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Città circolari per cambiare il sistema alimentare. Spazio alle giovani start up

Entro il 2050 l'80% di tutto il cibo sarà consumato nelle città, dicono le stime. Per questo l'Università di Torino in collaborazione con Leadership Group on Food waste, food systems and the bioeconomy e ECESP hanno organizzato un evento #EUCircularTalks sul ruolo delle città nella transizione circolare nei sistemi alimentari.



Dialogo, proposte, iniziative e soluzioni. Per trasformare in chiave circolare il sistema alimentare delle nostre città, l’Università di Torino in collaborazione con Leadership Group on Food waste, food systems and the bioeconomy e ECESP hanno organizzato un evento #EUCircularTalks sul ruolo delle città nella transizione circolare nei sistemi alimentari. Lo scopo di questi incontri non è solo ricordare l’insostenibilità del sistema alimentare europeo attuale – gestioni rifiuti, spreco, emissioni di CO2 – elencando solo le possibili soluzioni, ma anche condividere informazioni e buone pratiche che guidino la transizione nella direzione giusta.
Visione olistica, economia circolare e dialogo tra gli stakeholder

“Cambiare il sistema alimentare è molto complesso – spiega a EconomiaCircolare.com Paola De Bernardi, organizzatrice dell’evento e docente di Circular Economy Management all’Università di Torino – perché è costituito da parti interconnesse fra loro che spesso e volentieri presentano dei paradossi. Quando si risolve un aspetto, ci sono spesso conseguenze negative su altri aspetti su diversi ambiti. C’è sempre una fase di sperimentazione che richiede dei tentativi”.

“Durante la pandemia l’unica filiera funzionante è stata quella del cibo e questa è una buona notizia – dice all’#EUCircularTalks Peter Schmidt del Comitato Economico e Sociale Europeo (EESC) –. Già nel 2016 si parlava di un approccio olistico al fine di implementare un sistema alimentare sostenibile. Le politiche alimentari in territorio urbano non sono uniformi a livello europeo. La domanda è come ottenere politiche alimentari globali?”. Quello che serve è una visione olistica che coinvolga gli imprenditori in grado di creare virtuose simbiosi. “La visione olistica da adottare può avvenire solo con la partecipazione di tutti gli stakeholder che gravitano attorno al food system, non soltanto chi produce – aggiunge Paola De Bernardi –: la logica della visione sistemica della transizione verso un’economia circolare va intesa sui più livelli e più stakeholder”.

Il potenziale del sistema alimentare in città circolari

Nel sistema alimentare esistono criticità nelle fasi di produzione e consumo delle risorse. Si riscontrano impatti negativi nel consumo di cibo come obesità, malnutrizione e fame, ma anche nella produzione con effetti economici, ambientali e di salute. “Eliminare i rifiuti e l’inquinamento, tenere i materiali in vita, e rigenerare i sistemi naturali attraverso le biomasse – sottolinea Emma Chow della Ellen MacArthur Foundation Food initiative citando il report Cities and Circular Economy for Food uscito nel 2019”. Dal momento che l’80% di tutto il cibo sarà consumato nelle città entro il 2050, il documento sottolinea l’importanza fondamentale nell’attuare un sistema rigenerativo per il lungo termine. “Emergono tre ambizioni principali – aggiunge Emma Chow –: procurarsi cibo coltivato in modo rigenerativo e a livello locale; valorizzare il cibo; progettare e commercializzare prodotti alimentari più sani. Queste tre ambizioni avranno un impatto maggiore se perseguite contemporaneamente ed entro il 2050 potrebbero sbloccare benefici complessivi per un valore di 2,7 trilioni di dollari all’anno”. Ne trarrebbe giovamento anche l’ambiente “con una riduzione delle emissioni di gas serra di 4,3 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2, una riduzione dei costi sanitari associati all’uso di pesticidi di 550 miliardi di dollari, insieme ad altri benefici per la salute e un’opportunità economica per le città di ridurre lo spreco alimentare e fare un uso migliore dei sottoprodotti alimentari, per un valore di 700 miliardi di dollari”.

Spazio alle giovani startup

Questa EU Circular Talk è stata anche l’occasione per dare spazio alle iniziative lanciate dalle giovani startup che nei tavoli delle grandi corporate hanno poca voce in capitolo. “La loro testimonianza non è soltanto una presentazione di modello di business che funziona ed è profittevole – sottolinea Paola De Bernardi che sta gestendo diversi progetti circolari tra cui Girl on Circular, che mira a fornire a 50mila studentesse di età compresa tra 14 e 18 anni in tutta Europa competenze digitali e imprenditoriali – sono progetti che al loro interno creano modelli di educazione e di consapevolezza, il loro obbiettivo è influenzare il consumatore, il cittadino e il cliente grazie alla motivazione di fondo della start up”. Uno dei giovani italiani a partecipare all’incontro è stato Alessio D’Antino, CEO della Forward Fooding che grazie ai Big Data e tecnologie all’avanguardia supporta la riprogettazione del modo in cui le start up del cibo innovano.

“Bisogna ascoltare di più queste piccole realtà e supportarle dove sia possibile – conclude la professoressa De Bernardi –. Il grande cambiamento è guidato sempre dalle grandi aziende. Tuttavia si parte sempre dalla società civile, la partecipazione del cittadino è fondamentale per cambiare mentalità. Queste talk hanno la finalità di educare e creare consapevolezza”.

fonte: economiacircolare.com


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Transizione ecologica: il ruolo delle città europee

Le città sono i motori dell'economia europea e sono sempre più riconosciute come attori chiave nella transizione dell'Europa verso un'economia a basse emissioni di carbonio



L'Europa è un continente altamente urbanizzato: circa il 75% della popolazione vive in aree urbane e le stime prevedono che la percentuale arriverà all'80% nel 2050. Il paesaggio urbano europeo è eterogeneo e caratterizzato da una diversità di città per lo più piccole e medie: secondo una valutazione di UN-habitat, nel 2016, di queste città, solo Parigi e Londra possono infatti essere considerate vere e proprie megalopoli.

Sul piano della promozione dello sviluppo urbano sostenibile, l'Unione europea riveste un ruolo chiave ma le amministrazioni locali sono sicuramente nella posizione migliore per affrontare e risolvere le sfide ambientali, garantendo al contempo una buona qualità della vita per i propri cittadini. Tradizionalmente, le città risultano fondamentali nei settori della gestione dei rifiuti e dell'acqua, del trasporto pubblico e dell'uso efficiente del territorio, attraverso l'attuazione di una pianificazione urbana integrata. Oggi poi, le città sono anche in prima linea per quanto riguarda l'adattamento ai cambiamenti climatici e la conservazione e il ripristino degli ecosistemi.

In aggiunta a ciò, in questo anno e mezzo di pandemia abbiamo potuto constatare come le città, con le loro amministrazioni, siano state in prima linea nella gestione dell’emergenza, sopportandone spesso gli impatti peggiori. Le questioni post-pandemia che dovranno essere ancora affrontate nei prossimi mesi e negli anni a venire avranno necessariamente un effetto sulla transizione verde delle stesse città: dagli spazi verdi, alle forme di mobilità, al ruolo della tecnologia, solo per dirne alcune.

Sebbene gli sforzi attuali siano giustamente concentrati nell'affrontare le sfide immediate dell’emergenza pandemica, è però importante mettere rapidamente in atto approcci alla ripresa che siano allineati con obiettivi di sostenibilità più ampi. In questo modo le città potranno davvero diventare forze trainanti fondamentali per una transizione ecologica ed equa, a condizione però che siano attivamente coinvolte nel processo decisionale fin dall'inizio, come sostiene un recente briefing dell’Agenzia europea per l’ambiente.

