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Il nostro rapporto con l’auto

Oggi nel mondo circolano (si fa per dire, in realtà per lo più stanno fermi) 1,2 miliardi di automobili e ne vengono prodotte oltre 80 milioni all’anno. Le case automobilistiche stanno facendo di tutto per fare crescere quei numeri, ma il nostro pianeta non è in grado di ospitare una estensione della superficie stradale sufficiente a farle circolare, di fornire le risorse necessarie a costruirle, di generare l’energia necessaria a muoverle, di assorbire le emissioni che producono. La conversione ecologica parte anche da qui. Tuttavia non corrisponde a una transizione energetica verso le fonti rinnovabili né solo a una rimodulazione dei consumi, occorre abbandonare, a livello individuale e istituzionale, il paradigma della crescita. “C’è qualcosa di profondo, che riguarda il senso stesso della nostra esistenza sulla Terra, che vuole ritornare in primo piano per orientare l’intero arco dei nostri comportamenti – scrive Gudo Viale – Ma forse, proprio la riflessione su un dato banale come il nostro rapporto con l’auto può aiutarci a riorientare il nostro atteggiamento verso altre cose, anche molto più importanti…”


Tratta da unsplash.com

La mobilità, spostarsi da un posto all’altro, fa parte dell’essenza stessa della specie umana: che si è diffusa in tutti i continenti attraverso le migrazioni originarie, mentre altri spostamenti di massa sono stati effettuati da eserciti invasori, come nelle crociate, o da eserciti con al seguito interi popoli come nelle invasioni barbariche; o con deportazioni verso colonie di popolamento, compresa la tratta degli schiavi messa in atto tra il XVI e il XIX secolo.

La mobilità per scelta individuale è stata invece per secoli privilegio di ristrette élite: mercanti, esploratori, intellettuali, re e regine che prendevano possesso di nuovi territori con un matrimonio, pellegrini (l’equivalente degli hippies del ventesimo secolo).

Con la rivoluzione industriale, cioè con l’avvento della macchina a vapore, dell’uso massiccio del carbone, con il treno e i battelli a motore, l’accesso alla mobilità è andato allargandosi a sempre più gente (tanto che le migrazioni degli ultimi due secoli, per quanto abbiano mobilitato grandi masse, sono state in gran parte il risultato di scelte individuali). Il turismo di massa, promosso e reso possibile dalla diffusione dell’automobile, ha poi esteso l’accesso alla mobilità dall’ambito del lavoro e dalle esigenze esistenziali di base al piacere e all’uso del tempo libero.

Ma quasi contestualmente, la civiltà dell’automobile ha trasformato il mezzo di trasporto più usato da collettivo a individuale. Nata come “gingillo” di un’élite privilegiata, l’auto permetteva di evitare percorsi, fermate, orari fissi e “promiscuità sociale” durante il viaggio e nelle stazioni. Permetteva di andare dove si voleva, quando si voleva, con chi si voleva; a condizione di possederne una. Tuttavia, la sua diffusione a una platea sempre più vasta di utenti ha finito per annullare e invertire queste caratteristiche: oggi l’auto è la principale fonte di congestione delle strade e ruba spazio, tempo e salute a tutti, sia automobilisti che pedoni o utenti del servizio pubblico.

Con l’automobile la mobilità, da bene collettivo, è stata privatizzata e ha portato a una sorta di appropriazione privata del suolo stradale (per il transito e per il parcheggio), dell’aria (inquinandola), del tempo (bloccando nel traffico anche chi l’auto non la usa), mettendo a repentaglio il reddito di molte famiglie (i costi di acquisto e gestione raggiungono per molti quasi metà dello stipendio). Il tutto a scapito del trasporto pubblico che è un bene comune. Ma l’auto privata conserva, anche se solo in parte, il principale fattore che ne ha determinato il successo: per secoli l’élite ha continuato a spostarsi a cavallo, in carrozza o facendosi trasportare in portantina, mentre il popolo andava a piedi. L’auto ha permesso a chiunque di farsi trasportare dove vuole: di trasformarsi da fante in cavaliere. Non solo: la diffusione dell’auto privata corrisponde, ma soprattutto promuove, uno stile di vita “privato”, incentrato sull’individuo e sulla famiglia, valori al centro della cultura “americana” del XX secolo. Le principali aziende automobilistiche degli Stati uniti, in stretta collaborazione con i governi federali, statali e municipali, si sono adoperate per smantellare tutte le reti di trasporto pubblico collettivo per fare spazio all’automobile. Lo stesso hanno fatto molti altri governi dell’Occidente, e poi del mondo “comunista” e post-comunista, impegnando nello sviluppo dell’industria automobilistica e della rete stradale, e persino nella demolizione dei centri storici incompatibili con il traffico automobilistico, risorse sempre più ingenti sottratte alla mobilità collettiva. Se l’auto ha impresso il suo marchio su un’intera epoca (il XX secolo è stato indubitabilmente il secolo dell’automobile; oltre che della bomba atomica) non è però solo per aver trasformato i fanti in cavalieri. È stata per molto tempo, con la continua variazione e differenziazione dei modelli che Henry Ford, con il suo modello T, tutto nero e sempre uguale, non era riuscito a impedire, un imprescindibile status symbol. Oggi non lo è più, o lo è molto meno: nelle grandi città europee e in Giappone molti fanno ormai volentieri a meno di possedere un’auto propria.

Oggi nel mondo “circolano” (in realtà per lo più stanno fermi) un miliardo e 200 milioni di automobili e ne vengono prodotte oltre 80 milioni all’anno; nel 2030 dovrebbero raggiungere i due miliardi; nel 2050, con un tasso di motorizzazione pari a quello medio dell’Europa (in Italia è molto più alto) i cinque miliardi. Anche se fosse “fattibile” dal punto di vista economico – e non lo è – questo “sviluppo” non avrà luogo: il nostro pianeta non è in grado di ospitare una estensione della superficie stradale sufficiente a farle circolare, di fornire le risorse necessarie a costruirle, di generare l’energia necessaria a muoverle, di assorbire le emissioni che producono, se anche solo una parte di esse continuasse a utilizzare, direttamente o indirettamente, combustibili fossili. L’era dell’automobile, così come l’abbiamo conosciuta, è destinata a finire presto: in una generale catastrofe climatica, ambientale e sociale, oppure con la transizione a una mobilità condivisa, sia collettiva che personalizzata, più comoda, più economica, più sana e ambientalmente compatibile. Con le strade, soprattutto quelle urbane, sgombre da auto private in motto o parcheggiate, si apre uno spazio immenso per il potenziamento del trasporto pubblico, della mobilità flessibile e di quella dolce: biciclette e pedoni.

