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Tessile ed economia circolare: nuove opportunità da cogliere nel post Pandemia





Il settore tessile può giocare un ruolo molto importante nella partita per la transizione ecologica. Il post pandemia offre lo spunto per nuovi modelli di business orientati ad un’economia circolare. Ecco come il comparto tessile è chiamato ad accettare e vincere le nuove sfide, rilanciando così l’economia dopo il Covid.

Già in epoca pre-pandemica il comparto tessile era entrato a far parte dei nuovi settori che guardano all’economia circolare. Ora, nuovi modelli di business post pandemici danno l’opportunità di fare molto di più. Vista l’importanza del ruolo che questo settore può avere nella transizione ecologica, ecco una panoramica dello stato attuale, nel mondo, in Italia e in Europa, dello stato dell’arte dell’industria tessile, dei passi ancora da compiere e dei vantaggi a cui questi possono portare.

Economia circolare e ambiente: a che punto è il settore tessile dopo il COVID?

Una delle principali tematiche riguardanti l’economia circolare è quella del recupero dei rifiuti. È da questo aspetto, dunque, che possiamo iniziare a tracciare un quadro generale. A oggi, ecco cosa accade agli scarti del settore tessile a livello mondiale:

l'87% finisce in discarica o incenerito
il13% viene riciclato, per prodotti di valore inferiore
solo l'1% vien trarformato in nuovi abiti.

La situazione in Italia è descritta dall’ultimo rapporto “L’Italia del riciclo 2020”, di Fondazione Sviluppo Sostenibile, secondo cui il totale del rifiuti tessili è così destinato:

Il 68% viene riutilizzato
Il 29% viene riciclato
Il 3% viene smaltito.

Indipendentemente dal Paese, la situazione attuale è profondamente influenzata dalle conseguenze della pandemia. Capi invenduti e magazzini saturi lasciano presagire una imminente, grande produzione di rifiuti tessili che, se solo venissero riutilizzati, salverebbero una cifra corrispondente a più di 100 miliardi di dollari l’anno, oltre a salvaguardare l’ambiente.

I vantaggi dell’economia circolare nel tessile

Se il modello di business dell’economia circolare fosse sposato dal settore tessile in toto, i vantaggi, per l’economia e per l’ambiente, sarebbero enormi:
creazione di nuovi posti di lavoro nelle strutture di raccolta, selezione e riciclaggio;
riduzione dei costi di gestione e smaltimento dei rifiuti tessili;
abbassamento dei costi dei materiali, dovuto alla maggior disponibilità di tessuti;
minore utilizzo di risorse non rinnovabili;
una riduzione dell'inquinamento prodotto dal comparto (meno emissioni di gas serra, miglioramento delle acque ecc.);
risoluzione del problema dell’esportazione dei rifiuti tessili all’estero, pratica sempre più ostacolata e difficile.

Come favorire la transizione ecologica nel comparto tessile

Dal rapporto della Fondazione Ellen MacArthur "The circular economy: a transformative Covid-19 recovery strategy", emerge come, per la transizione del settore tessile verso un’economia circolare, sia importante elaborare un quadro normativo e fiscale che vada in questa direzione.
Ci sono, ad esempio, molti Paesi che concedono sgravi fiscali alle imprese che si impegnano nella raccolta differenziata di rifiuti tessili. In Italia e in Europa sono diverse le azioni che spingono verso i valori di un’economia circolare, incoraggiando la regolarizzazione della raccolta di rifiuti tessili urbani e auspicando la creazione di sistemi di responsabilità estesa al produttore in materia di rifiuti.
A riprova della sua sensibilità verso il tema, la Commissione Europea ha pubblicato la Roadmap per la definizione della strategia europea per i prodotti tessili in Europa.

Ma la riciclabilità dei capi non ha a che fare soltanto con il loro fine vita: essa parte dalla progettazione. Per questo motivo il ruolo del design è importantissimo per realizzare capi appositamente studiati per essere riutilizzati e reinventati a lungo. Durata dei materiali e metodi di produzione sono alla base della responsabilità che i designer hanno in materia di transizione ecologica. Anche gli investimenti che guardano a questa direzione, come quelli in strutture di raccolta e in ricerca, sono importanti e urgenti. Senza uno sguardo globale e che abbracci l’intera filiera, l’economia circolare non può che restare un’utopia che trova riscontro soltanto parziale nel quotidiano.

fonte: www.nonsoloambiente.it


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“L’economia circolare non solo nelle città ma nei territori”: una possibile rotta per una ripresa post-Covid



Tra gli aspetti che il Covid ha rimesso in discussione c’è la centralità delle città. L’Italia ha riscoperto, almeno in parte, di essere il Paese dei paesi. In questa fase lunghissima di interlocuzione in cui siamo immersi, tra l’ansia che questa sarà la “nuova normalità” e la volontà di disegnare un’altra normalità, in tanti stanno provando a rimettere in discussione un modello di sviluppo basato, tra gli altri assunti, su due equazioni: città uguale progresso e, speculare a questa, borgo uguale presepe.

Un modello urbanocentrico che per Oliviero Casale, general manager UniProfessioni, è da rivedere. A prescindere dal coronavirus. Lo ha ribadito recentemente, insieme a Domenico Annunziato Modaffari (componente Comitato Unico di Garanzia di Roma Capitale) ed Enrico Molinari (docente dell’Accademia di Belle Arti di Sanremo), in un articolo accademico pubblicato sulla rivista “Sustainable and Responsible Management”.

Gli standard Uni e l’insostenibilità delle metropoli

Già ad agosto 2018 l’UNI (l’Ente Italiano di Normazione) aveva recepito un nuovo standard internazionale sulle smart city, in cui si invitava a non parlare più solamente di città smart (o intelligenti) ma anche di città sostenibili. Non più, dunque, città basate esclusivamente su applicazioni tecnologiche e calcoli matematici ma ecosistemi in cui diventa fondamentale il concetto di qualità della vita.

Allo stato attuale, ammoniva Elena Stoppioni – presidente dell’onlus Save the Planet in un’audizione al Senato del luglio 2018 – “nessuna città italiana risulta iscritta nel registro delle metropoli certificate”.

Se possibile, l’arrivo del Covid ha peggiorato la situazione. “Le smart cities sono state il problema dell’Italia nelle fasi più acute di diffusione del coronavirus – osserva Casale – Sono state le grandi città ad avere i maggiori contagi, penso per esempio alle metropolitane e ai tram dove la gente è costretta a circolare in condizioni di affollamento”.

Da marzo 2021 Casale è uno dei componenti del Comitato Tecnico dell’Uni per la Gestione dell’innovazione, oltre essere uno dei componenti del Comitato Tecnico 057 Economia Circolare. “A livello internazionale l’ISO, ovvero l’International Organization for Standardization, sta lavorando a nuove norme per l’economia circolare – afferma – che saranno molto importanti. Quando si parla di economia circolare, secondo il mio punto di vista, non si può pensare solo alla città ma anche ai territori”.

Il ritorno dei territori?

Alla fine la domanda è sempre quella: cosa sono i territori? Da questa prima domanda ne scaturiscono, a cascata, tantissime altre: chi decide per essi? chi li abita? in che modo vengono vissuti e come potrebbero vissuti? A leggere il dibattito in atto, però, sembra che gli unici territori degni di nota siano, ancora una volta, le metropoli. O, al massimo, i centri storici, definiti “i salotti della città”, a mò di vetrina . Mentre le periferie, di cui quasi sempre si parla come qualcosa di esotico o al massimo da capitalizzare in termini di voti, sembrano corpi estranei. L’analisi di Casale parte da una riflessione più ampia.

