda sarda che mette in contatto le filiere utilizzando gli scarti di produzione: i materiali da smaltire si trasformano in biomateriali non inquinanti che non generano rifiuti










Edizero pratica la cultura del senza: i prodotti delle sue filiere sono senza petrolio, senza veleni, senza inquinanti, senza togliere suolo e acqua, utilizzano energie rinnovabili e scarti di produzione per creare materiali che a fine vita non generano rifiuti. Nel 2019, Edizero è stata inserita nel Rapporto Italia del Riciclo di Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile tra le imprese di eccellenza green. Daniela Ducato, fondatrice di Edizero,è una «campionessa mondiale di innovazione, orgoglio della nostra Italia migliore», come la definì il Presidente Sergio Mattarella quando la nominò Cavaliere della Repubblica. È stata premiata da “Fortune” come imprenditrice più innovativa d’Italia e in Svezia come imprenditrice più innovativa d’Europa, il “New York Times” ha inserito i prodotti delle sue filiere tra le dieci innovazioni che possono salvare il Pianeta. In principio furono gli scarti di lavorazione della lana, cui seguirono il sughero, la canapa, le vinacce e le bucce di pomodoro: materiali da smaltire che si sono trasformati in biomateriali. Ascoltiamo dalla voce di Daniela Ducato la genesi di un’idea imprenditoriale sostenibile.

Quale intuizione ha portato alla nascita delle filiere Edizero e qual è stato il Suo contributo personale?

Il primo pilastro è la Essedi di Guspini, azienda storica della Sardegna leader di settore che distribuisce ben 14.000 prodotti per le costruzioni. Sono partita con questo patrimonio di conoscenza di materiali del mondo, di segreti che non si trovano su internet o nelle schede tecniche. Grazie alla Essedi posso accedere in modo diretto alle aziende di produzione, conoscere tecnologie, prodotti e mercato, le cose raccontate e quelle non raccontate. Per creare il nuovo occorre conoscere bene ciò che esiste già. Capire punti di forza e limiti dell’esistente è il punto di partenza. Le filiere Edizero nascono nel 2010 sintonizzando insieme in modo interdisciplinare industrie, mondo commerciale, distributivo, logistico e ricerca scientifica globale: si produce locale, ma il sapere è mondiale.

Il mio contributo è quello di creare ponti con il mondo dove alla base ci sono il dialogo, lo scambio delle esperienze e la condivisione delle rispettive competenze con l’obiettivo preciso di realizzare in Sardegna con industria a km corto dei prodotti fossil free, non depredatori né consumatori di risorse e con caratteristiche tecniche non inferiori ai prodotti similari, con una sostenibilità economica capace di affermarsi anche in mercati molto competitivi nel prezzo come l’edilizia. Al momento sono presenti sul mercato circa 150 prodotti delle filiere Edizero come isolanti termici acustici, moduli coibenti portanti per coperture, pitture, rasanti, malte, colle, adesivi per piastrelle, geotessili disinquinanti, biotessili igrometrici e altri materiali specifici per i settori edilizia acustica, interior design, geotecnica, agrotecnica, ingegneria ambientale, arredo, packaging.

Lei va oltre i principi dell’economia circolare. Nessuno scarto, nessun trattamento con derivati di sintesi petrolchimica, nessun rifiuto a fine vita, nessuna tossicità dei materiali, massimo rispetto per persone e ambiente. Ci racconta la storia di qualche prodotto?


Sono molto legata ai coibenti di canapa. I Canapa Tech isolanti, termici acustici igrometrici, realizzati in Sardegna con industria a km corto, come tutti i prodotti Edizero utilizzano le materie seconde provenienti da sottolavorazioni di altre aziende. Ciò è possibile grazie alla Smart Biotechnology Edizero®, ingegneria industriale ad alta innovazione capace di assemblare in modo intelligente gli scarti disomogenei e amplificare al massimo la capacità di immagazzinare elevate quantità di aria all’interno delle fibre di canapa; per tale ragione Canapa Tech vanta uno dei migliori valori di potere isolante tra i coibenti presenti sul mercato mondiale. A queste ottime caratteristiche prestazionali si aggiungono quelle ambientali. Canapa Tech è infatti l’isolante con il minor dispendio di risorse: si produce a crudo con zero acqua, zero processi termici, zero additivi, zero colle, zero termoleganti. In Italia sono i primi isolanti in canapa bio ad aver ottenuto la certificazione etica ambientale Anab Icea, garanzia di salute. Anche l’imballo è rinnovabile, organico, compostabile, plastic free e contribuisce ad azzerare i rifiuti di cantiere.

Oltre alla produzione di materassini di canapa per l’efficienza energetica in edilizia, la linea Canapa Tech Design produce imbottiture isolanti termiche destinate alle industrie di moda, calzaturiero, arredo, bedding, sistemi letto e trapunte, imballaggio antiurto, packaging termico per mantenere la catena del freddo e del caldo e feltri termici acustici igrometrici usati soprattutto da aziende produttrici di arredi acustici, tende foniche, prodotti per il benessere respiratorio e uditivo, per il benessere animale, per trapunte antiumidità, allestimenti verdi, land art e vertical garden. I Canapa Tech Design sono realizzati per soddisfare le esigenze di aziende che vogliono riconvertirsi al green in quanto vanno a sostituire gli isolanti petrolchimici inquinanti ancora presenti in diversi settori dall’edilizia all’abbigliamento, dall’arredo casa all’imballaggio.



In Edizero non si butta nulla e anche gli scarti degli scarti ritrovano vita e valore. Nel 2020 in pieno lockdown unendo insieme gli scarti degli scarti della canapa e del sughero (ricavati dalla lavorazione degli isolanti di canapa e sughero prodotti nelle industrie Edizero)sono nati i Cork Hemp, pelle vegetale isolante di 3 mm e pelliccia vegetale isolante di 2 cm con svariati utilizzi: dall’arredo al packaging, dai tappeti ai materassini yoga, dalle testiere per letto regolatrici di umidità. Pelle vegetale e pelliccia vegetale di sughero-canapa in parte vanno a sostituire le pelli animali quindi con zero uccisione di animali; le pelli di sintesi petrolchimica e anche quelle definite vegetali attualmente nel 90% dei casi contengono quantità importanti di resine petrolchimiche, seppure non dichiarate nella comunicazione marketing.

I biotessili Salva Respiro Canapa Tech droplets assorbitori e fonoassorbitorigrazie alla loro capacità igrometrica e permeabilità al vapore, all’interno di spazi chiusi, limitano gli aerosol acquosi emessi con l’espirazione comprese le emissioni dell’alito carico di inquinanti ceduti all’ambiente con il respiro. Le goccioline emesse con la tosse, il parlare, gli starnuti o l’alito hanno distribuzioni dimensionali con diversi ordini 7, 15 16, fino a migliaia di micron. I batteri e i virus sono ampiamente diversi per dimensioni, forma, chimica superficiale e proprietà interfacciali che influenzano trasporto, adesione e permanenza nelle complesse superfici dei materiali. I Salva Respiro Canapa Tech droplets assorbitori e fonoassorbitori grazie alla loro struttura multistrato ricca di ampi cuscinetti d’aria rugosi assorbono e intrappolano all’interno delle loro fibre l’umidità circostante che vi aderisce con il suo contenuto di germi e batteri, migliorando la qualità dell’aria.

La ricchezza di camera d’aria è utile anche per assorbire e quindi limitare le riflessioni e il riverbero delle onde sonore sulle superfici che ricoprono e così migliorare la resa acustica dell’ambiente per un’atmosfera avvolgente ovattata antistress. Gli assorbitori di droplets e di suoni Canapa Tech vengono realizzati con diversi spessori e dimensioni; laddove sia necessario avere un lato assorbente e l’altro idrorepellente si utilizza il Cork Hemp prodotto sempre nelle filiere Edizero. I Canapa Tech droplets assorbitori e fono assorbitori sono prodotti con diversi metraggi e spessori per realizzare separè, distanziatori, ante per mobili, testiere per letto, tende e sedie, nidi involucri per studio e relax, per luoghi pubblici e abitazioni.

