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Tutte le tecnologie che portano alla decarbonizzazione



La partita della decarbonizzazione dei sistemi energetici è una delle più importanti e strategiche dell’era presente. Rappresenta, infatti, una sfida destinata a condizionare l’evoluzione delle economie e delle società più avanzate negli anni a venire, a creare nuovi mercati, a coniugare i temi dello sviluppo e della tutela ambientale.

La decarbonizzazione non sarà però un pasto gratis. Né potrà avvenire dall’oggi al domani: richiederà un salto tecnologico capace di rendere disponibili nuove fonti di generazione energetica, nuove innovazioni abilitanti, nuovi paradigmi produttivi. Da portare a piena maturità prima del loro inserimento sul mercato.

Ma quali sono le tecnologie più importanti per definire le vie della transizione energetica e del superamento del carbonio? Nonostante la pandemia di Covid-19, vengono sempre più sviluppate nuove tecnologie volte a aumentare l’impatto delle fonti pulite sul contesto energetico contemporaneo, descritte anche dall’Agenzia Internazionale dell’Energia in un report dell’ottobre 2020.

Una prima innovazione arriva dalla disponibilità di reti di trasmissione e distribuzione dell’energia elettrica resistenti e resilienti. Capaci di assicurare, grazie alle tecnologie innovative a disposizione e ai sensori IoT, il matching ideale tra domanda e offerta, tra generazione e consumo. CESI, società milanese leader mondiale nel testing e nella consulenza energetica, con un’esperienza pluridecennale nel campo dell’innovazione tecnologica, è tra le società che maggiormente puntano sullo sviluppo delle smart grids nei decenni a venire, testandole nel proprio Flex Power Grid Laboratory di Arnhem, in Olanda.

KEMA Labs (la Divisione di Testing, Ispezione e Certificazione del Gruppo CESI), entro cui questi laboratori sono incorporati, lavora anche a trovare tecnologie alternative al gas di esafluoruro di zolfo (SF6) per la gestione dei quadri delle reti ad alto voltaggio. Nelle apparecchiature di comando con isolamento in gas, CESI, coerentemente con la sua missione di aiutare le società clienti e partner a ottenere una completa decarbonizzazione, sta sviluppando tecnologie “verdi” per trovare alternative a un gas ritenuto importante per il settore energetico ma al tempo stesso dotato di un elevato impatto inquinante.

La necessità di aziende, governi e utilities di passare, nei mix energetici, dalle fonti fossili alle rinnovabili, nel contesto di una ciclicità non prevedibile della disponibilità di fonti per la generazione, impone poi la necessità di sviluppare tecnologie di stoccaggio all’altezza delle necessità dei sistemi. Questo per evitare dispersioni eccessive o asimmetrie dannose tra i momenti di picco di domanda e quelli di offerta di energia. Oggigiorno le tecnologie più diffuse, nota Energy Journal, magazine pubblicato da CESI sono basate su batterie elettrochimiche, che negli ultimi anni sono state oggetto di numerose innovazioni in termini di miglioramento di performance, permettendo al contempo di realizzare impianti con capacità sempre maggiori: un esempio è sicuramente dato dall’australiana CEP Energy nel Nuovo Galles del Sud, che intende costruire il più grande impianto di accumulo al mondo, con una capacità totale di 1,2 GW.

L’innovazione è il driver che sta creando anche altre forme di sviluppo in materia

Un’altra compagnia australiana, la Lavo, sta sviluppando sistemi di stoccaggio basati sull’idrogeno verde, ovvero ottenuto da fonti di energia rinnovabile. Separato dall’acqua per elettrolisi, esso può essere utilizzato nei cosiddetti settori “hard-to-abate”, come l’industria siderurgica e chimica. L’idrogeno come fattore di decarbonizzazione è oggi fortemente valorizzato nelle strategie nazionali energetiche di diversi Paesi, e pure l’Unione Europea ha proposto una strategia per una catena del valore dell’idrogeno nel Vecchio Continente.

Nuovi campi di applicazione per la decarbonizzazione riguardano infine il settore dei trasporti grazie alla mobilità sostenibile. Secondo un report Ispra, nel 2019 in Italia i trasporti sono stati responsabili del 23,4% delle emissioni totali di gas serra, con un aumento del 3,9% rispetto al 1990. In particolare, i consumi di gasolio e benzina hanno rappresentato circa l’88% del consumo totale dei trasporti su strada. La decarbonizzazione dei sistemi di trasporto può giocare un ruolo fondamentale nell’alleviare il peso dell’inquinamento da mezzi di trasporto. L’Italia, in quest’ottica, è indietro nella corsa a una diffusione strutturata di veicoli elettrici e a basso tasso di inquinamento.

“La vera sfida per facilitare la diffusione globale dei veicoli elettrici è, secondo l’Ad di CESI Matteo Codazzi, “lo sviluppo di una rete di infrastrutture di ricarica capillare e adatta tanto alle esigenze del cliente quanto della rete elettrica”. La tecnologia può contribuire ad aumentare l’interazione tra la rete in questione e i singoli veicoli attraverso lo sviluppo delle tecnologie per lo Smart Charging, “ovvero la possibilità di ottimizzare l’energia prelevata e immessa a seconda delle necessità del cliente e della rete elettrica”. Tecnologie, queste, che vengono testate e sviluppate nei laboratori KEMA Labs, al fine di contribuire a valutare la maturità e la sostenibilità dell’innovazione, vero volano per conseguire una strutturata decarbonizzazione. Obiettivo da coltivare pazientemente ma tutt’altro che utopico, grazie alle nuove frontiere aperte dall’innovazione continua e dalle sue applicazioni di mercato.

fonte: it.insideover.com


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A tutto gas. La Sardegna (e l’Europa) a un bivio

In Sardegna si scontrano due modelli di sviluppo energetico diametralmente opposti. Uno basato sulle rinnovabili, l’altro sui gasdotti, e le lobby del petrolio premono per il secondo









Per Rosolino Sini è il compimento di un sogno vissuto in prima linea per almeno 35 anni. Benetutti, remoto paese della provincia di Sassari in Sardegna, sta per diventare la prima “smart grid” italiana e uno dei primi esempi europei di municipalità totalmente alimentata da una “rete intelligente” di energie rinnovabili. «È una rivoluzione – dice Sini, responsabile dell’azienda elettrica del Comune e visionario artefice del progetto – Significa che presto saremo in grado non solo di essere completamente autosufficienti dal punto di vista energetico ma anche di vendere l’energia che produciamo».

La storia di Benetutti affonda le sue radici all’inizio del secolo scorso, racconta Sini, quando un mugnaio iniziò a produrre energia elettrica per illuminare il tratto di strada dove si trovava il suo mulino e gli amministratori comunali di allora, esterrefatti dalla scoperta, decisero di acquisirne il brevetto. Sini non nasconde la sua soddisfazione, oggi, a pensare a quanta strada abbiano fatto da allora.

A Benetutti, 104 impianti fotovoltaici e primo comune in Italia per potenza installata pro capite, è l’amministrazione comunale e non Enel ad essere proprietaria della rete elettrica e a produrre energia.

Oggi l’Azienda Elettrica Comunale conta 1.100 utenti. Produce energia elettrica essenzialmente da fotovoltaico, ma per via delle leggi esistenti non può accumularla e venderla. Con la fine del “mercato tutelato”, che il governo ha posticipato al 2022 e la direttiva europea sulle comunità energetiche, approvata nel 2018, Benetutti sarà in grado di accumulare l’energia che produce, deciderne il prezzo, commercializzarla e venderla persino ad altre città. «Da aprile a settembre siamo già autosufficienti ma nei restanti mesi siamo obbligati a comprare energia da Enel, con la fine del mercato tutelato potremo distribuire l’energia che produciamo», spiega Sini.





«Presto saremo in grado non solo di essere completamente autosufficienti dal punto di vista energetico ma anche di vendere l’energia che produciamo»Rosolino Sini

In un’area fatta di piccoli e piccolissimi comuni, scossa da una crisi economica e demografica senza precedenti negli ultimi anni, dove lo spopolamento è un calcolo impietoso che il sindaco Vincenzo Cosseddu deve fare ogni anno, produrre e vendere energia può aprire le porte a un nuovo futuro. «Vogliamo avere tariffe convenienti per i cittadini e attrarre aziende che hanno bisogno di energia, portare qui giovani e lavoro», dice Cosseddu. Non solo: «A Benetutti la smart grid porterà risparmi nella bolletta energetica fino al 30%».