“Secondo molti studi internazionali – afferma il general manager – la tendenza da qui al 2050 è un ulteriore accentramento della popolazione nelle metropoli. Le grandi città produrranno tanta Co2 e tanti rifiuti, e avranno bisogno di utilizzare tanto territorio per autosostenersi. I grandi agglomerati saranno più un produttore di scarti. Ecco perché si deve investire nei territori, che altrimenti diventeranno, come in parte già sono, riserva per le metropoli o sedi di discariche dove mettere gli scarti prodotti. Normalmente le grandi città, infatti, non hanno all’interno del proprio perimetro le discariche”.

Un fenomeno noto, che alcuni studiosi definiscono “razzismo ambientale”, e che l’economia circolare potrebbe contribuire a rovesciare. In che modo? “Molti investimenti continuano ad andare verso le grandi città – riflette Casale – E la scusa è sempre la stessa: i territori non sono pronti per l’innovazione e l’economia circolare. Ma se ci facciamo bloccare da questa idea i territori non partiranno mai. E intanto basta farsi una passeggiata a Roma, Milano, Napoli e Torino per accorgersi che interi grattacieli, quelli dove di solito sono concentrate le grandi attività produttive o i colossi bancari, sono vuoti. Organizzare alcune attività economiche sui territori, attraverso piattaforme innovative per il lavoro, comporterebbe minori emissioni e minori spostamenti”.

Il ruolo dei borghi

L’altro tema, strettamente connesso ai territori, è quello dei paesi. Nell’Italia dei 7.903 Comuni, i piccoli paesi – che nella narrazione comune associamo ai piccoli borghi – costituiscono una quota consistente di essi. Eppure il rilancio dei borghi non passa dalla loro cartolarizzazione: belli e “naturalistici” per chi arriva dalla città ad ammirarli e va via in giornata. Nei borghi, nei paesi, bisogna poi viverci. “Nel Pnrr la parola borghi compare una decina di volte, ma intesa solo per turismo, passeggiate o chiese da visitare – concorda Casale – Non è corretto. Si anche parla di investimenti per la tecnologia, che è già più interessante, ma se poi la gente ci vive due-tre mesi l’anno il modello non regge. In questo modo invece si alimenta l’idea per cui l’orizzonte dei borghi è quello di diventare sede di residenze stagionali. Invece il costruito va in disuso, e anche quello è un costo che dovrà essere affrontato. Qui si continua a costruire, soprattutto nelle grandi città, mentre la manutenzione dei borghi va decadendo”.

Insomma: scegliere di restare, o andare a vivere nei borghi, ha al momento un costo sociale da affrontare. “Bisogna ottenere equità sociale – dice Casale – Per averla serve un cambio di paradigma, per portare nei paesi capitale umano, startup e incubatori di imprese. Non servono solo lo smart working o uffici aperti per i freelance, ma capacità di attrarre investimenti e risorse. Altrimenti la singola iniziativa è fine a se stessa. Il problema dei borghi non è certamente la connettività. Quella di cui parlo io è la gestione dell’innovazione”.

In questo senso l’economia circolare può essere un fattore trainante. Anche perché, come osserva ancora Casale, non è la singola azienda a trarre beneficio dalla circolarità ma l’intero ecosistema in cui opera. “Manca però la cultura manageriale dei piccoli imprenditori – aggiunge il general manager – Le piccole e medie imprese spesso improvvisano, la trasformazione digitale deve selezionare le migliori tecnologie, integrarle e organizzarle. In questo momento mancano le figure da impiegare e da attrarre nei paesi. Intendiamoci, le grandi aziende l’innovazione la sanno fare, mentre esiste un buco da colmare per le pmi”.

Resilienza circolare

Anche in questo caso, per usare una parola tanto (troppo) di moda, vanno disegnate città resilienti: città che, come insegna ancora il Covid, devono prepararsi, recuperare e adattarsi a shock e stress, siano essi causati dall’uomo o da eventi estremi. Il ritardo dei borghi in questo campo è forse ancora più evidente. Per colmarlo, però, serve partire dall’analisi.

“Come Comitato Piccoli Comuni 4.0 stiamo studiando i borghi sotto i 10mila abitanti – spiega Casale – per definire parametri comuni: cominciare ad avere dei dati per poter affrontare davvero il tema. Se no parliamo di borghi senza sapere manco come. Al momento abbiamo formato una rete spontanea di docenti universitari e professionisti”.

I primati europei dell’Italia sull’economia circolare, seppur in calo, testimoniano che questi provengono dalle zone interne. Basti pensare che il nostro Paese è primo in Europa per riduzione dei rifiuti e per quota di rifiuti avviata a riciclo, con un tasso del 79,3%. Ed è proprio nei piccoli centri che i tassi di raccolta sono più alti, mentre le città metropolitane spesso arrancano (vedi il caso di Roma o della Sicilia). Piccolo è meglio, ed è più facilmente circolare.

fonte: economiacircolare.com


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Dopo la decrescita

La ricostruzione post Covid-19 dovrà nascere necessariamente all’insegna della decrescita. Il mondo ripartirà da un livello di relazioni (non solo economiche) molto più basso del passato e non potrà risalire linearmente al livello di produzione e consumo precedente. Cosa dovremo fare dopo la decrescita? Se cercheremo semplicemente di ritornare alla vita che conducevamo prima, sbatteremo contro il muro. Avremmo una vita insostenibile e favoriremmo la diffusione di virus che, a quanto sembra, si trovano avvantaggiati da alcune condizioni presenti nella nostra vita attuale: dallo sviluppo di grandi concentrazioni di viventi (metropoli per gli uomini, allevamenti industriali per gli animali, produzioni monocolturali per le piante) alla riduzione della biodiversità che, attraverso la complessità degli habitat, è un argine nei confronti del “salto di specie”, causa prima dell’attuale pandemia e di altre precedenti epidemie. La ricostruzione può cominciare solo da quel che ci è servito in piena pandemia: essere in buona salute, nutrirsi bene, avere dell’energia a disposizione e sviluppare le relazioni, perché abbiamo capito che comunicare è un fatto culturale e non solo tecnico-informativo. Non ne siamo ancora consapevoli, ma la pandemia ha aperto una nuova strada per l’umanità. È avvenuto altre volte nella storia dell’uomo di assistere e partecipare al crollo di sistemi creduti indistruttibili. Chi non aveva aperto gli occhi dieci anni fa, oggi sarà costretto a farlo e a ripensare criticamente i propri comportamenti e relazioni sociali 


Orti urbani a North Hills, Stato di New York. Foto: http://communityfoodlab.org

“Non c’è niente di peggio di una società della crescita senza crescita.”

