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L’ECONOMIA CIRCOLARE NELLA BOZZA DI PNRR È UN FALLIMENTO

 



Agricoltura sostenibile ed economia circolare. Così il titolo del paragrafo sulla transizione ecologica dedicato a due elementi chiave della decarbonizzazione del Paese – insieme a energia, edilizia e trasporti. Sono 5,3 i miliardi complessivi stanziati (o 5,46 in un’altra tabella recuperata dall’autore). Quasi un miliardo in meno di quanto previsto nel piano Conte. Un bruttissimo segnale del governo, che dimostra di non aver capito le potenzialità della transizione circolare, di avere una visione passatista del concetto e di volersi concentrare semplicemente sui processi di smaltimento e riciclo dei rifiuti. Nessuna vera visione per una transizione circolare davvero ambiziosa, per la quale a conti fatti saranno investiti 2,1 miliardi di euro, di cui 1,5 nell’azione “Verso le città circolari: miglioramento della gestione di rifiuti”. Certo non siamo ancora di fronte ad un documento ufficiale del governo, ma le bozze ottenute da Materia Rinnovabile sono considerate documenti attendibili.Non mancano certo le conferme importanti su temi centrali, come gli impianti di gestione e trattamento dei rifiuti. Il piano conferma la semplificazione dell’iter autorizzativo per la realizzazione e l’ammodernamento degli impianti di gestione e trattamento dei rifiuti attraverso un maggior ricorso alle autocertificazioni e alla certezza dei termini di conclusione dei procedimenti anche attraverso il ricorso ai poteri sostitutivi (intervento sull’art. 237 e ss. Del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152). Contestualmente è prevista l’introduzione in via normativa di adeguate incentivazioni e/o compensazioni per le popolazioni e gli enti locali interessati. Rimane anche il piano isole verdi, per puntare ad un uso più intelligente delle risorse in ambienti circoscritti come le piccole isole. Ma nell’insieme non si può dire che la bozza Draghi sia illuminante. Cosa risponderà il Parlamento in proposito, specie partiti come PD e M5S, che si sono fatti alfieri della transizione ecologica?

Progetti “faro” dell’economia circolare: pochi e tradizionali

Il faro è più che altro una torcia mezza scarica. 600 milioni di euro per innovare semplicemente il riciclo in alcuni settori a forte valore aggiunto, con target di riciclo specifici: carta e cartone, 85%; metalli ferrosi, 80%; alluminio, 60%; vetro, 75%; plastica, 55%; legno, 30%. L’Italia ad oggi è ancora lontana dal raggiungimento di questi target, ad esempio più del 50% dei rifiuti plastici viene raccolto come Rifiuti Plastici Misti e quindi non recuperato ma utilizzato per il recupero energetico o inviato in discarica. In questo contesto, la misura intende potenziare la rete di raccolta differenziata e degli impianti di trattamento/riciclo contribuendo al raggiungimento dei seguenti target di: 55% di riciclo di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE); 85% di riciclo nell’industria della carta e del cartone; 65% di riciclo dei rifiuti plastici (attraverso riciclaggio meccanico, chimico, “Plastic Hubs”); 100% recupero nel settore tessile tramite “Textile Hubs”.

Nulla sul tema eco-design, innovazione dei servizi di sharing, promozione di studi sui Prodotti-come-servizio (PaaS), niente ricerca su blockchain e digitale in ottica circular (e non c’è traccia nemmeno nella sezione sul digitale).

La grande innovazione secondo Draghi? Monitoraggio su tutto il territorio nazionale che consentirà di affrontare tematiche di “scarichi illegali” attraverso l’impiego di satelliti, droni e tecnologie di Intelligenza Artificiale. Che rimane importantissimo nell’Italia delle ecomafie, ma che conferma come al Mite e al Mise farebbero meglio a studiare cosa fanno paesi come Olanda o Francia sulla questione. Un’occasione per fare innovazione decisamente persa.

Cultura circolare

Sebbene le cifre non siano sconvolgenti, nel PNRR Draghi sono state allocate risorse per stimolare il mondo della cultura e della comunicazione sui temi della transizione ecologica. 160 milioni saranno erogati per “lo sviluppo della capacità degli operatori della cultura per gestire la transizione digitale e verde”, mentre sarà resa obbligatoria l’adozione di criteri ambientali minimi per eventi culturali (questo sì un principio di economia circolare) al fine di migliorarne l'impronta ecologica attraverso l'inclusione di criteri sociali e ambientali negli appalti pubblici dedicati, finanziati, promossi o organizzati da pubblica autorità. Questo dovrebbe accelerare la diffusione di tecnologie/prodotti più sostenibili e supporterà l’evoluzione del modello operativo degli operatori di mercato. Infine, altri 30 milioni dovrebbero essere allocati alla voce Cultura e consapevolezza su temi e sfide ambientali.

Energia rinnovabile?

“Senza un cambio di rotta, il piano italiano è lontano dal potersi definire verde”, sono le parole di Luca Bergamaschi, co-fondatore del think tank ECCO. “Manca una strategia per le rinnovabili. La nuova capacità rinnovabile oggetto del Piano (4200MW) equivale solamente a quella necessaria per coprire meno di un anno di crescita per rimanere in linea con gli obiettivi europei”.


L’efficienza energetica subisce il taglio principale rispetto al piano del Governo Conte 2, con circa 7 miliardi di euro in meno (considerando anche le risorse addizionali nazionali del Fondo Complementare), che si scarica sul bonus per la ristrutturazione degli edifici e l’edilizia pubblica. Il nuovo PNRR rispetto alle circa 32.000 scuole nazionali del PNRR Conte2, identifica risorse per soli 195 edifici.

Non finiscono le notizie poco soddisfacenti. Limitato il sostegno alla rivoluzione elettrica della mobilità su gomma, con solo 0,75 miliardi per le ricariche (ma arriva lo sblocco per la semplificazione dell’installazione e controlli sulle tariffe di erogazione). Certo i tedeschi alla stessa voce hanno allocato 5 miliardi. Tante risorse invece per biometano e biocombustibili, che assorbono il 30% degli stanziamenti per le rinnovabili.

Bene sulle risorse in dotazione per l’autoproduzione da impianti decentrati per 2,2 miliardi e per le smart grid, con 3,6 miliardi. Ridotte invece le risorse per lo sviluppo industriale delle rinnovabili e gli accumuli, per i quali viene identificato 1 miliardo per rinnovabili e batterie nella voce “per la leadership industriale internazionale e di ricerca”.

