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Nuovo programma Bei: ora il Green Deal potrà contare su una “banca per il clima”

Approvata la nuova Roadmap 2021-2025: tutti i finanziamenti dovranno essere allineati agli obiettivi europei su clima e ambiente.











Il Green Deal europeo – il piano lanciato dalla Commissione Ue di Ursula von der Leyen – potrà contare su una “banca per il clima” che punta a essere totalmente allineata con l’obiettivo di azzerare le emissioni inquinanti entro il 2050.

Il consiglio d’amministrazione della Banca europea per gli investimenti (Bei), infatti, ha approvato la Roadmap 2021-2025 per trasformare l’istituto finanziario europeo in una “climate bank”, vale a dire, una banca che supporta solo gli investimenti che rispettano determinati criteri ambientali.

Sono due i punti essenziali della Roadmap.

Il primo: la Bei aumenterà al 50% del totale, entro il 2025, i suoi finanziamenti annuali per attività e iniziative che riguardano la sostenibilità ambientale. Nei prossimi dieci anni, la Bei intende supportare investimenti nell’azione climatica per circa mille miliardi di euro.

Il secondo pilastro della nuova climate bank è assicurare che tutti i suoi investimenti siano compatibili con gli obiettivi stabiliti nell’accordo di Parigi del 2015: limitare sotto 2 gradi il surriscaldamento terrestre, rispetto all’età preindustriale.

Tutte le attività della Bei, quindi, dovranno seguire i criteri della finanza sostenibile, soprattutto il principio di “non fare danni significativi” (do no significant harm) contro l’ambiente.

È lo stesso principio che fonda la nuova tassonomia Ue, vale a dire, la nuova classificazione che permette di distinguere gli investimenti a ridotto impatto ambientale da quelli che invece sono rischiosi per il clima.

La Bei spiega in una nota che i progetti già in corso di valutazione potranno essere approvati fino alla fine del 2022. Le regole della Roadmap saranno applicate a tutte le nuove operazioni della banca dal primo gennaio 2021.

Per quanto riguarda l’energia, la Bei seguirà la nuova politica di finanziamento approvata a novembre 2019, che prevede lo stop dalla fine del 2021 a tutti i progetti che riguardano i combustibili fossili compreso il gas naturale (ma con delle eccezioni: ad esempio gli impianti fossili con tecnologie per catturare le emissioni di anidride carbonica).

Inoltre sono ammessi gli investimenti in centrali fossili che producono energia elettrica con emissioni inferiori a 250 grammi di CO2 per kWh, che però è una soglia più elevata in confronto a quella che dovrebbe essere inserita nella tassonomia (si parla di 100 g/CO2 per kWh).

fonte: www.qualenergia.it


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La trappola della ripartenza

A livello planetario, i bei propositi spuntati fuori a più riprese durante il lockdown si sono sciolti come neve al sole. La domanda mondiale di petrolio è già risalita all’89 per cento dei livelli pre-Covid, dovrebbe raggiungere il 95 a inizio 2021. “Siamo quasi normali”, dicono gli esperti del think tank, all’appello mancano solo il trasporto aereo e altri colleghi. Inevitabile, con il virus che ancora circola per il mondo. Dall’inizio della pandemia, la Banca Centrale Europea ha iniettato oltre 7 miliardi di euro nelle casse dell’industria fossile, Eni inclusa. Con il Decreto Semplificazione, anche il governo italiano ha fatto un bel po’ di favori al comparto dei combustibili fossili, Enel, Eni e Snam in primis. Con i piani di conversione a gas degli impianti di carbone e altre mosse del genere, anziché guidare verso la necessaria transizione, il governo la mette in soffitta




Dopo la pandemia del Covid-19 nulla sarebbe stato come prima, ci è stato detto a lungo dai media e dai governanti del pianeta. Ed è sembrato un po’ così per le prime settimane dell’emergenza sanitaria. Si pensi solo al mercato dell’energia, al tracollo del prezzo del petrolio che ha disintegrato in due mesi i profitti delle oil majors e generato panico e incertezza sistemica.