Serge Latouche

In questi mesi di pandemia e quarantena mi è capitato di rileggere molti libri e articoli: per dare un senso alla situazione che viviamo e per raccogliere elementi in grado di ricostruire le origini del disastro attuale che, con il trascorrere del tempo, risultano sempre di più correlate a comportamenti errati rispetto ai nostri simili, agli altri animali, alla natura. Così, a distanza di anni, capita di capire meglio lo spessore di alcune analisi in grado di illuminare il buio del presente. Le parole riportate in apertura sono l’incipit di un’intervista rilasciata ormai otto anni fa da Serge Latouche, il teorico della decrescita, cui seguono parole che oggi assumono il valore di una denuncia lucida e quasi profetica: “Quella che stiamo vivendo è la crisi di una società che vorrebbe continuare a crescere ma non riesce a farlo. (…) che genera un’austerità imposta, una disoccupazione che raggiunge livelli incredibili, una gravissima crisi delle finanze pubbliche e, con essa, l’esaurimento delle risorse per finanziare ciò che garantiva un minimo di qualità della vita in una società capitalista (la salute, la cultura, l’educazione eccetera)”.[1]

Sembrano parole scritte ieri, non dieci anni fa. Allora, mentre si cantavano le lodi della società 4.0 che avrebbe trasformato le nostre vite, c’era già chi presagiva il disastro che oggi viviamo. L’intervista alludeva ad una transizione simile a quella che stiamo vivendo, sintetizzata efficacemente dal titolo “Fine corsa”: “…mi sembra che lo scenario di trasformazione lenta e progressiva sia molto poco probabile. Io non ci credo. La situazione in cui siamo è evidente da almeno cinquant’anni: se datiamo il primo passo della critica ecologica al 1962, con l’uscita del libro di Rachel Carson “Silent Spring”[2], tutto era già allora sufficientemente chiaro…. Nei fatti, la forza, la capacità di resistenza del sistema è talmente forte che soltanto il collasso può aprire la strada a una via d’uscita. Arrivati a quel momento, quale sarà la via d’uscita? Questo è il punto. Sarà “l’ecosocialismo” oppure “la barbarie”. Ora siamo più o meno arrivati all’ora della verità.”

Quindi quello che viviamo è un percorso che alcuni/e studiosi/e avevano previsto, cui avremmo dovuto preparaci da tempo e sul quale diverse correnti di pensiero riflettono tuttora. Invece la gran parte delle persone lo affrontano da ingenue, come chi pensa di attraversare il deserto portandosi una semplice bottiglia d’acqua.

Se avessimo perso meno tempo nel polemizzare sull’idea di decrescita, spesso dileggiata perché volta alla ricerca di una “decrescita felice”, se avessimo accettato l’idea di dover modificare sostanzialmente le basi del nostro modo di vivere, saremmo stati meno impreparati dinanzi ad una situazione che sembra non avere vie di uscita. E ciò dopo un anno di esortazioni (“andrà tutto bene!”) e l’uso sempre più inutilmente abbondante di termini quali sostenibilità, resilienza, economia circolare, che propongono l’idea di una ripresa generale successiva alla pandemia, priva di pecche e difetti. 


La decrescita come alternativa. Immagine tratta da elcomunista.net

Eviterò ogni polemica o tentativo di spiegazione della decrescita e considererò il dato di fatto evidente: il mondo decresce, inesorabilmente e complessivamente, al di là di tutte le buone intenzioni. Nei primi venti anni di questo millennio abbiamo assistito ai più diversi tentativi per risollevare l’economia del pianeta, che ha continuato a crescere solo virtualmente attraverso le speculazioni di borsa e gli artifici finanziari. La cosiddetta “bolla speculativa dei prodotti derivati”[3] nata nel 2008, continua ancora a produrre i suoi effetti: ogni volta che si tenta di ritrovare un ritmo di crescita pari a quello dei “trenta gloriosi”[4], puntualmente arriva un evento, considerato imprevisto, che rimanda tutto indietro, come se giocassimo al “gioco dell’oca”.

È il fallimento della società industriale che trent’anni fa, con la fine del sogno socialista, pensava di avere trovato nel sistema capitalistico globale la sua prospettiva e di averlo reso virtuoso ed inarrestabile, applicando a tutte le attività umane, comprese quelle che si basano sui viventi, le regole del sistema finanziario. Regole che prevedono l’utilizzo in funzione della produzione e del consumo di ogni essere del pianeta, definito “risorsa”: indipendentemente dalle condizioni esterne e dai cicli biologici, tutti/e noi siamo risorse per la produzione e il consumo, trascinando gli altri viventi verso il nostro stesso destino. La soluzione alla crisi, proposta dalle stesse forze che l’hanno provocata, sarebbe la creazione di un sistema immateriale la cui “precisione”, avviata attraverso l’uso dei più sofisticati mezzi tecnico-scientifici, risolverebbe il problema della finitezza dei mezzi e, penetrando negli intimi meccanismi della materia, permetterebbe di costruire una vita “à la carte” e lo sviluppo di un mercato attivo 24 ore su 24.

La società, vista con tale logica, si rivela un grande gioco di mercato: un “Monopoli”, dove però i giocatori non sarebbero rifinanziati ad ogni passaggio dal traguardo (come succede nel famoso gioco) e dove, secondo l’andamento del gioco, risulterebbero sostanzialmente modificate le condizioni reali di vita per tutti/e, indipendentemente dalle singole azioni e dal fatto che non si giochi a quel tavolo. Ed è quello che constatiamo quotidianamente, persino ora, durante la pandemia.

A ben vedere, le conquiste compiute nei più diversi campi di lotta contro la fame, le malattie e la povertà, si sono rivelate limitate e gli interventi di scarsa efficacia. Il traguardo dell’eliminazione di questi problemi dalla storia dell’umanità, tanto sbandierato negli ultimi cinquant’anni, è stato progressivamente spostato sempre più avanti nel tempo e sempre più ridotto nell’entità. Alla fine degli anni Sessanta del Novecento pensavamo di eliminare la fame, la povertà e le malattie per la maggior parte degli abitanti del pianeta entro il Duemila: negli anni Novanta ci siamo resi conto che questo era impossibile, sicché abbiamo posticipato i tempi e ridotto le percentuali per ciascuno degli obiettivi. Probabilmente faremo lo stesso ora che il Piano d’azione dell’ONU, detto Agenda 2030, prevede la sua realizzazione, fissata con tanto di target e indicatori, nel 2030. 


Immagine tratta da Revista eco21

Il Covid-19 ha messo in evidenza, in modo quasi inaspettato, le contraddizioni sino ad ora descritte e con esse la brutalità dell’ingiustizia e delle discriminazioni in tutto il pianeta, soprattutto nei Paesi che ritenevano di essere meno suscettibili di altri ai mutamenti in corso. Ma ci ha anche offerto una base nuova per riflettere sul futuro. Anzitutto, una considerazione quasi banale: se sappiamo che le risorse non sono illimitate, se pensiamo che all’economia lineare[5] si debba sostituire l’economia circolare[6], come possiamo pensare di crescere e svilupparci indefinitamente? È chiaro che, se alcuni limiti sono stati superati, il sistema si riequilibrerà comunque, anche se non fossimo noi a farlo.

Ciò che in questa crisi ci ha colti/e di sorpresa non è la probabilità che il sistema naturale trovasse una sua via di soluzione, cosa già avvenuta in innumerevoli casi – dalle frane alle inondazioni, alle eruzioni, ai terremoti -, bensì il fatto che esso abbia colpito direttamente il nostro corpo. Esso è stato colpito in modo più pervasivo che in altre occasioni (di epidemie e pandemie ne abbiamo avute e superate tante), mostrando come siano inadeguate le strutture portanti dei nostri sistemi sociali, economici e politici.

In questo senso la ricostruzione post Covid-19 dovrà nascere all’insegna della decrescita, poiché tutto il mondo ripartirà da un livello di relazioni (non solo economiche) molto più basso del passato e non potrà risalire linearmente al livello di produzione e consumo precedente. Dovremmo affrontare i problemi della ricostruzione basandoci su un modello circolare dei sistemi di produzione e di servizio, di certo evitando di consumare enormi quantità di energia, pur se rinnovabile. Anche sul piano delle relazioni sociali e politiche sarà difficile rinnovare momenti d’incontro oceanici, dove i singoli sono un numero e partecipano con la sola aspirazione di poter dire: – “Io c’ero!”. Dovremo ricostruire psicologicamente noi stessi e non potrà avvenire sbandierando, come ora avviene, un possibile benessere consumistico e la prospettiva del successo personale.