Le seguenti quattro aree offrono strade particolarmente promettenti per affrontare la triplice sfida delle città - sociale, ambientale ed economica:
ripensamento della mobilità urbana e dell’uso del suolo,
riqualificazione del patrimonio edilizio urbano,
rafforzamento del ruolo delle infrastrutture verdi e delle soluzioni basate sulla natura,
trasformazione dei sistemi alimentari urbani e passaggio a modelli di consumo più circolari.

Se le città giocano un ruolo importante nella transizione ecologica, è anche vero che le città sono uniche e diverse e per questo le tabelle di marcia per la transizione devono essere adattate alle condizioni locali.

Attraverso un sondaggio e delle interviste con alcune città selezionate, l’Agenzia europea per l’ambiente è andata a valutare alcuni dei fattori trainanti e i differenti ostacoli che i centri urbani devono affrontare nell’accelerare il passaggio verso modelli più sostenibili dal punto di vista ambientale. Quello che emerge è che
la flessibilità sarà la chiave per consentire alle città di mettere in atto misure che funzionino meglio per le proprie situazioni,
la legislazione dell'UE continua a svolgere un ruolo chiave nell'accelerare il cambiamento nelle città,
i governi nazionali e sovranazionali possono facilitare, oltre che inibire, il cambiamento di sistema,
le reti di città e i partenariati mirati hanno un ruolo vitale in tali processi,
il coinvolgimento efficace del pubblico nei processi decisionali porta a risultati migliori,
la comunicazione efficace ed innovativa delle informazioni è una parte importante del coinvolgimento del pubblico,
le nuove tecnologie possono svolgere un ruolo importante, ma devono essere inclusive e adatte allo scopo,
l'accesso ai finanziamenti UE, nazionali e privati svolge un ruolo fondamentale,
i processi di approvvigionamento verde e il consumo sostenibile sono importanti motori di cambiamento.

Per valutare il ruolo delle città nella transizione ecologica, all'interno dell'ampio quadro del Green Deal europeo e dell'Agenda urbana dell'UE, l’Agenzia europea ha selezionato sei “lenti” di osservazione ed analisi:
La città resiliente, in cui le capacità di individui, comunità, istituzioni, imprese consentono loro di adattarsi e rispondere a stress cronici e shock acuti
La città verde, che fornisce alla comunità ambienti sani e sostenibili attraverso una progettazione ecologica dello sviluppo urbano
La città a basse emissioni di carbonio, che si muove verso il raggiungimento di pratiche a basse emissioni di carbonio in tutti i suoi aspetti, inclusi economia e vita quotidiana
La città inclusiva, in cui i processi di sviluppo includono un'ampia varietà di cittadini e attività e che coinvolgono l'inclusione spaziale, sociale ed economica
La città sana, che consente alle persone di svolgere tutte le funzioni della vita e di svilupparsi al massimo delle loro potenzialità
La città circolare, in cui tutti i flussi di prodotti e materiali possono diventare una risorsa per nuovi prodotti e servizi

Grazie a questi 6 modelli di lettura ed analisi, l'Agenzia europea sta portando avanti la sua valutazione sui progressi delle città europee verso una transizione ecologica ed equa.

fonte: www.arpat.toscana.it



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In Via Milano 59 rigenerazione urbana e socialità curano il degrado

Spese solidali, cortili aperti, laboratori e workshop, tutela dei diritti, cultura, socialità. In un quartiere periferico e multietnico di Brescia c'è un'associazione di cittadini che, dal basso, sta ricostruendo il tessuto sociale di una zona non facile, sanando anche le ulteriori ferite aperte dalla pandemia. Facciamo un giro in Via Milano 59 per conoscerla meglio.




Ascolto e partecipazione: due attività che l’associazione Via Milano 59 di Brescia ha fatto proprie fin dal momento della sua costituzione. A maggio del 2020 nasce per rispondere ad esigenze concrete – scaturite dalla pandemia – del quartiere in cui ha sede, il Quartiere Milano appunto. Questo rappresenta una delle aree più critiche e complesse della città. La multietnicità che lo anima convive con situazioni, talvolta estreme, di tensione sociale o abbandono degli spazi urbani a loro stessi, che spesso intimoriscono il resto della cittadinanza.

Prendersi cura di questo quartiere è l’obiettivo dell’associazione, che in un solo anno è cresciuta da 9 a 118 soci. Residenti e non hanno preso parte a questo progetto e da allora l’impegno volontario e la partecipazione hanno permesso di creare numerosi attività e servizi che stanno trasformando il quartiere da luogo di degrado a spazio di accoglienza e convivialità.

L’associazione ha fondato la sua operatività sul concetto di partecipazione attiva per dare risposte concrete alle necessità del quartiere. Nei primi mesi della sua attività ha così organizzato assemblee pubbliche per individuare le tematiche più sensibili e urgenti da affrontare. Da questi incontri sono emerse quattro tematiche diventate poi oggetto di quattro tavoli di lavoro, sempre condivisi e partecipati, dove da allora insieme si discute e decide. Mutualismo e solidarietà, parchi e cortili, salute e sanità, animazione e educazione sono i quattro ambiti nei quali si muove l’associazione e il quartiere.

Il primo grande tema affrontato è il diritto alla salute talvolta negato alle famiglie. La ricerca attivata ha permesso di giungere alla soluzione del problema: il Difensore Civico, una figura che è stata promossa e spiegata nel quartiere tramite la divulgazione di volantini in doppia lingua che permettono a tutti di comprendere e attivarsi.

Bambini e adolescenti sono l’altro tema che interessa il quartiere. Dal tavolo su animazione ed educazione è emersa la necessità di creare attività per i giovanissimi, che dopo mesi di chiusura in situazioni spesso disagevoli, avevano estrema necessità di fare attività all’aperto. Così maestre e docenti in pensione o ancora nella scuola, nell’estate 2020 hanno programmato un palinsesto di attività gratuite che hanno coinvolto più di cento bambini e adolescenti. Quest’anno per organizzare il nuovo calendario l’associazione ha coinvolto direttamente i ragazzi della scuola media del quartiere chiedendo a loro quali attività realizzare.




Il mutualismo e la solidarietà hanno dato luogo, durante il lockdown, a una dispensa alimentare (per 90 nuclei familiari) che agisce diversamente dal classico mutualismo caritatevole. Alle famiglie che accedono viene chiesto infatti di partecipare alle attività dell’associazione prestando aiuto alle persone in difficoltà o contribuendo al servizio della dispensa stessa, partecipando in base alle possibilità. La dispensa si trasforma così in uno strumento di coinvolgimento per quelle persone che ne usufruiscono, spesso poco partecipi alle iniziative.

La dispensa sociale ha dato poi origine al progetto “Negozi Solidali”, per vendere altro oltre ai viveri. Sono stati coinvolti 23 negozi tramite un sistema di buoni spesa che, pagati da altri residenti, possono essere utilizzati dalle famiglie in difficoltà assicurando loro beni che, seppur non di prima necessità, aiutano a migliorare la qualità della vita.

Il quartiere è uno spazio ricco di aree non utilizzate spesso diventate sedi di spaccio e malavita. Il tavolo spazi e parchi affronta questo problema cercando di rivitalizzare quegli spazi pubblici che potenzialmente potrebbero trasformarsi in aree gioco e di socialità. La prima idea nata dal tavolo di lavoro è la riapertura dei cortili del quartiere, spazi di condivisione fino agli anni ’70 e divenuti oggi parcheggi e zone di transito.