La gestione dei rifiuti è sinonimo di illegalità. Non creare rifiuti fa bene all’ambiente ma anche alla vita del territorio.

C’è grande attenzione mediatica alla gestione e al riciclo dei rifiuti, in Edizero la regola è produrre merci che a fine vita non diventino rifiuti, ovvero non devono diventare un problema per chi verrà dopo. Questo modo di produrre a rifiuti zero non alimenta la malavita organizzata che ha nei rifiuti il suo maggiore business. Quindi produrre senza generare rifiuti è il piccolo contributo delle filiere Edizero per combattere la malavita organizzata.

Le filiere di Edizero sono diverse, dal disinquinamento alla geotecnica, dall’ingegneria ambientale all’agrotecnica. Come funziona la produzione di materiali così diversi?

I prodotti sono diversi ma uniti nella multidisciplinarità industriale che ne è l’aspetto vincente perché abbatte i costi, evita lo spreco non solo di materia ma anche di intelligenza. Poi la biotecnologia industriale e la logistica intelligente in Edizero sono accompagnate da elevata capacità distributiva dove il fulcro di tutto è la digitalizzazione delle filiere.

Oggi non si può immaginare un materiale trasformato, innovativo e privo di inquinanti senza l’apporto di un’eccellente tecnologia digitale. L’industria 4.0 e 4.1 ci permette di abbattere costi di energia e di trasporto, di non generare scarti o sovrapproduzioni, di realizzare prodotti nuovi di alta qualità senza bisogno di aggiungere additivi migliorando la qualità e producendo anche su misura per il cantiere. Abbiamo la possibilità di avere trasparenza e tracciabilità di ogni ingrediente per ciascun prodotto: con l’intelligenza artificiale stiamo rivoluzionando in meglio la produttività e la progettazione del nuovo.

La sede di Edizero è a Guspini, in Sardegna. Cosa l’ha spinta a rimanere qui?

È una fortuna e un’opportunità straordinaria vivere in Sardegna, prima terra emersa d’Europa e pertanto dotata di un ricchissimo patrimonio minerale, vegetale e animale. Sono tantissime le materie seconde disponibili nella nostra isola, quindi senza importazioni. Qui vengono trasformate in prodotti finiti nel medesimo luogo grazie all’industria green: ciò consente alle filiere Edizero di produrre a km cortissimo con un vantaggio ambientale ed economico. A questo si aggiunge l’aria di mare che si respira nella zona industriale di Guspini, la prima al mondo certificata pesticide free, a conferma che si può fare industria pulita preservando il territorio, anzi valorizzandolo come nel nostro caso.

Sin da piccola è stata sempre vicina alle innovazioni agronomiche di suo padre, specializzato in agrumeti e rose. Da ragazza ha praticato sport a livello agonistico come il tennis e la corsa in montagna, poi è stata insegnante. Le piante, lo sport e l’insegnamento hanno in qualche modo hanno influenzato il suo modo di essere imprenditrice?

Le piante sono il 90% del mio lavoro, fatto di trasformazioni di oltre 100 eccedenze vegetali; sicuramente guardarle con gli occhi esperti di mio padre (seppure sia venuto a mancare quando ero adolescente) e della mia insegnante di botanica Giuseppina Primavera, ha segnato il mio rapporto con il mondo vegetale ovvero un mondo superiore a cui si deve buona parte di ispirazione delle biotecnologie Edizero come l’ottimizzazione delle risorse e dell’energia.

Lo sport mi ha sicuramente allenato a curare la preparazione in ogni dettaglio, quindi disciplina, rigore, pazienza, sopportazione della fatica e adattamento ai cambiamenti climatici visto che si tratta di sport all’aperto e in mezzo alla natura dove le condizioni esterne come il caldo o il freddo estremi, il ghiaccio, il vento, seppur difficili vanno accolte e con esse si deve interagire al meglio. Questo ascolto ravvicinato multisensoriale mi ha fatto vivere le gare come situazioni di sopravvivenza dove era importante raggiungere il traguardo comunque, da vincente o da perdente. L’obiettivo primo non era la vittoria ma arrivare fino alla fine, quindi trovare nuove soluzioni, anche nelle situazioni peggiori, pur di concludere la gara e poi usare soprattutto le sconfitte come strategia di evoluzione.

Aver insegnato didattica della musica nelle medie e nelle scuole superiori (istituto pedagogico) è una condizione matematica che vive con me sempre. La musica è fatta di numeri, è uno studio matematico. La matematica tradotta in suono diventa musica. È la colonna sonora portante della mia vita. Come diceva il filosofo Leibnitz «abbiamo bisogno di musica perché abbiamo bisogno di matematica». La musica è il nostro desiderio ed esercizio inconscio di contare. Nella musica come nello sport sono i numeri a dettare legge e non le parole. A parole si può raccontare qualsiasi cosa anche senza averla compiuta per davvero. I numeri mettono a nudo, vince chi ottiene il miglior tempo il miglior punteggio, chi si è conquistato il numero di misura superiore. Il numero migliore assegna la vittoria.


Nello sport grazie ai numeri siamo tutti uguali e abbiamo una possibilità. Ciò in un certo modo avviene in parte in alcuni settori industriali come quello dei materiali per l’edilizia, dove il prodotto è definito dai numeri della chimica di cui è composto e da un insieme di numeri corrispondenti a formule matematiche e dai dati tecnici che ne misurano la prestazione e più di recente anche la sostenibilità. Si può avere il miglior ufficio marketing del mondo, come nel caso delle multinazionali, ma se un prodotto dell’edilizia vanta numeri migliori di prestazione tecnica può avere la possibilità di riuscire a conquistare il suo spazio e ad esistere, esattamente come nello sport. Ecco perché in Edizero siamo così legati all’innovazione tecnologica, perché una volta scoperti i segreti delle materie seconde, occorre tradurre queste conoscenze in numeri e questi in prodotti, che per essere realizzati necessitano dei più elevati saperi industriali. Se mi fossi cimentata in settori merceologici meno misurabili dai numeri e più governati dal marketing delle parole non sarei riuscita ad ottenere questi risultati.

Quindi la matematica continuerà a guidare le sue future innovazioni? C’è qualcosa che può preannunciarci?

Vedo che molti prodotti (di settori diversi dall’edilizia) sono raccontati prevalentemente dalle parole. Spesso il successo del prodotto è affidato all’uso delle parole. Tutti i prodotti contengono numeri, sono fatti di chimica, di proporzioni, ma spesso non si dichiarano (perché non è conveniente). I numeri ci sono sempre, un abuso di parole serve talvolta per nascondere la debolezza dei numeri. Sarebbe come escludere da una gara di velocità l’atleta detentore del miglior tempo registrato a favore di un atleta che non corre ma di cui qualcuno simula la corsa e ci fa credere sia vero. Nello sport non può esistere, nella produzione delle merci invece succede, anzi talvolta è auspicato. Il mondo della produzione si attrezza di parole, addirittura di parole ingannevoli per non dichiarare la chimica la matematica del prodotto.


Non posso ancora svelare la nuova filiera che mi vedrà impegnata nel 2021 ma di sicuro ad alcuni prodotti restituiremo la chimica e la matematica finora negate. Ed anche la storia e la geografia.

Quando si scende in campo non contano le parole ma il sentire l’altra persona, percepire la sua forza, il suo respiro, le sue intenzioni, intuire il suo gioco. Spesso questa capacità del sentire gli altri, ci aiuta non solo a fare alleanze ma anche a prendere le distanze da chi può farci perdere tempo o da chi è nostro avversario e si avvicina per depredarci. Lo sport mi ha aiutato sin da piccola ad allenare queste condizioni mentali che sono importanti in qualsiasi contesto di vita, di lavoro e soprattutto di innovazione.

fonte: www.rinnovabili.it


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Green Deal UE, fondi a carbone e fossili anche dopo il 2030?