L’esordio dell’epidemia e la sua rapida trasformazione in pandemia sono sembrati un colpo arrivato in un momento di estrema debolezza. Le società umane sono in crisi: le condizioni di vita degli individui sono troppo diseguali, troppe sono le ingiustizie[7] e, per compensare il senso di frustrazione, chi può ricorre al consumismo, che comunque non riesce ad attenuare malessere e frustrazioni. Il Covid-19 ha infranto la diffusa convinzione della propria superiorità di specie, cosa che altri virus simili come quello dell’influenza o dell’HIV, non erano riusciti a fare. Finora l’uomo si è ritenuto un animale diverso dagli altri, tanto diverso da poter reificare, sfruttare, sterminare il resto dei viventi. Anche le iniziative assunte per difendere la natura e gli animali non umani sono state viste come interventi che ci avrebbero permesso di proseguire su un percorso di sfruttamento, da attuare utilizzando metodi “più corretti”. Oggi constatiamo che questo tema ci riguarda direttamente e che gli interventi fatti su altri viventi cambiano la nostra vita; il loro sfruttamento ed il loro sterminio sono la porta per rendere accettabile quello di altri umani. La decrescita “poco felice” del nostro sistema di vita, causata non da un destino ineluttabile, ma dai nostri comportamenti, è un dato di fatto da cui partire per incamminarsi per un’altra strada.


La avenida 9 de julio a Buenos Aires deserta durante il lockdown. Foto Wikipedia

Cosa dovremo fare dopo la decrescita?

Partiamo da ciò che è rimasto di tutta la nostra società basata sull’economia: cosa si è fatto nel periodo di quarantena per vivere ed avere relazioni con gli altri? È servito essere in buona salute, nutrirsi bene, avere dell’energia a disposizione e sviluppare le relazioni, perché abbiamo capito che comunicare è un fatto culturale e non solo tecnico – informativo. Quindi tutto ciò su cui dobbiamo fondare la ricostruzione dopo la decrescita riguarda questi ambiti: se cercheremo semplicemente di ritornare alla vita che conducevamo prima, sbatteremo contro il muro. Avremmo una vita insostenibile e favoriremmo la diffusione di virus che, a quanto sembra, si trovano avvantaggiati da alcune condizioni presenti nella nostra vita attuale: lo sviluppo di grandi concentrazioni di viventi (metropoli per gli uomini, allevamenti industriali per gli animali, produzioni monocolturali per le piante); la condizione immunodepressa delle popolazioni umane e non-umane, costrette a vivere in questo stato; lo sviluppo e la diffusione nell’atmosfera del carbonio, che favorisce il proliferare e il permanere delle catene molecolari, quindi dei virus che sono fatti di catene di carbonio e che, ricordiamolo, sono la base della vita. Inspiegabilmente abbiamo rimosso dalla nostra coscienza la riduzione della biodiversità che, attraverso la complessità degli habitat, è un argine nei confronti del “salto di specie”, causa prima dell’attuale pandemia e di altre precedenti epidemie.

Se dovremo impegnare le grandi risorse finanziarie che si prevedono in arrivo, facciamolo per tutelare anzitutto la salute e l’alimentazione nostre e degli altri viventi, e facciamolo attraverso il ripristino di condizioni energetiche “sostenibili”. Queste poche frasi possono sembrare banali, ma aprono un gran numero di prospettive, soprattutto se pensiamo che questi risultati possiamo ottenerli attraverso sistemi di comunicazione a minore impatto energetico. Purché essi non annullino le individualità e non riducano le persone a un’immagine di sé, perché in tal caso l’impatto energetico negativo sarebbe solo apparentemente minore.

Non ne siamo ancora consapevoli, ma la pandemia ha aperto una nuova strada per l’umanità. È avvenuto altre volte nella storia dell’uomo di assistere e partecipare al crollo di sistemi creduti indistruttibili. Come ci ricordava Serge Latouche nel 2013: “Le catastrofi ci sono state e ci saranno di nuovo. Ma c’è anche la capacità del mondo di riorganizzarsi. L’Impero romano si è riorganizzato. Solo che nel IV secolo d.C. la popolazione di Roma è passata da circa due milioni di abitanti a circa trentamila. Oggi la popolazione di Detroit è passata da circa due milioni a meno di settecentomila abitanti. Che cosa è successo? La gente non è sparita, non è stata massacrata: molti sono andati altrove, quelli rimasti hanno riconvertito la zona centrale di Detroit in orti urbani…. È un’altra civiltà che nasce. Probabilmente succederà lo stesso a Parigi, a New York, sarà un cambiamento forte ma che avverrà a poco a poco.”[10]

Chi non aveva aperto gli occhi dieci anni fa, oggi sarà costretto a farlo e a ripensare criticamente i propri comportamenti e relazioni sociali. Non sarà un processo semplice ed indolore, tutt’altro. Ma è l’unica via per costruire, dopo la decrescita, un mondo e una vita più degni di essere vissuti.

fonte: comune-info.net


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C’è ancora molto da lavorare sull’inclusione sociale dell’economia circolare

E per essere finanziati dalle risorse europee nell’ambito del Recovery fund, gli investimenti di settore dovranno rispettare i 6 target ambientali del Regolamento sulla tassonomia













Il workshop “Making the circular economy work for sustainability: from theory to practice”, organizzato congiuntamente da Cercis [1] e Seeds [2], per l’Università di Ferrara, e dall’Università degli Studi di Trieste ha riunito attorno allo stesso tavolo (virtuale) ricercatori e funzionari delle istituzioni europee, coinvolti in prima persona nelle prossime scelte politiche dell’Unione in campo ambientale e non solo. È stata un’occasione di approfondimento scientifico, da un lato, e di dialogo tra mondo della ricerca e mondo della politica economica, dall’altro, coordinato da due attori di primo piano della ricerca pubblica in fatto di economia circolare: Cercis è finanziato nell’ambito dell’iniziativa Miur “Dipartimenti di eccellenza”, mentre Seeds è ormai arrivato ad assommare al suo interno ben 8 Atenei (capitanati dall’Unife).

Chi ha mai avuto occasione di addentrarsi nei temi oggetto di questo workshop sa che il concetto di economia circolare non è poi così univoco e che le sue definizioni si contano a decine. Escludendo qui quelle di carattere normativo (che affermano, cioè, come l’economia circolare dovrebbe essere) e concentrandoci su quelle positive (che cos’è l’economia circolare?), merita riportare quella ricordata da uno degli ospiti dell’evento, Jesús Alquézar Sabadie (Commissione europea, Dg Ambiente), secondo cui l’economia circolare è quell’insieme di processi produttivi – in senso lato – che permettono di trattenere materia ed energia all’interno del sistema economico, procrastinandone quanto più possibile il loro ritorno all’ambiente.

Parallelamente alle questioni teoriche, il workshop si è concentrato sulla necessità di fare dell’economia circolare un progetto al servizio della sostenibilità. Ma come si spiega questa necessità? Il contributo dell’economia circolare alla sostenibilità non era forse scontato?

Una prima risposta a questa domanda poggia proprio sul concetto di sostenibilità. Semplificando molto, potremmo affermare che, ad oggi, questo termine indica la compresenza di tre aspetti: profittabilità economica, tutela ambientale e inclusione sociale. Mettere l’economia circolare al servizio della sostenibilità significa quindi renderla economicamente appetibile, rispettosa dell’ambiente e socialmente equa o, per lo meno, socialmente accettabile. Solo così è possibile trasformarla da teoria a pratica.