Così, nell’estate del 2020, ha preso il via il progetto il “Treno dei Desideri”, spettacolo teatrale itinerante che vede come protagonista un treno “viaggiatore” che sosta nei cortili dei palazzi offrendo ai residenti divertimento e, per molti, un’esperienza unica. Le persone del quartiere si spostano per seguire il Treno, e così facendo si incontrano, si conoscono e creano legami. Oggi l’impegno del tavolo è riportare in vita un’area verde abbandonata per offrire al quartiere uno spazio verde – rinominato “Parco del Sole Autogestito” – dove giocare e, come sempre, incontrarsi.

Questi sono i primi dodici mesi di vita di Associazione Via Milano 59, una realtà esplosiva che considera la cultura e la socialità come “cure” in grado di migliorare la vita delle persone. Stare insieme per stare bene, star bene stando insieme, questo il filo rosso che muove con successo l’associazione.

fonte: www.italiachecambia.org


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CITTÀ CIRCOLARI: LA STRATEGIA DI ROTTERDAM





I Paesi Bassi si sono dati obiettivi di circolarità decisamente sfidanti, e le città hanno un ruolo di protagoniste in questa transizione. Rotterdam, con il suo porto e le sue industrie, ha delineato un percorso al 2030 che le consentirà di ridurre emissioni e consumi di materiali, generando nel contempo nuova occupazione e migliorando la qualità della vita dei cittadini.

Creare città e insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili rappresenta l’undicesimo Obiettivo di sviluppo sostenibile individuato dall’Agenda 2030 dell’Onu. Per raggiungerlo e, al tempo stesso, creare un’economia circolare e rigenerativa, i Paesi Bassi hanno definito la tabella di marcia da qui al 2050. Il programma del governo olandese, “Nederland circulair in 2050” ha tra i principali obiettivi la riduzione del 50% nell’uso delle materie prime entro il 2030, puntando sul riuso efficiente e sulla riprogettazione di prodotti e materiali. Per l’implementazione pratica del programma il governo ha individuato quali attori cardine un gruppo di città pioniere, in collaborazione tra di esse. Tra queste città faro per la creazione di strategie circolari e di adattamento locale emerge Rotterdam. Grazie a una serie di programmi e investimenti, la città olandese punta sul suo porto, e non solo, per essere modello di circolarità a livello mondiale.
Impegnata a diventare una città sostenibile e resiliente, ma ancora fortemente dipendente dai combustibili fossili, Rotterdam ha un piano di transizione energetica molto ambizioso. Per saperne di più Materia Rinnovabile ha intervistato Arno Bonte, vicesindaco di Rotterdam per la sostenibilità, l’aria pulita e la transizione energetica.



Nel 2017, con il report Rotterdam Circulair, Gemeente Rotterdam, la municipalità, ha fissato degli obiettivi molto ambiziosi da raggiungere entro il 2030 per quanto riguarda le materie prime e i flussi di rifiuti. Quattro anni dopo, a che punto del percorso siete?
Nel 2017 ci siamo dati tre obiettivi principali: quello di dimezzare le emissioni di anidride carbonica, quello di ridurre l’uso delle materie prime del 50% e quello di ottenere una migliore qualità dell’aria. Tenendo sempre ben in mente questi obiettivi, stiamo cercando di cambiare la nostra economia e anche il modo in cui organizziamo la città, la mobilità, la costruzione degli edifici. Dopo quattro anni, se si guarda alla riduzione della CO2 abbiamo fatto grandi progressi. Il trend di crescita dell’anidride carbonica è stato invertito, e le emissioni di CO2 sono in diminuzione. Ma la strada è ancora lunga, e lo stesso vale per la riduzione dell’uso di materie prime. Sostenendo progetti locali e motivando i cittadini a separare i rifiuti, siamo riusciti a ridurre effettivamente la quantità di rifiuti prodotta e ad aumentare la quantità di plastica da riciclare. Siamo però ancora in una fase iniziale. La fase successiva verterà su un imponente ampliamento di questo progetto.

Come pensate di ampliare il progetto e accelerare la transizione circolare?
Abbiamo introdotto l’Energietransitiefonds, un fondo per la transizione energetica di 100 milioni di euro che punta a investire in start-up, scale-up e aziende sostenibili in grado di accelerare non solo la transizione energetica, ma anche quella circolare. Con questi fondi, se da un lato siamo in grado di aiutare le aziende a portare avanti i loro progetti, dall’altro come municipalità diventiamo investitori in prima persona. Non è l’obiettivo principale del fondo, ma se negli anni da questi investimenti dovessimo ottenere delle entrate, potremmo anche utilizzarle per nuovi investimenti.

Come municipalità state effettuando un percorso: le aziende le condividono?
Sì, negli scorsi anni, mostrando chiaramente i nostri obiettivi, siamo venuti in contatto con oltre 100 tra aziende e organizzazioni. Nel novembre 2019 con loro abbiamo firmato il Rotterdam Climate Agreement, un accordo che vede impegnati il comune di Rotterdam, le aziende e le organizzazioni a far diventare la transizione una realtà. Grazie a questo accordo abbiamo delineato insieme il percorso verso il futuro circolare di Rotterdam su cinque temi principali: porto e industria, ambiente, mobilità, energia pulita e consumi.

Anche il porto di Rotterdam, quindi, fa parte di questo accordo?
Certamente. Insieme all’Haven van Rotterdam abbiamo fatto piani per creare nel porto un hub circolare per il riciclo di tessuti e plastiche. E abbiamo mosso i primi passi per diventare leader nella bioeconomia. Siamo ancora estremamente dipendenti dai combustili fossili, ma la nostra ambizione è di diventare leader nella sostenibilità entro 10 anni. Crediamo che non sia solo necessario per il futuro del pianeta, ma anche per il futuro della nostra economia locale. Dobbiamo cambiare ora per essere competitivi in futuro.

Come si collega la strategia locale di Rotterdam a quella per il clima del governo nazionale?
Le ambizioni nazionali e locali sono strettamente collegate. Entrambi prendiamo molto sul serio gli accordi di Parigi. L’area metropolitana di Rotterdam è responsabile del 20% delle emissioni di anidride carbonica dei Paesi Bassi. Ciò è dovuto all’enorme area industriale di cui disponiamo. Ci sentiamo, quindi, moralmente responsabili e sentiamo la necessità di agire contro il cambiamento climatico.
Essendo la città nel mezzo del delta del fiume Maas, siamo anche molto vulnerabili. È nel nostro interesse agire e, contemporaneamente, le nostre ambizioni locali possono aiutare i Paesi Bassi a raggiungere i propri obiettivi climatici. Come città possiamo fare molto in tale direzione, come appunto la creazione dell’Energietransitiefonds, e lavorare con aziende che si attivano in maniera indipendente. Tuttavia, abbiamo anche bisogno dell’aiuto finanziario del governo nazionale e dell’Unione europea per fare un passo ancora più lungo. Al momento disponiamo, per esempio, di un’infrastruttura relativamente piccola basata sull’idrogeno, abbiamo bisogno di maggiori fondi per espandere questa infrastruttura e creare un’industria più sostenibile.