Ciò che ha permesso la nascita dell’era dell’automobile è stata una tecnologia: il motore a combustione interna; più leggero e meno ingombrante della macchina a vapore e soprattutto alimentato da un combustibile più duttile del carbone. Da tempo, lo sviluppo delle ICT ha reso possibili diverse forme, sia collettive che individuali, di condivisione del veicolo: car sharing, car pooling, anche dinamico (cioè combinato “in tempo reale”), trasporto a domanda. Se ci fossero servizi adeguati, possedere un’auto non sarebbe più necessario per poterla usare quando e come si vuole, e il loro numero potrebbe diminuire anche di un quoziente 5. Presto, ci dicono, arriverà l’auto a guida autonoma (anche se c’è da dubitare della sua diffusione). Niente sarebbe più ridicolo, allora, del possedere un’auto a guida autonoma posteggiata sotto casa o in un garage invece di chiamarne una quando serve, come oggi si fa con il taxi. D’altronde, come scrive l’economista Vincenzo Comito, la guida autonoma, ma anche solo la propulsione elettrica, sono destinate a trasformare l’auto in una specie di “telefono con le ruote”: fino all’80 per cento del suo valore sarà generato da settori che con l’auto tradizionale non hanno niente a che fare – motore elettrico, elettronica, informatica, telecomunicazioni, ecc. – e solo il 20 per cento rimarrà sotto il controllo dell’industria che l’ha prodotta finora. Ma se ne produrranno comunque molto di meno.

Oltre a ciò, per anni l’automobile è stata, e lo è ancora oggi, con i suoi impianti di produzione di massa, ma anche con le attività a monte – costruzione di strade, gallerie e viadotti, produzione e distribuzione di combustibile e di componenti, marketing e pubblicità – e a valle della sua produzione – rifornimento e manutenzione, custodia, grandi centri commerciali, gare e rally, vacanze – il principale “datore di lavoro” del secolo. Per questo, se è difficile staccarsene dal punto di vista della domanda, ancora di più lo è dal punto di vista dell’offerta: governanti e manager del pianeta, indissolubilmente legati al paradigma della crescita – che altro non è che accumulazione del capitale – e al mito che si debba lavorare sempre di più, anche se ad avere un “posto di lavoro” sono sempre di meno, non sanno con che cosa sostituirla come “motore dello sviluppo”.

Ma è proprio dal paradigma della crescita che dobbiamo prendere le distanze se vogliamo salvare quel che resta degli equilibri climatici e ambientali del pianeta e con essi il futuro della nostra specie. L’auto individuale, proprio per il ruolo centrale che ha avuto e ha ancora sia nello stile di vita di chi ce l’ha e nell’immaginario collettivo dei miliardi di esseri umani che non ce l’hanno (ma chi di loro non ne desidera una?) sia nel funzionamento di un sistema economico estrattivo, indissolubilmente legato alla crescita dei PIL, è di fatto – per il consumo di materiali, di spazio, di energia e di tempo che comporta – una sorta di “cartina al tornasole” del modo in cui viene concepita la transizione verso una società e un’economia sostenibili, ovvero la conversione ecologica. In questa critica, lascio da parte i negazionisti del clima, sempre di meno nel mondo del dire, ma sempre di più in quello del fare o, meglio, del non fare: cioè dei comportamenti effettivi.

Sta di fatto che per molti economisti, ma anche per molti “ambientalisti”, non c’è bisogno di rinunciare ad avere un’auto: la propulsione elettrica la renderà sostenibile – che ne sarà dei miliardi di esseri umani che ancora non ne hanno una non sembra fare problema – così come sostanzialmente non c’è da rinunciare alla maggior parte dei tratti che caratterizzano il nostro stile di vita (a partire dai viaggi e dalle vacanze, oggi la principale industria del pianeta, non a caso strettamente intrecciata con il mondo dell’auto). Il problema è renderli sostenibili. Ma come?

Con il disaccoppiamento tra aumento dei PIL e consumo delle risorse, rispondono: un vero e proprio mito, che a trent’anni dalla pubblicazione del rapporto delle Nazioni unite Our Common Future, curato da Gro Brundtland, è stato sistematicamente contraddetto dai fatti e smentito da tutte le ricerche empiriche in proposito (vedi per esempio la metaricerca Decoupling Debunked – Evidence and arguments against green growth as a sole strategy for sustainability, The European Environmental Bureau www.eeb.org, 2019). Ma questa è purtroppo la filosofia che sta alla base dei due programmi delle Nazioni Unite Millennium Development Goals 2000-2015 e, soprattutto, Sustainable Development Goals 2015-2030, che lo ha sostituito ed è tuttora in vigore. Molti di quegli obiettivi sono ovviamente condivisibili, ma l’obiettivo 8 del secondo programma, quello in vigore, lega in modo indissolubile creazione di “lavoro decente” e “crescita economica”, dove il driver è evidentemente la seconda. Ma, soprattutto, poiché il diavolo sta nei dettagli, al punto 17 dell’obiettivo 17 dei SDG, relativo alle partnership per sostenere lo sviluppo, troviamo la promozione di partnership pubblico-privato, che è la forma in cui in tutto il mondo vengono privatizzati i beni comuni, a partire dall’acqua; sotto la formula: proprietà pubblica ma gestione privata. Ma senza trascurare altre partite fondamentali come la sanità. Oggi, per esempio l’OMS è in gran parte in mano alle multinazionali del farmaco e ad alcune fondazioni filantropiche ad esse legate, che la finanziano; cosa all’origine, tra l’altro, del mantenimento del brevetto sui vaccini anti-covid. E la lotta contro la crisi climatica rischia di essere sequestrata dai grandi progetti di geoingegneria, promossi da figure come Bill Gates, finalizzati con tutta evidenza a mantenere in vita il ricorso ai combustibili fossili. Ma è difficile che anche l’evoluzione della mobilità non venga influenzata dai meccanismi di project financing in cui si materializza la partnership pubblico-privato, come sta avvenendo anche all’interno del PNRR italiano nel campo delle infrastrutture.

Non so quale consapevolezza dei rischi connessi a questo approccio ci sia in alcune delle organizzazioni che partecipano del progetto di Generazioni future e che propongono come riferimento obbligato, se non come vero e proprio programma politico, proprio gli SDG. A mio avviso, e della associazione Laudato sì di cui faccio parte, e della interpretazione dell’enciclica di papa Francesco di cui questa associazione si è fatta promotrice, la conversione ecologica non può limitarsi a una transizione energetica verso le fonti rinnovabili – il cui programma, peraltro, è ben lungi da una solida ricezione – né a una “rimodulazione dei consumi” che non metta in discussione i rapporti tra individui, popoli e il resto del vivente e l’intero pianeta; proprio quei rapporti che caratterizzano una economia estrattiva come quella in cui siamo immersi, paralizzata dall’incapacità di abbandonare il paradigma della crescita.

C’è qualcosa di profondo, che riguarda il senso stesso della nostra esistenza sulla Terra, che vuole ritornare in primo piano per orientare l’intero arco dei nostri comportamenti. Ma forse, proprio la riflessione su un dato banale, e apparentemente superficiale, come il nostro rapporto con l’automobile e con la civiltà dell’automobile può aiutarci a riorientare il nostro atteggiamento verso molte altre cose, anche molto più importanti.

fonte: comune-info.net


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Più servizi e mezzi, per le auto in condivisione triplicare obiettivi al 2030 e 100% elettrico

Il rapporto dell’Osservatorio nazionale sulla sharing mobility e Motus-E. La sharing mobility e l’elettrificazione possono diventare due grandi alleate strategiche. Il car sharing potrà essere il segnale di una ripresa e potrà contribuire a liberare le nostre strade dall’attuale affollamento di mezzi inquinanti. Il mezzo elettrico costituisce la soluzione ideale
















Servono maggiore scambio tra offerta e domanda, più servizi e più auto, un’estensione delle aree, un aumento delle città, un incremento di tipologie di carsharing e una maggiore penetrazione dei veicoli elettrici. Questo il quadro degli obiettivi strategici per la condivisione e l’elettrificazione delle auto in futuro – secondo il rapporto ‘Lo sviluppo di servizi di carsharing con veicoli elettrici – Soluzioni e proposte’, messo a punto dall’Osservatorio nazionale sulla sharing mobility e Motus-E – con un target al 2030 che punti alla triplicazione delle auto in sharing e una flotta 100% elettrica.