Il Green Deal UE rischia di sapere ancora troppo di carbone, anche dopo il 2030: le previsioni per l'Europa e per l'Italia.



Il Green Deal UE sembrerebbe procedere in una direzione non del tutto verde. Almeno è quello che sembra delinearsi sul fronte europeo in vista del 2030. I dati provengono da un’analisi effettuata dal “think-tank” Ember, intitolata “Just Transition or Just Talk?“, e sono tutt’altro che confortanti. Sul fronte comunitario, ma in parte anche su quello più strettamente nazionale.

L’Unione Europea ha deciso di stanziare il Just Transition Fund, una sorta di “cassa comune” da cui attingere fondi per la transizione energetica. Lo scopo è quello di rendere più green il mix energetico UE, procedendo quanto più velocemente possibile verso la decarbonizzazione. Finanziamenti che sono destinati a tutti i Paesi del Vecchio Continente, inclusi quelli (a meno di clamorosi colpi di scena dell’ultima ora) che con buona probabilità punteranno su carbone o fonti fossili anche dopo il 2030.

Green Deal UE, carbone e fossili anche dopo il 2030

L’uscita dal carbone entro il 2030 non coinvolgerà tutti i 18 Stati UE che attualmente ne fanno uso. Nello specifico saranno sette i Paesi che non rinunceranno a questo particolare combustibile fossile, e che allo stato attuale delle cose percepiranno i finanziamenti inclusi nel Just Transition Fund. A guidare la fila la Germania, unitamente ad alcune nazioni dell’Est Europa (Bulgaria, Croazia, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovenia).

L’Italia figura invece nel mini-gruppo di quattro Paesi UE che diranno addio al carbone, ma in favore di altre fonti fossili. Le risorse non più investite nel carbone verranno in parte impiegate a sostegno del gas. Il risultato sarà quello di possedere un mix energetico ancora sbilanciato verso i combustibili fossili.

Una scelta che per il Bel Paese sembrerebbe giustificata anche dalle forti resistenze locali che alcune Regioni oppongono all’installazione delle fonti rinnovabili. Emblematico il caso della Sardegna, dove l’eolico offshore fatica ad affermarsi malgrado il sostegno degli ambientalisti.

I sette Paesi UE più virtuosi sono Danimarca, Finlandia, Francia, Olanda, Portogallo, Slovacchia e Spagna. Qui l’addio al carbone non verrà compensato da un ampio ricorso al gas.

Italia: Ambiente e Recovery Fund

Si è parlato di ambiente anche in relazione al Recovery Fund. Diverse associazioni hanno chiesto maggiori informazioni al Governo e al Ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Il responsabile del dicastero di via Cristoforo Colombo ha dichiarato, durante un’audizione alla Commissione Ambiente della Camera:


Il 37% delle risorse assegnate all’Italia devono andare al green, non al Ministero dell’Ambiente, ma con un concetto trasversale di sostenibilità. Le missioni nell’utilizzo del Recovery fund UE riguardano sei aree principali di azione, che hanno come comune denominatore l’ambiente: Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo; Rivoluzione verde e transizione ecologica; Infrastrutture per la mobilità; Istruzione, formazione, ricerca e cultura; Equità sociale, di genere e territoriale; Salute.

Nei giorni scorsi ha iniziato anche a circolare una bozza, redatta dal Ministero dello Sviluppo Economico e relativa al Recovery Fund. Un capitolo importante del piano sarebbe stato riservato produzione di “acciaio green” e alla riconversione di siti industriali a luoghi di produzione e/o stoccaggio di idrogeno. Nell’orbita di tale discorso sarebbe venuta fuori anche l’Ilva di Taranto. Lo stesso Ministro Patuanelli ha dichiarato in un’audizione alla Camera di puntare a un’Italia “hub europeo dell’idrogeno”.

Decarbonizzare l’Ilva sarà un obiettivo primario per l’Italia, ha sottolineato il Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Emersa in questi giorni la possibilità che gli stanziamenti ricevuti nell’ambito del Recovery Fund possano venire utilizzati anche per il rilancio degli Ecobonus al 110%.


fonte: www.greenstyle.it


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A tutto gas. La Sardegna (e l’Europa) a un bivio

In Sardegna si scontrano due modelli di sviluppo energetico diametralmente opposti. Uno basato sulle rinnovabili, l’altro sui gasdotti, e le lobby del petrolio premono per il secondo









Per Rosolino Sini è il compimento di un sogno vissuto in prima linea per almeno 35 anni. Benetutti, remoto paese della provincia di Sassari in Sardegna, sta per diventare la prima “smart grid” italiana e uno dei primi esempi europei di municipalità totalmente alimentata da una “rete intelligente” di energie rinnovabili. «È una rivoluzione – dice Sini, responsabile dell’azienda elettrica del Comune e visionario artefice del progetto – Significa che presto saremo in grado non solo di essere completamente autosufficienti dal punto di vista energetico ma anche di vendere l’energia che produciamo».

La storia di Benetutti affonda le sue radici all’inizio del secolo scorso, racconta Sini, quando un mugnaio iniziò a produrre energia elettrica per illuminare il tratto di strada dove si trovava il suo mulino e gli amministratori comunali di allora, esterrefatti dalla scoperta, decisero di acquisirne il brevetto. Sini non nasconde la sua soddisfazione, oggi, a pensare a quanta strada abbiano fatto da allora.

A Benetutti, 104 impianti fotovoltaici e primo comune in Italia per potenza installata pro capite, è l’amministrazione comunale e non Enel ad essere proprietaria della rete elettrica e a produrre energia.

Oggi l’Azienda Elettrica Comunale conta 1.100 utenti. Produce energia elettrica essenzialmente da fotovoltaico, ma per via delle leggi esistenti non può accumularla e venderla. Con la fine del “mercato tutelato”, che il governo ha posticipato al 2022 e la direttiva europea sulle comunità energetiche, approvata nel 2018, Benetutti sarà in grado di accumulare l’energia che produce, deciderne il prezzo, commercializzarla e venderla persino ad altre città. «Da aprile a settembre siamo già autosufficienti ma nei restanti mesi siamo obbligati a comprare energia da Enel, con la fine del mercato tutelato potremo distribuire l’energia che produciamo», spiega Sini.





«Presto saremo in grado non solo di essere completamente autosufficienti dal punto di vista energetico ma anche di vendere l’energia che produciamo»Rosolino Sini

In un’area fatta di piccoli e piccolissimi comuni, scossa da una crisi economica e demografica senza precedenti negli ultimi anni, dove lo spopolamento è un calcolo impietoso che il sindaco Vincenzo Cosseddu deve fare ogni anno, produrre e vendere energia può aprire le porte a un nuovo futuro. «Vogliamo avere tariffe convenienti per i cittadini e attrarre aziende che hanno bisogno di energia, portare qui giovani e lavoro», dice Cosseddu. Non solo: «A Benetutti la smart grid porterà risparmi nella bolletta energetica fino al 30%».

A Rosolino Sini, che all’Azienda Elettrica di Benetutti ha iniziato a lavorare come semplice impiegato 35 anni fa, piace parlare di “democrazia energetica”: «Vuol dire affrancarsi da risorse che non ci appartengono, come gas o petrolio, e produrre energia mettendo a frutto quello che abbiamo in abbondanza, come sole e vento per esempio».

L’emergenza climatica ha imposto un cambio di paradigma a livello globale.

Gli obiettivi di politica europei e nazionali prevedono una completa decarbonizzazione del sistema energetico entro il 2050. Entro il 2025 la Sardegna dovrà spegnere le cinque centrali a carbone che attualmente ne alimentano la rete termoelettrica. È così che Benetutti, da piccolissimo esempio di buone pratiche locali, è diventato il simbolo di una rivoluzione energetica possibile. E la Sardegna, teatro di una battaglia tra modelli energetici che si consuma su scala globale.