A Rosolino Sini, che all’Azienda Elettrica di Benetutti ha iniziato a lavorare come semplice impiegato 35 anni fa, piace parlare di “democrazia energetica”: «Vuol dire affrancarsi da risorse che non ci appartengono, come gas o petrolio, e produrre energia mettendo a frutto quello che abbiamo in abbondanza, come sole e vento per esempio».

L’emergenza climatica ha imposto un cambio di paradigma a livello globale.

Gli obiettivi di politica europei e nazionali prevedono una completa decarbonizzazione del sistema energetico entro il 2050. Entro il 2025 la Sardegna dovrà spegnere le cinque centrali a carbone che attualmente ne alimentano la rete termoelettrica. È così che Benetutti, da piccolissimo esempio di buone pratiche locali, è diventato il simbolo di una rivoluzione energetica possibile. E la Sardegna, teatro di una battaglia tra modelli energetici che si consuma su scala globale.

Unica regione italiana a non avere una rete del gas, in Sardegna si è scatenato uno scontro tra chi, come molti scienziati, accademici e associazioni ambientaliste, pensa che la regione possa fare da apripista a un modello energetico sostanzialmente basato sull’utilizzo di fonti rinnovabili e elettrificazioni dei consumi (auto elettriche, pompe di calore per il riscaldamento, ecc.). E chi, in prima linea le compagnie petrolifere, ha visto negli imminenti obiettivi di decarbonizzazione una lauta opportunità di sviluppo per il settore del gas.

In un primo momento, il gas è stato presentato dalle grandi società petrolifere come una soluzione “semplice” alla necessità di utilizzare fonti di energia a minor impatto sul clima. «In Italia, come del resto in molti altri Paesi, è stato possibile decidere il phase-out dal carbone anche perchè la lobby del gas è molto forte e fin dall’inizio il gas è stato fatto passare come una soluzione alla decarbonizzazione», spiega Matteo Leonardi, esperto di politica energetica per la società di consulenza RefE.

Dopo il fallimento del progetto Galsi, il gasdotto che dalle coste dell’Algeria doveva portare gas in Italia passando per la Sardegna, naufragato tra scandali e inchieste per corruzione che hanno travolto i vertici delle principali società coinvolte, a maggio 2019 un nuovo progetto di metanodotto per portare gas in Sardegna è stato presentato da Enura, joint venture di Snam, la principale società di trasporto del gas in Italia, e Società Gasdotti Italia.


Il progetto, fortemente voluto dalla Regione Sardegna, prevede la costruzione di 400 chilometri di metanodotto da Nord a Sud dell’isola che, uniti a una più complessa rete infrastrutturale fatta di rigassificatori, depositi costieri e reti cittadine per il trasporto del gas, avrà il potenziale di portare sull’isola fino a 1,8 miliardi di metri cubi di gas.

I lavori sono partiti lo scorso novembre, con il primo appalto da 5,5 milioni di euro per la progettazione di condutture del tratto Sud del metanodotto assegnato da Snam alla società Technip senza gara di appalto. Molti però sono i nodi ancora da sciogliere.

Il primo è la questione del prezzo. Trattandosi di infrastruttura le reti di trasporto energetiche finiscono in tariffa: «Significa che a pagare l’investimento alla fine sono i consumatori sulla base di tariffe decise da Arera e inserite nella bolletta dei consumi energetici», spiega Federico Pontoni, ricercatore all’Università Bocconi di Milano.

Nel caso del metanodotto sardo, opera che secondo le stime di Enura costerebbe 590 milioni di euro, Arera, l’autorità pubblica che regola e controlla i settori dell’energia e del gas naturale, ha chiarito che solo con una legge ad hoc del governo si potranno spalmare i costi dell’infrastruttura su tutto il territorio nazionale. Senza quella, è il sottotesto, saranno i sardi a pagare l’infrastruttura volute da Snam. Una doccia fredda per i sostenitori del progetto che potrebbe avere come conseguenza il fatto che, se il gas in Sardegna dovesse essere troppo costoso, i sardi potrebbero decidere di non utilizzarlo.

Non solo. Sul tavolo del governo c’è anche il progetto presentato da Terna, la società che gestisce le reti per la trasmissione dell’energia elettrica, che prevede una connessione elettrica tra Sardegna, Sicilia e continente tramite cavo di trasmissione ad alta tensione HVDC. A luglio 2019, Arera ha richiesto e commissionato uno studio indipendente per valutare costi e benefici del progetto di metanizzazione alla società privata RSE. Lo studio di RSE, costato 160 mila euro e che avrebbe dovuto essere pubblicato la scorsa primavera,non è ancora stato reso pubblico.

Rispondendo alle domande di IrpiMedia, l’ufficio stampa di Arera ha dichiarato che «l’Autorità ha ricevuto una versione pressoché definitiva dello studio commissionato alla società RSE e ha richiesto alcuni chiarimenti in vista della sua successiva pubblicazione».

«La mancanza di gas, che è sempre stata vista come un cronico ritardo, dovrebbe essere trattata oggi come un enorme vantaggio», sostiene Alfonso Damiano, professore di ingegneria elettrica all’Università di Cagliari.

Damiano ha collaborato alla stesura del Piano energetico regionale per la Regione Sardegna ed è anche tra i fautori, insieme a Sardegna Ricerche, ente sardo per la ricerca e lo sviluppo tecnologico, del modello Benetutti. «Dati alla mano, la produzione da fonti rinnovabili copre già circa la metà della domanda sarda di energia», spiega. «Anche per il riscaldamento in Sardegna si usano soprattutto biomasse e pompe di calore, Gpl e gasolio coprono una fetta minima dei consumi – conclude Damiano -. Il punto è che l’elettrificazione dei consumi è più conveniente economicamente e la maggior parte delle persone lo ha capito».

I dati del consumo energetico in Sardegna




A pochi chilometri di distanza dal centro abitato di Cagliari, Sardegna Ricerche ha un parco tecnologico all’avanguardia. Stanno studiando come produrre idrogeno da fonte rinnovabile, e riutilizzarlo per produrre energie elettrica. È lì che il modello di smart grid di Benetutti è stato messo a punto. I ricercatori sono convinti che quel modello, data la morfologia della Regione, sia replicabile in almeno un centinaio di altri Comuni sardi.

Il problema delle energie rinnovabili è legato all’intermittenza delle fonti, che richiedono adeguati sistemi di stoccaggio, e la stabilizzazione della rete in termini di potenza, soprattutto per i consumi industriali. A Benetutti per stabilizzare la rete stanno sperimentando biogas prodotto da biomasse.

«Spegnere le centrali a carbone senza avere alternative per supportare il sistema di rinnovabili significa spegnere l’isola», mette in guardia Alfonso Damiano. «Un po’ di gas va incluso nella transizione». Ma quanto?

L’Università di Cagliari ha quantificato in 500 milioni di metri cubi il valore medio di riferimento. Una cifra che, spiega Damiano, andrà diminuendo progressivamente, fino ad annullarsi, per effetto della stabilizzazione delle fonti rinnovabili. Il fabbisogno stimato dalla Regione varia da una cifra minima di 460 milioni di metri cubi a una massima di 900 milioni di metri cubi. La dorsale, unita ai depositi costieri di gas naturale liquefatto già presentati e autorizzati, avrà una capacità di movimentazione pari a quasi 1,8 miliardi di metri cubi di gas metano, secondo i calcoli fatti dal comitato No Metano. «Una quantità spropositata, e un chiaro sostegno del gas e non sviluppo del gas a sostegno delle rinnovabili», commenta Paola Pisilio del comitato sardo No Metano: «L’obiettivo sembra quello di creare un hub del gas in Sardegna».

Un progetto basato sull’elettrificazione e sul potenziamento degli impianti solari ed eolici non avrebbe solo vantaggi immediati in bolletta, ma aprirebbe la porta a sviluppi ancora più ambiziosi. Uno studio realizzato dal Politecnico di Milano, e commissionato dal WWF, prevede infatti per la Sardegna la possibilità di costruire un modello di sviluppo interamente basato su rinnovabili, affiancate da un potenziamento degli accumuli idroelettrici e dallo sviluppo di idrogeno verde.

Si chiama gas naturale ma è una fonte di energia fossile che produce gas serra.