Ingenti le risorse sull’alta velocità (24,97 miliardi ) mentre solo 1,73 miliardi per le linee regionali provenienti dal fondo complementare, che si aggiungono al budget di 8,58 miliardi, rispetto ai 7,55 miliardi della precedente versione, indirizzati prevalentemente al trasporto pubblico di massa (3,52 miliardi) ed al rinnovo di flotte treni, navi e bus. Il piano avrebbe dovuto escludere il gas naturale, ma metà della flotta nuova non sarà elettrica.
Ambiguo il piano per l'idrogeno. Scompare dal testo e dalle schede di budget il termine 'verde' aprendo la possibilità di accedere alle risorse anche per idrogeno blu o grigio legato alla filiera fossile. Il piano del Governo Conte 2 aveva chiaramente limitato l'accesso alle risorse al solo idrogeno verde. Non è ancora chiaro se Eni avrà i sui 2 miliardi per l’impianto CCS di Ravenna.

fonte: www.renewablematter.eu

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C’è ancora molto da lavorare sull’inclusione sociale dell’economia circolare

E per essere finanziati dalle risorse europee nell’ambito del Recovery fund, gli investimenti di settore dovranno rispettare i 6 target ambientali del Regolamento sulla tassonomia













Il workshop “Making the circular economy work for sustainability: from theory to practice”, organizzato congiuntamente da Cercis [1] e Seeds [2], per l’Università di Ferrara, e dall’Università degli Studi di Trieste ha riunito attorno allo stesso tavolo (virtuale) ricercatori e funzionari delle istituzioni europee, coinvolti in prima persona nelle prossime scelte politiche dell’Unione in campo ambientale e non solo. È stata un’occasione di approfondimento scientifico, da un lato, e di dialogo tra mondo della ricerca e mondo della politica economica, dall’altro, coordinato da due attori di primo piano della ricerca pubblica in fatto di economia circolare: Cercis è finanziato nell’ambito dell’iniziativa Miur “Dipartimenti di eccellenza”, mentre Seeds è ormai arrivato ad assommare al suo interno ben 8 Atenei (capitanati dall’Unife).

Chi ha mai avuto occasione di addentrarsi nei temi oggetto di questo workshop sa che il concetto di economia circolare non è poi così univoco e che le sue definizioni si contano a decine. Escludendo qui quelle di carattere normativo (che affermano, cioè, come l’economia circolare dovrebbe essere) e concentrandoci su quelle positive (che cos’è l’economia circolare?), merita riportare quella ricordata da uno degli ospiti dell’evento, Jesús Alquézar Sabadie (Commissione europea, Dg Ambiente), secondo cui l’economia circolare è quell’insieme di processi produttivi – in senso lato – che permettono di trattenere materia ed energia all’interno del sistema economico, procrastinandone quanto più possibile il loro ritorno all’ambiente.

Parallelamente alle questioni teoriche, il workshop si è concentrato sulla necessità di fare dell’economia circolare un progetto al servizio della sostenibilità. Ma come si spiega questa necessità? Il contributo dell’economia circolare alla sostenibilità non era forse scontato?

Una prima risposta a questa domanda poggia proprio sul concetto di sostenibilità. Semplificando molto, potremmo affermare che, ad oggi, questo termine indica la compresenza di tre aspetti: profittabilità economica, tutela ambientale e inclusione sociale. Mettere l’economia circolare al servizio della sostenibilità significa quindi renderla economicamente appetibile, rispettosa dell’ambiente e socialmente equa o, per lo meno, socialmente accettabile. Solo così è possibile trasformarla da teoria a pratica.

Come ha osservato un altro ospite del workshop, Stefan Speck (Agenzia europea per l’ambiente), il livello di circolarità non risulta in crescita, ma – forse solo per ragioni congiunturali – dal 2018 al 2019 è addirittura diminuito. Sembra lecito dedurre che agli attori economici (consumatori e imprese in primis) l’economia circolare non appaia ancora così appetibile. D’altro canto, un risultato già noto nella letteratura scientifica e riaffermato durante l’evento è che la dimensione sociale dell’economia circolare rimane ancora molto limitata. In altre parole, gli effetti dell’economia circolare sull’equità e sull’inclusione sociale sono ancora difficili da inquadrare. Come osservato da alcuni relatori, il rischio è che la sua introduzione si riveli una grande opportunità solo per alcuni ma non per tutti. Non a caso, una delle sessioni di lavoro era dedicata allo studio dell’accettabilità delle misure di economia circolare e, più in generale, di quelle di sostenibilità ambientale per i soggetti privati.

Mentre il dibattito accademico-scientifico sull’economia circolare continua, l’attuale pandemia di Covid-19 ha posto la politica economica di fronte alla necessità di prendere decisioni non solo importanti ma anche molto urgenti. Come noto, a livello di Unione europea, è stata ideata la Recovery and resilience facility, un piano da più di 650 miliardi di euro volto a finanziare riforme e investimenti negli stati membri.

Un intervento di queste dimensioni e di questa portata non poteva dispiegarsi ignorando la questione ambientale o rinunciando a cogliere l’occasione per indirizzare le nostre economie verso un percorso di sostenibilità ambientale e sociale. Come illustrato da uno degli ospiti del workshop, Florian Flachenecker (Commissione europea, Recovery and resilience task force), il 37% delle risorse impiegate dovrà essere dedicato a misure (investimenti o riforme) che contribuiscano ai due obiettivi della mitigazione dei cambiamenti climatici e dell’adattamento ai medesimi. Inoltre, per essere finanziata, una misura dovrà sottostare al principio del “do not significant harm” (in un acronimo che diventerà presto familiare: Dnhs). Più specificamente, non dovrà essere in conflitto con alcuno dei sei obiettivi ambientali del Regolamento sulla tassonomia (Reg. UE 2020/852), ovvero: mitigazione dei cambiamenti climatici, adattamento ai cambiamenti climatici, uso sostenibile e protezione delle acque e delle risorse marine, transizione verso un’economia circolare, prevenzione e riduzione dell’inquinamento e protezione e ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.

In questo modo, la politica economica offre una soluzione immediatamente operativa al rapporto tra economia circolare e sostenibilità ambientale. Per essere finanziati, i progetti di economia circolare dovranno garantire il rispetto degli obiettivi ambientali prefissati.

[1] Il CERCIS (CEntre for Research on Circular economy, Innovation and SMEs) è il Centro per la ricerca sull’economia circolare, l’innovazione e le PMI (http://eco.unife.it/it/ricerca-imprese-territorio/centri-di-ricerca/cercis) dell’Università degli Studi di Ferrara.

[2] Il SEEDS (Sustainability, environmentaleconomics and dynamicsstudies) è un centro di ricerca interuniversitario (www.sustainability-seeds.org).

fonte: www.greenreport.it


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Ue: Mise,da progetto su batterie investimento per 1 miliardo

 

Al secondo importante progetto di interesse comune europeo (Ipcei) sulle batterie, che ha ottenuto il via libera dalla Commissione europea, l'Italia partecipa con 12 imprese e 2 centri di ricerca per un investimento di oltre 1 miliardo di euro. Lo sottolinea il Mise, in una nota, spiegando che l'obiettivo del progetto è quello di creare una catena del valore sostenibile e innovativa che porterà l'Europa a produrre materie prime, celle, moduli e sistemi di batterie di nuova generazione e che consentirà la riconversione e il riciclaggio delle batterie con metodi innovativi e più efficienti.


In particolare, spiega, l'Italia partecipa al progetto, "su impulso del ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, con ben 12 imprese (Endurance, Enel X, Engitec, Fca Italy, Fiamm, Fluorsid Alkeemia, Fpt Industrial, Green Energy Storage, Italmatch Chemicals, Manz Italia, Midac, Solvay) e 2 centri di ricerca (Enea e Fondazione Bruno Kessler), consolidando il proprio presidio innovativo nel campo delle batterie di nuova generazione grazie agli investimenti programmati attraverso questo grande progetto: l'erogazione di aiuti di Stato per oltre 600 milioni di euro produrrà un investimento totale di oltre 1 miliardo a livello nazionale".