Il supporto del governo nazionale nelle politiche di Rotterdam è quindi cruciale?
Siamo leader in Europa sulla transizione circolare, ma, a volte, quando si è all’avanguardia, entrano in campo anche il rischio di fallire e il bisogno di sperimentare nuove attività. Non è sempre facile. Perciò, come città abbiamo anche bisogno del sostegno del governo nazionale sia a livello finanziario, sia con delle modifiche a livello legislativo. Ma ci vuole tempo. Siamo sempre più ambiziosi, a volte vogliamo andare più veloci di quanto il governo nazionale voglia fare. Possiamo contare sul supporto del governo nazionale se continuiamo a dimostrare che gli investimenti che servono a rendere la città e il porto di Rotterdam più sostenibili hanno successo e possono contribuire anche a realizzare gli obiettivi nazionali.

Considerando il piano legislativo, quale sarebbe la prima cosa che vorrebbe chiedere di cambiare al nuovo governo olandese?
Quello che aiuterebbe molto – e penso che valga per i Paesi Bassi come per molti altri paesi – sarebbe una modifica alla tassa sul lavoro, che è molto più alta rispetto alla tassa sull’uso dei materiali. Intervenire su queste tasse sarebbe più conveniente anche dal punto di vista economico e aiuterebbe a riutilizzare e riciclare i prodotti e i materiali esistenti e già in circolo. Si tratta di un cambiamento che non possiamo apportare a livello locale, abbiamo bisogno del governo nazionale o anche di quello europeo.

Oltre al livello legislativo, quali altre sfide saranno cruciali per Rotterdam, e per i Paesi Bassi in generale, nella transizione circolare ed energetica?
I finanziamenti, a livello locale, nazionale ed europeo, sono fondamentali per la riuscita della transizione. Con i nostri fondi locali per la transizione energetica, possiamo sostenere le start-up e la diffusione delle competenze, ma per i grandi investimenti nelle infrastrutture, come nel caso dell’idrogeno, abbiamo bisogno di finanziamenti nazionali e, in parte, anche di quelli europei. Queste sono le richieste che abbiamo fatto sia al nuovo governo olandese sia all’Unione europea. Pensiamo che le proposte in tale direzione possano anche aiutare il Green Deal europeo. Dopo che avremo dimostrato con i fatti che la transizione può essere compiuta, potremo anche condividere le nostre conoscenze ed esperienze con le altre città europee.

Pensa che il modello di Rotterdam sia replicabile altrove, anche considerando i fondi stanziati dall’Unione europea per supportare la transizione circolare?
Sì e no. Se penso al Porto di Rotterdam e ai passi che stiamo compiendo verso un’economia dell’idrogeno, credo che tutti gli aspetti tecnici possano essere copiati da altre città industriali. Parzialmente può essere replicato anche il modo in cui lavoriamo per ottenere il sostegno delle imprese, degli imprenditori e dei nostri cittadini. Siamo abituati a cooperare e a discutere: è uno dei fattori cruciali del nostro approccio, ma questo è anche un elemento culturale olandese. Per cui in altre realtà approcci diversi, più calati a livello locale, sarebbero probabilmente più produttivi.

Come vede Rotterdam tra 10 anni?
La Rotterdam che sogno tra 10 anni è una città che non solo ha realizzato la transizione verso un’economia sostenibile, ma ha anche creato nuovi posti di lavoro. In primo luogo, penso ai nuovi posti di lavoro che possono essere creati nell’industria eolica off-shore. Si tratta di un settore al momento emergente, ma che in futuro sarà una delle principali industrie anche nel porto di Rotterdam.

Quando parla di posti di lavoro c’è un numero concreto che ha in mente?
È molto difficile prevedere un numero preciso. Entrano in campo fenomeni come la digitalizzazione e la robotizzazione che, a oggi, sono difficili di quantificare. Però posso dire che, al momento, circa l’80% dei posti di lavoro esistenti nel settore industriale e nel Porto di Rotterdam è legato all’industria fossile. Spero che nel giro di 10 anni avremo capovolto questa tendenza, vale a dire che l’80% dei posti di lavoro sarà legato all’industria sostenibile. Ed è a questa nuova industria e nuova economia che stiamo lavorando. Sogno un’economia che faccia uso di fonti di energia sostenibile, che sia circolare, ma che, prima di ogni cosa, crei una città più verde e sana. Cerchiamo sempre di collegare anche l’elemento sociale. Economia sostenibile e competitiva, nuovi posti di lavoro, città verde e sana devono andare di pari passo con persone che respirano aria pulita e sono felici di vivere a Rotterdam.

fonte: www.renewablematter.eu
 


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Un nuovo gruppo di città europee intraprende la strada della sostenibilità

Solo una città italiana in gara per il premio European Green Capital e due per quello European Green Leaf. Sinora, dal 2010, mai nessuna città italiana ha vinto uno dei due premi



Il nuovo ciclo di premi per le città verdi europee vede 30 città di tutta Europa concorrere per diventare i prossimi vincitori europei del Premio Capitale Verde Europea e del Premio Foglia Verde Europea.

16 città di 12 paesi hanno fatto domanda per il concorso European Green Capital 2023 (EGCA 2023), mentre 14 città di otto paesi hanno aderito al concorso European Green Leaf 2022 (EGLA 2022).

I vincitori saranno annunciati nel 2021 e riceveranno un fondo combinato di un milione di euro.

Le 16 città in competizione per il Premio Capitale Verde Europea 2023 sono: Belgrado, Serbia; Cagliari, Italia; Dublino, Irlanda; Gaziantep, Turchia; Danzica, Polonia; Helsingborg, Svezia; Smirne, Turchia; Košice, Slovacchia; Cracovia, Polonia; Logroño, Spagna; Rzeszów, Polonia; Skopje, Repubblica di Macedonia del Nord; Sofia, Bulgaria; Tallinn, Estonia; Varsavia, Polonia; e Zagabria, Croazia.

Le 14 città in competizione per il Premio Foglia Verde Europea 2022 sono: Arcos de Valdevez, Portogallo; Bistriţa, Romania; Elsinore, Danimarca; Frascati, Italia; Gavà, Spagna; Haskovo, Bulgaria; Las Rozas de Madrid, Spagna; Oliveira do Hospital, Portogallo; Petrinja, Croazia; Pleven, Bulgaria; Sisak, Croazia; Treviso, Italia; Valongo, Portogallo; e Winterswijk, Paesi Bassi.
La scelta delle città vincitrici

Un gruppo di dodici esperti indipendenti avvierà ora una valutazione tecnica di ciascuna candidatura per selezionare una rosa di città finaliste per entrambi i premi. Il panel valuterà le domande di Capitale Verde Europea sulla base di 12 indicatori ambientali. Una rosa di città finaliste sarà annunciata nella primavera del 2021 e le città selezionate saranno invitate a presentare ad una giuria internazionale, presieduta dalla Commissione europea.

Le città finaliste dell'EGCA 2023 presenteranno ciascuno un piano d'azione su come la loro città intende realizzare l'anno della Capitale Verde Europea, progetti/azioni che intende mettere in atto per migliorare la sostenibilità ambientale della città, nonché una strategia di comunicazione.

Per l'European Green Leaf Award, il gruppo di esperti valuterà le candidature sulla base di sei aree tematiche ambientali. Analogamente, nella primavera del 2021 sarà annunciata una rosa di città finaliste di EGLA 2022 per presentare le loro proposte alla Giuria internazionale.