“Nel quadro italiano, che registra uno dei tassi di motorizzazione privata più alti del mondo, sharing mobility ed elettrificazione – dichiara Raimondo Orsini, responsabile dell’Osservatorio nazionale della sharing mobility – possono diventare due grandi alleate strategiche. I trasporti condivisi, come il carsharing, sono fondamentali per fornire ai cittadini un’alternativa efficace e competitiva che li incentivi a rinunciare all’auto di proprietà”.

Il documento, oltre a fare il punto su come promuovere lo sviluppo del carsharing in Italia avanza una serie di proposte e raccomandazioni al livello locale e nazionale, costituendo il primo punto di partenza per un confronto tra amministratori locali, operatori e decisori politici.

“Il car sharing potrà essere il segnale di una ripresa – conclude Dino Marcozzi, segretario generale di Motus-E – secondo una diversa civiltà della mobilità e potrà contribuire a liberare le nostre strade dall’attuale affollamento di mezzi inquinanti, oltre che svecchiare il parco auto e ripulire l’aria dai veleni del traffico. Il mezzo elettrico costituisce la soluzione ideale, anche quale esempio per consumatori e pubbliche amministrazioni verso una compiuta transizione ecologica”.

La promozione del carsharing elettrico deve tenere conto della fase di transizione che attraversa il settore e alcuni elementi di contesto, come la crisi pandemica, l’uscita dal mercato di alcuni operatori elettrici (sharen’go, Bluetorino) e l’ingresso di nuovi (LeasysGo a Roma, Milano e Torino). Un quadro complessivo in cui la quota di elettrificazione del carsharing è tornata ai livelli del 2015 pur rimanendo, tra i servizi di mobilità in cui si condivide un’auto, quello più elettrificato. Una delle criticità per la diffusione dell’e-sharing e della mobilità elettrica in generale resta la non sufficiente e poco uniforme diffusione delle infrastrutture di ricarica: i ‘distributori’ elettrici sono attualmente 9.709 con un totale di 19.324 punti di ricarica e sono localizzati per il 56% nelle regioni del Nord, il 23% in quelle del Centro e solo il 21% in quelle del Sud e nelle Isole.

Secondo i rappresentanti delle istituzioni centrali e locali – nel corso del webinar di presentazione del rapporto – è di fondamentale importanza fornire “alle amministrazioni locali maggiori strumenti di tipo economico e regolatorio per supportare i servizi di carsharing con auto elettriche”, ormai “strategici per centrare gli obiettivi di mobilità sostenibile”.

fonte: www.rinnovabili.it


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I monopattini elettrici inquinano come auto e moto

 

Secondo uno studio realizzato dall'azienda Arcadis i mezzi della micromobilità, che oggi stanno invadendo sempre di più le nostre città, inquinerebbero come le auto e le moto termiche

Ci è sempre stato detto che l'urban mobility sarebbe stato il futuro della mobilità, che sarebbe stato il presente e il futuro degli spostamenti, che sarebbe stato il modo giusto per lasciare il mezzo inquinante, come il termico, a favore dei mezzi elettrici. Pare che non sia così. Secondo Arcadis un monopattino, in sharing, immette nell'aria 105,5 grammi di CO2 ogni chilometro percorso. E un'auto? Quanto emette? Un'auto, o una moto, emettono circa 5 grammi in più di un'automobile.

LA CLASSIFICA

In questa speciale classifica di quali sono i mezzi che inquinano di più, il monopattino è davanti a mezzi molto più pesanti come i treni, tram e metropolitane che consumano, sempre secondo questa analisi, 6 grammi di CO2 ogni chilometro, i pullman elettrici 21,7 gr/km e ibridi fino a 74,3 gr/km.

Secondo questo studio, i monopattini elettrici inquinano, e anche tanto. A superare il mezzo per eccellenza della urban mobility sono gli autobus Diesel (ben 154 gr/km), moto e scooter con cilindrata al di sotto dei 750cc (fino 204 gr/km), quelli con una cilindrata superiore (231 gr/km) e le automobili endotermiche con un solo passeggero che arrivano a consumare fino a 250 gr/km.

PERCHE'?

Ovviamente, a primo acchito, sembra una classifica realizzate a spanne e invece, giustamente, Arcadis spiega quali sono i motivi di questa situazione. In sostanza, i veri motivi sono due: le aziende produttrici asiatiche non rispettano la sostenibilità, soprattutto nei materiali. Anche dal punto di vista produttivo e distributivo, la urban mobility ha dei costi per prelvare i monopattini, per trovare parcheggio e soprattutto per ricaricarli.

La prima, in fondo, era anche abbastanza comprensibile. La seconda motivazione, invece, è più fattuale, se vogliamo. Il monopattino elettrico, dice Arcadis, non sostituisce quasi mai il tragitto che facciamo con l'auto o con la moto, ma sostituiscono i nostri tragitti a piedi o un bicicletta. E questo comporta un aumento dell'inquinamento da utilizzo dei monopattini elettrici oltre, e non in sostituzione, all'inquinamento già prodotto da auto e moto.

fonte: www.dueruote.it/


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È nata Assosharing, l'associazione di categoria della mobilità condivisa

L’associazione, che rappresenta la maggioranza del mercato italiano, vuole proporre delle linee guida per la regolamentazione dell’industry di monopattini, bici, scooter e auto in condivisione











È nata martedì 17 novembre a Roma Assosharing, la prima associazione di categoria del comparto sharing mobility, nata con l’obiettivo di rappresentare un settore che conta oltre 5 milioni di utenti iscritti in Italia. Tra i fondatori, Matteo Tanzilli (Helbiz), Luigi Licchelli (SHARE NOW), Alessio Raccagna (Lime, che da poco gestisce anche il marchio Jump), Andrea Giaretta (Dott) e Alessandro Vincenti (Mimoto). L’associazione, che rappresenta la maggioranza del mercato italiano, vuole proporre delle linee guida per la regolamentazione dell’industry di monopattini, bici, scooter e auto in condivisione.
“Dopo tanti tentativi siamo riusciti a rappresentare una categoria e siamo sicuri che molti altri operatori del comparto si uniranno a noi per dare sempre maggior forza alla mobilità del futuro”, dichiara Matteo Tanzilli, nominato Presidente dell’organizzazione. “Questa attività diventa particolarmente importante in questo momento storico dove il trasporto pubblico locale è stato ridotto in capacità del 50% e occorre incentivare soluzioni alternative che in sicurezza permettano lo spostamento delle persone. Dal prossimo mese verremo auditi della IX commissione trasporti della Camera dei Deputati in merito alle modifiche del codice della strada”.