Questo nuovo progetto integrato europeo, "favorendo la transizione dai combustibili fossili verso un'energia più pulita, risponde pienamente all'ambizioso obiettivo fissato dall'Unione europea che mira a trasformare radicalmente il proprio tessuto economico ed industriale, attraverso una transizione verde e digitale che porterà l'Europa alla neutralità climatica nel 2050", conclude il Mise.

fonte: www.ansa.it


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SACE in campo per il Green New Deal

Sostegno agli investimenti delle imprese per la riconversione dei processi industriali, economia circolare ed energie rinnovabili.









SACE sosterrà le imprese nella transizione all'economia 'verde', in ossequio al piano europeo Green New Deal, sostenendo finanziariamente interventi di riconversione dei processi industriali per ridurre sprechi ed emissioni inquinanti, investimenti in economia circolare e mobilità smart, oltre che nella produzione di energia da fonti rinnovabili.

Dopo la firma della Convenzione operativa con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, SACE ha già individuato alcuni progetti e approvato le prime sette operazioni targate Green New Deal per oltre 600 milioni di euro. Altre 200 aziende potenziali beneficiarie sono state oggetto di incontri nell'ultimo mese.


Possono essere finanziati con garanzie SACE, assistite dalla garanzia dello Stato italiano, i progetti presentati da aziende italiane, di qualsiasi dimensione, capaci di generare un beneficio significativo in almeno uno di questi obiettivi ambientali: mitigazione dei cambiamenti climatici e adattamento agli stessi; uso sostenibile e protezione delle acque e delle risorse marine; transizione verso l’economia circolare; prevenzione e riduzione dell’inquinamento; protezione e ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.

“L’attenzione a sostenibilità e resilienza per tutti in chiave circolare è oggi imprescindibile – spiega l'AD di SACE, Pierfrancesco Latini -. Non solo perché è maturata la convinzione che ci troviamo ad operare in una nuova normalità, ma anche perché oramai è diffusa la consapevolezza che la sostenibilità rappresenta una grande opportunità di investimento, crescita e occupazione per le società moderne. In questo senso, la riconversione del tessuto produttivo italiano, attraverso il sostegno agli investimenti 'green', costituisce un’occasione unica per far crescere la competitività del nostro Paese nel mondo e noi siamo orgogliosi di sostenere le aziende italiane che contribuiranno a rendere “circolare” l’Europa. Ecco perché, invito tutti gli stakeholder interessati a bussare alla porta di SACE per dialogare con noi e aprirsi a nuove opportunità, contando sul nostro supporto”.


fonte: www.polimerica.it

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L’idrogeno attirerà investimenti per 400 miliardi di dollari fino al 2035

La stima è di Rystad Energy. Ma vediamo cosa si nasconde dietro i numeri, tra opportunità e incognite, anche secondo altri analisti.




Nelle ultime settimane si è aperta la gara a chi investirà di più nell’idrogeno, soprattutto quello “verde”, vale a dire quel vettore prodotto con elettricità 100% rinnovabile.

C’è la strategia Ue che prevede 40 GW di elettrolizzatori al 2030; ci sono i piani annunciati da vari Paesi, tra cui Germania, Francia, Spagna e anche l’Italia punta a essere della partita; ci sono progetti e iniziative avviati da utility e grandi consorzi industriali, ad esempio in Olanda per creare una “Hydrogen Valley” con elettrolizzatori alimentati da parchi eolici offshore.

Anche le lobby europee delle rinnovabili si sono mosse: Wind Europe e Solar Power Europe hanno appena lanciato una nuova coalizione che ambisce a far decollare la produzione europea dell’idrogeno pulito.

Così stanno girando numeri da capogiro sui potenziali dell’idrogeno a zero emissioni e sull’entità dei futuri investimenti, tenendo conto che l’idrogeno sta assurgendo a pilastro del Green Deal europeo volto ad azzerare le emissioni di anidride carbonica entro metà secolo.

Secondo Rystad Energy, la nuova filiera dell’idrogeno comporterà investimenti per 400 miliardi di dollari da qui al 2035 su scala globale.

La fetta più ampia della torta – si veda il grafico sotto – arriverà dai progetti per sviluppare tutte le infrastrutture e i sistemi di trasporto dell’idrogeno: si parla di 130 miliardi di dollari.



A seguire, scrive Rystad in una nota, ci saranno gli investimenti per la costruzione degli impianti (facility construction), con 120 miliardi di $, mentre il mercato delle attrezzature assorbirà, secondo Rystad, una settantina di miliardi di dollari in quindici anni.

Da precisare che la torta complessiva dei 400 miliardi include non solo i progetti per produrre idrogeno verde, ma anche quelli per produrre il cosiddetto “idrogeno blu” ricavato da fonti fossili con successiva cattura della CO2.

Peraltro, Rystad fa notare che le tecnologie CCS (Carbon capture and storage) per catturare le emissioni di carbonio, richiederanno investimenti aggiuntivi per quasi 35 miliardi di dollari nella sola Europa.

Per quanto riguarda l’idrogeno verde, Rystad si aspetta almeno 30 GW di capacità pienamente operativa entro il 2035 in tutto il mondo, su un totale di 60 GW di capacità proposta.

Il punto è che in questo momento è molto difficile valutare quali e quanti progetti saranno effettivamente realizzati, date le numerose incertezze che circondano un’industria, quella dell’idrogeno 100% da rinnovabili, ancora immatura, priva di economie di scala e bisognosa di sussidi pubblici.

Una recente analisi di S&P Global Ratings ammorbidisce un po’ lo slancio verso l’idrogeno.

L’idrogeno “pulito”, afferma S&P, è ancora un “atto di fede” (leap of faith) per le utility europee, perché molti ostacoli e incertezze si frappongono alla realizzazione di un’economia basata sull’uso di idrogeno su vasta scala.

Secondo gli analisti, molte aziende stanno “testando l’acqua” con una certa cautela, sviluppando impianti-pilota tra 10-100 MW di capacità.

E nei prossimi 3-5 anni, secondo S&P Global Ratings, con ogni probabilità i progetti rimarranno di piccola taglia e la loro realizzazione dipenderà in larga parte dalla disponibilità di fondi e incentivi pubblici.

S&P stima che nei prossimi tre anni le 15 maggiori utility europee investiranno non più di 1 miliardo di euro l’anno, in totale, in progetti di idrogeno verde. Per fare un paragone, i loro investimenti tradizionali ammontano complessivamente a circa 65 miliardi di euro l’anno.

Ma questi progetti iniziali, senza economie di scala innescate da impianti di grandi dimensioni, non riusciranno ancora ad abbattere i costi per produrre un H2 verde competitivo con H2 da fonti fossili, sempre secondo le stime di S&P.

Un altro possibile ostacolo, si legge nell’analisi, è dato dalla necessità di dedicare parecchi GW di rinnovabili alla produzione di idrogeno: si parla di 10-12 GW per alimentare 6 GW di elettrolizzatori nel 2024 come previsto dalla strategia Ue.

È una ricetta difficile da attuare nel breve termine, considerando che la crescita di potenza installata nelle fonti rinnovabili servirà ai paesi Ue anche per uscire da carbone e nucleare nel settore termoelettrico.