I vincitori saranno annunciati in una cerimonia di premiazione nel 2021 a Lahti, in Finlandia, che è la Capitale Verde Europea per il 2021. La città vincitrice di EGCA 2023 riceverà 600.000 €, mentre fino a due città/città vincitrici di EGLA 2022 riceveranno 200.000 € ciascuna da utilizzare in progetti / azioni per migliorare la sostenibilità ambientale della città e raggiungere la visione di sostenibilità della città.
Il significato e i precedenti dei premi

Con più di due terzi della popolazione europea che vive in aree urbane, i premi Capitale Verde Europea e Foglia Verde Europeo mirano a riconoscere i risultati ambientali delle città e delle città che si battono per la sostenibilità urbana e l'eco-sostenibilità e ispirare gli altri ad intraprendere azioni positive per rendere le loro città adatte alla vita.

Vincere il Premio Capitale Verde Europea e il Premio Foglia Verde Europea è un sigillo di approvazione da parte della Commissione Europea e porta molti benefici: una maggiore copertura mediatica internazionale, un impulso all'orgoglio locale, una maggiore attenzione ai progetti ambientali e un aumento degli investimenti esteri. Tutte le città finaliste e vincitrici hanno inoltre accesso a una rete di finalisti precedenti e città vincitrici in cui condividono conoscenze su come superare le sfide principali.

Altre tredici città hanno vinto il Premio Capitale Verde Europea: Stoccolma (2010), Amburgo (2011), Vitoria-Gasteiz (2012), Nantes (2013), Copenaghen (2014), Bristol (2015), Lubiana (2016), Essen (2017), Nijmegen (2018), Oslo (2019), Lisbona (2020), Lahti (2021) e Grenoble (2022).

Dopo il successo del Premio Capitale Verde Europea, il Premio Foglia Verde Europeo è stato istituito nel 2015 per riconoscere gli sforzi e i risultati ambientali delle città più piccole con 20-99.999 abitanti. Lo stesso gruppo di 12 esperti valuta le candidature ricevute sulla base di sei aree tematiche ambientali e seleziona i finalisti.

Finora altre undici città hanno vinto un premio europeo Green Leaf: Mollèt del Valles, Spagna e Torres Vedras, Portogallo (2015); Galway, Irlanda (2017); Lovanio, Belgio e Växjö, Svezia (2018); Cornellà de Llobregat, Spagna, e Horst aan de Maas, Paesi Bassi (2019); Limerick, Irlanda e Mechelen, Belgio (2020); e Gabrovo, Bulgaria e Lappeenranta, Finlandia (2021).

fonte: www.arpat.toscana.it

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Orti urbani: utili, ma non sufficienti. Lo studio prospettico sulla città di Chicago

 











Gli orti urbani negli ultimi anni hanno conosciuto uno straordinario successo in moltissime città del mondo. La pandemia ha poi accelerato il fenomeno, sia perché ha messo in luce le vulnerabilità dei sistemi di rifornimento globali, sia perché ha costituito un utile diversivo ai lockdown, permettendo a moltissime persone di contenere il rischio di depressione e di problemi legati alla scarsa mobilità grazie alla possibilità di stare all’aperto e di svolgere attività fisica, avendo allo stesso tempo verdure coltivate personalmente, e a km zero. A questi si guarda dunque con grande interesse, via via che cresce l’urbanizzazione e aumenta il numero di persone che necessitano di vegetali freschi in aree ad alta densità abitativa. Ma sono un’alternativa reale all’attuale sistema produttivo? Possono essere sufficienti a rendere una comunità autonoma? La domanda se la sono posta i ricercatori dell’Università della Pennsylvania, che hanno condotto una serie di studi sulla città di Chicago e delle zone limitrofe e hanno pubblicato quanto ottenuto su Environmental Science and Technology.

Per capire quanto fosse rilevante l’apporto degli orti impiantati nelle aree verdi disponibili e sui tetti, gli autori hanno preso in considerazione la produzione media di 18 nutrienti essenziali derivanti dai vegetali ma anche da fonti animali, e l’hanno messa a confronto con le dosi giornaliere pro capite stabilite dal Dipartimento dell’Agricoltura. Quindi hanno prefigurato due scenari: uno di controllo, simile alla realtà attuale e incentrato su coltivazioni e allevamenti industriali, e uno nel quale tutta la città sfrutti al massimo le coltivazioni urbane, e ricorra alle terre adiacenti. Quindi hanno calcolato quanto dovrebbe estendersi, in queste ultime, l’area coltivata per ottenere quantitativi sufficienti di nutrienti, e hanno così dimostrato che gli orti urbani non bastano. stato calcolato che le rese non sarebbero sufficienti a garantire se non una piccola parte del fabbisogno quotidiano di nutrienti essenziali per gli abitanti di una città come Chicago.


Gli orti urbani negli ultimi anni hanno conosciuto uno straordinario successo, accelerato dalla pandemia

A parte il paradosso di dover ricorrere a supplementi partendo dall’idea di disporre di prodotti più naturali e meno trattati, i quali alimenterebbero, a loro volta, coltivazioni e allevamenti industriali, i numero lasciano poco spazio ai dubbi. Orti e terrazzi sono utili da molti punti di vista, ma assai difficilmente rappresenteranno una soluzione. Oltre a tutto il resto – hanno ricordato gli autori – bisogna anche fare i conti con le scarse rese, perché le terre disponibili nelle città non sono certo le più adatte alle coltivazioni, e gli spazi quali i tetti possono essere sfruttati solo in misura limitata, a meno di non attuare profonde ristrutturazioni e di non ricorrere interamente a sistemi efficienti quali l’idroponica.

Ma lo studio ha anche un’altra conseguenza. Grazie all’analisi approfondita del fabbisogno di ben 28 nutrienti, può costituire un modello per chi vuole progettare orti urbani e, ancora di più, per i decisori che devono pianificare progetti più ampi. Se si tengono in conto le necessità nutrizionali di una certa popolazione (per esempio quella di un quartiere), si possono insediare colture mirate. In questo modo si possono ottenere raccolti bilanciati, che darebbero un contributo migliore all’autosufficienza della zona.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Urgente l’adattamento agli impatti dei cambiamenti climatici per i Paesi e le città europee

La costruzione sulle pianure alluvionali, l’aumento della copertura delle superfici del suolo con cemento o asfalto, la piccola quantità di spazi verdi e l’espansione urbana che invade le aree soggette a incendi e frane stanno rendendo le città e le cittadine molto più vulnerabili





Affrontare l’adattamento ai cambiamenti climatici nelle città è sempre più urgente poiché quasi il 75% degli europei vive in aree urbane. Questo numero dovrebbe crescere nei prossimi anni. Inoltre, il modo in cui pianifichiamo e costruiamo le nostre città rimane insostenibile, lo afferma il rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente (EEA) “Adattamento urbano in Europa: come le città e i paesi rispondono ai cambiamenti climatici.”

https://www.snpambiente.it/wp-content/uploads/2021/01/TH-AL-20-020-EN-N-Urban-adaptation-in-Europe-compresso.pdf

In particolare, la continua costruzione sulle pianure alluvionali, l’aumento della copertura delle superfici del suolo con cemento o asfalto, la piccola quantità di spazi verdi e l’espansione urbana che invade le aree soggette a incendi e frane stanno rendendo le città e le cittadine molto più vulnerabili.

Il rapporto fornisce informazioni sullo stato di avanzamento dei lavori sulla pianificazione europea dell’adattamento ai cambiamenti climatici e sugli sforzi compiuti a livello locale.

Sebbene molte autorità locali abbiano compreso l’importanza di diventare resilienti ai cambiamenti climatici, i progressi nella pianificazione dell’adattamento rimangono lenti.