Unica regione italiana a non avere una rete del gas, in Sardegna si è scatenato uno scontro tra chi, come molti scienziati, accademici e associazioni ambientaliste, pensa che la regione possa fare da apripista a un modello energetico sostanzialmente basato sull’utilizzo di fonti rinnovabili e elettrificazioni dei consumi (auto elettriche, pompe di calore per il riscaldamento, ecc.). E chi, in prima linea le compagnie petrolifere, ha visto negli imminenti obiettivi di decarbonizzazione una lauta opportunità di sviluppo per il settore del gas.

In un primo momento, il gas è stato presentato dalle grandi società petrolifere come una soluzione “semplice” alla necessità di utilizzare fonti di energia a minor impatto sul clima. «In Italia, come del resto in molti altri Paesi, è stato possibile decidere il phase-out dal carbone anche perchè la lobby del gas è molto forte e fin dall’inizio il gas è stato fatto passare come una soluzione alla decarbonizzazione», spiega Matteo Leonardi, esperto di politica energetica per la società di consulenza RefE.

Dopo il fallimento del progetto Galsi, il gasdotto che dalle coste dell’Algeria doveva portare gas in Italia passando per la Sardegna, naufragato tra scandali e inchieste per corruzione che hanno travolto i vertici delle principali società coinvolte, a maggio 2019 un nuovo progetto di metanodotto per portare gas in Sardegna è stato presentato da Enura, joint venture di Snam, la principale società di trasporto del gas in Italia, e Società Gasdotti Italia.


Il progetto, fortemente voluto dalla Regione Sardegna, prevede la costruzione di 400 chilometri di metanodotto da Nord a Sud dell’isola che, uniti a una più complessa rete infrastrutturale fatta di rigassificatori, depositi costieri e reti cittadine per il trasporto del gas, avrà il potenziale di portare sull’isola fino a 1,8 miliardi di metri cubi di gas.

I lavori sono partiti lo scorso novembre, con il primo appalto da 5,5 milioni di euro per la progettazione di condutture del tratto Sud del metanodotto assegnato da Snam alla società Technip senza gara di appalto. Molti però sono i nodi ancora da sciogliere.

Il primo è la questione del prezzo. Trattandosi di infrastruttura le reti di trasporto energetiche finiscono in tariffa: «Significa che a pagare l’investimento alla fine sono i consumatori sulla base di tariffe decise da Arera e inserite nella bolletta dei consumi energetici», spiega Federico Pontoni, ricercatore all’Università Bocconi di Milano.

Nel caso del metanodotto sardo, opera che secondo le stime di Enura costerebbe 590 milioni di euro, Arera, l’autorità pubblica che regola e controlla i settori dell’energia e del gas naturale, ha chiarito che solo con una legge ad hoc del governo si potranno spalmare i costi dell’infrastruttura su tutto il territorio nazionale. Senza quella, è il sottotesto, saranno i sardi a pagare l’infrastruttura volute da Snam. Una doccia fredda per i sostenitori del progetto che potrebbe avere come conseguenza il fatto che, se il gas in Sardegna dovesse essere troppo costoso, i sardi potrebbero decidere di non utilizzarlo.

Non solo. Sul tavolo del governo c’è anche il progetto presentato da Terna, la società che gestisce le reti per la trasmissione dell’energia elettrica, che prevede una connessione elettrica tra Sardegna, Sicilia e continente tramite cavo di trasmissione ad alta tensione HVDC. A luglio 2019, Arera ha richiesto e commissionato uno studio indipendente per valutare costi e benefici del progetto di metanizzazione alla società privata RSE. Lo studio di RSE, costato 160 mila euro e che avrebbe dovuto essere pubblicato la scorsa primavera,non è ancora stato reso pubblico.

Rispondendo alle domande di IrpiMedia, l’ufficio stampa di Arera ha dichiarato che «l’Autorità ha ricevuto una versione pressoché definitiva dello studio commissionato alla società RSE e ha richiesto alcuni chiarimenti in vista della sua successiva pubblicazione».

«La mancanza di gas, che è sempre stata vista come un cronico ritardo, dovrebbe essere trattata oggi come un enorme vantaggio», sostiene Alfonso Damiano, professore di ingegneria elettrica all’Università di Cagliari.

Damiano ha collaborato alla stesura del Piano energetico regionale per la Regione Sardegna ed è anche tra i fautori, insieme a Sardegna Ricerche, ente sardo per la ricerca e lo sviluppo tecnologico, del modello Benetutti. «Dati alla mano, la produzione da fonti rinnovabili copre già circa la metà della domanda sarda di energia», spiega. «Anche per il riscaldamento in Sardegna si usano soprattutto biomasse e pompe di calore, Gpl e gasolio coprono una fetta minima dei consumi – conclude Damiano -. Il punto è che l’elettrificazione dei consumi è più conveniente economicamente e la maggior parte delle persone lo ha capito».

I dati del consumo energetico in Sardegna




A pochi chilometri di distanza dal centro abitato di Cagliari, Sardegna Ricerche ha un parco tecnologico all’avanguardia. Stanno studiando come produrre idrogeno da fonte rinnovabile, e riutilizzarlo per produrre energie elettrica. È lì che il modello di smart grid di Benetutti è stato messo a punto. I ricercatori sono convinti che quel modello, data la morfologia della Regione, sia replicabile in almeno un centinaio di altri Comuni sardi.

Il problema delle energie rinnovabili è legato all’intermittenza delle fonti, che richiedono adeguati sistemi di stoccaggio, e la stabilizzazione della rete in termini di potenza, soprattutto per i consumi industriali. A Benetutti per stabilizzare la rete stanno sperimentando biogas prodotto da biomasse.

«Spegnere le centrali a carbone senza avere alternative per supportare il sistema di rinnovabili significa spegnere l’isola», mette in guardia Alfonso Damiano. «Un po’ di gas va incluso nella transizione». Ma quanto?

L’Università di Cagliari ha quantificato in 500 milioni di metri cubi il valore medio di riferimento. Una cifra che, spiega Damiano, andrà diminuendo progressivamente, fino ad annullarsi, per effetto della stabilizzazione delle fonti rinnovabili. Il fabbisogno stimato dalla Regione varia da una cifra minima di 460 milioni di metri cubi a una massima di 900 milioni di metri cubi. La dorsale, unita ai depositi costieri di gas naturale liquefatto già presentati e autorizzati, avrà una capacità di movimentazione pari a quasi 1,8 miliardi di metri cubi di gas metano, secondo i calcoli fatti dal comitato No Metano. «Una quantità spropositata, e un chiaro sostegno del gas e non sviluppo del gas a sostegno delle rinnovabili», commenta Paola Pisilio del comitato sardo No Metano: «L’obiettivo sembra quello di creare un hub del gas in Sardegna».

Un progetto basato sull’elettrificazione e sul potenziamento degli impianti solari ed eolici non avrebbe solo vantaggi immediati in bolletta, ma aprirebbe la porta a sviluppi ancora più ambiziosi. Uno studio realizzato dal Politecnico di Milano, e commissionato dal WWF, prevede infatti per la Sardegna la possibilità di costruire un modello di sviluppo interamente basato su rinnovabili, affiancate da un potenziamento degli accumuli idroelettrici e dallo sviluppo di idrogeno verde.

Si chiama gas naturale ma è una fonte di energia fossile che produce gas serra.

I dati Ispra parlano chiaro. In Italia il gas è responsabile di circa il 45% dell’anidride carbonica emessa nel 2017, mentre il petrolio è responsabile di circa il 44% delle emissioni e il carbone del rimanente 11%. Non solo. Legate al gas sono le cosiddette emissioni fuggitive, micro dispersioni degli impianti che si verificano durante l’esplorazione, la produzione e la distribuzione del gas: una quantità minima di queste emissioni – appena il 3% – è in grado di annullare completamente il vantaggio che il metano ha sul carbone. E poi c’è il cosiddetto fenomeno del lock-in: le infrastrutture del gas sono complesse, costose e una volta realizzate è difficile liberarsene per molti anni.