Tra le istanze che verranno portate di fronte ai tavoli istituzionali vi sono proposte di modifica al Codice della Strada (come l’inserimento delle varie tipologie di servizio sharing), tematiche legate alla sicurezza e al decoro urbano (come la richiesta di diminuire i limiti di velocità dei monopattini elettrici da 25 a 20 km/h nelle aree urbane e la creazione di parcheggi dedicati alla mobilità in condivisione). L’Associazione ha infine in cantiere alcune proposte che riguardano anche i temi fiscali e digitali: la richiesta di un allineamento dell’IVA dal 22% al 10% come nel trasporto pubblico locale e la creazione di un unico standard nazionale per la condivisione dei dati con la PA.

fonte: www.ecodallecitta.it

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Sharing mobility, in Italia è boom per il bike sharing

Presentato il Rapporto annuale sul bike sharing alla IV Conferenza della Sharing Mobility. Il servizio è in rapida ascesa, con 35.000 biciclette a disposizione in 31 città in Italia.





31 città e oltre 35.000 bici a disposizione. Il Rapporto annuale sul bike sharing scatta una fotografia lusinghiera della rete di servizi di condivisione di biciclette in Italia, che si è resa protagonista di un vero e proprio boom di utilizzi subito dopo il lockdown.

I numeri del rapporto

L'analisi è stata presentata lo scorso 8 settembre, in occasione della web conference “I servizi di bike sharing in Italia: dati e assetti di governance” dall'Osservatorio Nazionale sulla Sharing Mobility. L'organismo, promosso dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile con i Ministeri dell’Ambiente e delle Infrastrutture, ha messo nero su bianco i risultati raggiunti dalle attività condivisione bici avviate nel Belpaese. Ne risulta che bike sharing è il servizio di sharing mobility più diffuso in Italia, insieme ai monopattini in sharing.

Lo studio è stato realizzato su 31 città italiane capoluogo di provincia: Bergamo, Bologna, Bolzano, Brescia, Como, Ferrara, Firenze, Forlì, Genova, La Spezia, Livorno, Mantova, Modena, Milano, Padova, Palermo, Parma, Pesaro, Pisa, Ravenna, Reggio Calabria, Reggio Emilia, Roma, Siena, Terni, Torino, Trento, Treviso, Udine, Venezia e Verona. I servizi attivi nelle città selezionate sono 39 (+6 rispetto al 2018), mentre la flotta a disposizione è più che triplicata rispetto al 2015.

Le bici elettriche in condivisione sono 5.413 (il 15%) e di queste il 70% appartiene a servizi free-floating, caratterizzati da iscrizioni immediate e noleggi brevi: oltre il 50% dei noleggi infatti non ha una durata superiore ai 5 minuti e addirittura il 73% è inferiore ai 500 metri. Per quel che concerne lo station-based, invece, gli spostamenti si assestano maggiormente tra 1 e 2 km e il 60% dei noleggi dura tra i 6 e i 20 minuti.

Riguardo alla percentuale di utilizzo di ciascuna bici nelle 24 ore, il valore più alto viene fatto registrare a Brescia, con un utilizzo del 2,3%, equivalente a circa un'ora e 20 al giorno. Seguono Pisa e Torino, che può pregiarsi inoltre del servizio free-floating con il valore di utilizzo più elevato.

Ronchi: città italiane verso un modello di green city

Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, ha dichiarato: "I dati del rapporto annuale sul bike sharing ci confortano perché dimostrano che le città italiane stanno rapidamente evolvendosi verso un modello di green city che vede la mobilità condivisa al centro del progetto; sarà importante nei prossimi mesi e nei prossimi anni estendere questo modello virtuoso di mobilità anche nelle città italiane del centro sud, che potranno certamente replicare con successo quanto il bike sharing ha dimostrato nelle città del centro nord”.

Secondo il rapporto, dunque, un numero crescente di italiani riconosce nella bicicletta un mezzo capace di coniugare sicurezza (in termini sanitari) e rispetto ambientale. L'auspicio è che, a partire da tale trend, si adeguino progressivamente servizi e infrastrutture, fino a creare una rete di trasporto bike-friendly capace di offrire una reale alternativa agli inquinanti mezzi a motore.

fonte: www.nonsoloambiente.it


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Come sta cambiando il car sharing in Italia

Nel 2019 sono cresciute flotte e iscrizioni ai servizi. Milano e Roma hanno registrato la crescita maggiore dei noleggi




Il car sharing in Italia cresce, si evolve e si adatta alla struttura urbana. Nel 2019, infatti, i servizi di auto condivisa sul territorio nazionale hanno aumentato flotte, numero di iscrizioni e noleggi, segno di un appeal sempre maggiore. E al di là della flessione registrata nei mesi di lockdown, il comparto non ha smesso di crescere neppure nel 2020.

Secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale della Sharing Mobility molti operatori di car sharing stanno sviluppando nuove formule, che vanno ad integrarsi con quelle più tradizionali, la “station based”(con parcheggi dedicati) e la“free floating” (a flusso libero). Un’altra evoluzione che ha caratterizzato il 2019 è la tendenza ad adattare il modello operativo di auto condivisa alla tipologia di città e di spostamenti. Cosa significa? Che in città come Roma e Milano sono presenti soprattutto le grandi aziende internazionali che operano nel car sharing free floating; nei centri più piccoli, come Cagliari o Venezia, nascono e si consolidano nuovi operatori locali, che progettano il servizio anche in base alle caratteristiche dell’utente medio.

In generale lo scorso anno in Italia c’è stato un tasso di rotazione medio (numero medio di noleggi giornaliero per singola vettura) di 4,7, in linea con il dato 2018. Il numero totale dei veicoli in sharing attualmente è di 8.264 di cui 7.009 del free-floating e 1.255 dello station-based; e uno su 4 è un veicolo elettrico.

In questo contesto Milano si conferma ancora una volta regina dell’auto condivisa. Nel 2019, è cresciuto il numero noleggi in free-floating (6.156.385) sul territorio comunale, con una percorrenza nel noleggio media di 7,4 km, una durata media temporale di 33 minuti.
Segue Roma dove i noleggi si attestano a 3.233.448 con una percorrenza media a noleggio di 8,4 km e 36 minuti di durata del noleggio medio.

Afferma Giusy Lombardi, Direttore Clima Energia del Ministero dell’Ambiente, co-promotore dell’Osservatorio Nazionale della Sharing Mobility: “La riduzione del tasso di motorizzazione italiano, che attualmente è di 645 auto private ogni 1000 abitanti, è l’ obiettivo fondamentale della sharing mobility: meno auto private nelle città e meno auto in sosta, infatti, vuol dire liberare spazio per le modalità di trasporto condiviso e ridurre la congestione e l’inquinamento. Un buon obiettivo per l’Italia, ambizioso ma fattibile, sarebbe quello di portare entro il 2030, anche grazie alla sharing mobility, il tasso di motorizzazione privata a 500 auto ogni mille abitanti, corrispondente a quello attuale della Francia. Il Ministero dell’Ambiente è in prima linea su questo fronte”.

fonte: www.rinnovabili.it



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PUMS: cosa sono e perché sono un’opportunità dopo la crisi

I Piani urbani di mobilità sostenibile, o PUMS, sono piani strategici che ogni città attua per favorire la mobilità alternativa e sostenibile.