L’attuazione delle misure di adattamento e il monitoraggio dell’efficacia di queste azioni sono ancora più lenti. Il rapporto afferma che le misure attualmente messe in atto si concentrano principalmente sullo sviluppo della conoscenza, sulla sensibilizzazione o sugli 
indirizzi politici.



Le soluzioni di adattamento fisico, come lo sviluppo di più spazi verdi per ridurre gli impatti delle ondate di calore o l’adeguamento dei sistemi fognari per far fronte alle inondazioni improvvise, non sono state ancora implementate allo stesso modo in tutta Europa.

L’adattamento delle città è necessario anche dal punto di vista economico. Le aree urbane sono centri economici chiave sede di industrie e servizi. È necessaria un’azione concertata a tutti i livelli di governance – dall’UE al nazionale al locale – per sostenere l’adattamento urbano attraverso un migliore accesso alla conoscenza e ai finanziamenti, l’impegno politico e l’impegno della comunità e l’integrazione dell’adattamento in tutti i settori politici.

Un altro rapporto dell’EEA, “Monitoraggio e valutazione delle politiche nazionali di adattamento durante il ciclo politico“, sottolinea l’importanza del monitoraggio, della rendicontazione e della valutazione e presenta le esperienze apprese su come migliorare le strategie e i piani di adattamento nazionali in futuro.

https://www.snpambiente.it/wp-content/uploads/2021/01/TH-AL-20-15-EN-N-Monitoring-and-evaluation-compresso.pdf

Il rapporto presenta anche esempi di come gli indicatori possono svolgere un ruolo importante nel monitorare i progressi dell’attuazione e aiutare a comprendere l’efficacia di diversi approcci e misure. Oltre agli indicatori locali e nazionali, ulteriori indicatori a livello europeo possono migliorare il quadro di adattamento in tutta l’UE.

fonte: wwww.snpambiente.it


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Le città italiane strette tra nuovi poveri e spreco alimentare

Un nuovo studio mostra che serve una gestione integrata, cioè che guardi veramente al cibo dal campo alla tavola, fino alla gestione del rifiuto




Mentre a causa della pandemia si stima che in Italia oltre 2 milioni di famiglie scivoleranno nella povertà assoluta – segnando un +50% sul 2019 –, la Fao stima che a livello globale più di un terzo del cibo sia perso o sprecato lungo l’intera catena di produzione del cibo. Si tratta di un problema che si concentra nelle città, dove ormai vive oltre la metà della popolazione mondiale e dove si consuma dal 70 all’80% di tutte le risorse alimentari prodotte. Ecco perché il nuovo studio Urban food waste: a framework to analyse policies and initiatives parte da qui, prendendo in esame 40 città europee in 16 diversi Paesi, per elaborare una nuova metodologia in grado di valutare le politiche e le iniziative delle città per la lotta allo spreco alimentare.

«Le città possono andare a incidere direttamente su tanti settori o elementi del sistema alimentare urbano – spiega la co-autrice Marta Antonelli, senior scientist presso la Fondazione Cmcc e direttore ricerca di Fondazione Barilla –, che poi determinano le dimensioni della sicurezza alimentare per i cittadini. Come? Attraverso l’azione sui mercati rionali, le mense scolastiche, le mense caritatevoli, gli incentivi per ridurre gli sprechi, etc».

Il problema, come accennato, si concentra nelle città ma i suoi riflessi sono ormai globali. Secondo le stime Fao lo spreco alimentare rappresenta fino al 10% delle emissioni globali di gas serra, e ha un’impronta idrica pari a cinque volte il volume del lago di Garda. Solo in Europa, con 88 milioni di tonnellate di cibo sprecato ogni anni (pari a 173 kg a testa), si stima inoltre che il 15% degli impatti totali sull’ambiente della catena di produzione del cibo siano attribuibili proprio agli sprechi alimentari.

In questo contesto l’Italia è comunque riuscita a fare dei passi avanti, negli ultimi anni. Secondo l’ultima indagine pubblicata – all’inizio di quest’anno – dall’Osservatorio waste watcher, c’è stata una riduzione del 25% nello spreco alimentare. Ma a livello nazionale continuano a finire nel cestino 65kg di cibo pro capite l’anno, con perdite economiche pari a 6,5 miliardi di euro.

Con la pandemia, paradossalmente la situazione potrebbe però tornare a peggiorare. Come dettaglia Antonelli in riferimento ai risultati emersi nello studio, «a fronte di una perfetta edibilità del cibo, si osservano spesso perdite (nelle prime fasi della filiera alimentare, nel tragitto tra il campo e la vendita al dettaglio), oppure sprechi (nelle ultime, a livello di vendita al dettaglio e di consumo), con significativi impatti a livello economico, sociale e ambientale. Anche senza considerare l’emergenza Covid-19, che ha ulteriormente aggravato la situazione, ogni anno il 14% circa dei prodotti alimentari va perso in tutto il mondo prima di raggiungere il mercato; i motivi sono molteplici, e spaziano da problemi alle infrastrutture, vizi di manipolazione, inadeguatezza delle modalità di trasporto, condizioni meteorologiche estreme, fino a problemi nello stoccaggio e conservazione dei prodotti, che colpiscono soprattutto i cibi più deperibili, come frutta e verdura. Per quanto riguarda invece lo spreco ‘a valle’, imputabile ai consumatori o agli addetti al servizio della ristorazione, le ragioni sono soprattutto di tipo comportamentale».

Cosa possono fare le città per contribuire a migliorare? L’analisi cui ha collaborato il Cmcc mette in luce anche come molte città (in Italia, Bari, Bologna, Milano, Torino, Genova, Venezia e Cremona, con iniziative sia pubbliche che private) stiano utilizzando la lotta allo spreco per andare ad alleviare la povertà alimentare e l’esclusione sociale delle fasce più vulnerabili della popolazione, per esempio attraverso sistemi di donazione delle eccedenze di cibo, o la creazione di nuove opportunità di lavoro nell’economia circolare.

Adesso il primo passo sta nel riuscire a fare rete. «Se andassimo a vedere le azioni che i diversi comuni italiani hanno intrapreso sul sistema alimentare, vedremmo – osserva Antonelli – che le azioni sono molteplici; quello che è ancora raro, è avere una gestione integrata, cioè che guardi veramente al cibo dal campo alla tavola, fino alla gestione del rifiuto, in maniera integrata, multi-settoriale, e di conseguenza anche multi-attoriale».

fonte: www.greenreport.it


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Studio: le città hanno un ruolo chiave nella battaglia contro lo spreco alimentare

Un nuovo studio, realizzato con la collaborazione della Fondazione CMCC, mette in luce il ruolo decisivo delle città nella lotta agli sprechi alimentari. Un metodo specifico valuterà le politiche e le iniziative sullo spreco alimentare urbano applicabile a qualsiasi città





















Le città si stanno affermando come attori chiave nella lotta allo spreco alimentare: qui si concentra ormai oltre la metà della popolazione mondiale, dato che i centri urbani occupano oggi circa il 3% della superficie terrestre e che per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione urbana ha superato quella rurale e vi viene consumato tra il 70% e l’80% delle risorse alimentari prodotte; è sempre qui che si stanno sperimentando tutta una serie di azioni per rendere più sostenibile il sistema alimentare. Dall’esame di 40 città europee in 16 diversi Paesi, uno studio pubblicato di recente sulla rivista Resources - Special issue Food Loss and Waste: The Challenge of a Sustainable Management through a Circular Economy Perspective presenta una nuova metodologia per valutare le politiche e le iniziative delle città per la lotta allo spreco alimentare.