Poi ci sono da considerare gli enormi investimenti richiesti per realizzare nuove infrastrutture e potenziare quelle esistenti: reti di trasporto e distribuzione, impianti di stoccaggio.

Anche la futura domanda di idrogeno verde resta un’incognita, da valutare in base alla diffusione delle altre tecnologie, tra cui soprattutto le batterie per l’accumulo energetico stazionario.

fonte: www.qualenergia.it


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Nuovo programma Bei: ora il Green Deal potrà contare su una “banca per il clima”

Approvata la nuova Roadmap 2021-2025: tutti i finanziamenti dovranno essere allineati agli obiettivi europei su clima e ambiente.











Il Green Deal europeo – il piano lanciato dalla Commissione Ue di Ursula von der Leyen – potrà contare su una “banca per il clima” che punta a essere totalmente allineata con l’obiettivo di azzerare le emissioni inquinanti entro il 2050.

Il consiglio d’amministrazione della Banca europea per gli investimenti (Bei), infatti, ha approvato la Roadmap 2021-2025 per trasformare l’istituto finanziario europeo in una “climate bank”, vale a dire, una banca che supporta solo gli investimenti che rispettano determinati criteri ambientali.

Sono due i punti essenziali della Roadmap.

Il primo: la Bei aumenterà al 50% del totale, entro il 2025, i suoi finanziamenti annuali per attività e iniziative che riguardano la sostenibilità ambientale. Nei prossimi dieci anni, la Bei intende supportare investimenti nell’azione climatica per circa mille miliardi di euro.

Il secondo pilastro della nuova climate bank è assicurare che tutti i suoi investimenti siano compatibili con gli obiettivi stabiliti nell’accordo di Parigi del 2015: limitare sotto 2 gradi il surriscaldamento terrestre, rispetto all’età preindustriale.

Tutte le attività della Bei, quindi, dovranno seguire i criteri della finanza sostenibile, soprattutto il principio di “non fare danni significativi” (do no significant harm) contro l’ambiente.

È lo stesso principio che fonda la nuova tassonomia Ue, vale a dire, la nuova classificazione che permette di distinguere gli investimenti a ridotto impatto ambientale da quelli che invece sono rischiosi per il clima.

La Bei spiega in una nota che i progetti già in corso di valutazione potranno essere approvati fino alla fine del 2022. Le regole della Roadmap saranno applicate a tutte le nuove operazioni della banca dal primo gennaio 2021.

Per quanto riguarda l’energia, la Bei seguirà la nuova politica di finanziamento approvata a novembre 2019, che prevede lo stop dalla fine del 2021 a tutti i progetti che riguardano i combustibili fossili compreso il gas naturale (ma con delle eccezioni: ad esempio gli impianti fossili con tecnologie per catturare le emissioni di anidride carbonica).

Inoltre sono ammessi gli investimenti in centrali fossili che producono energia elettrica con emissioni inferiori a 250 grammi di CO2 per kWh, che però è una soglia più elevata in confronto a quella che dovrebbe essere inserita nella tassonomia (si parla di 100 g/CO2 per kWh).

fonte: www.qualenergia.it


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Decarbonizzare e rilanciare l’economia. Se non ora, quando?

Dare la priorità agli investimenti per le politiche di decarbonizzazione è oggi la scelta più efficace per il rilancio dell’economia. Ritardare queste scelte produrrebbe un danno incalcolabile.



Il 22 gennaio, Larry Flint, amministratore delegato di BlackRock, il più grande fondo di investimento del mondo, in una lettera inviata ai colleghi di grosse imprese multinazionali ha scritto testualmente: “I dati sui rischi climatici obbligano gli investitori a riconsiderare le fondamenta stesse della finanza moderna”, per cui “siamo convinti, quanto agli investimenti, che integrare la sostenibilità – in particolare il clima – nei portafogli possa fornire agli investitori dei migliori rendimenti, corretti per il rischio” (vedi anche Clima e investimenti, anche BlackRock vuole uscire sul carbone).

I rumors suscitati dalla lettera sono stati rapidamente sovrastati dalle preoccupazioni provocate dalla pandemia e dalla conseguente crisi economica.

Così, quando si è incominciato a discutere della ripresa post-virus, da più parti si è potuto tranquillamente sostenere che gli investimenti per la ricostruzione dovevano avere la precedenza rispetto a quelli per il contrasto alla crisi climatica.

Oltre che discutibile, questa tesi ignora che, soprattutto in Europa, si sta facendo strada una proposta che riprende, arricchendoli, i suggerimenti di Flint: gli investimenti per attuare politiche di decarbonizzazione sono quelli più efficaci per il rilancio dell’economia.

Il 14 aprile, 9 eurodeputati di tutto lo spettro politico, 37 amministratori delegati di grosse imprese e più di 50 del settore bancario e finanziario, 28 associazioni imprenditoriali, la confederazione sindacale europea, 7 Ong e numerose associazioni europee hanno promosso l’European Alliance for Green Recovery, sottoscrivendo una dichiarazione, con cui si impegnano a favore di “programmi di ricostruzione e di trasformazione che assumano la battaglia contro il cambiamento climatico e la biodiversità come pilastri fondamentali della strategia economica” (vedi Post Covid, se la grande finanza europea si schiera per una ripresa verde).

In questo, supportati da un rapporto edito a maggio da McKinsey (“How a post-pandemic stimulus can both create jobs and help the climate”), secondo cui ogni milione di dollari speso come stimolo genera 7,49 posti di lavoro a tempo pieno, diretti e indiretti, se destinato alle infrastrutture per le energie rinnovabili; 7,72, se indirizzato all’efficienza energetica; solo 2,65, se utilizzato per i combustibili fossili.

Il 27 maggio è stata la volta di Next Generation, la proposta della Commissione europea di un fondo da 750 miliardi di euro, di cui 500 a fondo perduto e 250 di prestiti. All’Italia andrebbero rispettivamente 82 e 91 miliardi di euro (vedi Next Generation EU, una potenza di fuoco “green” per iniziare a ripensare l’economia).

La parte più cospicua del fondo è destinata a sostenere gli investimenti diretti degli Stati membri e a stimolare quelli privati, entrambi finalizzati allo sviluppo della transizione sia verde che digitale; una distinzione spesso formale, visto che l’elettrificazione green richiede importanti investimenti nella digitalizzazione, in particolare delle reti.

Obiettivo immediatamente recepito dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle considerazioni finali alla relazione annuale del 29 maggio: “la proposta della Commissione presentata due giorni fa al Parlamento Europeo per la creazione del nuovo strumento denominato Next Generation EU ribadisce la centralità della transizione ambientale e di quella digitale”.

Anche nell’America di Trump qualcosa sta cambiando. Nel 2019, per la prima volta da 130 anni, il consumo energetico complessivo delle fonti rinnovabili ha superato – anche se di poco – il consumo di carbone. E, durante l’assemblea annuale degli azionisti di Chevron, seconda compagnia petrolifera del paese, che si è svolta il 27 maggio, la richiesta degli azionisti Bnp Paribas e BlackRock di divulgare tutte le attività di lobby, per poter verificare se la società sostiene gli obiettivi di contrasto del riscaldamento globale, è stata approvata dalla maggioranza dei soci, contro il parere del consiglio di amministrazione. Non era mai accaduto prima.