Le città italiane devono migliorare la propria mobilità. Dopo il coronavirus, e con la necessità di conviverci per un po’ di tempo, dovranno anzi reinventarla alla base. E non basterà qualche chilometro di pista ciclabile. D’altronde non è un’esigenza recente. Già dal 2017, con il decreto del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti dedicato, sono state definite le linee guida per i cosiddetti Piani urbani di mobilità sostenibile.

Ogni PUMS è d’altronde un piano strategico che ogni città deve cucirsi addosso su misura. Con le stringenti esigenze di favorire mobilità alternativa e sostenibile e potenziare le corse dei mezzi pubblici il lavoro dev’essere ancora più chirurgico. Il tutto con una pianificazione intelligente e la partecipazione dei cittadini: se le persone non sentono un progetto come proprio e funzionale, difficilmente lo sposeranno, decretandone il fallimento.

I PUMS riguardano tutte le modalità e le forme di trasporto, pubblico e privato. Passeggeri e merci devono muoversi quotidianamente in modo sostenibile, con l’obiettivo di raggiungere dei macro obiettivi definiti nel dettaglio da ogni comune. Si parla ovviamente di riduzione delle emissioni inquinanti (il problema in Italia è gigantesco: ogni anno perdono la vita migliaia di persone), della creazione di zone a traffico limitato che premino i veicoli a impatto zero, delle regole di circolazione, dell’ingresso e sosta per i mezzi commerciali elettrici e in generale della transizione verso l’elettrico delle flotte del trasporto collettivo, forse uno dei temi principali. Senza dimenticare lo sharing elettrico e la distribuzione dei punti di ricarica, altro punto debole.

A tenere traccia di tutto quello che accade in questo settore è l’Osservatorio PUMS, nato nel 2016 grazie al supporto del ministero dell’Ambiente come evoluzione della rete europea Endurance per mantenere vivo il confronto con la realtà internazionale e monitorare continuamente lo stato dell’arte di questo strumento di politiche pubbliche. Ne fanno parte oltre 65 fra comuni, unioni di essi, province e città metropolitane, i player che hanno in mano le redini delle nuove geografie cittadine. D’altronde il PUMS è un obbligo delle amministrazioni, non una facoltà: tutte le città metropolitane e quelle sopra i 100mila abitanti devono dotarsene. E alle altre è fortemente consigliato farlo.

Tre gli stadi attraverso cui può passare un PUMS. Quello di “redazione”, quello dell'”adozione” il più delle volte con delibere comunali che devono essere sottoposte all’analisi di cittadini e altre organizzazioni e infinte l’approvazione. Allo scorso febbraio erano 164 le città che stavano discutendo il proprio PUMS: 36 sono stati approvati, 35 adottati e molti, 93, in fase di redazione. Al vertice la Puglia con 34 città, seguita dalla Lombardia con 18, la Toscana con 16, l’Emilia-Romagna con 15 e la Sicilia con 14.

La mobilità elettrica è evidentemente centrale per i PUMS, intorno ai quali spesso si innesca un dibattito piuttosto vivace e che comunque nelle ultime settimane ha visto un’accelerazione nelle approvazioni, anche nell’ambito del trasporto pubblico. In fondo il senso dei PUMS sta nel favorire il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Unione Europea per la riduzione delle emissioni di gas serra prevista entro il 2050 e il miglioramento della qualità dell’aria nei centri urbani.

In questo senso una rete di punti di ricarica pubblica, dentro e fra le città, è fondamentale: in Italia, con 60 milioni di persone e 40 milioni di automobili, non tutti dispongono di uno spazio privato o garage per una ricarica esclusiva. Per questo la distribuzione delle colonnine, altro elemento cardine dei Pums, è un fatto di democrazia e di opportunità di crescita per il settore. Uno dei primi problemi di chi fosse intenzionato a un acquisto a impatto zero è infatti proprio quello: dove ricaricherò l’auto e come? I centri abitati del presente, più che del futuro, dovranno viaggiare in quella direzione.

Un’altra testimonianza è il Piano nazionale per il rinnovo delle flotte dei mezzi del trasporto pubblico appena approvato, per cui sono stati stanziati 2,2 miliardi di euro. Sono fondi destinati fondamentalmente agli autobus per il trasporto urbano, metropolitano e regionale nel contesto del Piano nazionale per la mobilità sostenibile. Un primo stanziamento che andrà eventualmente aggiornato sulla scorta della disponibilità delle varie regioni al cofinanziamento per il 20% della cifra.

Lo stanziamento prevede, inoltre, che alle regioni del Sud sia destinato circa il 35% delle risorse messe in campo. Viene anche stabilito che le risorse assegnate nel primo triennio, sino al 50% del contributo concesso, possano essere destinate alla realizzazione della rete infrastrutturale per l’alimentazione alternativa (es. metano, idrogeno, elettrica).

Ecco perché la crisi del coronavirus può trasformarsi in un’opportunità: rimettere in moto il trasporto pubblico, ma anche quello privato, ma con un motore nuovo. Quello elettrico.

fonte: www.greenstyle.it


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Cinque misure per ripensare la mobilità urbana nel post coronavirus

Dalle nuove norme per i mezzi pubblici alle piste ciclabili provvisorie, una mini guida per ridisegnare gli spostamenti urbani. Legambiente: “Per superare l’emergenza e per far ripartire le città italiane servono risposte e soluzioni eccezionali”.



Più bici e piste ciclabili, meno auto inquinanti. Più mezzi pubblici ma anche nuove regole per garantire la sicurezza degli spostamenti. Queste alcune delle misure proposte da Legambiente per ridisegnare la mobilità urbana nel dopo-coronavirus

Un “dopo” che non significa essersi lasciati tutto alle spalle, quanto aver trovato un modo per ripartire senza cadere negli errori del passato. Ecco perché, spiega l’associazione ambientalista, per il post Covid19 “servono risposte e soluzioni eccezionali”.

Per dare il giusto ritmo al rilancio della mobilità urbana, Legambiente ha scritto oggi ai sindaci delle città italiane e al presidente dell’Anci Antonio Decaro. In una lettera aperta ha stilato una serie di interventi per ripensare agli spostamenti cittadini in chiave sostenibile. Cinque proposte concrete, per lo più attuabili attuabili in pochi mesi e con risorse relativamente contenute. E senza dimenticare, ovviamente, la sicurezza. “Cari Sindaci, – spiega il cigno verde – non vi limitate all’ordinario, non restituiteci le vecchie città. Il vostro mestiere richiede visione di futuro, soluzioni inedite, capacità di guidare la comunità verso frontiere nuove”.
Le cinque proposte per una mobilità urbana più sicura e sostenibile

Trasporti pubblici – Nel post coronavirus sarà necessario programmare con attenzione le corse e garantire le distanze di sicurezza, ripensando anche agli orari per evitare congestioni nelle ore di punta. “Sarà fondamentale – scrive Legambiente – un continuo e attento monitoraggio di mezzi e stazioni, introducendo controlli e tornelli per contingentare gli ingressi oltre a garantire una quotidiana sanificazione”. Ma soprattutto saranno necessarie risorse per realizzare tutto ciò. Un’idea da replicare? Il governo spagnolo ha stabilito l’obbligo di mascherine su bus e metro, garantendone la distribuzione di nelle stazioni principali.