Attraverso un’analisi della letteratura del settore, gli autori dello studio hanno cercato di delineare una mappa di quelle che sono le iniziative a livello urbano per la lotta allo spreco alimentare. Sono inoltre andati a vedere quale fosse la loro relazione con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, evidenziando il ruolo fondamentale che le città possono avere per il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Lo studio ha evidenziato la grande molteplicità di politiche e di attori coinvolti nella lotta allo spreco alimentare, uno specchio interessante, più in generale, delle azioni sul sistema alimentare: molte delle politiche implementate sono finalizzate a fornire informazioni corrette ai cittadini e ad accrescere la loro consapevolezza (campagne e azioni di sensibilizzazione), altre sono politiche basate su strumenti del mercato, come ad esempio incentivi fiscali, o politiche regolatorie, che stabiliscono degli obiettivi da raggiungere. Ci sono poi le cosiddette iniziative di nudging, interventi che vogliono andare, in maniera non coercitiva, a influenzare l’adozione di determinati comportamenti ritenuti di valore positivo per la società. L’analisi mette in luce anche come molte città (in Italia, Bari, Bologna, Milano, Torino, Genova, Venezia e Cremona, con iniziative sia pubbliche che private) stiano utilizzando la lotta allo spreco per andare ad alleviare la povertà alimentare e l’esclusione sociale delle fasce più vulnerabili della popolazione, per esempio attraverso sistemi di donazione delle eccedenze di cibo, o la creazione di nuove opportunità di lavoro nell’economia circolare.

Lo spreco, un quadro generale

Lo spreco alimentare è, in effetti, uno dei problemi più urgenti legato alla produzione del cibo: l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura (FAO) stima che più di un terzo del cibo sia perso o sprecato lungo l’intera catena di produzione del cibo. Se si considerano gli impatti sull’ambiente, lo spreco alimentare rappresenta fino al 10% delle emissioni globali di gas serra, mentre l’impronta idrica annuale della fase agricola dello spreco alimentare è di 250 km3, pari a cinque volte il volume del lago di Garda e più alta di qualsiasi impronta idrica nazionale legata ai consumi alimentari. Il rapporto Speciale dell’IPCC Climate Change and Land (2018) stima che fino al 37% delle emissioni globali totali siano attribuibili al sistema alimentare considerato nel suo complesso, dalla produzione fino al consumo e allo spreco. In Europa, con 88 milioni di tonnellate di cibo sprecato ogni anno (pari a 173 kg a testa) si stima inoltre che il 15% degli impatti totali sull’ambiente della catena di produzione del cibo siano attribuibili proprio agli sprechi alimentari.

“La gestione dello spreco alimentare è una sfida complessa”, spiega Marta Antonelli, senior scientist presso la Fondazione CMCC e Direttore Ricerca di Fondazione Barilla, “e le città possono andare a incidere direttamente su tanti settori o elementi del sistema alimentare urbano, che poi determinano le dimensioni della sicurezza alimentare per i cittadini. Come? Attraverso l’azione sui mercati rionali, le mense scolastiche, le mense caritatevoli, gli incentivi per ridurre gli sprechi, etc. La città di Milano, per esempio, ha ridotto la tassa sui rifiuti a chi dimezzava i propri livelli di spreco alimentare, e si è impegnata con tutta una serie di azioni, fra cui questo tipo di incentivi, a dimezzare lo spreco alimentare entro il 2030.” “La lotta allo spreco alimentare è una di quelle azioni che definiscono un sistema alimentare urbano integrato”, sottolinea Marta Antonelli. “Se andassimo a vedere le azioni che i diversi comuni italiani hanno intrapreso sul sistema alimentare, vedremmo che le azioni sono molteplici; quello che è ancora raro è avere una gestione integrata, cioè che guardi veramente al cibo dal campo alla tavola, fino alla gestione del rifiuto, in maniera integrata, multisettoriale, e di conseguenza anche multi-attoriale. In molte città si assiste adesso alla nascita di nuovi organismi di supporto, i cosiddetti “Food Policy Council”, esperienze partecipative, bottom up e multi-attoriali, che hanno avuto un ruolo importante anche nel creare quelle reti di advocacy che hanno richiesto al sistema istituzionale locale un approccio al cibo diverso, più sostenibile e integrato.”

Lo studio sottolinea l’importanza di fornire alle istituzioni cittadine strumenti efficaci per raccogliere dati sui livelli di spreco alimentare urbano, per valutare anche quantitativamente l’entità del problema e l’efficacia delle politiche messe in atto. Al momento, le lacune in fatto di metriche e dati sono notevoli. “È essenziale infine - conclude Antonelli - che le politiche messe in campo dalle città per la lotta allo spreco alimentare siano in linea con gli obiettivi definiti dall’Agenda 2030. Nel nostro studio, abbiamo visto che i legami con gli obiettivi di sviluppo sostenibile erano molteplici, ma che solo in pochissimi casi (Cremona, Liège, Milano e Montpellier) il riferimento era esplicito e diretto. Raramente le città usano gli obiettivi di sviluppo sostenibile come cornice politica di riferimento, e questo rende difficile una valutazione dell’impatto dei loro interventi sull’agenda della sostenibilità. Le città sono attive in tanti ambiti diversi del sistema alimentare, ma spesso manca una visione integrata, che metta in luce il fatto che se agisco sullo spreco alimentare posso anche indirizzare e intercettare altri obiettivi, come quelli di produzione agricola, attraverso una gestione circolare, o lavorare sull’esclusione socio-economica e sulla povertà alimentare. In questo senso la strategia “Farm to Fork” rappresenta il primo passo a livello europeo e internazionale per mettere sullo stesso piano aspetti del sistema alimentare che finora erano sempre stati trattati separatamente, partendo per esempio dal mettere sullo stesso piano salute umana e sostenibilità.”
L’analisi descritta nello studio potrà essere facilmente replicata e applicata ad altri contesti, anche non europei, e in futuro potrebbe essere utilizzata dalle città di quei Paesi in via di sviluppo che stanno iniziando adesso ad affrontare simili sfide.

Leggi la versione integrale dello studio:
Urban Food Waste: A Framework to Analyse Policies and Initiatives

fonte: www.e-gazette.it/

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Sharing mobility, in Italia è boom per il bike sharing

Presentato il Rapporto annuale sul bike sharing alla IV Conferenza della Sharing Mobility. Il servizio è in rapida ascesa, con 35.000 biciclette a disposizione in 31 città in Italia.





31 città e oltre 35.000 bici a disposizione. Il Rapporto annuale sul bike sharing scatta una fotografia lusinghiera della rete di servizi di condivisione di biciclette in Italia, che si è resa protagonista di un vero e proprio boom di utilizzi subito dopo il lockdown.

I numeri del rapporto

L'analisi è stata presentata lo scorso 8 settembre, in occasione della web conference “I servizi di bike sharing in Italia: dati e assetti di governance” dall'Osservatorio Nazionale sulla Sharing Mobility. L'organismo, promosso dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile con i Ministeri dell’Ambiente e delle Infrastrutture, ha messo nero su bianco i risultati raggiunti dalle attività condivisione bici avviate nel Belpaese. Ne risulta che bike sharing è il servizio di sharing mobility più diffuso in Italia, insieme ai monopattini in sharing.