Anche se anacronistica, la posizione di chi sostiene che la priorità data agli investimenti per la politica di decarbonizzazione danneggerebbe la ripresa economica, continuando a essere presente nel dibattito sul che fare, rischia però di ritardare una scelta, viceversa molto urgente: focalizzare l’attenzione sulla tempestiva messa a punto di un programma operativo per la gestione dei fondi di Next Generation in supporto di obiettivi congruenti con il Green Deal europeo, che non sono solo quelli di un PNIEC più sfidante dell’attuale, in quanto dovrà garantire la riduzione del 50-55% delle emissioni climalteranti entro il 2030.

Il Green Deal dovrà infatti essere inclusivo, cioè particolarmente attento alle regioni, alle industrie e ai lavoratori su cui maggiormente graveranno gli effetti delle politiche energetico-climatiche.

Dovendo garantire la contestuale realizzazione di tutti gli obiettivi, la stesura del programma operativo rappresenta di per sé una sfida tutt’altro che banale, tuttavia da vincere, perché la mancata realizzazione degli impegni presi porterebbe alla sospensione dei finanziamenti.

Next Generation dovrebbe presumibilmente decollare nel 2021. Non c’è quindi tempo da perdere. Se non ora, quando?

fonte: www.qualenergia.it
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Niente soccorsi alle fossili: per l’Onu la ripresa deve essere verde

La sintesi del discorso tenuto dal segretario generale delle Nazioni Unite al Petersburg Climate Dialogue.




La lotta contro il cambiamento climatico deve essere al centro dei piani per rilanciare l’economia globale dopo l’emergenza coronavirus: questa è la chiave del discorso tenuto dal segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, al primo vertice internazionale sul clima del 2020, il Petersberg Climate Dialogue.

Così Guterres ha raccomandato, in particolare, di utilizzare i soldi dei contribuenti per creare posti di lavoro “verdi” e non per salvare industrie obsolete e inquinanti.

Gli investimenti devono accelerare la de-carbonizzazione di tutti i settori economici, ha dichiarato il segretario generale dell’Onu al vertice “virtuale” che si è svolto in Germania ieri e lunedì con la partecipazione di più di trenta paesi.

Inoltre, Guterres ha affermato che (traduzione nostra dall’inglese) “i sussidi ai combustibili fossili devono finire, le emissioni di anidride carbonica devono avere un prezzo e chi inquina deve pagare per l’inquinamento che produce”.

Un altro passaggio importante del suo discorso è quando sostiene che il sistema finanziario deve considerare rischi e opportunità associati al cambiamento climatico, perché gli investitori “non possono continuare a ignorare il prezzo pagato dal nostro Pianeta per una crescita insostenibile”.

Intanto una recente analisi della IEEFA (Institute for Energy Economics and Financial Analysis) centrata sui piani di salvataggio americani per le industrie colpite dall’emergenza coronavirus, spiega perché le iniezioni di liquidità alle aziende petrolifere sarebbero uno spreco di denaro pubblico.

Il settore oil & gas, infatti, evidenzia l’analista della IEEFA Tom Sanzillo, è afflitto da problemi strutturali che i piani di salvataggio non potrebbero risolvere in alcun modo, problemi che la pandemia del Covid-19 ha contribuito a esacerbare, portando verso il crollo dei prezzi e un eccesso di offerta sulla domanda che sta finendo di riempire l’intera capacità mondiale di stoccaggio.

Insomma ci stiamo avvicinando con ogni probabilità al “picco dell’eccesso di forniture”, peak oversupply nella definizione usata di recente dagli analisti di Wood Mackenzie (vedi anche QualEnergia.it, Petrolio, ora tutto è possibile).

Così, scrive Sanzillo, aiutare direttamente le compagnie fossili altamente indebitate con denaro fresco (direct cash) potrebbe farle sopravvivere ancora per un po’ di tempo, ma sarebbe tempo utilizzato per produrre nuovo gas e petrolio per un mercato saturo, che non ha generato profitti per la maggior parte degli ultimi dieci anni.

Ricordiamo che i prezzi stracciati del barile stanno penalizzando soprattutto il settore shale americano, cioè l’estrazione di gas/petrolio da scisto, perché i giacimenti di questo genere comportano costi operativi più elevati e non sono profittevoli quando le quotazioni petrolifere scendono troppo.

Che fare allora?

Tornando alle parole di Guterres, bisogna assicurare che i piani di salvataggio delle imprese siano studiati con attenzione, dirigendoli verso le tecnologie a basso impatto ambientale, la riduzione delle emissioni, l’aumento dell’energia generata con fonti rinnovabili.

In altre parole, i piani di ripresa economica dovrebbero essere condizionati a precisi obiettivi di carattere ambientale, come abbiamo visto per il settore auto e per l’aviazione.
Il link al discorso di Guterres
Il link alle analisi della IEEFA

fonte: https://www.qualenergia.it/


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IEA: l’emergenza coronavirus è un test per la transizione energetica

Il direttore dell'Agenzia internazionale dell'energia, Fatih Birol, afferma che i governi devono sfruttare le misure di stimolo economico per accelerare gli investimenti nelle rinnovabili.



















L’emergenza coronavirus potrebbe avere delle conseguenze negative anche per la lotta contro il cambiamento climatico: questo il campanello d’allarme appena lanciato dall’Agenzia internazionale dell’energia (IEA, International Energy Agency) con un commento del suo direttore, Fatih Birol.
Il rischio, si legge nell’intervento, è che i governi di tutto il mondo, schiacciati dalla necessità di varare provvedimenti economici urgenti per sostenere le famiglie, le imprese e i lavoratori durante la crisi sanitaria in corso (vedi qui il decreto “Cura Italia” approvato dal governo italiano), perdano di vista l’obiettivo prioritario di combattere la crisi climatica.
Il punto, infatti, è che l’emergenza coronavirus potrebbe affossare anche gli investimenti nelle fonti rinnovabili, nell’efficienza energetica, più in generale in tutte le tecnologie pulite che dovrebbero accelerare il passaggio da un’economia incentrata sui combustibili fossili a un’economia a basso impatto ambientale, come previsto dal Green Deal europeo.
Il rischio quindi è che la combinazione del coronavirus e di condizioni di mercato molto volatili distoglierà l’attenzione di politici e investitori dalla transizione energetica.
Tra l’altro, osserva la IEA, il calo delle emissioni imputabile al rallentamento economico (chiusura di fabbriche e limitazioni nei trasporti, vedi qui i primi dati sulla Cina) non è una notizia da accogliere positivamente, perché le emissioni torneranno a salire appena sarà passato il “ciclone” del coronavirus sulle borse di tutto il mondo e la produzione industriale riprenderà a salire.
Al contrario, scrive Birol, è necessario che la riduzione della CO2 avvenga grazie alle nuove politiche adottate da governi e aziende sul medio-lungo termine; quindi, secondo il direttore della IEA (traduzioni nostre dall’inglese, con neretti), “i governi possono sfruttare la situazione per aumentare le loro ambizioni sul clima e lanciare politiche sostenibili per stimolare l’economia, incentrate sulle energie pulite”.
In sostanza, afferma Birol, l’emergenza coronavirus è un test per verificare l’impegno di governi e aziende per la transizione verso le energie rinnovabili; ad esempio, si legge nel commento, il crollo dei prezzi del petrolio potrebbe diminuire gli sforzi a investire in efficienza energetica, perché i carburanti a basso costo non sono mai stati uno stimolo a utilizzare l’energia in modo più efficiente.
Anzi i governi, sostiene la IEA, hanno l’opportunità di abbassare o rimuovere i sussidi per il consumo di fonti fossili (carbone, gas, petrolio), che valgono circa 400 miliardi di dollari su scala globale. Oltre il 40% di tali sussidi serve ad abbassare i prezzi finali dei prodotti petroliferi, ad esempio tramite la riduzione delle accise sui carburanti per certe categorie di consumatori.
Investimenti per sviluppare le energie rinnovabili su vasta scala come l’eolico, il solare, le batterie, l’idrogeno, evidenzia Birol, “dovrebbero essere al centro dei piani governativi perché porteranno il duplice beneficio di stimolare le economie e accelerare la transizione energetica pulita”.
Tra l’altro, aggiunge il direttore dell’agenzia, i costi delle rinnovabili sono molto diminuiti in confronto ad altri periodi in cui i governi avevano lanciato “pacchetti” di stimolo per l’economia; invece l’idrogeno e la cattura della CO2 (CCS: carbon capture and storage) sono tecnologie che richiedono maggiore supporto per diffondersi con i primi grandi impianti a livello commerciale.
fonte: www.qualenergia.it