Bici – Le due ruote “dolci” non sono solo il mezzo per eccellenza della mobilità urbana sostenibile. Sono anche quello che permette il migliore distanziamento. Ma per iniziare a pedalare fin da subito servono percorsi ciclabili temporanei (con segnaletica orizzontale e verticale) lungo le tratte più frequentate, dotandoli di protezioni e passaggi esclusivi. Con l’obiettivo di trasformarli in futuro in vere e proprie piste ciclabili

Mobilità condivisa – La sharing mobility (auto, bici, scooter e monopattini) offre un’importante alternativa sostenibile all’auto privata e ai tradizionali mezzi pubblici. Legambiente raccomanda ai Comuni di stringere accordi con le imprese per avere più mezzi e coprire più quartieri, a prezzi più contenuti. “Serviranno risorse, ma il servizio potrà avere grande successo e in parte ripagarsi”.

4 Bonus Rottamazione – “Qui – spiega Legambiente – i Sindaci devono farsi sentire, perché le risorse ci sono! Cosa aspetta il Ministero dell’Ambiente a mettere a disposizione i fondi per ‘Programma Buoni di mobilità’ previsti dal decreto Clima approvato a dicembre scorso?” In totale sono stati stanziati 75mln per il 2020 e 180mln per le annualità successive. I fondi serviranno per offrire offrire 1.500 euro a chi rottama un’auto fino alla classe Euro 3 o 500 euro per un motociclo omologato fino alla classe Euro 2 ed Euro 3. Il bonus può essere utilizzato, entro i successivi tre anni, per l’acquisto di abbonamenti al trasporto pubblico, biciclette anche a pedalata assistita o per l’utilizzo dei servizi di mobilità condivisa ad uso individuale.

5. Smart working
– L’associazione chiede ai sindaci di spingere sullo smart working per riorganizzare il lavoro dell’amministrazione pubblica, sostenendo tutte le attività che scelgono di andare in questa direzione. “Serviranno risorse, ma soprattutto idee nuove e andrà coinvolto il Governo, – scrive l’associazione – ma esistono tutte le possibilità per premiare con vantaggi fiscali sia le aziende che i lavoratori che decideranno di puntare su soluzioni innovative di smart working e mobility management di comunità”.

fonte: www.rinnovabili.it


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La mobilità in sharing si amplia a Milano: più scooter e biciclette, e arriva la micromobilità















Milano incentiva la mobilità elettrica e condivisa e definisce regole chiare per l’utilizzo dei mezzi in sharing. Sono state approvate dalla Giunta milanese infatti le linee guida che consentono di avviare la sperimentazione dello sharing della micromobilità elettrica e proseguire con lo sharing di scooter e biciclette a flusso libero all’interno di un sistema di regole stringenti per le aziende e per i soggetti interessati a fornire il servizio in città.
Fra le innovazioni introdotte per lo scooter sharing, il vincolo di una flotta interamente elettrica dal 1° gennaio 2020; per quanto riguarda le bici a stallo libero, l’aumento della flotta fino a 16mila biciclette anche a pedalata assistita.
Al fine di governare meglio il fenomeno, le linee guida della sperimentazione sulla micromobilità elettrica definiscono il numero massimo di 2mila monopattini in città: tutti i veicoli dovranno essere dotati di luci, numero identificativo e limitatori di velocità.
Inoltre in tutta la città i monopattini  potranno sostare esclusivamente negli stalli di sosta dedicati alle biciclette o a lato strada, dove non sia espressamente vietato e comunque sempre secondo le regole del codice della strada. Nella Cerchia dei Navigli, dove non esiste sosta libera, i monopattini potranno attivare e chiudere il noleggio solo negli stalli sosta attraverso sistemi tecnologici realizzati a cura delle società di gestione.Attualmente a Milano vi sono oltre 32mila stalli per la sosta delle biciclette in tutta la città. In particolare nella Cerchia dei Navigli si contano 4.300 stalli; all’esterno del Municipio 1, nelle aree adiacenti le fermate della metropolitana, sono 6.900 e lungo le piste ciclabili sono 3.350. Questi numeri sono in continuo aggiornamento per nuove installazioni in corso che terranno conto anche dell’introduzione dei nuovi veicoli.
Per quanto riguarda le biciclette in condivisione a stallo libero le nuove linee guida prevedono altri tre anni di sperimentazione e un ampliamento della flotta totale presente in città fino a 16mila veicoli in totale e fra queste sono previste anche biciclette elettriche a pedalata assistita.  
Per quanto riguarda gli scooter il nuovo bando prevede che dal 1° gennaio 2020 potranno essere solo elettrici (ad oggi le flotte di scooter esistenti contano circa 1.470 veicoli suddivisi fra 5 operatori).
L’avviso pubblico per lo sharing avrà finestre temporali mensili. Dovranno presentare certificazione di sottoscrizione di adeguata polizza assicurativa, garantire il servizio di call-center, pronto intervento e controllo dei dispositivi con personale pronto a rimuoverli o spostarli entro le 24 ore dalla segnalazione in caso di disservizio, abbandono o posteggio irregolare, pena la rimozione da parte del Comune con imputazione dei costi a carico del gestore. Il servizio dovrà essere attivo 365 giorni e disponibile 24 ore su 24. 
Per ogni monopattino o bicicletta in strada i gestori dovranno investire 10 euro all’anno in comunicazione e informazione agli utenti sulle regole di utilizzo e del codice della strada, anche in forma condivisa con l’Amministrazione e gli altri gestori e 100 euro annui per ogni scooter. Inoltre per ogni monopattino elettrico e bicicletta sarà necessario depositare una cauzione una tantum (sotto forma di fideiussione) di 25 euro o di 50 euro per ogni scooter, a garanzia degli eventuali interventi di rimozione effettuati dall’Amministrazione e al Comune dovrà essere versato un contributo di 8 euro per ogni monopattino o bicicletta quale contributo all’uso degli spazi pubblici. Il contributo scende a 3 euro per le biciclette elettriche al fine di incentivarne l’introduzione.


fonte: www.greencity.it

La micromobilità condivisa potrebbe sostituire il 50% degli spostamenti in auto

Una ricerca ha valutato il potenziale di bici (elettriche e tradizionali) e monopattini condivisi su percorsi brevi in alcune delle maggiori città degli Stati Uniti, della Germania e del Regno Unito.




















I principali servizi di micromobilità condivisa, come biciclette tradizionali, e-bike e monopattini elettrici in sharing, hanno il potenziale di sostituire una percentuale tra il 48% e il 67% dei viaggi in auto in alcune delle più grandi città degli Stati Uniti, della Germania a del Regno Unito: sono i risultati di una ricerca condotta da INRIX, agenzia statunitense specializzata nell’analisi dei flussi di dati nel settore dei trasporti.