I dati Ispra parlano chiaro. In Italia il gas è responsabile di circa il 45% dell’anidride carbonica emessa nel 2017, mentre il petrolio è responsabile di circa il 44% delle emissioni e il carbone del rimanente 11%. Non solo. Legate al gas sono le cosiddette emissioni fuggitive, micro dispersioni degli impianti che si verificano durante l’esplorazione, la produzione e la distribuzione del gas: una quantità minima di queste emissioni – appena il 3% – è in grado di annullare completamente il vantaggio che il metano ha sul carbone. E poi c’è il cosiddetto fenomeno del lock-in: le infrastrutture del gas sono complesse, costose e una volta realizzate è difficile liberarsene per molti anni.

«La domanda di gas è in diminuzione e ciò nonostante assistiamo a una proliferazione di impianti e progetti con il risultato che poco o nulla viene fatto sul fronte degli investimenti in energie rinnovabili», nota Mariagrazia Midulla del WWF.

In Italia il gas è responsabile del 45% dell’anidride carbonica emessa nel 2017, il petrolio del 44% e il carbone del rimanente 11%

Il progressivo riscaldamento della temperatura, unito all’efficientamento energetico e allo sviluppo delle energie rinnovabili hanno prodotto un progressivo calo dei consumi energetici in Italia. Nel 2018 la domanda di gas in Italia è scesa del 3,3% rispetto al 2017. Nel 2019 il calo è stato pari al 2%. La pandemia di Covid-19 ha fatto precipitare i consumi di gas nei primi mesi del 2020.

A fronte di un fabbisogno pari circa a 70 miliardi di metri cubi di gas all’anno l’Italia può contare su una capacità di importazione pari a 130 miliardi di metri, spiega Massimiliano Varriale del WWF. Dati che non tengono conto della capacità di importazione aggiuntiva generata dal gasdotto TAP e dal metanodotto sardo.

Spesso poi le infrastrutture sono sottoutilizzate, e a pagarne il prezzo, in bolletta, sono i cittadini. Per esempio, i terminali di gas naturale liquefatto (GNL). In Italia ce ne sono tre e nel 2018 hanno immesso in rete una quantità di gas irrisoria rispetto al totale. Nel 2019 i terminali di Panigaglia (La Spezia) e Livorno, di cui Snam è rispettivamente proprietaria e co-proprietaria, hanno immesso in rete, rispettivamente, il 5% e il 3% del totale. Nel 2018 le percentuali erano ancora più basse pari, rispettivamente al 2% e all’1%.

In seguito allo spegnimento delle centrali a carbone in tutto il paese, che come in Sardegna dovranno chiudere entro il 2025, e grazie al capacity market, un meccanismo di garanzia in base al quale le centrali termoelettriche a gas ricevono una remunerazione anche se non lavorano, in Italia si è assistito a un boom di progetti per la costruzione o la riconversione di centrali a gas. «È una situazione esplosiva, assistiamo a una proliferazione di impianti che hanno scarsa giustificazione dal punto di vista del fabbisogno energetico», dice Massimiliano Varriale.

Non succede solo in Italia. Negli scenari messi a punto dalle compagnie del gas una domanda sempre in crescita viene usata per giustificare la costruzione di nuove infrastrutture. E se nonostante gli obiettivi di policy messi in campo per far fronte all’emergenza climatica, progetti per nuove infrastrutture del gas proliferano in Europa la ragione sta anche nel fatto che le grandi imprese del gas, responsabili della costruzione di terminali e gasdotti, sono le stesse imprese che aiutano i governi a scegliere quali infrastrutture sviluppare.

L’associazione europea degli operatori delle reti di trasmissione del gas, ENTSOG, è stata creata nel 2009 con l’obiettivo di elaborare le previsioni della domanda di gas in Europa. È formata dalle principali società europee del gas, 44 membri da 24 paesi europei e, spiegano i ricercatori di Corporate Europe Observatory, dalla sua creazione ha costantemente sovrastimato il fabbisogno di gas. La ragione è semplice: «Il 75% delle infrastrutture del gas costruite in Europa sono progetti presentati dalle società stesse che fanno parte del network ENTSOG».

In un rapporto pubblicato recentemente – dal titolo Pipe Down – la Ong inglese Global Witness ha fatto i conti. «Le grandi società del gas si sono accaparrate circa il 90% dei sussidi che l’Unione europea destina alle infrastrutture del gas, oltre 4 miliardi di euro». Sono le stesse società che regolarmente sovrastimano il fabbisogno di gas in Europa.

Snam fa parte del network ENTSOG: secondo i calcoli di Global Witness la società ha ricevuto 813 milioni di euro dal 2015 al 2019 per progetti cosiddetti di “interesse comune”, una lista dei principali progetti infrastrutturali redatta dalla Commissione europea. Altri 714 milioni di euro sono finiti a finanziare progetti di cui anche Snam, insieme ad altre società, faceva parte.

Anche in Italia Snam siede ai tavoli governativi dove vengono decise le politiche energetiche. Fornisce dati, elabora scenari e previsioni, e sulla base di quei dati propone nuove infrastrutture da costruire. Per esempio, la società italiana ha partecipato alla stesura della Strategia energetica nazionale nel 2017, il piano energetico sulla base del quale è stato poi redatto il più recente Piano Nazionale per le Infrastrutture, l’Energia e il Clima (PNIEC) che pure largamente attinge a dati e scenari forniti da Snam.

Poi ci sono le attività di lobbying a cui le società del gas destinano ingenti risorse. Secondo un’indagine condotta dall’associazione Re:Common, Snam, insieme alle altre tre principali società europee del gas, hanno speso complessivamente 900 mila euro e impiegato 14 lobbisti nel 2018. «Nel 2019 queste aziende sono riuscite a ottenere quasi 50 incontri con i massimi funzionari politici della Commissione europea per discutere i loro ultimi progetti di gasdotti o offerte di acquisizione», spiegano i ricercatori di Re Common. La sola Snam ha speso una cifra compresa tra 200 e 300 mila euro nel 2019, secondo i dati del registro della trasparenza UE.

fonte: https://irpimedia.irpi.eu


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Come gestire le comunità energetiche? Ci pensa eNeuron

Il progetto, coordinato dall’Enea realizzerà una piattaforma con cui gli utenti potranno partecipare attivamente alla gestione collaborativa dell’energia















I primi esperimenti di comunità energetiche, basate su efficienza e rinnovabili, sono partiti anche in Italia. Ma prima che il nuovo modello di energy citizens pianti le radici a livello nazionale, è necessario sviluppare i giusti strumenti gestionali. Con questo obiettivo in mente è nato eNeuron, progetto di ricerca cofinanziato da Horizon 2020.
L’iniziativa è coordinata dall’italiana ENEA e coinvolge 17 partner, tra realtà pubbliche e private, provenienti da 8 Paesi. Insieme dovranno realizzare approcci e metodologie innovative per progettare e gestire le energy community. La prima fase di eNeuron si concentrerà sulla realizzazione di una piattaforma attraverso cui gli utenti della comunità potranno partecipare attivamente alla gestione dell’energia. In una seconda fase, il focus verterà sull’uso ottimale e sostenibile dei vettori energetici multipli, considerando priorità sia a breve che a lungo termine.
A spiegarne le finalità è oggi Marialaura Di Somma, ricercatrice presso il Laboratorio Smart Grid e Reti Energetiche del Centro ENEA di Portici e coordinatrice dell’iniziativa. “Il progetto intende la comunità dell’energia come un’infrastruttura integrata per tutti i vettori energetici”, afferma Di Somma. “E vede il sistema elettrico come spina dorsale, caratterizzata dall’accoppiamento delle reti elettriche con quelle del gas, del riscaldamento e del raffrescamento”. A ciò si aggiunge il supporto dell’energy storage tramite una serie di soluzioni di accumulo, comprese le batterie delle auto elettriche.