Città sostenibili a zero emissioni a sostegno degli impegni dei governi nazionali

Una transizione verso città a zero emissioni nette di carbonio (carbon neutrality) offre un'immensa opportunità per garantire la prosperità economica nazionale e migliorare la qualità della vita, affrontando al contempo la minaccia ormai sempre più evidente dei cambiamenti climatici. Ma per riuscirci ci vuole coraggio!
















Una transizione verso città a zero emissioni nette di carbonio (carbon neutrality) offre un'immensa opportunità per garantire la prosperità economica nazionale e migliorare la qualità della vita, affrontando al contempo la minaccia ormai sempre più evidente dei cambiamenti climatici. La realizzazione del potenziale delle città richiede un'azione coraggiosa da parte dei governi nazionali, lavorando in stretta collaborazione con i governi locali, le imprese, la società civile, gli istituti di ricerca e altri partner.
E’ stato di recente pubblicato il rapporto “Climate Emergency, Urban Opportunity” da parte della Coalizione per le transizioni urbane, un’associazione che promuove il ruolo delle città nella lotta al cambiamento climatico. Al rapporto hanno contribuito decine di organizzazioni coordinate dal World Resource Institute (WRI), il Ross Center for Sustainable Cities e il C40 Cities Climate Leadership Group. Anche il più importante network europeo di città, il Patto globale dei Sindaci per il clima e l’energia, ha dato il proprio contributo. Unanime è il loro messaggio: la battaglia per salvare il nostro pianeta si vince o si perde nelle città.
Obiettivo principale del rapporto è quello di mettere in evidenza che investire per la sostenibilità ambientale è conveniente anche da un punto di vista economico, visto che molto spesso sembra essere solo questa la leva che fa muovere i decisori politici. A noi “ambientalisti di una certa età” bastavano le prime due dimensioni della sostenibilità, quella ambientale e quella sociale, ma sono anni ormai che anche la dimensione economica viene analizzata approfonditamente e questo rapporto è l’ennesima prova che investire su un pianeta ove si possa ancora respirare aria pulita è anche un buon business.
Innanzitutto ricordiamo che nelle città vive oggi oltre il 50% della popolazione mondiale (che salirà al 66% nel 2050), si produce l’80% del PIL e, non ultimo, si emettono i tre quarti delle emissioni di gas climalteranti dovute ai consumi finali di energia. Dal punto di vista amministrativo, inoltre, le città, quindi i Comuni con i propri Sindaci, rappresentano gli Enti territoriali più vicini al cittadino, con maggiore forza per dialogare sul territorio e contribuire a quella modifica dei comportamenti individuali che rappresenta, sempre di più, l’unica strada da seguire per cercare di affrontare seriamente l’emergenza climatica.
Ma quanto ci costa? E con quali benefici?
Sulla base delle analisi svolte dalla Coalizione per le transizioni urbane, con un investimento di circa 1.830 miliardi di dollari all’anno (circa il 2% del PIL mondiale) si genererebbe un risparmio annuale di 2.800 miliardi di dollari nel 2030 e di 6.980 miliardi nel 2050. In definitiva, si stima che si potrebbero finanziare misure di riduzione delle emissioni di gas climalteranti con un risparmio complessivo, al 2050, pari ad almeno 23,9 mila miliardi di dollari (equivalente al 28,2% del PIL mondiale). Con un’ipotesi realistica di prezzi crescenti dell’energia e innovazione tecnologica più spinta, si salirebbe a valori intorno ai 38,2 mila miliardi di dollari. In tal modo si ridurrebbero anche le emissioni in media di circa il 90% rispetto ai livelli attuali (nello specifico, del 96% dagli edifici commerciali e residenziali, del 76% dall'uso di materiali, dell'86% dal trasporto di passeggeri e merci e di oltre il 99% dalla gestione dei rifiuti solidi) raggiungendo quindi anche quasi la neutralità carbonica come richiesto dagli scienziati del clima a livello mondiale, e il tutto usando tecnologie già note e disponibili, senza quindi agognare a qualche soluzione tecnologica del futuro. Una città carbon neutral effettivamente al 100% con zero emissioni nette si potrebbe raggiungere entro la metà del secolo solo con un dispiegamento ancora più aggressivo delle misure esistenti o con ulteriori innovazioni.
Nello specifico, sul totale del potenziale di abbattimento, il 58% della riduzione delle emissioni deriverebbe dal settore degli edifici, il 21% dai trasporti, il 16% dall’efficienza dei materiali e il restate 5% dal settore dei rifiuti; settori ove si è concentrata questa ricerca in quanto, come si ribadisce più avanti, di diretta competenza delle amministrazioni locali. La metà del potenziale di abbattimento identificato in questa analisi deriva dalla decarbonizzazione dell'elettricità consumata a livello urbano, principalmente attraverso la generazione di elettricità da fonti rinnovabili come il solare, l’eolico, l’idroelettrico, la biomassa e la geotermia. Oltre al beneficio dovuto alla riduzione delle emissioni climalteranti, vi sarebbero anche altri benefici relativi alla riduzione delle emissioni inquinanti, lasciandoci quindi un’aria più respirabile, una minore congestione del traffico urbano con conseguenti migliori servizi ai cittadini e un aumento della produttività locale.  
In uno scenario del genere, non si avrebbe soltanto un pianeta con un’aria più respirabile, si godrebbe anche di un clima più fresco. Infatti, il rapporto calcola che una tale riduzione delle emissioni climalteranti nelle città contribuirebbe per circa la metà a mantenere gli aumenti della temperatura terrestre entro i due gradi centigradi, come previsto dagli Accordi di Parigi. Al contrario, se non si agisce subito, il rapporto cita le stime elaborate da un gruppo di enti di ricerca sul clima (New Climate Institute, Ecofys e Climate Analytics) che prevedono un innalzamento della temperatura media di 3° C rispetto ai livelli pre-industriali entro la fine del secolo. Si ribadisce ancora una volta che per mantenere il riscaldamento globale non superiore a 1,5 ° C sopra i livelli pre-industriali, le emissioni di anidride carbonica dovranno quasi dimezzare entro il 2030, rispetto ai livelli del 2010, e poi azzerarsi intorno al 2050.