Il settore della mobilità condivisa è in fermento un po’ ovunque: secondo il Mckinsey Institute, entro il 2030, il valore di mercato globale della sharing mobility dovrebbe aggirarsi tra i 200 e i 300 miliardi di dollari. Un’espansione che, se ben regolamentata, potrebbe tradursi in enormi benefici per le comunità sia in termini di gestione degli spazi (bici e monopattini richiedono superfici molto più ridotte rispetto ai tradizionali parcheggi per auto), che in termini energetici: basti pensare che un monopattino elettrico può percorrere fino a 83 miglia con l’energia equivalente a far viaggiare un auto per solo 1 miglio.

In quest’ottica, INRIX ha analizzato miliardi di dati collezionati tramite servizi di mobilità condivisa e automobili circolanti in alcune delle più trafficate città degli Stati Uniti, della Germania e del Regno Unito per valutare quale impatto potrebbe avere la sharing mobility nel ridurre i viaggi in auto sulle brevi distanze (tra 1 e 3 miglia).

Nei soli USA, il 48% di tutti gli spostamenti in auto nelle più congestionate aree sono lunghi meno di tre miglia (il 20% meno di 1 miglio, il 16% tra 1 e 2 miglia,  il 12% tra 2 e 3 miglia): nel complesso, quindi, le tratte al di sotto delle 3 miglia in megalopoli come New York o Chicago potrebbero ridursi del 51% semplicemente ricorrendo a monopattini e biciclette condivise, con picchi del 55% nella capitale delle Hawaii, Honolulu, o del 52% a New Orleans.

micromobilità condivisa


Discorso ancora più valido nel Regno Unito, dove la maggiore densità dei centri urbani rende la micromobilità condivisa ancora più utile: secondo lo studio INRIX, il 69% degli spostamenti in auto entro 3 miglia a Manchester potrebbe essere rimpiazzato dai servizi in sharing, il 68& a Birmingham, il 66% a Londra e Glasgow e il 64% a Sheffield, per una media del 67% su 5 dei principali centri urbani britannici.

micromobilità condivisa

Anche in Germania, il potenziale delle micromobilità nel ridurre le auto circolanti sulle brevi distanze resta alto: a Monaco di Baviera il 60% degli spostamenti entro le 3 miglia si potrebbero sostituire con piccoli viaggi in monopattino o bici (elettrica o tradizionale), ad Amburgo la percentuale scende al 59%, mentre a Berlino, Francoforte e Colonia si attesta rispettivamente al 56%, 55% e 51%.

micromobilità condivisa

fonte: www.rinnovabili.it

Sharing mobility: Milano sempre più al top















Clear Channel Italia, gestore del servizio di bike sharing nelle città di Milano e Verona è stato sponsor anche quest’anno della Conferenza Nazionale sulla Sharing Mobility, tenutasi a Roma. 
Il Rapporto Nazionale realizzato dall’Osservatorio Sharing Mobility ha evidenziato una continua crescita del settore, che ormai coinvolge circa il 10% della popolazione e 271 comuni. Oltre 5 milioni di italiani usufruiscono quotidianamente dei servizi di condivisione di automobili (sia car sharing che carpooling), scooter, bici, monopattini. Una tendenza che si inserisce nella più generale crescita della Sharing Economy, ma che riflette al contempo il desiderio di uno stile di vita più sostenibile. Aumenta infatti il numero dei veicoli elettrici in sharing, in particolare auto e scooter, passando nell’ultimo anno dal 27% al 43% del totale, con una maggior diffusione delle colonnine per la ricarica. Il settore del bike sharing è in continua evoluzione, affermandosi non solo nelle grandi città come Milano, ma anche in comuni medio-piccoli. 
Clear Channel Italia è presente a Milano con il servizio BikeMi da oltre 10 anni: le prime stazioni sono state inaugurate nel 2008 e si sono moltiplicate fino ad arrivare alle 292 di oggi. Il servizio mette a disposizione degli utenti 3.650 biciclette tradizionali e 1.150 a pedalata assistita, di cui 150 con seggiolino, che possono essere usate ogni giorno dalle 07.00 alle 01.00, con eventuali prolungamenti d’orario in occasioni speciali. 
BikeMI dal suo arrivo in città ha registrato 25 milioni di utilizzi e conta oltre 650mila iscritti, ed è destinato a espandersi ulteriormente, con l’aggiunta di altre 400 bici e l’apertura di nuove stazioni nell’ambito del progetto Pon Metro, che saranno pronte entro agosto. Un servizio sempre più efficiente e capillare, con stazioni che non distano tra loro più di 400 metri e che collega i quartieri alle grandi reti del trasporto pubblico. Inoltre, con l’introduzione del nuovo sistema tariffario dei trasporti milanesi, sarà possibile caricare l’abbonamento BikeMi direttamente sulla tessera ATM. 
I numeri dell’impatto del bike sharing sull’ambiente parlano da soli: gli oltre 46 milioni di chilometri percorsi in città nei primi dieci anni di BikeMi, hanno permesso di risparmiare oltre 9,3 milioni di chili di anidride carbonica in termini di mancate emissioni, alle quali si aggiunge il contributo di una centrale di ricarica elettrica con energia (75 khW/annui) prodotta da panelli fotovoltaici.   


fonte: https://www.greencity.it

Tutti i dati sulla Qualità dell’ambiente urbano nel 2017

Presentata a Roma al Senato la nuova edizione del Rapporto Snpa che analizza la qualità dell'ambiente in 120 città e 14 aree metropolitane. Un focus speciale è dedicato alle esperienze innovative.





