Come ha osservato un altro ospite del workshop, Stefan Speck (Agenzia europea per l’ambiente), il livello di circolarità non risulta in crescita, ma – forse solo per ragioni congiunturali – dal 2018 al 2019 è addirittura diminuito. Sembra lecito dedurre che agli attori economici (consumatori e imprese in primis) l’economia circolare non appaia ancora così appetibile. D’altro canto, un risultato già noto nella letteratura scientifica e riaffermato durante l’evento è che la dimensione sociale dell’economia circolare rimane ancora molto limitata. In altre parole, gli effetti dell’economia circolare sull’equità e sull’inclusione sociale sono ancora difficili da inquadrare. Come osservato da alcuni relatori, il rischio è che la sua introduzione si riveli una grande opportunità solo per alcuni ma non per tutti. Non a caso, una delle sessioni di lavoro era dedicata allo studio dell’accettabilità delle misure di economia circolare e, più in generale, di quelle di sostenibilità ambientale per i soggetti privati.

Mentre il dibattito accademico-scientifico sull’economia circolare continua, l’attuale pandemia di Covid-19 ha posto la politica economica di fronte alla necessità di prendere decisioni non solo importanti ma anche molto urgenti. Come noto, a livello di Unione europea, è stata ideata la Recovery and resilience facility, un piano da più di 650 miliardi di euro volto a finanziare riforme e investimenti negli stati membri.

Un intervento di queste dimensioni e di questa portata non poteva dispiegarsi ignorando la questione ambientale o rinunciando a cogliere l’occasione per indirizzare le nostre economie verso un percorso di sostenibilità ambientale e sociale. Come illustrato da uno degli ospiti del workshop, Florian Flachenecker (Commissione europea, Recovery and resilience task force), il 37% delle risorse impiegate dovrà essere dedicato a misure (investimenti o riforme) che contribuiscano ai due obiettivi della mitigazione dei cambiamenti climatici e dell’adattamento ai medesimi. Inoltre, per essere finanziata, una misura dovrà sottostare al principio del “do not significant harm” (in un acronimo che diventerà presto familiare: Dnhs). Più specificamente, non dovrà essere in conflitto con alcuno dei sei obiettivi ambientali del Regolamento sulla tassonomia (Reg. UE 2020/852), ovvero: mitigazione dei cambiamenti climatici, adattamento ai cambiamenti climatici, uso sostenibile e protezione delle acque e delle risorse marine, transizione verso un’economia circolare, prevenzione e riduzione dell’inquinamento e protezione e ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.

In questo modo, la politica economica offre una soluzione immediatamente operativa al rapporto tra economia circolare e sostenibilità ambientale. Per essere finanziati, i progetti di economia circolare dovranno garantire il rispetto degli obiettivi ambientali prefissati.

[1] Il CERCIS (CEntre for Research on Circular economy, Innovation and SMEs) è il Centro per la ricerca sull’economia circolare, l’innovazione e le PMI (http://eco.unife.it/it/ricerca-imprese-territorio/centri-di-ricerca/cercis) dell’Università degli Studi di Ferrara.

[2] Il SEEDS (Sustainability, environmentaleconomics and dynamicsstudies) è un centro di ricerca interuniversitario (www.sustainability-seeds.org).

fonte: www.greenreport.it


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Ci vuole un Recovery Planet

A fine aprile il governo Draghi dovrà consegnare la propria versione del Recovery Plan. Per uscire dalla crisi post-Covid serve però una strategia complessiva che cambi il modo in cui viviamo. La rete della Società della cura ha elaborato una proposta che ha messo insieme più di mille persone, suddivise in 13 tavoli tematici



L'antidoto a un esecutivo chiuso nelle sue stanze, con portatori di interesse ed esperti dei soliti affari e con scarsa attenzione alla dura realtà dei cambiamenti climatici?

Quelle minacce che, solo a volercisi adattare con soluzioni di mercato, costerebbero al mondo tra 130 e 300 miliardi di dollari l’anno fino al 2030, e tra 280 e 500 miliardi fino al 2050, mentre a novembre 2020 il Green Climate Fund istituito per sostenere l’Accordo di Parigi ne ha approvati 7,2 e davvero sborsati 1,4?

Non basta un Recovery Plan, pur a volerlo fare bene: serve un Recovery Planet. Una strategia complessiva che cambi il modo in cui produciamo, coltiviamo, distribuiamo, ci nutriamo, ci finanziamo, lavoriamo e affrontiamo la prospettiva digitale, operando scelte nette a partire da un cambio di paradigma complessivo che metta la pratica ecofemminista della cura al centro del sistema al posto del profitto.

Recovery Planet è il risultato del lavoro di oltre mille mani che per cinque settimane si sono incontrate regolarmente in modo virtuale pescando competenze e pensieri tra oltre 1400 tra realtà organizzate e persone che si riconoscono nel processo di convergenza verso una Società della Cura.

La Società della Cura nasce in un pomeriggio di mezza estate, quando a Roma, nella distopica cornice di Villa Pamphilj, l’ex premier italiano Giuseppe Conte accoglie alcune realtà della società civile e sindacali per provare a mitigare l’effetto-choc provocato dalla lettura del Piano Colao che indicava per l’uscita del Paese dalla crisi post-Covid le stesse scelte mercatiste che ci avevano portato alla crisi sociale e ambientale, insieme alla stagnazione economica, ben prima dello scoppio della pandemia. 



Nasce così un appello spontaneo a radunarsi fuori dalla cornice dorata, in un pic-nic, per ragionare insieme su quale dovesse essere, invece, una cornice di senso e un piano d’azione innovativo che consentisse all’Italia, ma non solo, di non sprecare le lezioni della pandemia, affrontare il collasso climatico e l’ingiustizia sociale per costruire la società della cura di sé, degli altri, del pianeta.

Da quel centinaio tra persone e realtà nasce un percorso di confronto che, dopo meno di un anno di lavoro insieme e due mobilitazioni – il 21 novembre e il 22 dicembre – con azioni simboliche da Aosta a Catania, che hanno lanciato un Manifesto comune e un “Dono” per reindirizzare 175 miliardi dell’ultima Legge di bilancio verso un cambiamento radicale di direzione delle politiche locali e nazionali per non lasciare nessun@ indietro.

Il 10 aprile torneremo a mobilitarci per presentare a istituzioni e territori il nostro Recovery Planet: un Piano nazionale di transizione verso la società della cura, la nostra alternativa al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del governo, elaborato con un metodo partecipato da centinaia di persone organizzate in 13 tavoli tematici. Il documento si apre con una lettura critica femminista delle iniziative da intraprendere, e si accompagna a un testo più di dettaglio prodotto dal tavolo tematico “Ecologia e ambiente” cui hanno lavorato attivist@ dei Fridays for future, dei movimenti per l’acqua pubblica, No Tav, No Triv, dell’associazione Laudato Sì e di molti altri comitati e realtà ambientaliste, contadine e animaliste.

Il superamento del modello di economia lineare verso una circolarità multidimensionale dell’organizzazione dei mercati è uno dei pilastri della vera transizione, ma da solo non basta, perché per contenere all’origine i virus patogeni la cui diffusione è accelerata dalla degradazione dell’ambiente che abbiamo provocato, bisogna ispirare ogni intervento alla cura del patrimonio naturale, alla rigenerazione dei servizi ecosistemici che sorreggono la rete della vita e tra i viventi. 



È in questa chiave che si integrano con coerenza l’esigenza di ripubblicizzare i servizi pubblici locali a partire dall’acqua, a dieci anni dal referendum popolare che lo ha chiesto, riscrivere la Strategia nazionale della biodiversità, il Piano nazionale integrato per energia e clima, la Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile tagliando le emissioni almeno del 7,6% l’anno come chiedono le Nazioni Unite, abolendo i sussidi ambientalmente dannosi ma introducendo anche tassazioni penalizzanti dei prodotti più inquinanti che gravino sui profitti degli azionisti.