Ma poi, ridimensionata temporaneamente la crisi sanitaria, sono entrate in campo le banche centrali, le misure urgenti della ripresa da parte dei governi e le richieste di aiuto faraonico dalle imprese.

“Ricostruiamo, ma meglio, più verdi, più giusti”, si è chiesto da più parti. Sei mesi dopo l’inizio del lockdown globale, i numeri e le scelte dei vari esecutivi purtroppo ci dicono ben altro.

Gli analisti dell’IHS Crude Oil Market Service qualche giorno fa hanno annunciato che la domanda mondiale di petrolio è già risalita all’89 per cento dei livelli pre-Covid ed è attesa al 95 a inizio 2021. “Siamo quasi normali”, secondo gli esperti del think tank; all’appello mancano solo l’aviazione e alcuni trasporti. Inevitabile, con il virus che ancora circola per il mondo.

Allo stesso tempo la mole finanziaria di aiuti per le società fossili ed energetiche messa in campo da governi e banche centrali è spaventosa.

Dall’inizio della pandemia, la Banca Centrale Europea ha iniettato oltre 7 miliardi di euro nelle casse dell’industria fossile, Eni inclusa.

In Italia, oltre al caso più noto di FCA, la lista di multinazionali che in questi mesi hanno beneficiato di aiuti pubblici è lunga, e comprende colossi come Fincantieri, che ha appena ricevuto un prestito da 1,15 miliardi tramite Garanzia Italia, e Maire Tecnimont, società specializzata nell’oil&gas, a cui sono andati 365 milioni.

La lista è destinata ad allungarsi, viste le mire delle lobby europee del gas sui nuovi soldi del tanto ambito “Recovery Fund”, in nome del mantra delle nuove infrastrutture che faranno ripartire il Bel Paese.

Insomma, sussidi di stato ai soliti noti, in nome della ripresa e lo sviluppo, ben poco di nuovo nella narrazione delle élite.

Ma non si tratta solo di soldi. Il Decreto “Semplificazioni”, in in questi giorni in dirittura di arrivo con la sua conversione in legge in Parlamento, prevede addolcimenti dei vincoli di legge a man bassa per le grandi imprese fossili ed energetiche.


Centrale termoelettrica ‘federico II’, Enel, Cerano, Brindisi, 2009. Foto Paolo Margari, Flickr CC BY-NC-ND 2.0

Nei mille cavilli del decreto del governo per la ripresa post-Covid si trovano permessi più semplici per le conversioni degli impianti da carbone a gas (leggi Enel, A2A), esenzione da bonifiche attese da decenni con auto-certificazioni all’acqua di rosa, ricorsi amministrativi più difficili e velocizzati in caso di gasdotti e nuove mega opere (leggi Snam e TAP) e tanto altro ancora.

Per ripartire tocca fare presto e fidarsi che i campioni italiani delle grandi opere fanno tutto solo per noi cittadini, non per i loro interessi. Certo, lo sappiamo bene dalla Tav Torino-Lione in poi. Anche qui nessuna novità, ahimé.

A livello europeo, la dinamica sembra meno tradizionale di quella italiana. Ma anche lì l’azione delle lobby non è da meno.

Ad esempio, in questi giorni si sta chiudendo il pacchetto sui fondi per la transizione giusta, e si moltiplicano le voci per rendere eleggibili i progetti a gas, e quindi fossili, che ritarderebbero di decenni una vera decarbonizzazione.

In effetti, come si legge in un recente studio dell’Università di Oxford che ha analizzato 3mila utilities a livello mondiale, si capisce come tre quarti non hanno investito in rinnovabili e delle rimanenti almeno la metà ha investito tanto anche in nuovi impianti a gas. Altro che sviolinate giornaliere sulla sostenibilità ed i cambiamenti climatici!