Presentata a Roma al Senato la nuova edizione del Rapporto Snpa che analizza la qualità dell’ambiente in 120 città italiane e 14 aree metropolitane. Un focus speciale è dedicato alle esperienze innovative.
Segnali positivi nel 2017 sul fronte della qualità dell’aria. È, infatti, in atto una significativa tendenza alla riduzione dei livelli di emissione di PM10 primario, quello direttamente emesso dal riscaldamento domestico e dai trasporti, ma anche dalle industrie e da alcuni fenomeni naturali. La quantità si riduce del 19% in 10 anni (2005 al 2015), passando da un totale di 45.403 tonnellate (Mg) nel 2005 a 36.712tonnellate (Mg) nel 2015.
Continuano in ogni caso i superamenti del PM10 nelle città italiane: i dati preliminari, aggiornati al 10 dicembre 2018, mostrano valori oltre la norma in 19 aree urbane con Brescia capofila dei superamenti (87) e Viterbo che, almeno finora, non ha mai oltrepassato il limite. 
Nel 2017 il valore limite annuale per l’NO2 è stato superato in almeno una delle stazioni di monitoraggio di 25 aree urbane, si sono poi registrati più di 25 giorni di superamento dell’obiettivo a lungo termine per l’ozono in 66 aree urbane su 91 per le quali erano disponibili dati e il superamento del valore limite annuale per il PM2,5 (25µg/m³) in 13 aree urbane su 84.
È ancora pericolo frane e alluvioni: il 3,6% delle città, dove risiedono quasi 190 mila abitanti, rientra nelle classi a maggiore pericolosità per frane. I valori salgono al 17,4%, superando anche la media nazionale del’8,4%, se si parla di probabilità di alluvioni nello scenario medio. Dei 5.248 interventi contro il dissesto distribuiti su tutto il territorio nazionale 460 riguardano i 120 comuni. Negli stessi territori la probabilità di alluvione è però superiore alla media nazionale: la percentuale di aree a pericolosità media P2 (tempo di ritorno tra 100 e 200anni) è pari al 17% del territorio dei 120 comuni, mentre il dato nazionale si attesta all’8,4%. Inoltre, la popolazione a rischio alluvioni nelle stesse aree (2.195.485 ab.) è pari al 12% della popolazione residente a fronte di un dato nazionale del 10,4%. Vi sono 14 Comuni con più di 50.000 abitanti a rischio alluvioni e 7 Città metropolitane con più di 100.000 abitanti a rischio.
Le città corrono ai ripari: dal 1999 al 2017 finanziati 462 interventi contro il dissesto in 120 comuni per un ammontare complessivo che supera il miliardo e mezzo di euro. I comuni con il maggior numero di interventi conclusi sono Lucca (21 per oltre 25mln €), Terni (9 per 5,7 mln €), Messina e Ravenna (8 con rispettivamente 12e oltre 7 mln €).
Per quanto riguarda gli importi complessivi dei finanziamenti ai comuni, per Genova sono stati stanziati di 354 mln € (di cui solo 2,66 mln € su progetti già conclusi), Milano 171 mln € (compresi 25,40 mln € di progetti conclusi) e a Firenze 118 mln €, di cui solo 830 mila euro sono relativi a progetti conclusi). Nelle 14 città metropolitane sono invece 917 gli interventi per un importo totale pari a 1 miliardo e 845 mln di euro.
Cresce lo sharing mobility che nel giro di tre anni (2015-2017) si rafforza come settore aumentando più del doppio il numero delle vetture in condivisione. Delle 48 mila unità messe su strada lo scorso anno, l’83% sonobiciclette, il 16% automobili e l’1% scooter.
I Comuni italiani perdono ancora terreno consumando complessivamente tra il 2016 e il 2017 circa 650 ettari di territorio. Il costo complessivo, in termini di perdita dei principali servizi ecosistemici (2012 al2017), valutato tra i 215 e i 270 milioni di euro. Il comune di Roma, da solo, nello stesso periodo perde un valore tra i 25 e i 30 milioni di euro. A livello di Città metropolitane, nel 2017 Napoli e Milano presentano la percentuale di suolo consumato più alta, 34,2% e 32,3% rispettivamente, mentre Palermo la percentuale più bassa con 5,9%.


La perdita di servizi ecosistemici dovuta al consumo di suolo nelle Città metropolitanetra il 2012 e il 2017 è valutata tra i 348 e i 443 milioni di euro. Da notare che a Torino, Bari e Napoli si rileva un contributo più significativo, della perdita di suolo, nei Comuni metropolitani rispetto al capoluogo. Si verificano fenomeni di sprofondamento in particolare a Roma dove, solo negli ultimi 10 mesi del 2018 siregistrano ben 136 voragini. Complessivamente, dal 1960 ad agosto 2018, nei 120 Comuni si contano 2.777 sinkholes dei quali – oltre a quelli della capitale – 562 a Napoli,150 a Cagliari, 72 casi a Palermo.
Tendenzialmente sono le città del Centro-Sud Italia quelle maggiormente interessate dal fenomeno che risulta contenuto, invece, nel nord Italia anche se si registra un aumento dei casi.
Buoni i risultati per quanto riguarda lo stato chimico delle acque: il 40% delle città ha tutti i corpi idrici nel proprio territorio in stato Buono e solo il 13% in stato Non Buono.
Storia diversa per i pesticidi nelle acque superficiali che rivelano concentrazioni superiori ai limiti normativi in 24 comuni sui 65 esaminati, mentre per le acque sotterranee il 7,3% dei punti, presenta concentrazioni sopra ai limiti consentiti. Nei Comuni indagati sonostate riscontrate 187 sostanze diverse rispetto alle 396 cercate.
Nel 2017, il 95% delle acque di balneazione italiane (marine, lacustri e fluviali) si classificano in classe eccellente e buona, ma l’1% rimane in classe scarsa.
Per quanto riguarda il rischio da proliferazione cianobatterica, in alcune acque lacustri, si osserva la presenza didiversi generi potenzialmente tossici, tra le quali la microcistina risulta la cianotossina più diffusa nelle acquedolci.
Resta scarsa al 2017 l’incidenza delle aree verdi pubbliche sul territorio comunale, con valori inferiori al 4% in84 delle 116 città per cui è disponibile il dato. La maggioranza dei Comuni indagati ha una disponibilità di verde pubblico pro capite compresa fra i 10 e i 30 m2/abitante e le tipologie di verde più diffuse sono quello attrezzato e quello storico, seguite dalle aree boschive e dal verde incolto.
Rimane molto scarsa anche la pianificazione del verde: appena 10 Comuni hanno approvato un Piano del verde, a segnalare la difficoltà dei Comuni italiani a riconoscere il verde quale elemento strutturale e funzionale strategico di resilienza urbana. Il 2018 segna la nascita del primo elenco nazionale degli alberi monumentali: in 60 comuni sui 120 analizzati è stato censito almeno un albero monumentale per un totale di 413 segnalazioni. A scala metropolitana il totale degli alberi monumentali ammonta a 456 localizzati in tutte le città metropolitane eccetto Messina.

Introduzione
Capitolo 1 – Fattori sociali ed economici
Capitolo 2 – Suolo e territorio
Capitolo 3 – Infrastrutture verdi
Capitolo 4 – Acque
Capitolo 5 – Inquinamento atmosferico e cambiamenti climatici
Capitolo 6 – Rifiuti
Capitolo 7 – Attività industriali in ambito urbano
Capitolo 8 – Trasporti e mobilità
Capitolo 9 – Esposizione all’inquinamento elettromagnetico ed acustico
Capitolo 10 – Azioni e strumenti di sostenibilità ambientale
Focus – Strumenti e metodi innovativi per la qualità dell’ambiente urbano

Capitoli del rapporto scaricabili
Parte iniziale (pdf 1.7 mb)
1- Fattori sociali ed economici (pdf 4.2 mb)  Tabelle dati (zip 240 kb)
2 – Suolo e territorio (pdf 17 mb) Tabelle dati (zip 245 kb) 
3 – Infrastrutture verdi (pdf 6 mb) Tabelle dati (zip 240 kb)
4 – Acque (pdf 5.9 mb) Tabelle dati (zip 218 kb) 
5 – Inquinamento dell’aria e cambiamenti climatici (pdf 7.1 mb) Tabelle dati (zip289 kb)
6 – Rifiuti urbani (pdf 2.45 mb) Tabelle dati (xls 151 kb)
7 – Attività industriali in ambito urbano (pdf 2 mb) Tabelle dati (xls 140 kb)
8 – Trasporti e mobilità (pdf 3.7 mb) Tabelle dati (zip 400 kb)
9 – Esposizione all’inquinamento elettromagnetico e acustico (pdf 3.3 mb) Tabelle dati (zip 300 kb) 
10 – Azioni e strumenti per la sostenibilità locale (pdf 2.3 mb) Tabelle dati (zip 95 kb)
fonte: http://www.snpambiente.it/