La crescita delle energy communities

Attualmente in Europa esistono circa 3.500 “cooperative rinnovabili”, un tipo di comunità energetica concentrata principalmente nel nord-ovest, soprattutto in Germania e Danimarca. Ovviamente il numero aumenta quando si considerano anche tutti gli altri progetti (es. distretti green o eco-villaggi), ma nel futuro prossimo il dato dovrebbe accelerare progressivamente.
Il pacchetto Energia pulita dell’Unione Europea ha infatti introdotto per la prima volta le comunità energetiche nella legislazione comunitaria. Nel dettaglio, esistono due definizioni formali di ‘energy communities’: “comunità energetiche dei cittadini”, inclusa nella revisione della direttiva sul mercato interno dell’elettricità (UE) 2019/944; “comunità energetiche rinnovabili”, riportata nella revisione della direttiva sulle energie rinnovabili (UE) 2018/2001. Ma al di là delle definizioni, dei modelli organizzativi e delle forme legali, queste nuove realtà hanno ancora bisogno di strumenti gestionali in grado di garantirete la sostenibilità economica e ambientale.
In questo contesto eNeuron propone un nuovo concetto di hub energetico come unità primaria per il controllo e la gestione dei sistemi integrati della comunità. I vari approcci sviluppati dal progetto saranno sperimentati e validati in quattro siti pilota in Europa caratterizzati da un’elevata complementarità tra loro: in Italia nel quartiere Montedago ad Ancona, in Polonia a Bydgoszcz, in Norvegia nel laboratorio messo a disposizione dal distributore di energia elettrica Skagerak, in Portogallo nella base navale di Lisbona messa a disposizione da EDP Labelec e dalla Marina Portoghese.
L’iniziativa “si inserisce nel quadro delle policy europee e nazionali per lo sviluppo delle comunità energetiche, un tema sempre più attuale e strategico”, spiega Di Somma. “In particolare, eNeuron contribuirà alla realizzazione di strumenti per la pianificazione di sistemi energetici integrati in presenza di poli-generazione distribuita e con elevati livelli di penetrazione di energia rinnovabile”.
fonte: www.rinnovabili.it


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Venti, onde e maree spingono la “rivoluzione blu” della Bretagna

La regione occidentale della Francia ha trasformato la perifericità geografica e i suoi oltre 2.700 chilometri di coste in un punto di forza, investendo sull’energia blu e su soluzioni tecnologiche che non compromettano l’ambiente





La Bretagna è bleu. Sino a pochi anni fa, per gli indipendentisti della più occidentale delle regioni francesi, ogni richiamo al colore simbolo degli “enfants de la Patrié” avrebbe creato un putiferio. Oggi è diventato motivo d’orgoglio a livello mondiale: la Bretagna viene infatti considerata un polo d’eccellenza nella produzione di energia blu. Lo sfruttamento dei venti con turbine costruite sul mare o a terra, gli sbalzi altimetrici delle maree, così come i cicli di compressione e decompressione delle onde, sono “gli assi nella manica” delle tempestose coste che, per 2.730 chilometri, corrono da Saint-Malò a Vannes.

Protese in un’area atlantica di fortissime correnti (le onde possono raggiungere i 9 metri d’altezza, 144 chilometri all’ora i venti), non protette da alcun rilievo montuoso, sono soggette ad agenti naturali tanto estremi d’aver convinto il governo francese dell’imminenza di una nuova rivoluzione: “Entro il 2030 -ha dichiarato Jean-Michel Lopez, direttore generale alla Transizione ambientale e alle energie marine della Regione Bretagna- l’utilizzo di queste forze cinetiche consentirà di soddisfare il 35% del nostro fabbisogno energetico. Un risultato eclatante sotto più punti di vista: oggi siamo costretti a importare l’83% dell’elettricità che consumiamo (circa 18,8 TW) dalla centrale nucleare di Flamanville e da quella termica a carbone di Cordemais. La quantità restante di energia prodotta sul territorio, però, proviene per il 75% da fonti rinnovabili: questo significa che abbiamo già in casa tutte le risorse per trasformarci in una regione a bassissimo impatto ambientale. Non a caso la Commissione europea, nel Blue Economy Report 2019, indica la Bretagna come modello di sviluppo per tutti i Paesi impegnati nella riconversione energetica marina”. Sotto l’etichetta di “economia blu” sono in realtà comprese tutte le attività riguardanti oceani, mari e coste, dai trasporti marittimi alle costruzioni navali o alla ricerca oceanica, capaci di generare solo nell’Unione europea un fatturato di 658 miliardi di euro e di coinvolgere più di 4 milioni di lavoratori, con un tasso d’investimento annuale del 24%. Tenendo conto che quasi la metà della popolazione europea vive oggi sulle coste, diventa fondamentale trovare soluzioni tecnologiche che non compromettano ulteriormente l’ambiente. Entro il 2050, le alluvioni prodotte dai cambiamenti climatici potrebbero causare danni economici stimati fra i 12 e i 40 miliardi di euro, sconvolgendo la vita di non meno di 740mila cittadini che abitano sulle rive del continente.



Dopo un decennio di stanziamenti mirati, l’Electricity Pact for Brittany 2010-2020 comincia però a dare i suoi frutti: oltre ad aver lanciato con successo tecnologie innovative nel campo dell’energia blu -in primis le turbine eoliche flottanti da 9,5 MW (cioè galleggianti in acqua su quattro cilindri d’acciaio)- sono stati spesi quasi sei milioni di euro per favorire anche l’interscambiabilità delle fonti energetiche mediante smartgrids, trasformando di fatto lo svantaggio della perifericità geografica in un punto di forza basato sulla resilienza. “Parte del successo -sottolinea Marc Laurent, analista economico di Le Télégramme– va riconosciuto nella capacità di aver creato un cluster regionale, il Pôle Mer Bretagne Atlantique, permettendo una stretta collaborazione di sei partner d’eccellenza, fra cui 11 unità dipendenti dal Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica (con più di 730 ricercatori coinvolti), la Scuola Accademica di Ricerca ISBLUE (un innovativo istituto interdisciplinare per lo studio del Pianeta blu, lanciato nel 2019) e il Campus Mondial de la Mer. Segno che investire nella ricerca d’alto livello è sempre premiante, a patto che vengano predisposte politiche di lungo termine. Nel 2021, anno che apre il decennio per le scienze oceaniche, la Bretagna sarà la punta d’avanguardia europea”.


75% due terzi dell’energia prodotta sul territorio bretone proviene da fonti rinnovabili

Fra i casi più virtuosi della collaborazione bleu spicca l’impegno di Amadéite Group, compagnia leader mondiale nella biotecnologia marina, riuscita a sviluppare prodotti organici per la salute di animali, piante e uomini riutilizzando le alghe invasive delle coste. Progetto che le ha garantito un fondo di 30 milioni di euro da parte della Banca europea per gli investimenti. In realtà la Bretagna, trascinata anche dalle secolari lotte politiche per un’indipendenza maggiore da Parigi, ha creduto nella possibilità di un’autonomia energetica a basso impatto ambientale già negli anni del boom degli idrocarburi. Nel 1966, sull’estuario del fiume Rance, venne infatti inaugurata la prima stazione al mondo per la produzione di energia dalle maree, rimasta per ben 45 anni l’impianto industriale dalla capacità installata più ampia e sorpassata solo nel 2011 dal complesso del lago Sihwah, in Corea del Sud (l’unica altra centrale oggi esistente). Con le sue 24 turbine, in grado di raggiungere picchi di 240 MW, può infatti sopperire da sola all’intero fabbisogno energetico di una grande città come Rennes. Grazie alla perfetta predittibilità delle maree (unica fonte di energia rinnovabile con tasso di affidabilità al 100%), la Rance ha fatto da apripista ad una serie di impianti di nuova generazione, basati su una tecnologia che integra energia mareomotrice, eolica e fotovoltaica: modelli su scala ridotta, a basso impatto ambientale e facilmente esportabili, grazie ai quali è possibile ottenere elettricità partendo dalla compressione dell’aria in cassoni e dalla movimentazione delle turbine in seguito alla sua espansione.


“Investire nella ricerca d’alto livello è premiante, a patto che ci siano politiche di lungo termine. Nel 2021 la Bretagna sarà l’avanguardia europea” – Marc Laurent

Insieme al parco eolico offshore di Brest, dal costo di 220 milioni di euro e lungo ben 400 metri (il più esteso di tutta la costa atlantica), rappresenta uno dei sette pilastri della “rivoluzione blu” bretone: nella baia di Saint-Brieuc, sulla costa settentrionale, altri 62 impianti eolici (per 496 MW) entreranno in servizio già nel 2023; pochi chilometri a Ovest, nell’area di Paimplon-Brehat, nell’aprile 2019 sono state avviate ben quattro idrolinee; nella punta estrema della penisola bretone, il cosiddetto Passage du Fromveur, sono stati effettuati con successo i saggi per la creazione di ulteriori due idrolinee, mentre lungo la costa meridionale è allo studio un nuovo centro di produzione di energie da maree nella baia di Audierne. Il sito di maggior interesse, però, resta quello in prossimità della penisola di Quiberon, al largo della quale sarà avviata nel 2021 la produzione di quattro impianti eolici flottanti (24MW) e dell’idrolinea Ria d’Etel (20 KW), in grado di rendere energeticamente indipendente il golfo dove sono concentrati alcuni dei più importanti allevamenti di ostriche francesi. Qui si trova anche il famoso complesso megalitico di Carnac, che conta oltre 3.000 menhir e dolmen perfettamente allineati: uno dei siti più ampi al mondo, ma di cui ancora poco si conosce circa l’effettiva funzione.