Più importante, però, è colmare il deficit democratico e di partecipazione alle scelte strategiche del Paese che si va approfondendo, prevedendo un percorso per l’inserimento in Costituzione della salvaguardia dei diritti della natura e del vivente svelatisi con la pandemia così deboli ma determinanti per la nostra stessa sopravvivenza. Non sono solo pagine o critiche, la difesa di un diritto o di un bene comune, ma la sfida per un’alternativa di società, che contrapponga il prendersi cura alla predazione, la cooperazione solidale alla solitudine competitiva, il “noi” dell’eguaglianza e delle differenze all’“io” del dominio e dell’omologazione.

fonte: comune-info.net


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Potenziare l'economia circolare nel settore degli imballaggi in plastica

La ripresa economica post Covid 19 dovrà andare nella direzione di disaccoppiare l'uso degli imballaggi di plastica dal consumo di materie prime a base fossile, facendo anche in modo che la plastica non venga gettata negli oceani e sul suolo e che con una sua minore produzione si possa immettere meno gas serra in atmosfera contribuendo a raggiungere gli obiettivi climatici definiti dall’accordo di Parigi





Nella prima fase della Pandemia, ma non solo, abbiamo assistito ad un aumento dei rifiuti da imballaggio anche quelli in plastica, l'usa e getta veniva preferito in quanto ritenuto più sicuro per motivi igienico sanitari.

Per fortuna, alcuni autorevoli professionisti della salute pubblica (100 scienziati provenienti da 18 paesi) hanno affermato, alla fine di giugno del 2020, che era possibile continuare a usare in sicurezza imballaggi riutilizzabili, determinando una sostanziale attenuazione delle preoccupazioni in merito alla sicurezza degli imballaggi riutilizzabili.

Standard elevati e protocolli d'igiene e sicurezza sono una parte importante di qualsiasi sistema di imballaggio, che sia monouso o riutilizzabile. La sicurezza e l'igiene non sono determinate dal fatto che un bene sia monouso o riutilizzabile, ma da come gli imballaggi e i contenitori sono gestiti e manipolati.

La maggior parte dei sistemi di riutilizzo, alcuni attivi da decenni, hanno resistito agli impatti della pandemia senza bisogno di fare alcun cambiamento nei loro processi di pulizia. I modelli di business del riuso che offrono, in molte parti del mondo, servizi di consegna a domicilio, ritiro e/o restituzione hanno continuato a funzionare senza problemi, e alcuni hanno persino prosperato durante la pandemia, come è accaduto per le aziende che offrono contenitori riutilizzabili ai clienti (Loop e Vessel, ad esempio o Algramo, un fornitore di sistemi di ricarica di imballaggi riutilizzabili a Santiago del Cile, che ha prosperato durante l'isolamento (lock down), grazie al suo sistema di distribuzione su triciclo senza contatti con i clienti).

Le varie opportunità che si possono realizzare in quest’ambito sono ancora in gran parte non sfruttate, per questo si prevede che il mercato degli imballaggi riutilizzabili crescerà generando molti profitti (si stima 145 miliardi di dollari nel 2026). Investire in modelli economici in grado di riutilizzare la plastica riduce la necessità di imballaggi monouso (usa e getta) e produce benefici economici ma anche ambientali. I modelli economici improntati al riuso degli imballaggi in plastica possono giocare un ruolo fondamentale nel
permettere ai materiali plastici di alta qualità di essere mantenuti in circolazione all'interno dell'economia con un risparmio di materia prima e riduzione della produzione di rifiuti plastici, affrontare l'inquinamento da plastica che colpisce il suolo, i fiumi, i mari e gli oceani con benefici ai consumatori e all’economia, ridurre le emissioni di gas serra prodotte dal comparto della produzione della plastica. Un rapporto di Material Economics ha stimato che i modelli di business che aumentano il riutilizzo degli imballaggi di plastica potrebbero ridurre le emissioni di circa 3 milioni di tonnellate all'anno entro il 2050. Se anche solo i flaconi, per i prodotti destinati alla cura della persona e della casa, fossero riutilizzabili, questi potrebbero determinare, insieme a modelli di consegna di tipo innovativo, una riduzione dell'80-85% delle emissioni di gas serra rispetto ai tradizionali contenitori monouso che utilizziamo, per lo più, oggi.

Per potenziare l'economia circolare in questo settore industriale abbiamo bisogno di
impianti di raccolta, selezione e riciclaggio in grado di aumentare la circolazione di materiali di alta qualità in plastica
creare un mercato secondario di questi materiali.

Per fare questo, sono necessari investimenti in infrastrutture e tecnologie in grado di migliorare radicalmente l'economia di questo comparto produttivo, aumentando la qualità e la diffusione del riciclaggio. Nel 2016, la quota globale di plastica non gestita correttamente era di circa il 41%, e stime prevedono che aumenterà al 56% nel 2040, contribuendo a triplicare il volume annuale di plastica nell'oceano. Questo accade in quanto una buona parte di questo materiale, a livello globale ad oggi, non viene ancora raccolta, mentre un’altra parte, seppure raccolta, finisce poi per essere gettata in modo inconsulto nell'ambiente.

Per contribuire ad aumentare i tassi di raccolta, saranno necessari investimenti in tutte quelle aree, in cui i rifiuti non vengono ancora gestiti in modo corretto e dove saranno necessari forti investimenti nella strutturazione del settore, che potrebbe aumentare il valore degli imballaggi di plastica post-utilizzo e ridurre la probabilità di perdite di materiale.

Per quanto riguarda i processi di selezione e riciclaggio, solo il 35-40% della plastica raccolta per il riciclaggio è attualmente utilizzata in un nuovo ciclo di produzione (a causa di perdite significative durante la lavorazione), bisogna quindi che vengano aumentati gli sforzi per accrescere i tassi di raccolta con azioni per migliorare il rendimento, la qualità e l'economia legata al riciclaggio. Ciò richiederà di indirizzare gli investimenti nei processi di selezione e riciclaggio, avvalendosi delle ultime innovazioni tecnologiche in grado di garantire maggiori controlli dei processi, marcatura chimica e automazione.

Tuttavia, la capacità di creare flussi post-utilizzo di elevata purezza e a prezzi competitivi dipenderà molto dal design degli imballaggi e dei materiali, che ha un impatto diretto e significativo sull'economia del riciclaggio. Senza una ri-progettazione di questi imballaggi, circa il 30% degli stessi non sarà mai riutilizzato o riciclato.

Gli investimenti negli impianti di riciclaggio possono anche offrire opportunità per combattere il cambiamento climatico oltre che creare nuovi posti di lavoro.

Uno studio di Material Economics ha mostrato che realizzare impianti di riciclaggio di alta qualità, in Europa, potrebbe fornire fino al 60-70% del materiale necessario per la produzione di plastica, avvicinandosi ai livelli di riciclaggio previsti oggi per l'alluminio. Con il riciclaggio si potrebbe ridurre di circa il 90% le emissioni di CO2 derivanti dalla nuova produzione di plastica, con un significativo impatto sulla lotta ai cambiamenti climatici.

Inoltre, secondo alcuni studi, la necessità di forza lavoro nel settore della lavorazione dei materiali riciclabili può generare circa 20 volte più posti di lavoro rispetto a quelli necessari nelle discariche, e i produttori di plastica che utilizzano materiali riciclati possono avere bisogno di circa 100 volte più posti di lavoro rispetto a quelli richiesti nelle discariche.