«La domanda di gas è in diminuzione e ciò nonostante assistiamo a una proliferazione di impianti e progetti con il risultato che poco o nulla viene fatto sul fronte degli investimenti in energie rinnovabili», nota Mariagrazia Midulla del WWF.

In Italia il gas è responsabile del 45% dell’anidride carbonica emessa nel 2017, il petrolio del 44% e il carbone del rimanente 11%

Il progressivo riscaldamento della temperatura, unito all’efficientamento energetico e allo sviluppo delle energie rinnovabili hanno prodotto un progressivo calo dei consumi energetici in Italia. Nel 2018 la domanda di gas in Italia è scesa del 3,3% rispetto al 2017. Nel 2019 il calo è stato pari al 2%. La pandemia di Covid-19 ha fatto precipitare i consumi di gas nei primi mesi del 2020.

A fronte di un fabbisogno pari circa a 70 miliardi di metri cubi di gas all’anno l’Italia può contare su una capacità di importazione pari a 130 miliardi di metri, spiega Massimiliano Varriale del WWF. Dati che non tengono conto della capacità di importazione aggiuntiva generata dal gasdotto TAP e dal metanodotto sardo.

Spesso poi le infrastrutture sono sottoutilizzate, e a pagarne il prezzo, in bolletta, sono i cittadini. Per esempio, i terminali di gas naturale liquefatto (GNL). In Italia ce ne sono tre e nel 2018 hanno immesso in rete una quantità di gas irrisoria rispetto al totale. Nel 2019 i terminali di Panigaglia (La Spezia) e Livorno, di cui Snam è rispettivamente proprietaria e co-proprietaria, hanno immesso in rete, rispettivamente, il 5% e il 3% del totale. Nel 2018 le percentuali erano ancora più basse pari, rispettivamente al 2% e all’1%.

In seguito allo spegnimento delle centrali a carbone in tutto il paese, che come in Sardegna dovranno chiudere entro il 2025, e grazie al capacity market, un meccanismo di garanzia in base al quale le centrali termoelettriche a gas ricevono una remunerazione anche se non lavorano, in Italia si è assistito a un boom di progetti per la costruzione o la riconversione di centrali a gas. «È una situazione esplosiva, assistiamo a una proliferazione di impianti che hanno scarsa giustificazione dal punto di vista del fabbisogno energetico», dice Massimiliano Varriale.

Non succede solo in Italia. Negli scenari messi a punto dalle compagnie del gas una domanda sempre in crescita viene usata per giustificare la costruzione di nuove infrastrutture. E se nonostante gli obiettivi di policy messi in campo per far fronte all’emergenza climatica, progetti per nuove infrastrutture del gas proliferano in Europa la ragione sta anche nel fatto che le grandi imprese del gas, responsabili della costruzione di terminali e gasdotti, sono le stesse imprese che aiutano i governi a scegliere quali infrastrutture sviluppare.

L’associazione europea degli operatori delle reti di trasmissione del gas, ENTSOG, è stata creata nel 2009 con l’obiettivo di elaborare le previsioni della domanda di gas in Europa. È formata dalle principali società europee del gas, 44 membri da 24 paesi europei e, spiegano i ricercatori di Corporate Europe Observatory, dalla sua creazione ha costantemente sovrastimato il fabbisogno di gas. La ragione è semplice: «Il 75% delle infrastrutture del gas costruite in Europa sono progetti presentati dalle società stesse che fanno parte del network ENTSOG».

In un rapporto pubblicato recentemente – dal titolo Pipe Down – la Ong inglese Global Witness ha fatto i conti. «Le grandi società del gas si sono accaparrate circa il 90% dei sussidi che l’Unione europea destina alle infrastrutture del gas, oltre 4 miliardi di euro». Sono le stesse società che regolarmente sovrastimano il fabbisogno di gas in Europa.

Snam fa parte del network ENTSOG: secondo i calcoli di Global Witness la società ha ricevuto 813 milioni di euro dal 2015 al 2019 per progetti cosiddetti di “interesse comune”, una lista dei principali progetti infrastrutturali redatta dalla Commissione europea. Altri 714 milioni di euro sono finiti a finanziare progetti di cui anche Snam, insieme ad altre società, faceva parte.

Anche in Italia Snam siede ai tavoli governativi dove vengono decise le politiche energetiche. Fornisce dati, elabora scenari e previsioni, e sulla base di quei dati propone nuove infrastrutture da costruire. Per esempio, la società italiana ha partecipato alla stesura della Strategia energetica nazionale nel 2017, il piano energetico sulla base del quale è stato poi redatto il più recente Piano Nazionale per le Infrastrutture, l’Energia e il Clima (PNIEC) che pure largamente attinge a dati e scenari forniti da Snam.

Poi ci sono le attività di lobbying a cui le società del gas destinano ingenti risorse. Secondo un’indagine condotta dall’associazione Re:Common, Snam, insieme alle altre tre principali società europee del gas, hanno speso complessivamente 900 mila euro e impiegato 14 lobbisti nel 2018. «Nel 2019 queste aziende sono riuscite a ottenere quasi 50 incontri con i massimi funzionari politici della Commissione europea per discutere i loro ultimi progetti di gasdotti o offerte di acquisizione», spiegano i ricercatori di Re Common. La sola Snam ha speso una cifra compresa tra 200 e 300 mila euro nel 2019, secondo i dati del registro della trasparenza UE.

fonte: https://irpimedia.irpi.eu


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Eolico offshore in Sardegna: sì ambientalisti, no da Regione e Comuni

Parco eolico offshore al largo della costa sarda: polemica tra le associazioni ambientaliste, favorevoli al progetto, e la Regione Sardegna, contraria.




Si conferma travagliato il percorso dell’eolico in Sardegna. A confermarlo anche l’iter che vede protagonista un impianto da 504 MW che dovrebbe essere realizzato 35 chilometri al largo della costa di Cala Domestica. Un parco eolico offshore quindi, le cui torri poggerebbero su piattaforme galleggianti. Un progetto che vede il favore delle associazioni ambientaliste (incluse Legambiente, WWF e Greenpeace), ma che si scontra con l’opposizione della Regione e di alcuni Comuni del Sulcis.

Il parco eolico offshore si comporrebbe di 42 unità, disposte in fila a 35 chilometri di distanza dalla costa sarda compresa tra Carloforte e Portoscuso. A presentare il progetto, ora in mano al Ministero dell’Ambiente per le valutazioni preliminari che precederanno la VIA, la Ichnusa Wind Power. Come indicato nella relazione della compagnia:

Grazie alla struttura galleggiante di sostegno delle turbine è stato possibile posizionare il parco eolico in acque distanti oltre 35 chilometri dalla costa della Sardegna, in modo da renderlo sostanzialmente impercettibile ad occhio nudo dalla terraferma.

Le turbine galleggianti costituiscono un innovativo sviluppo tecnologico del settore eolico, che permette di realizzare parchi eolici offshore su fondali profondi, avvalendosi di sistemi di ancoraggio ampiamente sperimentati poiché derivati dal settore Oil & Gas, che da tempo ha sviluppato tecnologie legate alle piattaforme galleggianti.

Regione e Comuni, timori legati a pesca e turismo

Sono pesca e turismo i due nodi centrali intorno ai quali si sviluppa il fronte opposto al progetto. A battere su questo punto è il vicesindaco di Portoscuso, Ignazio Atzori, secondo il quale il parco eolico non porterebbe alcun beneficio al territorio. Dal sindaco di Carloforte Salvatore Puggioni critiche per l’assenza di comunicazione, lamentando il fatto che il progetto è arrivato a conoscenze degli enti locali coinvolti soltanto attraverso i media. Secondo la Onlus Italia Nostra il parco eolico minaccerebbe l’istituzione di aree marine protette e la tutela dell’ecosistema marino:

Condizionerebbe in termini fortemente penalizzanti lo studio richiesto dal ministero dell’Ambiente all’Ispra per l’individuazione di un’Area Marina Protetta nell’Arcipelago del Sulcis e nella costa adiacente, attualmente in corso di istituzione.
Eolico offshore in Sardegna, sì delle associazioni

Impatto visivo minimo e scarse ripercussioni per il territorio secondo le associazioni ambientaliste, che vorrebbero evitare la metanizzazione dell’isola. Il WWF lamenta il fatto che a tenere banco sarebbero soprattutto posizioni ideologiche, non dettate da riscontri oggettivi:


Il confronto sul parco eolico previsto al largo delle coste sud-occidentali è caratterizzato più da argomenti ideologici che non da valutazioni puntuali e oggettive. Dibattito che appare ancora più singolare soprattutto se si considera che le obiezioni paesaggistiche sono state avanzate dalla Regione Sardegna. Cioè dallo stesso soggetto che ha stravolto la Legge Paesaggistica regionale sino al punto da farselo impugnare dallo Stato.