Oltre a trovarsi in prossimità del punto in cui la corrente atlantica piega su se stessa, permettendo di raggiungere agevolmente l’America del Nord, il golfo di Auray è noto per aver accolto nel 1776 lo scienziato americano Benjiamin Franklin, futuro inventore del parafulmine e qui attirato anche dallo studio della peculiare meteorologia bretone – © Alberto Caspani

La posa di questi veri e propri giganti di pietra viene fatta risalire almeno al 5000 a.C., lasciando supporre un uso che mette in correlazione le caratteristiche fisiche del paesaggio e il funzionamento elettro-chimico del cervello, secondo la brillante argomentazione presentata dagli archeologi David Lewis-Williams e David Pearce nell’opera “Inside the Neolithic Mind”. Grazie agli studi di geobiologia del dipartimento di Scienze planetarie dell’Università di Harvard, unitamente alle scoperte dell’archeoastronomia, dolmen e menhir segnalerebbero campi d’influenza elettro-magnetica, dipendenti dai cicli lunari delle maree. Tecnologia preistorica che non solo avrebbe potuto fungere da calendario per predire i movimenti delle acque e ottimizzare i cicli agricoli, ma anche agevolare effetti di riequilibrio energetico sul corpo umano. Non a caso, per secoli, le grandi pietre degli allineamenti sono state utilizzate dagli abitanti bretoni come efficaci rimedi per curare disturbi della salute, o addirittura per favorire la fertilità. Se è vero che la vita ha preso avvio dall’acqua, in futuro la “Bretagna Blu” potrebbe allora aiutarci a comprendere un significato di sostenibilità ambientale ancor più vasto e profondo delle meraviglie degli oceani.

fonte: https://altreconomia.it


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Fotovoltaico in micro reti: il caso del comune di Serrenti





Le esperienze di alcune aree rurali dove le Pubbliche Amministrazioni hanno mantenuto strutture interne di gestione e manutenzione dei propri sistemi energetici potrebbero dimostrare una migliore resilienza di fronte a stress economici ed energetici.

Un progetto di sviluppo energetico – sia esso una comunità energetica, smart grid, smart city – può nascere da un’idea, un gruppo di persone, un’opportunità economica, una ricerca.

Oppure può crescere e progredire nel tempo come esito della cura, del quotidiano osservare, manutenere, monitorare le singole componenti fino a integrarle in un sistema energetico moderno ed efficiente.

È questo il caso del Comune di Serrenti – 4.725 abitanti nel Medio Campidano, in Sardegna – che dal 2010 ha realizzato con il proprio personale interno piccoli ma sistematici interventi di efficientamento energetico che hanno ridotto i consumi energetici e liberato risorse economiche pubbliche che sono state investite in altri settori.

“Si possono fare progetti di elevato costo o di elevato valore – ci dice Maurizio Musio, tecnico manutentore del Comune – e il nostro sistema energetico si è evoluto insieme al maturare della tecnologia, dando i suoi buoni frutti con le poche risorse economiche disponibili.”

I consumi elettrici annui della pubblica illuminazione e degli edifici comunali sono passati rispettivamente da 475 MWh a 332 MWh e da 259 MWh a 161 MWh (media del periodo 2008/2010 vs media 2011/2018) con riduzione dei consumi, rispettivamente, del 30 e 40%.

Prendendo come riferimento la media del triennio 2008/2010, dal 2011 al 2018 il consumo totale di energia elettrica degli edifici pubblici è diminuito di 787 MWh con un risparmio di 180.000 € (riduzione di CO2 emessa di 315 t), mentre i consumi energetici dell’illuminazione pubblica sono diminuiti di 1.142 MWh con un risparmio di 263.000 € (minori emissioni di CO2 per 457 t).

Con Maurizio Musio abbiamo ricostruito il percorso energetico del Comune di Serrenti dal 2010, reso possibile principalmente dalla proattività dell’Ufficio Tecnico e dalla relativa libertà di azione concessa dalle amministrazioni che si sono succedute nel tempo.

Come avete tagliato i consumi energetici della illuminazione pubblica a Serrenti?

«Nell’ambito del progetto ‘Illuminamente’ abbiamo attuato una costante manutenzione della pubblica illuminazione nella sua configurazione del 2010. Abbiamo lavorato sui regolatori di flusso già presenti per una buona parte degli impianti stradali: per ogni 10v di tensione ridotta si ottiene un risparmio del 6%. Dalla sola riduzione della tensione per la stabilizzazione di rete da 240 a 220v abbiamo avuto un risparmio del 12%. Nelle ore notturne, dove anni fa veniva spenta una lampada in modo alternato, riduciamo l’intensità dell’illuminazione con un risparmio di energia ben superiore del 35%, garantendo più sicurezza ed evitando zone d’ombra».

Che tipo dispositivi e soluzioni avete adottato?

«Dal 2010-2012 ci siamo dotati di timer astronomici che sulla base delle coordinate geografiche consentono l’accensione e lo spegnimento dell’illuminazione in maniera puntuale rispetto alla luce naturale. Abbiamo ridotto le dispersioni di corrente nei quadri dell’illuminazione, conseguendo maggiore sicurezza e minori perdite di energia in rete e provveduto al sezionamento delle linee con interruttori dedicati per intervenire sulla zona che si vuole accendere senza attivare l’intero quadro. Abbiamo ancora un sistema di monitoraggio per quadro e non punto punto che tuttavia garantisce efficienza e interventi celeri sulle anomalie del sistema ed elevata qualità del servizio reso».

Sebbene abbiate ottenuto significativi risparmi non avete ancora installato lampade a LED, come mai? Non potreste ottenere ulteriori benefici affidandovi a una ESCo?

«Naturalmente negli anni ci hanno proposto di passare al LED, ma in passato abbiamo valutato che si trattava di tecnologia non matura, anche se oggi è decisamente migliorata. Nel 2010 non sarebbe stato un buon investimento. Oggi vorremmo procedere con l’installazione di lampade a LED, ma inserendole in un progetto che consenta di interfacciarsi con la futura Smart City. Un intervento con una ESCo? Consideri che noi, con il sistema a scarica di gas, abbiamo un costo a punto di luce di 60 € contro i circa 110 € degli altri comuni. Un intervento di una ESCo ci farebbe spendere di più».

Come avete ridotto i costi energetici degli edifici?

«Abbiamo sostituito le lampade lineari tri-fosforo con quelle a tecnologia LED, con l’installazione nei bagni e nelle zone di passaggio di sensoristiche di presenza e movimento. Abbiamo la visibilità in real-time del consumo elettrico di vari edifici, con termostati e valvole termostatiche wifi per controllare da remoto la temperatura degli ambienti, risparmiando così anche sulla componente termica».

Ma il risparmio più consistente l’avete conseguito dall’accorpamento di più edifici con la riduzione dei POD. Quando avete installato gli impianti FV e iniziato a collegare tra loro gli edifici?

«Come per l’illuminazione abbiamo fatto per primi gli interventi che potevamo permetterci con le risorse disponibili. Per questo agli impianti FV abbiamo fatto precedere l’ottimizzazione. Con il progetto S.E.I. (Sistema Energetico Intelligente) abbiamo lavorato a monte dell’impianto elettrico, riducendo le potenze contrattuali e incentivando l’autoconsumo da FV sugli impianti via via che li abbiamo realizzati».

E le micro reti?

«Il progetto, che è nato nel 2010, ha portato a realizzare quattro micro-reti in tre macro-aree comunali. Le micro-reti collegano gli edifici comunali dotati di impianto FV a quelli adiacenti e con servizi similari che ne sono sprovvisti. Tutti gli edifici connessi fanno capo al contatore principale, mentre gli altri contatori vengono dismessi. Si ottiene in questo modo una maggiore quota di autoconsumo e la riduzione delle spese fisse in bolletta. A conclusione dei lavori il progetto dovrebbe garantire la cessazione del 50% dei contatori elettrici statici allacciati e la riduzione del 30% della restante potenza contrattuale».