Lo studio è stato realizzato su 31 città italiane capoluogo di provincia: Bergamo, Bologna, Bolzano, Brescia, Como, Ferrara, Firenze, Forlì, Genova, La Spezia, Livorno, Mantova, Modena, Milano, Padova, Palermo, Parma, Pesaro, Pisa, Ravenna, Reggio Calabria, Reggio Emilia, Roma, Siena, Terni, Torino, Trento, Treviso, Udine, Venezia e Verona. I servizi attivi nelle città selezionate sono 39 (+6 rispetto al 2018), mentre la flotta a disposizione è più che triplicata rispetto al 2015.

Le bici elettriche in condivisione sono 5.413 (il 15%) e di queste il 70% appartiene a servizi free-floating, caratterizzati da iscrizioni immediate e noleggi brevi: oltre il 50% dei noleggi infatti non ha una durata superiore ai 5 minuti e addirittura il 73% è inferiore ai 500 metri. Per quel che concerne lo station-based, invece, gli spostamenti si assestano maggiormente tra 1 e 2 km e il 60% dei noleggi dura tra i 6 e i 20 minuti.

Riguardo alla percentuale di utilizzo di ciascuna bici nelle 24 ore, il valore più alto viene fatto registrare a Brescia, con un utilizzo del 2,3%, equivalente a circa un'ora e 20 al giorno. Seguono Pisa e Torino, che può pregiarsi inoltre del servizio free-floating con il valore di utilizzo più elevato.

Ronchi: città italiane verso un modello di green city

Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, ha dichiarato: "I dati del rapporto annuale sul bike sharing ci confortano perché dimostrano che le città italiane stanno rapidamente evolvendosi verso un modello di green city che vede la mobilità condivisa al centro del progetto; sarà importante nei prossimi mesi e nei prossimi anni estendere questo modello virtuoso di mobilità anche nelle città italiane del centro sud, che potranno certamente replicare con successo quanto il bike sharing ha dimostrato nelle città del centro nord”.

Secondo il rapporto, dunque, un numero crescente di italiani riconosce nella bicicletta un mezzo capace di coniugare sicurezza (in termini sanitari) e rispetto ambientale. L'auspicio è che, a partire da tale trend, si adeguino progressivamente servizi e infrastrutture, fino a creare una rete di trasporto bike-friendly capace di offrire una reale alternativa agli inquinanti mezzi a motore.

fonte: www.nonsoloambiente.it


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PUMS: cosa sono e perché sono un’opportunità dopo la crisi

I Piani urbani di mobilità sostenibile, o PUMS, sono piani strategici che ogni città attua per favorire la mobilità alternativa e sostenibile.




Le città italiane devono migliorare la propria mobilità. Dopo il coronavirus, e con la necessità di conviverci per un po’ di tempo, dovranno anzi reinventarla alla base. E non basterà qualche chilometro di pista ciclabile. D’altronde non è un’esigenza recente. Già dal 2017, con il decreto del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti dedicato, sono state definite le linee guida per i cosiddetti Piani urbani di mobilità sostenibile.

Ogni PUMS è d’altronde un piano strategico che ogni città deve cucirsi addosso su misura. Con le stringenti esigenze di favorire mobilità alternativa e sostenibile e potenziare le corse dei mezzi pubblici il lavoro dev’essere ancora più chirurgico. Il tutto con una pianificazione intelligente e la partecipazione dei cittadini: se le persone non sentono un progetto come proprio e funzionale, difficilmente lo sposeranno, decretandone il fallimento.

I PUMS riguardano tutte le modalità e le forme di trasporto, pubblico e privato. Passeggeri e merci devono muoversi quotidianamente in modo sostenibile, con l’obiettivo di raggiungere dei macro obiettivi definiti nel dettaglio da ogni comune. Si parla ovviamente di riduzione delle emissioni inquinanti (il problema in Italia è gigantesco: ogni anno perdono la vita migliaia di persone), della creazione di zone a traffico limitato che premino i veicoli a impatto zero, delle regole di circolazione, dell’ingresso e sosta per i mezzi commerciali elettrici e in generale della transizione verso l’elettrico delle flotte del trasporto collettivo, forse uno dei temi principali. Senza dimenticare lo sharing elettrico e la distribuzione dei punti di ricarica, altro punto debole.

A tenere traccia di tutto quello che accade in questo settore è l’Osservatorio PUMS, nato nel 2016 grazie al supporto del ministero dell’Ambiente come evoluzione della rete europea Endurance per mantenere vivo il confronto con la realtà internazionale e monitorare continuamente lo stato dell’arte di questo strumento di politiche pubbliche. Ne fanno parte oltre 65 fra comuni, unioni di essi, province e città metropolitane, i player che hanno in mano le redini delle nuove geografie cittadine. D’altronde il PUMS è un obbligo delle amministrazioni, non una facoltà: tutte le città metropolitane e quelle sopra i 100mila abitanti devono dotarsene. E alle altre è fortemente consigliato farlo.

Tre gli stadi attraverso cui può passare un PUMS. Quello di “redazione”, quello dell'”adozione” il più delle volte con delibere comunali che devono essere sottoposte all’analisi di cittadini e altre organizzazioni e infinte l’approvazione. Allo scorso febbraio erano 164 le città che stavano discutendo il proprio PUMS: 36 sono stati approvati, 35 adottati e molti, 93, in fase di redazione. Al vertice la Puglia con 34 città, seguita dalla Lombardia con 18, la Toscana con 16, l’Emilia-Romagna con 15 e la Sicilia con 14.

La mobilità elettrica è evidentemente centrale per i PUMS, intorno ai quali spesso si innesca un dibattito piuttosto vivace e che comunque nelle ultime settimane ha visto un’accelerazione nelle approvazioni, anche nell’ambito del trasporto pubblico. In fondo il senso dei PUMS sta nel favorire il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Unione Europea per la riduzione delle emissioni di gas serra prevista entro il 2050 e il miglioramento della qualità dell’aria nei centri urbani.

In questo senso una rete di punti di ricarica pubblica, dentro e fra le città, è fondamentale: in Italia, con 60 milioni di persone e 40 milioni di automobili, non tutti dispongono di uno spazio privato o garage per una ricarica esclusiva. Per questo la distribuzione delle colonnine, altro elemento cardine dei Pums, è un fatto di democrazia e di opportunità di crescita per il settore. Uno dei primi problemi di chi fosse intenzionato a un acquisto a impatto zero è infatti proprio quello: dove ricaricherò l’auto e come? I centri abitati del presente, più che del futuro, dovranno viaggiare in quella direzione.

Un’altra testimonianza è il Piano nazionale per il rinnovo delle flotte dei mezzi del trasporto pubblico appena approvato, per cui sono stati stanziati 2,2 miliardi di euro. Sono fondi destinati fondamentalmente agli autobus per il trasporto urbano, metropolitano e regionale nel contesto del Piano nazionale per la mobilità sostenibile. Un primo stanziamento che andrà eventualmente aggiornato sulla scorta della disponibilità delle varie regioni al cofinanziamento per il 20% della cifra.

Lo stanziamento prevede, inoltre, che alle regioni del Sud sia destinato circa il 35% delle risorse messe in campo. Viene anche stabilito che le risorse assegnate nel primo triennio, sino al 50% del contributo concesso, possano essere destinate alla realizzazione della rete infrastrutturale per l’alimentazione alternativa (es. metano, idrogeno, elettrica).

Ecco perché la crisi del coronavirus può trasformarsi in un’opportunità: rimettere in moto il trasporto pubblico, ma anche quello privato, ma con un motore nuovo. Quello elettrico.

fonte: www.greenstyle.it


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