Non v’è dubbio che si tratta di un progetto importante, di grandi dimensioni, le cui valutazioni sono ancora in corso. Ma non vi è altrettanto dubbio sul fatto che parlare di “impatti visivi” a distanza di 19 miglia marine dalla costa significa strumentalizzare un aspetto percettivo tutto da dimostrare dal momento che, sebbene si parli di torri di circa 280 metri queste, a 35 chilometri di distanza possono risultare, in giornate di tempo buono e cielo terso, come poco più di un segno all’orizzonte.

Non si valuta abbastanza invece l’aspetto innovativo del progetto che prevede piattaforme galleggianti per sostenere le torri. Già questo indica come si tratti di impianti che in futuro possono avere una possibilità di rimozione certamente più facilitate che non le strutture tradizionali.

Punto di vista condiviso anche da Luca Iacoboni, responsabile Energia e Clima di Greenpeace, che ha dichiarato:


Opporsi all’eolico in Sardegna e promuovere la metanizzazione significa legare il territorio sardo, e chi lo vive, a tecnologie inquinanti e che diventeranno sempre più marginali nel mercato.

Stessa linea a supporto delle fonti rinnovabili anche per Legambiente, che ha sottolineato:

La visibilità dell’impianto dalla costa è trascurabile, e l’impatto paesaggistico non presenta alcuna criticità dalla costa sarda, per cui la valutazione è positiva.


fonte: www.greenstyle.it




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Fotovoltaico in micro reti: il caso del comune di Serrenti





Le esperienze di alcune aree rurali dove le Pubbliche Amministrazioni hanno mantenuto strutture interne di gestione e manutenzione dei propri sistemi energetici potrebbero dimostrare una migliore resilienza di fronte a stress economici ed energetici.

Un progetto di sviluppo energetico – sia esso una comunità energetica, smart grid, smart city – può nascere da un’idea, un gruppo di persone, un’opportunità economica, una ricerca.

Oppure può crescere e progredire nel tempo come esito della cura, del quotidiano osservare, manutenere, monitorare le singole componenti fino a integrarle in un sistema energetico moderno ed efficiente.

È questo il caso del Comune di Serrenti – 4.725 abitanti nel Medio Campidano, in Sardegna – che dal 2010 ha realizzato con il proprio personale interno piccoli ma sistematici interventi di efficientamento energetico che hanno ridotto i consumi energetici e liberato risorse economiche pubbliche che sono state investite in altri settori.

“Si possono fare progetti di elevato costo o di elevato valore – ci dice Maurizio Musio, tecnico manutentore del Comune – e il nostro sistema energetico si è evoluto insieme al maturare della tecnologia, dando i suoi buoni frutti con le poche risorse economiche disponibili.”

I consumi elettrici annui della pubblica illuminazione e degli edifici comunali sono passati rispettivamente da 475 MWh a 332 MWh e da 259 MWh a 161 MWh (media del periodo 2008/2010 vs media 2011/2018) con riduzione dei consumi, rispettivamente, del 30 e 40%.

Prendendo come riferimento la media del triennio 2008/2010, dal 2011 al 2018 il consumo totale di energia elettrica degli edifici pubblici è diminuito di 787 MWh con un risparmio di 180.000 € (riduzione di CO2 emessa di 315 t), mentre i consumi energetici dell’illuminazione pubblica sono diminuiti di 1.142 MWh con un risparmio di 263.000 € (minori emissioni di CO2 per 457 t).

Con Maurizio Musio abbiamo ricostruito il percorso energetico del Comune di Serrenti dal 2010, reso possibile principalmente dalla proattività dell’Ufficio Tecnico e dalla relativa libertà di azione concessa dalle amministrazioni che si sono succedute nel tempo.

Come avete tagliato i consumi energetici della illuminazione pubblica a Serrenti?

«Nell’ambito del progetto ‘Illuminamente’ abbiamo attuato una costante manutenzione della pubblica illuminazione nella sua configurazione del 2010. Abbiamo lavorato sui regolatori di flusso già presenti per una buona parte degli impianti stradali: per ogni 10v di tensione ridotta si ottiene un risparmio del 6%. Dalla sola riduzione della tensione per la stabilizzazione di rete da 240 a 220v abbiamo avuto un risparmio del 12%. Nelle ore notturne, dove anni fa veniva spenta una lampada in modo alternato, riduciamo l’intensità dell’illuminazione con un risparmio di energia ben superiore del 35%, garantendo più sicurezza ed evitando zone d’ombra».

Che tipo dispositivi e soluzioni avete adottato?

«Dal 2010-2012 ci siamo dotati di timer astronomici che sulla base delle coordinate geografiche consentono l’accensione e lo spegnimento dell’illuminazione in maniera puntuale rispetto alla luce naturale. Abbiamo ridotto le dispersioni di corrente nei quadri dell’illuminazione, conseguendo maggiore sicurezza e minori perdite di energia in rete e provveduto al sezionamento delle linee con interruttori dedicati per intervenire sulla zona che si vuole accendere senza attivare l’intero quadro. Abbiamo ancora un sistema di monitoraggio per quadro e non punto punto che tuttavia garantisce efficienza e interventi celeri sulle anomalie del sistema ed elevata qualità del servizio reso».

Sebbene abbiate ottenuto significativi risparmi non avete ancora installato lampade a LED, come mai? Non potreste ottenere ulteriori benefici affidandovi a una ESCo?

«Naturalmente negli anni ci hanno proposto di passare al LED, ma in passato abbiamo valutato che si trattava di tecnologia non matura, anche se oggi è decisamente migliorata. Nel 2010 non sarebbe stato un buon investimento. Oggi vorremmo procedere con l’installazione di lampade a LED, ma inserendole in un progetto che consenta di interfacciarsi con la futura Smart City. Un intervento con una ESCo? Consideri che noi, con il sistema a scarica di gas, abbiamo un costo a punto di luce di 60 € contro i circa 110 € degli altri comuni. Un intervento di una ESCo ci farebbe spendere di più».

Come avete ridotto i costi energetici degli edifici?

«Abbiamo sostituito le lampade lineari tri-fosforo con quelle a tecnologia LED, con l’installazione nei bagni e nelle zone di passaggio di sensoristiche di presenza e movimento. Abbiamo la visibilità in real-time del consumo elettrico di vari edifici, con termostati e valvole termostatiche wifi per controllare da remoto la temperatura degli ambienti, risparmiando così anche sulla componente termica».

Ma il risparmio più consistente l’avete conseguito dall’accorpamento di più edifici con la riduzione dei POD. Quando avete installato gli impianti FV e iniziato a collegare tra loro gli edifici?

«Come per l’illuminazione abbiamo fatto per primi gli interventi che potevamo permetterci con le risorse disponibili. Per questo agli impianti FV abbiamo fatto precedere l’ottimizzazione. Con il progetto S.E.I. (Sistema Energetico Intelligente) abbiamo lavorato a monte dell’impianto elettrico, riducendo le potenze contrattuali e incentivando l’autoconsumo da FV sugli impianti via via che li abbiamo realizzati».

E le micro reti?