I benefici globali di una riduzione delle emissioni deriverebbero anche dai minori costi per la spesa sanitaria, da una maggiore inclusione sociale e da aumenti della produttività. Senza contare gli 87 milioni di nuovi posti di lavoro che si creerebbero entro il 2030, in particolare nel settore della riqualificazione energetica degli edifici, e i 45 milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2050, in particolare nel settore dei trasporti. Con un tale approccio e, quindi, intensità dell’investimento, i costi di molte azioni, per esempio nel campo dell’illuminazione pubblica, dei veicoli elettrici e del miglioramento del sistema della mobilità si ripagherebbero in tempi brevissimi (meno di cinque anni), di fatto si ripagherebbero da sole. Per alcuni settori, come ad esempio l’illuminazione pubblica, si è già molto vicini a questo obiettivo e diverse amministrazioni pubbliche ne stanno approfittando.
Governo locale e nazionale possono collaborare?
La capacità operativa delle amministrazioni locali risulta però limitata a causa di alcune barriere. Se da un lato il contributo che le città, così come la società civile e il settore privato, possono dare risulta fondamentale per affrontare l’emergenza climatica, c’è da considerare che questi soggetti non hanno impegni vincolanti nell’ambito degli Accordi di Parigi o in altri strumenti di politica climatica. Sono i Governi nazionali ad avere degli impegni vincolanti da rispettare. Si torna quindi sull’idea già espressa diverse volte di una maggiore sinergia tra i diversi livelli di governance. In teoria, i Governi nazionali hanno formalmente riconosciuto l’importanza delle città nel momento in cui hanno adottato l’obiettivo n. 11 degli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG11) che impegna i Paesi a “rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili”.  Ma dalla teoria è necessario passare alla pratica con un’azione concreta. L’ideale sarebbe che l’iniziativa partisse proprio dai governi nazionali; al momento, si illustra nel rapporto, meno del 40% delle Nazioni ha definito una propria strategia per le aree urbane e al momento solo sette Paesi in tutto il mondo hanno approntato dei Piani nazionali per le politiche urbane che affrontano contemporaneamente i temi delle aree cittadine e dei cambiamenti climatici. Altrimenti, la maggior parte dei Paesi tratta i due temi separatamente facendo giusto riferimento al tema dell’adattamento e della resilienza. Sempre più si dovrà lavorare in stretta sinergia su questi temi perché i Paesi che diventeranno leader domani sono quelli le cui città realizzeranno con successo una transizione equa e sostenibile verso una nuova economia urbana. Già definiti come i principali centri di produzione e consumo, quello che succederà nelle città nel prossimo decennio sarà di fondamentale importanza per i paesi di tutto il mondo. I decisori politici nazionali, con le loro scelte di indirizzo generale, possono aiutare a mettere le città sulla strada della prosperità e della resilienza, o, al contrario, del declino e della vulnerabilità.
Tra i casi concreti analizzati nel rapporto, ove i governi nazionali e locali hanno lavorato insieme per migliorare profondamente la qualità della vita nelle città, per l’Europa viene citata la città di Copenaghen il cui Piano Clima 2025 avevamo già presentato . Nella capitale danese una joint venture tra il governo nazionale e quello locale fu creata nei primi anni ’90 proprio per costruire e gestire la metropolitana che aprì la sua prima linea nel 2002. Già dopo il primo anno gli spostamenti in auto sono diminuiti in media di circa il 3% durante i giorni feriali. Il 29 settembre è stata inaugurata la nuova Circle Line (M3), realizzata come le prime due linee da aziende italiane, con una grande festa in città e mezzi pubblici gratis per tutti per tutto il giorno, che attirerà sul servizio di trasporto pubblico circa 100.000 nuovi passeggeri al giorno. La cultura della bicicletta dagli anni ’70 (il 43% degli spostamenti casa-lavoro-scuola avviene oggi in bicicletta) e un’opportuna tassazione nazionale sull’acquisto e mantenimento di un’auto privata (a Copenaghen ci sono 360 auto per 1.000 abitanti mentre Roma ne ha 641) hanno fatto il resto. E dire che lo sviluppo di Copenaghen poteva essere diverso visto che subito dopo la II Guerra Mondiale si era impostato uno sviluppo urbano (Finger Plan) basato su cinque arterie autostradali lungo le quali si sarebbe espansa la città. L’aumento dei prezzi del petrolio e la forte opposizione pubblica hanno spinto il Governo nazionale a prendere provvedimenti costituendo l’Autorità Regionale di Copenaghen Capitale per facilitare una pianificazione dei trasporti e della mobilità integrati e, di fatto, modificare il piano di sviluppo della città. Molte città a rapida crescita si trovano oggi nella stessa posizione: investire in un sistema basato sull’utilizzo delle auto private o sulla connettività urbana?
Questo ed altri esempi dimostrano come la scala e il ritmo del cambiamento necessari per raggiungere gli obiettivi delineati dal SDG11 e fare in modo che le città diventino carbon neutral sono sia tecnicamente che politicamente fattibili. Le città di Londra e Montreal hanno già evidenziato, ad esempio, il netto disaccoppiamento tra lo sviluppo economico del proprio territorio e le emissioni pro-capite di gas climalteranti. Ovviamente, l’obiettivo di città a zero emissioni non potrà essere raggiunto senza significativi progressi nella lotta alla povertà e alle disuguaglianze che, in alcune regioni del mondo, rende la sfida ancor più stimolante. Quasi tre quarti (71%) del potenziale di abbattimento delle emissioni a livello urbano identificato in questa analisi si trovano in paesi al di fuori dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), che identifica, in generale, il gruppo dei paesi più industrializzati. Le città cinesi rappresentano il 22% e le città indiane rappresentano il 12% delle riduzioni delle emissioni identificate. Nei paesi OCSE, nel frattempo, oltre la metà del potenziale di abbattimento urbano si trova nelle città degli Stati Uniti, che rappresentano il 15% del potenziale globale. I governi nazionali e statali in Cina, India e Stati Uniti hanno quindi ruoli particolarmente importanti da svolgere nel sostenere una transizione urbana a zero emissioni.
fonte: www.ilcambiamento.it

La classifica della ricerca nell’energia pulita: l’Italia fa troppo poco

Il “Global Energy Innovation Index” dell’Information technology & innovation foundation.


