Microreti, accorpamenti degli edifici e produzione FV

Nel 2010 sono stati accorpati l’edificio della scuola media e quello del teatro comunale ed è stato realizzato l’impianto fotovoltaico sulla copertura delle scuole (19,8 kWp).

Nel 2017, con il progetto “La Casa dell’energia”, finanziato con il POR FESR Sardegna 2014-2020, è stato installato un sistema di accumulo ibrido trifase da 43 kWh che consente di distribuire nelle ore serali l’energia accumulata di giorno. La Casa dell’energia contiene inoltre tutti gli apparati dell’impianto FV, inverter ibridi, e il sistema di gestione della micro-rete. Questi apparati sono stati collocati in uno spazio dedicato esterno alla scuola, evitando eventuali problematiche connesse con il certificato di prevenzione incendi.

Nel 2012 sono stati accorpati l’edificio della scuola elementare e quello della materna, dotato di un impianto FV da 19,3 kWp. Nel 2015 al contatore del municipio – sulla cui copertura è ubicato un impianto FV da 17,1 kWp – è stato accorpato l’edificio della Caserma e la casa Corda (sede di uffici comunali distaccati). Accanto alla Scuola materna sorgerà la seconda Casa dell’energia grazie a un secondo finanziamento del POR FESR Sardegna 2014-2020.

Nel 2012 si è collegato il contatore del Parco comunale a quello dell’edificio Vetrina Espositiva (dove ha sede l’orto botanico e negli appositi spazi si tengono sagre, corsi e laboratori didattici) e nel 2017 si è installato un impianto FV da 19,8 kWp. Altri 10 kWp di FV sono installati sul tetto della Casa dei Nonni, mentre 7 kWp sono al servizio del mercato di recente ristrutturazione e prossima apertura.

A breve a questa micro-rete sarà connesso l’impianto elettrico del cimitero. In prospettiva e norme permettendo, una terza casa dell’energia potrebbe alimentare questo micro-polo a cui sarà collegata anche la piscina comunale dotata di un impianto FV da 19,8 kWp.

Nel 2017 è stato installato sul Centro Polivalente un impianto da 19,8 kWp a cui in futuro saranno connessi una piazza e un secondo edificio. L’impianto FV da 10 kWp installato sull’ex asilo nido (ex-esmas) sarà collegato ad un nuovo parco ecosostenibile. (foto Zona A, Zona B, Zona C)

Ingegner Musio, con l’accorpamento degli edifici avete conseguito risparmi sia energetici sia economici importanti, ma con quali costi?

«L’accorpamento del municipio, ad esempio, è costato 12.000 € e ha determinato un risparmio per minori spese fisse in bolletta di 1.300 €/anno, oltre a circa 7.000 € di minori costi per il maggior autoconsumo e la riduzione delle potenze degli edifici. Un costo che si ammortizza in meno di 18 mesi».

Quali sono stati gli impatti di questi interventi sulla cittadinanza?

«C’è stato un generale aumento della conoscenza e della consapevolezza in materia di energia. Nel 2019 nella Sala Polivalente e nella Casa dell’energia abbiamo ospitato il corso teorico pratico di formazione professionale finanziato da Regione Sardegna sulle attività green & blue economy per inoccupati e disoccupati dove sono stati formati 15 persone come tecnico delle micro e smart grid. Altri corsi svolti in altre comunità hanno sfruttato la Casa dell’energia per la parte pratica, portando nel paese anche un piccolo indotto economico oltre alla soddisfazione di ospitare corsi di formazione. Il progetto ‘Casa dell’Energia’ ha favorito diverse altre attività didattiche e di sensibilizzazione sul tema dello sviluppo sostenibile. Noi dell’Ufficio tecnico comunale abbiamo organizzato un laboratorio energetico con le classi primarie della scuola che abbiamo coinvolto con attività ludiche basate su tecnologia e robotica».

Il Comune di Serrenti è stato premiato con il premio ANCI nel 2018 e nel 2019 aggiudicandosi i premi impresa Cresco Award Comuni Sostenibili e Agenda 2030.

Nel 2019 per la Casa dell’Energia ha ricevuto il Premio 3×3, un contest per la sostenibilità al Sud promosso dal Forum PA come uno dei migliori progetti di economia circolare nel mezzogiorno.

Il progetto è stato presentato sulla Piattaforma Energie rinnovabili di Sardegna Ricerche, nell’ambito di un ciclo di seminari divulgativi (disponibili materiali).Potrebbe interessarti anche:
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fonte: https://parolelibere.blog


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I sistemi di accumulo come soluzione per la decarbonizzazione

Con il Crollo del prezzo del petrolio ed il fallimento del mercato, si evidenziano sempre di più le potenzialità delle rinnovabili e dei sistemi di accumulo come reale alternativa alla transizione energetica




Il crollo del prezzo del petrolio, dovuto a motivi sia macroeconomici che tecnici, è un chiaro segno di fallimento del mercato. I prezzi sono diventati persino negativi. Il fermo dovuto al coronavirus ha ridotto drasticamente la domanda e il processo di estrazione non può essere fermato, non si riesce più a stoccarlo! Nonostante il taglio alla produzione effettuato dall’Opec. Questo dovrebbe farci riflettere sullo spreco di capitale naturale che sta avvenendo, il petrolio è una risorsa non rinnovabile. Il passaggio alle fonti rinnovabili con energia da poter stoccare ed utilizzare nel momento di bisogno è necessario. Ne ho recentemente parlato anche in una intervista con Adnkronos.

Il Covid-19 ha creato un’oscillazione nei prezzi dell’elettricità, solitamente i prezzi negativi sono una caratteristica del mercato energetico nei periodi di vacanza, mentre ora ad esempio il 6 aprile l’elettricità in Germania per la consegna nel blocco di 15 minuti di 00: 30-00: 45 è stata scambiata a € 520/ MWh e meno di due ore dopo, l’elettricità consegnata nel blocco di 15 minuti del 02: 15-02: 30 scambiato a meno € 385/ MWh. Immaginate quindi che risparmio ci sarebbe se ogni famiglia potesse immagazzinare l’energia quando è a costo più basso per poterla utilizzare nei momenti di picco. Ne ho parlato al workshop “The green new deal and the national energy and climate plans in Italy”, che ho organizzato insieme ad Eufores e a cui sono intervenuta in rappresentanza del Senato italiano. Abbiamo parlato di energie rinnovabili, ma il mio è stato un focus dedicato in particolar modo all’importanza dei sistemi di accumulo per questo tipo di energia, delle “batterie” sostenibili capaci di immagazzinare energia green.

I sistemi di accumulo sono la giusta soluzione per decarbonizzare la rete elettrica ed aggiornarla con le nuove tecnologie. Politicamente si è compreso il loro ruolo importante: consentono di immagazzinare l’elettricità, di stabilizzare la rete, sono l’anello mancante delle fonti rinnovabili che, come sappiamo, sono intermittenti. Inoltre, il potenziale di stoccaggio può soddisfare altre esigenze, come alleviare la congestione e appianare le variazioni di potenza che si verificano indipendentemente dalla generazione di energia rinnovabile. Sono a mio avviso, il quarto pilastro della transizione energetica, un fattore chiave anche come strumento per raggiungere gli obiettivi di emissione di CO2, legati all’accordo di Parigi.

I sistemi di accumulo possono anche creare un mercato di grande potenzialità, utili per la lotta al cambiamento climatico, per la decarbonizzazione delle centrali elettriche a combustibili fossili, sono di supporto all’ aumento dell’autoconsumo e alla diminuzione dei costi in bolletta. Ma c’è ancora molta strada da fare prima che progetti di stoccaggio e scarico su larga scala come le batterie diventino economici e competitivi sul mercato.

L’Associazione europea per lo stoccaggio dell’energia (EASE) nell’ultima relazione annuale ha pubblicato che nel 2019 è stato accumulato e distribuito 1 GWh di energia, mentre nell’anno precedente il valore si aggirava intorno a 1,4 GWh.