Purtroppo basarsi solo sulla gestione dei rifiuti e non sul riciclaggio non riuscirà a fermare l'inquinamento da plastica, perché non sarà né tecnicamente né finanziariamente fattibile. Per questo si rende necessaria un'economia circolare per la plastica, in modo che questa non diventi mai rifiuto in grado di creare inquinamento, adottando un approccio integrato che dispieghi soluzioni sia a monte che a valle per affrontare efficacemente l'inquinamento da plastica.

Questo include l'implementazione degli interventi di sistema sia da parte dell'industria che dei governo, tesi ad eliminare, ad esempio, gli imballaggi di plastica problematici e non necessari passare da modelli monouso a modelli di riutilizzo dei contenitori in plastica
sostituire la plastica con altri materiali, quando necessario.

Per catalizzare il cambiamento, in modo che venga adottato un approccio integrato, è necessaria una collaborazione tra diversi settori ma anche tra Stati e regioni che sia guidata da un senso condiviso della direzione da intraprendere. Un approccio di economia circolare globale di questo tipo avrebbe il potenziale per
ridurre il volume annuale di plastica che entra nei nostri oceani di oltre l'80%
generare un risparmio di 200 miliardi di dollari all'anno
ridurre le emissioni di gas serra del 25%
creare 700.000 posti di lavoro netti aggiuntivi entro il 2040.

Al momento l'iniziativa New Plastics Economy sta lavorando in questa direzione, negli ultimi quattro anni, ha cercato di radunare imprese e governi affinché acquisissero una visione comune di un'economia circolare per la plastica. Questo lavoro ha fatto si che più di 850 organizzazioni, che fanno parte della catena del valore della plastica, sia nel settore privato che pubblico, si unissero nel New Plastics Economy Global Commitment (Accordo globale per una economia delle nuove plastiche) e nella rete Plastics Pact (Patto per le plastiche).

Queste iniziative guidano l'azione collettiva contro la plastica di cui non abbiamo bisogno, in modo che tutta la plastica di cui abbiamo bisogno sia riutilizzabile, riciclabile o compostabile.

L'obiettivo è far circolare tutta la plastica che usiamo, mantenendola nell'economia e fuori dall'ambiente.

Per approfondire: The circular economy: a transformative Covid-19 recovery strategy

fonte: www.arpat.toscana.it

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Green Symposium a Napoli il 22-23 ottobre

 

“European New Deal dopo il Covid: uscire dalle infrazioni puntando sull’innovazione” è la proposta alla base del Green Symposium 2020 in programma a Napoli nella Stazione marittima il 22 e il 23 ottobre. La due giorni dedicata all’economia circolare, promossa da Ecomondo e Ricicla Tv, si terrà a numero chiuso (per partecipare è necessario registrarsi) dopo essere stata rimandata a marzo a causa dell’emergenza sanitaria.


In programma numerosi interventi di rappresentanti istituzionali: tra questi, l’assessore all’Energia della Regione Sicilia, Alberto Pierobon, il vicepresidente della Regione Campania, con delega all’Ambiente, Fulvio Bonavitacola, gli assessori all’Ambiente delle Regioni Lazio e Calabria, rispettivamente Massimiliano Valeriani e Sergio De Caprio.

Per il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, parteciperanno il direttore generale Ispra Alessandro Bratti (sessione dedicata allo schema di recepimento della direttiva europea “Imballaggi”, prevista nella mattinata del 23 ottobre), e il direttore generale Arpa Campania Stefano Sorvino (sessione dedicata alle bonifiche e al ruolo delle stazioni appaltanti, prevista nel pomeriggio del 23 ottobre).

Nei tavoli tecnici dedicati all’incontro tra istituzioni e imprese (sessioni mattutina e pomeridiana del 23 ottobre) sono previsti gli interventi, per Ispra-Snpa, di Valeria Frittelloni e Fabio Pascarella, e inoltre di Francesco Bussetti (Arpa Puglia), Vincenzo Barbuto e Alberto Grosso (Arpa Campania),

Programma completo dell’evento

fonte: https://www.snpambiente.it

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L’era del petrolio è finita e non si tornerà indietro, parola dell’Economist

Opinione pubblica sempre più preoccupata dai cambiamenti climatici ed aziende dalla competitività; il denaro si sta spostando verso investimenti green. Opportunità e rischi di un processo globale ormai irreversibile, secondo lo special report della rivista britannica.



“Oggi i combustibili fossili rappresentano la fonte dell’85% dell’energia consumata. Ma questo sistema è sporco. L’energia causa i due terzi delle emissioni di gas serra; l’inquinamento provocato dai combustibili fossili uccide oltre 4 milioni di persone all’anno, soprattutto nelle megalopoli del mondo emergente. Il petrolio ha anche creato instabilità politica e tensioni mondiali”.

A dire queste cose non è Greenpeace, ma un editoriale dell’Economist dal titolo “Is it the end of the oil age?” che fa da apertura ad un rapporto speciale nel numero uscito la scorsa settimana che in copertina titola: “21st century power: How clean energy will remake geopolitics”.

Per il prestigioso settimanale britannico, mai stato tenero con l’economia verde e le rinnovabili e sempre molto attento al settore delle fossili, è un vero e proprio ribaltamento di approccio.

Guarda con attenzione agli investitori che si trovano di fronte un mondo cambiato soprattutto dalla pandemia. E si avverte: “non si tornerà indietro”.

“Non si tratta – scrivono – di un semplice shock petrolifero; è qualcosa di diverso”. L’opinione pubblica e le aziende sono sempre più preoccupate dai cambiamenti climatici. Tutti sanno che arriveranno normative più stringenti e una fiscalità più orientata alle soluzioni green (carbon tax, ad esempio). Investimenti verdi oggi favoriti anche da tassi di interesse tendenti allo zero.

Le aziende, soprattutto quelli più grandi e tradizionali, rischiano di perdere credibilità e competitività se non sapranno cavalcare questa nuova onda che punta soprattutto all’elettrificazione, alle fonti rinnovabili, alla decarbonizzazione dell’economia.

Il denaro si sta spostando dalle fossili all’energia pulita, sottolinea l’Economist. Restare indietro in questo epocale cambio tecnologico, con tutte le sue opportunità (oltre che criticità) è un rischio per chi fa impresa: investimenti “incagliati” (crediti inesigibili) e definitivo sorpasso da parte dei concorrenti, specialmente di nuovi attori, giovani, dinamici, e spesso asiatici.

Una vulnerabilità, quella del mondo energetico tradizionale, che è poi stigmatizzata, spiega l’articolo, dall’espulsione di ExxonMobil dal Dow Jones Industrial Average dopo oltre 90 anni e dalla probabile crisi socio-economica di paesi che hanno sempre puntato tutto sul petrolio, come l’Arabia Saudita, che fanno ancora troppa fatica a riformarsi. Insomma, un sistema in evoluzione che richiederebbe lungimiranza e competenze.

Per la testata della grande finanza “il sistema energetico del 21° secolo promette di essere migliore dell’era del petrolio: migliore per la salute umana, più politicamente stabile e meno economicamente volatile”.

Tuttavia, non vengono affatto edulcorati i notevoli rischi insiti in questo processo che, se portato avanti in modo disordinato potrebbe favorire, anch’esso, l’instabilità politica ed economica nei cosiddetti PetroStati, ma anche concentrare sempre di più gran parte della filiera tecnologica green e innovativa in Cina, con disastrose conseguenze per Europa e Usa (sebbene abbiano grandissime potenzialità), ma anche per i paesi più poveri.

Ma – e questo è un altro punto che colpisce dell’analisi dell’Economist – sarebbe ancora più pericoloso che questo processo vada troppo lento: cambiamenti climatici e crisi socio-economiche potrebbero esplodere e causare impatti ben più duri.