«Il progetto, che è nato nel 2010, ha portato a realizzare quattro micro-reti in tre macro-aree comunali. Le micro-reti collegano gli edifici comunali dotati di impianto FV a quelli adiacenti e con servizi similari che ne sono sprovvisti. Tutti gli edifici connessi fanno capo al contatore principale, mentre gli altri contatori vengono dismessi. Si ottiene in questo modo una maggiore quota di autoconsumo e la riduzione delle spese fisse in bolletta. A conclusione dei lavori il progetto dovrebbe garantire la cessazione del 50% dei contatori elettrici statici allacciati e la riduzione del 30% della restante potenza contrattuale».

Microreti, accorpamenti degli edifici e produzione FV

Nel 2010 sono stati accorpati l’edificio della scuola media e quello del teatro comunale ed è stato realizzato l’impianto fotovoltaico sulla copertura delle scuole (19,8 kWp).

Nel 2017, con il progetto “La Casa dell’energia”, finanziato con il POR FESR Sardegna 2014-2020, è stato installato un sistema di accumulo ibrido trifase da 43 kWh che consente di distribuire nelle ore serali l’energia accumulata di giorno. La Casa dell’energia contiene inoltre tutti gli apparati dell’impianto FV, inverter ibridi, e il sistema di gestione della micro-rete. Questi apparati sono stati collocati in uno spazio dedicato esterno alla scuola, evitando eventuali problematiche connesse con il certificato di prevenzione incendi.

Nel 2012 sono stati accorpati l’edificio della scuola elementare e quello della materna, dotato di un impianto FV da 19,3 kWp. Nel 2015 al contatore del municipio – sulla cui copertura è ubicato un impianto FV da 17,1 kWp – è stato accorpato l’edificio della Caserma e la casa Corda (sede di uffici comunali distaccati). Accanto alla Scuola materna sorgerà la seconda Casa dell’energia grazie a un secondo finanziamento del POR FESR Sardegna 2014-2020.

Nel 2012 si è collegato il contatore del Parco comunale a quello dell’edificio Vetrina Espositiva (dove ha sede l’orto botanico e negli appositi spazi si tengono sagre, corsi e laboratori didattici) e nel 2017 si è installato un impianto FV da 19,8 kWp. Altri 10 kWp di FV sono installati sul tetto della Casa dei Nonni, mentre 7 kWp sono al servizio del mercato di recente ristrutturazione e prossima apertura.

A breve a questa micro-rete sarà connesso l’impianto elettrico del cimitero. In prospettiva e norme permettendo, una terza casa dell’energia potrebbe alimentare questo micro-polo a cui sarà collegata anche la piscina comunale dotata di un impianto FV da 19,8 kWp.

Nel 2017 è stato installato sul Centro Polivalente un impianto da 19,8 kWp a cui in futuro saranno connessi una piazza e un secondo edificio. L’impianto FV da 10 kWp installato sull’ex asilo nido (ex-esmas) sarà collegato ad un nuovo parco ecosostenibile. (foto Zona A, Zona B, Zona C)

Ingegner Musio, con l’accorpamento degli edifici avete conseguito risparmi sia energetici sia economici importanti, ma con quali costi?

«L’accorpamento del municipio, ad esempio, è costato 12.000 € e ha determinato un risparmio per minori spese fisse in bolletta di 1.300 €/anno, oltre a circa 7.000 € di minori costi per il maggior autoconsumo e la riduzione delle potenze degli edifici. Un costo che si ammortizza in meno di 18 mesi».

Quali sono stati gli impatti di questi interventi sulla cittadinanza?

«C’è stato un generale aumento della conoscenza e della consapevolezza in materia di energia. Nel 2019 nella Sala Polivalente e nella Casa dell’energia abbiamo ospitato il corso teorico pratico di formazione professionale finanziato da Regione Sardegna sulle attività green & blue economy per inoccupati e disoccupati dove sono stati formati 15 persone come tecnico delle micro e smart grid. Altri corsi svolti in altre comunità hanno sfruttato la Casa dell’energia per la parte pratica, portando nel paese anche un piccolo indotto economico oltre alla soddisfazione di ospitare corsi di formazione. Il progetto ‘Casa dell’Energia’ ha favorito diverse altre attività didattiche e di sensibilizzazione sul tema dello sviluppo sostenibile. Noi dell’Ufficio tecnico comunale abbiamo organizzato un laboratorio energetico con le classi primarie della scuola che abbiamo coinvolto con attività ludiche basate su tecnologia e robotica».

Il Comune di Serrenti è stato premiato con il premio ANCI nel 2018 e nel 2019 aggiudicandosi i premi impresa Cresco Award Comuni Sostenibili e Agenda 2030.

Nel 2019 per la Casa dell’Energia ha ricevuto il Premio 3×3, un contest per la sostenibilità al Sud promosso dal Forum PA come uno dei migliori progetti di economia circolare nel mezzogiorno.

Il progetto è stato presentato sulla Piattaforma Energie rinnovabili di Sardegna Ricerche, nell’ambito di un ciclo di seminari divulgativi (disponibili materiali).Potrebbe interessarti anche:
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fonte: https://parolelibere.blog


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Da scarti di lavorazione a prodotti a elevato valore aggiunto: conglomerati di marmo per la bioedilizia














Nei giorni scorsi si è tenuto nel comune di Orosei (SS) un incontro con finalità divulgative e operative nell’ambito del progetto BIOMARMO “Da scarti di lavorazione a prodotti a elevato valore aggiunto: conglomerati di marmo per la bioedilizia”.

Il progetto, promosso e finanziato da Sardegna Ricerche e condotto dall’Università di Sassari (Dipartimento di Chimica e Farmacia) nell’ambito del POR FESR Sardegna Ricerche 2014-2020, affronta tematiche inerenti alla bioeconomia, la bioedilizia e la chimica verde. Più in particolare si propone di analizzare l’utilizzo degli scarti di lavorazione industriale (del marmo, delle materie plastiche, dell’industria del riso, delle centrali a carbone) donando loro valore aggiunto e al contempo risolvendo i problemi di impatto ambientale associati al loro smaltimento.
 
I nuovi materiali ottenuti possono trovare applicazione in vari settori: dalla bioedilizia al design, ai materiali avanzati. Grazie a BIOMARMO i rifiuti industriali potranno essere trasformati in pavimentazioni, sia stradali che da interni, materiali per l’arredo di bagni e cucine, oggettistica ornamentale, pannelli per l’isolamento termico e acustico e così via. 
 
BIOMARMO è uno dei 35 progetti cluster promossi da Sardegna Ricerche attraverso il programma “Azioni cluster top-down” e finanziati grazie al POR FESR Sardegna 2014-2020. I progetti cluster sono attività di trasferimento tecnologico condotte da organismi di ricerca pubblici con l’attiva collaborazione di gruppi di piccole e medie imprese del settore o di settori affini, per risolvere problemi condivisi e portare sul mercato le innovazioni sviluppate nei laboratori. Come per tutti i progetti cluster, anche per Biomarmo vale il principio della “porta aperta”: tutte le imprese interessate a partecipare possono chiedere di entrare a far parte del progetto in qualsiasi momento.
 
I coordinatori del progetto sono il professor Alberto Mariani dell’Università di Sassari, responsabile scientifico, e Graziana Frogheri di Sardegna Ricerche.


fonte: https://www.snpambiente.it

In Sardegna arriva l’asfalto fonoassorbente con gomma da PFU

Ad Olbia, nella principale arteria di collegamento della città, realizzati oltre 8.000 mq di strada con l’impiego di asfalto modificato con polverino di gomma riciclata dai Pneumatici Fuori Uso (PFU): un asfalto dalla durata maggiore, più resistente a fessurazioni e buche e silenzioso.