Il rallentamento nel 2019 è emerso a causa della preoccupazione che il coronavirus possa bloccare l’implementazione delle tecnologie energetiche pulite, e i progetti di accumulo di energia su larga scala hanno rallentato la corsa. È proprio questo il punto critico. Questi impianti necessitano di un sostegno finanziario e normativo: a differenza delle installazioni domestiche, i grandi sistemi di accumulo richiedono autorizzazioni, gare d’appalto ed altri mille passaggi. L’alleanza europea per le batterie ha costituito una piattaforma d’Investimento Aziendale con l’obiettivo di rafforzare la crescita della catena del valore europea nel settore dell’accumulo di energia. La rete comprende la Commissione europea, gli Stati membri dell’UE, la Banca europea per gli investimenti e oltre 250 stakeholder. Mentre il mercato legato al residenziale, con sistemi di accumulo di taglia domestica regge molto bene l’urto.

In Italia grazie ad una serie di bandi si promuove la diffusione dei sistemi di accumulo che consentono di incrementare l’autoconsumo. Da un’analisi dell’impatto questi hanno consentito di evitare ogni anno l’immissione in rete di circa 500 MWh negli orari in cui la produzione degli impianti fotovoltaici è troppo abbondante, che verranno auto-consumati negli orari non di punta. Ha fatto conseguire una riduzione di emissioni tra 0,18 e 0,51 tonnellate di CO2 all’anno. Ha permesso un risparmio in bolletta elettrica di circa 112.000 euro all’anno. Ora è online il nuovo avviso pubblico per le “Reti Intelligenti”: oltre 23 milioni di euro per la realizzazione di smart grid in Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, sarà possibile presentare le domande fino al primo giugno 2020. 


Patty l'Abate

fonte: https://www.rinnovabili.it


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Batterie e fotovoltaico sul tetto degli utenti, anche a Londra parte una “centrale elettrica virtuale”

Saranno una quarantina le abitazioni coinvolte nell’ambito del progetto sviluppato da UK Power Networks e Powervault in un quartiere londinese. In Australia e Germania le esperienze più avanzate di accumulo distribuito, aspettando l’apertura del mercato a livello europeo.





















Per il momento, vista la piccola scala del progetto, è difficile capire se la prima centrale elettrica virtuale di Londra sarà in grado di avviare una rivoluzione nel modo di produrre e scambiare energia per un’intera metropoli o quasi.
Parliamo della “virtual power station” (VPS) sviluppata dal gestore di rete UK Power Networks in collaborazione con il produttore inglese di batterie Powervault, che punta a creare una rete intelligente (smart grid) nel quartiere londinese di Barnet, coinvolgendo inizialmente una quarantina di case su cui sono già installati dei moduli fotovoltaici.
Con l’aggiunta degli accumulatori, queste abitazioni diventeranno i nodi diffusi di una micro-rete digitale, controllabile da remoto da UK Power Networks tramite un programma di gestione, capace di coordinare il funzionamento dei vari dispositivi connessi.
In sintesi, funzionerà così: le batterie accumuleranno l’elettricità generata di giorno dai pannelli solari e la renderanno disponibile di sera, quando, in caso di picchi di domanda, potranno scaricarsi tutte insieme, alleviando la “pressione” sul sistema elettrico nelle ore di maggior carico complessivo.
I proprietari riceveranno un compenso – non meglio specificato nella nota ufficiale che presenta il progetto – per la fornitura di questo servizio.
In pratica, anziché produrre più energia, magari con gli impianti a gas, per coprire un’impennata dei consumi, si utilizzerà l’energia stoccata in precedenza dalle batterie.
L’obiettivo futuro è realizzare centrali virtuali abbastanza grandi da soddisfare la domanda elettrica di centinaia, poi migliaia e addirittura milioni di edifici, senza dover installare nuove infrastrutture convenzionali come cavi, tralicci e sottostazioni elettriche.
Vedremo se le sperimentazioni raggiungeranno una dimensione più vasta e capillare nei diversi paesi europei, Italia compresa.
Intanto, nei mesi scorsi, il governo del South Australia ha lanciato un programma di generazione distribuita molto ambizioso, appaltato a Tesla, che mira a collegare 50.000 case entro il 2022, ciascuna dotata di fotovoltaico su tetto da 5 kW e batterie Powerwall da 13,5 kWh, da gestire come se fossero un unico grande impianto da 250 MW di potenza e 650 MWh di capacità di accumulo.
In pratica, la super-centrale diffusa potrebbe coprire la domanda elettrica media giornaliera dell’intero stato.
Così ogni utente diventerà un produttore/consumatore attivo di elettricità (prosumer), potendola utilizzare per i suoi bisogni, scambiarla con la rete o con altri utenti, secondo quel modello di autoconsumo energetico appena riconosciuto e promosso dall’Unione Europea nella nuova direttiva sulle fonti rinnovabili.
Anche la Germania sta puntando su soluzioni di questo tipo, ad esempio il progetto-pilota ideato dal gestore di rete TenneT e dal produttore di batterie sonnen, che consentirà di attivare e smistare i flussi bidirezionali di energia tra le singole batterie domestiche collegate alla rete, attraverso una piattaforma digitale basata sulla tecnologia blockchain
fonte: www.qualenergia.it

Mobilità, arriva la rivoluzione elettrica

Quale sarà l’impatto di questa “rivoluzione”? E cosa comporterà a livello di costi di gestione della rete elettrica la graduale conversione del parco auto in mezzi a emissioni zero?
















La rivoluzione elettrica è iniziata. Piaccia o meno, infatti, nel corso dell’ultimo paio di anni si è avviata una serie di dinamiche che, dopo lunghe attese da parte degli addetti del settore, stanno smuovendo le acque come mai prima a livello di mobilità green, nuove infrastrutture e percezione del pubblico della necessità di ridurre l’inquinamento atmosferico. Tanto che nel terzo trimestre del 2017 le auto elettriche e le ibride plug-in vendute sono state circa il 63% in più rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. E così temi o fenomeni fino a poco tempo fa riservati ai soli appassionati come l’auto e la moto elettrica, le Smart Grid o le Smart City sono finalmente sulle prime pagine dei giornali, protagonisti nelle fiere e ormai parte dell’immaginario collettivo. Ma quale sarà l’impatto di questa “rivoluzione”? E cosa comporterà a livello di costi di gestione della rete elettrica la graduale conversione del parco auto in mezzi a emissioni zero?  

Se lo sono chiesto soprattutto in California, stato che da solo ospita più della metà dell’intero parco EV Usa (secondo mercato globale, dopo la Cina): il boom di veicoli elettrici avrà effetti negativi sui costi per la collettività nella gestione di rete elettrica e infrastrutture, o nell’applicazione di trasformatori e condensatori? Secondo alcuni studi e ricerche, la risposta è un secco “no”. Come riportato in un approfondimento della rivista specializzata CleanTechnica, infatti, senza accorgimenti per una maggiore efficienza energetica un’auto elettrica può far aumentare di un terzo (33%) i consumi di corrente una famiglia, ma ciò non significa che le performance della rete vengano penalizzate. Al contrario, rappresenta un’opportunità di miglioramento per l’intero sistema. 

In realtà lo ha rivelato già nel 2014 una rigorosa analisi guidata dalla California Public Utilities Commission con cui, sempre sulla West Coast, si sono stimati gli impatti sulla rete elettrica di una larga diffusione di veicoli elettrici: i costi per l’aggiornamento della rete di distribuzione locale sarebbero “sorprendentemente bassi”, spiegano i ricercatori. Anche ipotizzando di ritrovarsi nel 2030 con una diffusione molto più elevata di auto e moto elettriche, ad esempio 7 milioni di veicoli (un quarto di tutti quelli immatricolati), i costi per le infrastrutture di distribuzione sarebbero solo l’1% del budget annuale delle utility. Non solo, secondo questo studio sempre entro il 2030 l’adozione di veicoli elettrici porterebbe a benefici per addirittura 3,1 miliardi di dollari, derivanti da numerosi fattori fra cui ad esempio l’acquisizione di crediti d’imposta federali, i risparmi di carburante e i crediti di carbonio della California nel mercato delle emissioni. 