In conclusione, per l’Economist la transizione ecologica ed energetica causerà sicuramente nuove turbolenze geopolitiche, ma s’ha da fare! In molti si stanno risvegliando, e un ritorno al vecchio mondo è quanto meno improbabile.

fonte: https://www.qualenergia.it

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Il ruolo delle green city nella ripresa post Covid

Le green city possono essere la risposta per fronteggiare da una parte le emergenze provocate dalla pandemia, dall’altra l’emergenza climatica



La ripartenza delle città nel post emergenza Covid è stato oggetto di approfondimento in una nostra precedente Arpatnews in cui abbiamo affrontato il tema delle smart city. Nel dibattito sulla ripresa del nostro Paese e sul ruolo che in questa ripresa hanno le città entra anche il modello europeo delle green city; i nostri centri urbani infatti possono avere un‘impronta ecologica altamente insostenibile, ma allo stesso tempo possono giocare una parte importante per risolvere alcuni problemi a livello globale.

All’argomento è stata dedicata proprio la 3^ Conferenza Nazionale delle Green City organizzata dal Green City Network, la rete promossa dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile.

Al centro della conferenza i temi che richiedono un nuovo protagonismo delle città: dalla decarbonizzazione, all’economia circolare, alla mobilità sostenibile, alla digitalizzazione, alle infrastrutture verdi. Un programma di rigenerazione basato sul modello delle green city, città che puntano in modo prioritario sull’elevata qualità ecologica per assicurare resilienza e sostenibilità e che, ancora di più dopo questa pandemia, possono essere una leva decisiva del Green Deal in Italia.

La Carta, presentata in occasione della conferenza, propone 7 obiettivi strategici della rigenerazione urbana secondo il modello delle green city:


pianificazione urbana: definire e aggiornare la strategia comunale complessiva e gli indirizzi della pianificazione con la visione della green city quale quadro di riferimento dei progetti e degli interventi di rigenerazione urbana, definendo anche indicazioni per assicurare un’adeguata qualità ecologica e valorizzando le possibili integrazioni e sinergie tra le varie competenze e i diversi settori

consumo suolo: azzerare il consumo di suolo che genera degrado e impatti per la qualità architettonica e paesaggistica delle città, perdita di aree naturali e agricole, erosione e impermeabilizzazione dei suoli e aumento dei rischi idrogeologici

decarbonizzazione: valutare le prestazioni energetico-ambientali degli edifici, utilizzare soluzioni tecniche per ridurre i fabbisogni energetici, effettuare un’analisi delle fonti rinnovabili utilizzabili localmente e promuovere le migliori tecnologie di produzione disponibili e integrabili negli edifici e nelle città 

adattamento climatico: rendere le città più resilienti di fronte ai cambiamenti climatici individuando e programmando strategie integrate per prevenire e ridurre la vulnerabilità dell’ambiente costruito agli eventi atmosferici estremi, attraverso analisi tecniche dei rischi, l’arresto dell’impermeabilizzazione di nuovo suolo, soluzioni di adattamento basate sulla natura e individuando gli strumenti per fronteggiare le alluvioni e le ondate di calore

qualità urbana: per tutelare la ricchezza dei valori storici, identitari e culturali delle città, riqualificare gli spazi pubblici, rendendo disponibili aree pedonali, piste ciclabili, sharing mobility, ztl, “ibridizzando” le aree monofunzionali e realizzando housing sociale che assicuri benessere abitativo e integrazione sociale

qualità del patrimonio costruito: definire indirizzi e criteri per le valutazioni della qualità architettonica, urbana e ambientale; promuovere l’utilizzo di materiali per l’edilizia di qualità ecologica, riutilizzabili e riciclabili; negli interventi di riqualificazione e manutenzione del patrimonio edilizio migliorare l’efficienza energetica, l’uso dell’acqua, la gestione dei rifiuti

infrastrutture verdi: aumentarle perché contribuiscono a migliorare la qualità dell’aria, ridurre l’inquinamento, mitigare il cambiamento climatico, salvaguardare la biodiversità in ambito urbano, migliorare il paesaggio.



Alla carta hanno aderito fino ad ora oltre 70 città italiane grandi, medie e piccole. Sul sito Web del Green City Network alcune di queste città raccontano i loro progetti di rigenerazione urbana. Tra queste le due toscane Firenze e Prato:
a Firenze il Sistema Informativo del Verde Pubblico (SIVEP) consente di integrare e ottimizzare i processi informativi utilizzati per la gestione del patrimonio verde del Comune di Firenze e di eventuali altri enti della cintura fiorentina; tra i nuovi servizi digitali sviluppati per i cittadini vi è la mappa del verde tramite cui è possibile scoprire quanti, quali e come sono gli spazi verdi in città, il servizio Dona Un Albero che consente di donare un albero alla città dedicandolo a una persona cara e scegliendolo tra 10 specie, il servizio Un Albero per ogni Nato che garantisce la trasparenza della messa a dimora di un albero per ogni nuovo bambino registrato all’anagrafe, la Smart Irrigation, un sistema avviato nei due nuovi giardini della ex Officine Galileo e di Porta Leopolda dove sono stati installati irrigatori intelligenti connessi alla rete internet, per rilevare le previsioni meteo, e dotati di decine di sensori che misurano la temperatura e l’umidità del suolo allo scopo di “decidere”come e quando irrigare;
a Prato, il Piano operativo del Comune è teso al contenimento del consumo di suolo e prevede interventi per la resilienza e l’adattamento climatico; tra i progetti segnalati il “Parco Centrale di Prato”, ovvero 4 ettari entro le mura in luogo del vecchio ospedale, il parco fluviale che si snoda per 8 km lungo il fiume Bisenzio attraversando la città, il programma “100 piazze” che prevede non solo la riqualificazione delle piazze nel centro storico ma anche un intervento sistematico nelle frazioni, il “PIU Prato”, programma di rigenerazione che interviene nel Macrolotto Zero e prevede l’insediamento di funzioni pubbliche e nuove aree verdi tramite interventi di riuso e demolizioni selettive, il progetto “Parco lineare al Soccorso”, dedicato all’interramento della Declassata, asse primario urbano con 50.000 veicoli giorno che ricuce quartieri ad oggi isolati dall’arteria e dona un respiro all’area più densamente costruita della città, Prato Urban Jungle che prevede di sperimentare in tre aree un nuovo paradigma urbano rispetto al quale la città esistente viene invasa dalla natura in spazi aperti e facciate, tetti ed interni.

E a livello europeo?

In Europa sempre più città puntano a diventare “green city”, alcune lo fanno da tempo, altre si sono mosse proprio sulla spinta del post Covid, lo fanno investendo ad esempio in progetti per aumentare gli spazi verdi e le infrastrutture per pedoni e ciclisti.

A questo proposito la Commissione europea mette a disposizione il “Green City Tool” per fornire ai cittadini europei e alle città stesse una serie di informazioni sui temi legati alle città, che vanno dall’ambiente e alla sua cura, alla sostenibilità.

Le aree di interesse dello Strumento sono 12 e fanno riferimento ai criteri del premio Capitale verde europea: aria, mobilità, energia, adattamento ai cambiamenti climatici, mitigazione dei cambiamenti climatici, natura e biodiversità, rumore, governance, acqua, crescita verde e innovazione, utilizzo del territorio, rifiuti.



Le città possono registrarsi ufficialmente, come amministrazione pubblica oppure usare lo “Strumento Città verdi” senza registrarsi; selezionando poi il tema di interesse e rispondendo alle domande del questionario possono accedere ai consigli utili forniti, agli orientamenti, ai link utili e alle best practice segnalate sui vari temi.

Il sito dedicato allo Strumento mette anche a disposizione una mappa relativa alle città sostenibili.

fonte: http://www.arpat.toscana.it


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