Come già accaduto in numerose città italiane anche ad Olbia l’Amministrazione Comunale ha scelto di affidarsi agli innovativi asfalti “modificati” con aggiunta di polverino di gomma riciclata da PFU per il rifacimento di via Roma, una delle arterie principali e più trafficate della città.
Una scelta responsabile e vantaggiosa viste le eccezionali proprietà di questa tecnologia: maggiore resistenza all’usura e alla formazione di crepe e buche, durata fino a 3 volte quella degli asfalti convenzionali, con un conseguente contenimento dei costi di manutenzione, e una riduzione del rumore generato dal passaggio dei veicoli fino a 7 dB.
Un intervento che il Comune di Olbia ha portato a termine grazie al supporto e l’impegno di Ecopneus, società senza scopo di lucro che gestisce raccolta, trasporto e trattamento di circa 200.000 tonnellate di PFU ogni anno. L’intervento ha riguardato un tratto lungo circa 1 km per una superfice totale di 8.000 mq impiegando asfalti fonoassorbenti modificati con l’aggiunta di circa 8 tonnellate di polverino di gomma riciclata dai PFU; un quantitativo equivalente al peso di circa 1.000 Pneumatici Fuori Uso, fornito dalla Ecoservice di Sant’Antonio di Gallura (SS) azienda partner di Ecopneus per la raccolta e il riciclo dei PFU.
“L’intervento di Olbia è la concreta testimonianza dell’importanza del corretto recupero e riciclo dei Pneumatici Fuori Uso - ha dichiarato il Direttore Generale di Ecopneus Giovanni Corbetta. “Lo sanno bene anche i cittadini olbiesi che per anni hanno dovuto convivere con due depositi in aree industriali dismesse dove erano abbandonate complessivamente oltre 1.700 tonnellate di PFU e che sono state svuotate grazie a due nostri interventi, nel 2012 e nel 2018. Oggi, parte di quei PFU sono diventati una risorsa per la collettività sotto forma di un asfalto innovativo, sostenibile e dalle eccezionali performance”.
L’impiego del polverino di gomma riciclata permette, infatti, di realizzare asfalti dalle prestazioni ottimali e l’interesse verso questa applicazione è in costante crescita, tanto che oggi in Italia contiamo oltre 500 km di strade realizzate con questa valida tecnologia.
Presentano caratteristiche e prestazioni durevoli nel tempo, hanno maggior resistenza rispetto ad un asfalto tradizionale e grazie alle specifiche tessiture ottimizzate contribuiscono a ridurre fino a 7dBl’inquinamento acustico dovuto al passaggio dei veicoli. Garantiscono inoltre maggiore sicurezza grazie alla minor presenza di danneggiamenti superficiali del manto e di buche e al migliore drenaggio dell’acqua, che consente anche un aumento dell’aderenza e il miglioramento della visibilità.


fonte: www.greencity.it

L’eolico galleggiante, una scelta obbligata per l’Italia

Il notevole contributo che dovrà dare l'eolico al mix elettrico del nostro paese non potrà venire da impianti su terraferma. Le macchine flottanti a oltre 20 km dalla costa sono la soluzione. Ne parliamo con l'ing. Alex Sorokin.


















Siamo a ridosso di una rivisitazione del Piano energia e clima nazionale per gli obiettivi al 2030, target che saranno poi determinanti per definire gli scenari di medio-lungo periodo e di decarbonizzazione del sistema elettrico italiano.
Una delle questioni presenti e future più delicate riguarda la difficoltà di trovare gli spazi per realizzare gli impianti in grado di generare così tanta elettricità da rinnovabili in grado di soddisfare gradualmente l’intero fabbisogno del paese. In particolare, il problema è fortemente connesso con l’importante contributo che dovrà necessariamente dare l’eolico. Dove collocare allora così tante e grandi turbine sul nostro territorio?
Riprendiamo questo tema con il consulente ed esperto energetico Alex Sorokin, dopo averne già parlato con lui quasi un anno fa (QualEnergia.it).
Ingegner Sorokin, perché la generazione elettrica da eolico in Italia, soprattutto in una prospettiva del 100% rinnovabili, non potrà essere soddisfatta dai soli impianti a terra?
Se arrotondiamo per comodità le cifre, la richiesta di energia elettrica in Italia ammonta a circa 300 TWh l’anno. In un futuro scenario al 100% rinnovabile, circa 100 TWh di questi potranno essere prodotti da fonti rinnovabili programmabili, quali idroelettrico, geotermia e l’insieme delle energie “bio”, tutte però limitate da vincoli territoriali per cui non molto incrementabili. Altri 100 TWh potranno essere prodotti dal solare. I rimanenti 100 TWh dovranno essere prodotti dall’eolico. Ma per ottenere questo livello di produzione eolica, se realizzata tutta sulla terraferma, occorre disporre di un parco eolico di 50 GW, ovvero cinque volte la capacità eolica installata oggi in Italia. È difficile immaginare di poter quintuplicare la potenza eolica italiana, che peraltro è concentrata in gran parte, ovviamente, nelle zone di maggiore ventosità, soprattutto sulle isole e nell’appennino apulo-campano.
Se pensiamo allora all’eolico in mare, quale tecnologia vede come più favorevole e fattibile per l’offshore?
L’Italia è una penisola circondata da immensi spazi di mare che, inoltre, offrono maggiore ventosità rispetto alla terraferma. Quindi perché non sfruttare il mare installando turbine offshore? Purtroppo, questa idea si scontra con un vincolo tecnico: la tecnologia dell’eolico offshore è stata sviluppata in Danimarca, Germania e Gran Bretagna si adatta ai loro mari, con fondali particolarmente bassi, circa 20-50 metri di profondità. Escluso l’Adriatico settentrionale, con venti scarsi, i nostri mari sono invece profondi anche 3000 metri. In Italia è impossibile realizzare parchi eolici offshore appoggiati sul fondale a distanze oltre i 20 km dalla costa, come avviene nel nord Europa, in modo da non provocare proteste e non inficiare il settore turistico. Pertanto, per l’Italia la scelta dell’eolico offshore galleggiante o flottante è obbligata.
La IEA ha fornito interessanti scenari per l’eolico offshore nel suo complesso, ma da noi quali sono i tempi per una possibile realizzazione per questi impianti flottanti?
Attraverso un programma di 10 anni si potrebbero realizzare in mare circa 30.000 MW di parchi eolici. Diciamo circa 3000 turbine galleggianti da 10 MW ciascuna da posizionare in mare aperto a distanze dalla costa che vanno dai 20 ai 40 km; macchine che sarebbero pressoché invisibili da terra.
E per quanto concerne la maturità della tecnologia flottante per l’eolico?
Un primo prototipo posizionato nel 2009 da Statoil al largo della costa norvegese è stato un pieno successo. L’energia prodotta ha superato ogni aspettativa. L’impianto ha affrontato bene tempeste con onde alte 19 metri e venti da 145 km/h. Un passo successivo è stato in Scozia. Si tratta di un primo parco eolico industriale funzionante dal 2017, composto da 5 turbine da 6 MW per un totale 30 MW, che si è dimostrato anche qui un totale successo. I costi di queste prime realizzazioni sono ancora alti, ma con l’avvio di una filiera industriale standardizzata e con una produzione in serie è plausibile prevedere che scenderanno a livelli competitivi.
Un primo sviluppo di queste installazioni in Italia potrebbe essere fatto a largo delle coste della Sardegna. Quali aspetti tecnici-anemometrici vanno considerati e quale potenziale è possibile stimare per la regione?
Sardegna e Sicilia saranno certamente protagoniste in questo nuovo scenario di eolico offshore. I fondali adatti intorno alla Sardegna, a oltre 20 km dalla costa, ammontano a circa 5.000 kmq, per cui, sfruttandone anche soltanto una piccola parte, la Sardegna potrebbe ospitare oltre 1000 turbine per un totale di 10.000 MW di potenza installata. In questo modo l’isola potrebbe produrre dal vento il triplo dell’attuale proprio fabbisogno elettrico (oggi 9 TWh, ndr), che sarebbe poi pari al 10% del fabbisogno nazionale, con la possibilità di esportare questa elettricità verso il continente. La forza lavoro in Sardegna necessaria per la realizzazione, manutenzione e logistica di questo scenario è valutabile in circa 10.000 posti di lavoro.
fonte: www.quelenergia.it