Senza investire di più in innovazione sull’energia pulita, sarà praticamente impossibile raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni necessarie per la sfida del clima. E quasi nessun paese sta facendo quanto servirebbe da questo punto di vista.
Ad esempio, nonostante aderiscano all’Accordo di Parigi e si impegnino a raddoppiare gli investimenti pubblici in R&S nel settore dell’energia pulita entro cinque anni, nell’ambito dell’iniziativa Mission Innovation, nove paesi (Corea del Sud, Francia, Italia, Paesi Bassi, Australia, Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia) oltre all’UE investono oggi meno in termini assoluti rispetto al 2015.
È quanto emerge dal nuovo rapporto “Global Energy Innovation Index” dell’Information technology & innovation foundation (allegato in basso), che mostra anche come l’Italia è agli ultimi posti tra i paesi ricchi da questo punto di vista ed è messa male anche nella classifica generale, al 14esimo posto tra le 23 nazioni monitorate:
Norvegia e Finlandia sono gli unici Paesi a spendere in R&S sull’energia pulita quanto raccomandato dagli esperti. A indebolire in generale lo sforzo per le rinnovabili, sottolineano i ricercatori, i finanziamenti pubblici per tecnologie energetiche pulite ad alta intensità di capitale, come la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCS) e l’energia nucleare avanzata.
Nella classifica degli investimenti in innovazione energetica rispetto alla dimensione dell’economia nazionale segue al terzo posto c’è il Giappone.
Nonostante Trump e le sue politiche, gli Stati Uniti restano al quarto posto in rapporto al Pil e in valore assoluto investono più di qualsiasi altra nazione per sostenere l’innovazione low carbon: con 6,8 miliardi di dollari nel 2018 gli Usa hanno speso in ricerca più di Cina e Giappone messi insieme.
Australia e Paesi Bassi, assieme come detto all’Italia, sono ultimi tra le economie sviluppate.
fonte: https://www.qualenergia.it

Ue, anche i prodotti finanziari green avranno il loro marchio di qualità?

Entro novembre 2020 la Ue potrebbe estendere il marchio Ecolabel ai prodotti e servizi finanziari verdi. Una novità che potrebbe aiutare gli investimenti sostenibili




La finanza sostenibile non è più una materia per soli professionisti ed esperti del settore: oltre agli strumenti e alle iniziative che già stanno contribuendo a diffondere la conoscenza e la pratica dell’Investimento Sostenibile e Responsabile (SRI), nel prossimo futuro un marchio potrebbe consentire a tutti i risparmiatori europei di riconoscere facilmente i prodotti finanziari che investono in titoli verdi.

L’Unione Europea sta infatti studiando una serie di criteri per attribuire una certificazione di elevate qualità ambientali agli strumenti finanziari dedicati agli investitori retail.
L’EU Ecolabel

Una “etichetta” esiste già: si chiama EU Ecolabel, è disciplinata da un regolamento europeo (il numero 66 del 2010) e al momento viene applicata ai prodotti e ai servizi di consumo che rispettano elevati standard ambientali lungo l’intero ciclo di vita, dalla materia prima allo smaltimento: per esempio, la ottengono pitture e vernici quando il processo di produzione richiede un basso livello di emissioni di CO2 e sono facilmente riciclabili, o i servizi turistici a ridotto impatto ambientale.

Al momento le categorie di prodotti e servizi mappati dal sistema Ecolabel sono quasi 73mila e le licenze concesse sono 1.575 (dati aggiornati a marzo 2019).

Evoluzione numero prodotti e servizi con marchio EU Ecolabel. Anni 2010-2019. FONTE: Commissione Ue




Evoluzione numero licenze con marchio EU Ecolabel. Anni 2010-2019. FONTE: Commissione Ue

L’Ecolabel nel piano della Commissione per la crescita della finanza sostenibile

L’idea di estendere l’Ecolabel agli investimenti retail è stata suggerita a gennaio 2018 dall’High-level Expert Group on Sustainable Finance; l’iniziativa è stata ripresa nel Piano d’Azione per finanziare la crescita sostenibile pubblicato dalla Commissione Europea a marzo 2018. L’obiettivo è incrementare la trasparenza del mercato SRI, incoraggiando gli investitori a orientare i propri risparmi verso attività in linea con gli obiettivi ambientali e climatici dell’Unione europea.
Approfondimento

FINANZA ETICA
«Io sono sostenibile». La Commissione Ue decide chi può dirlo

A pochi mesi dalla fine del suo mandato, Bruxelles pubblica la bozza finale della Tassonomia: una guida per "finanziare un'economia europea sostenibile"

Lo sviluppo dell’Ecolabel per prodotti finanziari è strettamente collegato ad altre due iniziative del Piano d’Azione, che la Commissione europea sta sviluppando con il supporto di un gruppo tecnico di esperti:
la tassonomia delle attività economiche eco-compatibili, una classificazione delle attività e dei rispettivi criteri quantitativi che consentono di determinare entro quali parametri ciascuna di esse contribuisce agli obiettivi di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico;
il Green Bond Standard, uno schema di criteri condivisi a livello europeo per l’emissione di green bond.

Lo sviluppo dell’Ecolabel dovrà quindi fare riferimento sia alla tassonomia, per quanto riguarda l’analisi delle attività in cui i prodotti finanziari investono, sia al Green Bond Standard, per la definizione dei criteri nel mercato obbligazionario.
Approfondimento

RIFORME DELLA FINANZA
Finanza sostenibile: l’Europa corregge il tiro. Non è ancora “sociale”, ma è molto più green

Approvato il pacchetto sulla finanza sostenibile. Niente da fare per gli aspetti sociali, argomento rimandato al 2021. Ma almeno carbone, petrolio e nucleare sono esclusi
Come potrebbe funzionare l’Ecolabel per prodotti finanziari

Il progetto di estensione dell’Ecolabel ai prodotti finanziari è sviluppato dalla Commissione europea, più precisamente da DG FISMA (la Direzione per la Stabilità Finanziaria, i Servizi Finanziari e l’Unione dei Mercati dei Capitali) e da alcune unità del Joint Research Centre (il centro di ricerca) che si occupano di crescita e innovazione per la Direzione Ambiente; in particolare, il JRC ha il compito di individuare i criteri tecnici. Inoltre, il processo implica la consultazione con i principali attori finanziari ed esperti scientifici e accademici.

L’obiettivo è introdurre parametri che consentano di premiare con l’Ecolabel il 10-20% dei prodotti finanziari presenti sul mercato, che rappresenterebbe dunque la porzione degli strumenti con le migliori qualità ambientali.

Il progetto prevede che l’Ecolabel sia applicato anzitutto ai PRIIPs, acronimo di Packaged Retail and Insurance-based Investment Products, ovvero “Prodotti di Investimento al Dettaglio e Assicurativi Preassemblati”. In pratica, si tratta di prodotti che presentano due caratteristiche:
il valore, e quindi l’importo dovuto all’investitore, è soggetto a fluttuazioni causate dall’esposizione a variabili di riferimento o al rendimento di una o più attività sottostanti (cioè i titoli che compongono il prodotto);
sono il risultato di un processo di assemblaggio che fa sì che tali prodotti abbiano caratteristiche e costi diversi rispetto a una detenzione diretta dei titoli. All’interno di questa categoria, gli Ecolabel saranno assegnati a: fondi aperti; fondi alternativi per investitori retail; prodotti assicurativi con una componente d’investimento, per esempio le polizze vita. In futuro il progetto potrebbe essere esteso ad altre categorie di prodotti.

Secondo i primi materiali informativi pubblicati dalla Commissione europea, il progetto potrebbe vedere la luce a novembre del 2020.



Iniziative come questa sono cruciali per incrementare la conoscenza, il livello di comprensione e la fiducia degli investitori nell’SRI; l’atteggiamento proattivo e la rapidità con cui sta agendo la Commissione testimoniano il ruolo cruciale assegnato alla finanza sostenibile per il conseguimento degli obiettivi ambientali e climatici dell’Unione europea e, più in generale, per il raggiungimento di un modello di crescita più trasparente e sostenibile.

fonte: www.valori.it