E in Italia, cosa ne pensano gli esperti del settore? Secondo il Tesla Club Italy, ormai punto di riferimento sui temi legati alla mobilità elettrica, non è affatto vero che se tutti avessero auto elettriche la rete non reggerebbe. “Da una parte perché i consumi di elettricità negli ultimi anni si sono talmente ridotti che prima di tornare ai livelli passati ci vorrà un po’ di tempo; dall’altra perché anche le reti e le infrastrutture si fanno sempre più efficienti, e intelligenti (avrete sicuramente sentito parlare di Smart Grid)”, scrive il Club in un articolo sui 5 falsi miti sulle auto elettriche: “E infine, perché le auto elettriche da sole non basterebbero ad aumentare così tanto i consumi da fare collassare le reti elettriche nazionali.” 

Altra voce autorevole a livello di mobilità elettrica nel panorama italiano è sicuramente Energica Motor, dal 2019 fornitore unico del Motomondiale per la nuova Moto-e, versione elettrica della MotoGP. Fresca di presentazione del suo nuovo modello Eva EsseEsse9, di vittoria con la Ego di “migliore moto elettrica del mondo” e di vari riconoscimenti fra cui il “Premio Innovazione amica dell’ambiente” di Legambiente, la casa modenese non vede la diffusione della mobilità elettrica come un problema. “Dal punto di vista tecnico la rete è ben in grado di sopportare quello che potrebbe essere un impatto su larga scala dei veicoli elettrici, anche perché seppure la diffusione degli EV stia aumentando esponenzialmente stiamo parlando di un processo graduale”, spiega Giampiero Testoni, direttore tecnico (CTO) di Energica: “Non ci saranno da oggi a domani 2 miliardi di veicoli elettrici da caricare contemporaneamente. Inoltre, l’80% delle volte una moto o un’auto elettrica vengono ricaricate nelle ore notturne, quando i consumi sono al minimo. E oggi si sta lavorando per far sì che, grazie alle Smart Grid, i veicoli anche se collegati in gran numero durante il giorno possano funzionare come battery storage units, e quindi supportare la rete, invece di sovraccaricarla”. 

Lo sviluppo della mobilità elettrica deve andare quindi di pari passo con quello delle reti intelligenti, capaci di minimizzare sprechi, picchi, sovraccarichi e variazioni di tensione. Ma anche delle rinnovabili, senza cui la mobilità elettrica non si può dire veramente sostenibile. Un’ampia diffusione di auto, moto e camion elettrici, insomma, oltre a rappresentare un’importante opportunità per il sistema dei trasporti e quello infrastrutturale nel loro complesso può e deve contribuire alla totale conversione in chiave green del settore elettro-energetico. Il che andrebbe anche a levare ai detrattori dell’elettrico il principale argomento: quello per cui l’inquinamento atmosferico, con i veicoli elettrici, si sposta dalle città alle centrali, ma non si elimina. 

“Con la crescita di una ramificata rete di ricarica il motore endotermico non ha proprio più senso, né a livello di costi di produzione e distribuzione dell’energia stessa, né per quanto riguarda l’inquinamento.” spiega Livia Cevolini, amministratore delegato (CEO) di Energica Motor Spa: “Secondo lo studio belga Life Cycle Analysis of the Climate Impact of Electric Vehicles condotto dall’Università di Bruxelles Vrije, i Battery Electric Vehicle hanno un impatto significativamente minore sui cambiamenti climatici e sulla qualità dell’aria urbana, rispetto ai veicoli convenzionali.” 

“L’opportunità più importante per migliorare l’impatto dei BEV risiede nella scelta di energie rinnovabili per ricaricarli. Tuttavia la sostenibilità, aggiunge la ricerca, è in ogni caso positiva anche in situazioni svantaggiose come la Polonia, dove sebbene i veicoli elettrici utilizzino un mix di fornitura con le più alte emissioni di gas serra, queste sono ancora inferiori del 25% rispetto ad un veicolo diesel di riferimento”, aggiunge Livia Cevolini. E per quanto riguarda le rinnovabili in Italia? “La situazione è molto favorevole rispetto ad altri Paesi: ad oggi il nostro energy mix è fra i migliori al mondo, e l’energia prodotta proviene già per oltre il 40 percento da fonti rinnovabili. Questo è dovuto a molteplici fattori, e rappresenta di sicuro una grande opportunità per l’Italia. Anche di cambio di mentalità”. 

Tra i molteplici fattori elencati dall’ingegnere modenese c’è la presenza nel nostro Paese di Enel, ad oggi primo operatore globale di rinnovabili, da diversi anni molto concentrato sullo sviluppo della mobilità elettrica. In effetti, i suoi sforzi per contribuire allo sviluppo di infrastrutture che ne permettano un pieno sviluppo sono stati notevoli, e con un investimento fra i 100 e i 300 milioni di euro punta a passare dalle attuali 930 colonnine di ricarica sul territorio italiano ad almeno 14mila entro il 2022. E tutto ciò, chiediamo anche al colosso dell’energia, non porterà a maggiori costi per gli utenti o a problemi per la rete elettrica? “È esattamente il contrario”, spiega Francesco Venturini, Head of Global e-Solutions di Enel S.p.A: “In un mondo in cui le rinnovabili faranno da padrone, sia per motivi ambientali che di costo, in cui la digitalizzazione dematerializza l’importanza di chi possiede l’asset e permette che lo stesso asset abbia più funzioni, per rendere la rete più efficiente e quindi meno costosa le auto elettriche giocano un ruolo fondamentale”. In pratica, i veicoli elettrici possono essere visti “come batterie su quattro ruote che prendono energia ma che la ridanno al sistema quando il sistema la richiede”, aggiunge Venturini: “Gli EV democratizzano la rete, non il contrario”. 

Andrea Bertaglio

fonte:http://www.lastampa.it

La comunità messicana che risorge grazie all'energia rinnovabile















Un piccolo paese di pescatori in Messico, che prima non aveva elettricità, si è trasformato in una vera e propria comunità che produce energia rinnovabile e gestisce in autonomia la propria rete.
Vivere senza elettricità è una situazione inimmaginabile per la maggior parte delle persone che risiedono in aree urbane, se poi si pensa che questo possa avvenire in un luogo dove le temperature raggiungono i 50 gradi, sembrerebbe davvero uno scenario impossibile per lo sviluppo di una comunità.
Eppure, fino a poco fa, questa era la situazione in cui vivevano a Puertecitos, una piccola comunità di pescatori situata a sud di San Felipe, Baja California (Messico). Oggi tutto è decisamente cambiato grazie ad un gruppo di ingegneri del Centro per lo Studio delle energie rinnovabili (Ceener) dell'Università Autonoma di Baja California (UABC) e al supporto istituzionale.
E' stato realizzato infatti il progetto “Sustainable Energy Community Services Network” che ha trasformato la località in una vera e propria comunità che si alimenta con energia pulita, solare ed eolica grazie ad una micro rete che include un impianto che coniuga la produzione di energia solare ed eolica.
La rete si compone di 184 moduli fotovoltaici che generano 55,2 kilowatt combinati con una turbina eolica con lame di sei metri e capacità di cinque kilowatt, più un generatore diesel da 75 mila volt per ampere e 174 batterie da 2 volt. 
Questo sistema è in grado di utilizzare fonti pulite per generare energia e soddisfare la richiesta di elettricità durante il giorno. Ciò che è in sovrappiù, invece, viene accumulato all’interno di batterie per l’utilizzo notturno.


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La micro rete ha letteralmente trasformato e alleggerito la vita di circa 20 famiglie che finalmente hanno a disposizione elettricità per 24 ore al giorno.
Uno dei principali cambiamenti riguarda la possibilità di utilizzare degli impianti di condizionamento, necessari a resistere alle alte temperature registrate nella zona.  Prima alcune famiglie erano addirittura costrette a dormire all'aperto per contrastare il caldo oppure a spostarsi altrove durante l’estate per non rischiare la disidratazione.
Tra l’altro la rete è stata pensata in modo da coinvolgere direttamente e attivamente i cittadini che ne usufruiscono. E’ la comunità stessa responsabile della gestione che comporta la pulizia degli impianti fotovoltaici, la lettura dei contatori, gli aspetti amministrativi, ecc. Uno degli obiettivi fondamentali del progetto era proprio quello di determinare se la comunità sarebbe stata in grado di gestire la micro rete una volta terminata.


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Iniziative come queste hanno un forte impatto sul progresso delle comunità e si prestano ad essere un'ottima testimonianza di quello che le soluzioni sostenibili possono rappresentare a livello ambientale e sociale. I nuovi servizi hanno anche dato una spinta al turismo che, ovviamente, può aiutare l'economia del piccolo paese.

fonte: www.greenme.it