Articolo pubblicato grazie alla collaborazione con Re:Common

fonte: www.comune-info.net


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In Polonia una fabbrica di materiali innovativi per le batterie delle auto elettriche

Sarà realizzata dalla multinazionale inglese Johnson Matthew grazie anche al finanziamento della Banca europea per lo sviluppo. Prende forma la filiera industriale europea nel campo delle batterie?



Si moltiplicano gli investimenti europei in nuove fabbriche di batterie per le auto elettriche, tanto da arrivare in Polonia, paese finora più noto per il massiccio impiego di carbone, invece che per il suo impegno nelle energie pulite.

In una nota della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (nell’acronimo inglese EBRD, European bank for reconstruction and development), si legge di un prestito complessivo da 135 milioni di euro, destinato alla costruzione di una fabbrica di componenti innovativi per batterie al litio in Polonia.

Più precisamente, 90 milioni di euro arriveranno dalla stessa EBRD, e altri 45 milioni dalla banca tedesca KfW IPEX-Bank.

Destinatario dei finanziamenti è il gruppo Johnson Matthey, multinazionale inglese specializzata nella chimica e nelle tecnologie sostenibili, che li userà per sviluppare uno stabilimento a Konin, il primo al mondo a produrre la nuova generazione di materiali per il catodo delle batterie, sviluppata dalla società con sede a Londra.

L’azienda ha diffuso pochi dettagli sulle caratteristiche di questi materiali, battezzati eLNO.

In particolare, si parla di una percentuale molto limitata di cobalto nella composizione chimica e di un’elevatissima densità energetica, che secondo Johnson Matthey consentirà di aumentare parecchio l’autonomia dei veicoli elettrici.

La fabbrica di Konin, la cui costruzione è già iniziata quest’anno, entrerà in funzione nel 2022 con una capacità pari a 10.000 tonnellate/anno di eLNO, sufficienti per circa 100.000 vetture plug-in a batteria, con il potenziale di fare economie di scala fino a decuplicare il livello produttivo, portandolo a 100.000 tonnellate/anno.

Più in generale, Johnson Matthey punta a creare una filiera delle batterie a basso impatto ambientale, utilizzando energie rinnovabili e rifornendosi di materie prime – litio, cobalto, nickel – provenienti da miniere “etiche”.

Infatti, ricordiamo che uno dei problemi principali del cobalto è la sua provenienza da siti minerari, perlopiù in Congo, in cui non si rispettano le condizioni di salute e dignità dei lavoratori.

Nei giorni scorsi è stata la svedese Northvolt a raccogliere nuovi finanziamenti per 1,6 miliardi di dollari che serviranno a realizzare due super-stabilimenti di celle/batterie al litio, in Svezia e Germania; la prima gigafactory, quella di Skelleftea, sarà operativa nel 2021 con una capacità massima annuale di 40 GWh.

Sta così prendendo forma – con questa e altre iniziative nell’ambito della Battery Alliance europea e della Global Battery Alliance (di cui fa parte Johnson Matthey) – quella filiera industriale europea nel campo delle batterie, che proverà a contrastare l’attuale dipendenza dai fabbricanti esteri, soprattutto asiatici.

Secondo Bruxelles, saranno necessarie 10-25 gigafactory al 2025 nel nostro continente per soddisfare la crescente domanda di batterie e competere con i produttori stranieri, in particolare asiatici.

fonte: www.qualenergia.it



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Banca del clima o del maquillage?

Nonostante la sua politica generale sia definita dal Consiglio dei Governatori, composto dai 28 ministri dell’economia degli Stati membri, la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) sarebbe formalmente un’istituzione indipendente. Da qualche tempo, poi, il presidente del Gruppo BEI, Werner Hoyer, non fa altro che sostenere che il clima è la priorità politica del momento e che quella adottata dalla BEI di recente, con l’essenziale beneplacito di Ursula von der Leyen, è “la più ambiziosa strategia di investimento per il clima che un’istituzione finanziaria pubblica mondiale abbia mai adottato”. Cosa probabilmente vera, anche perché non si saprebbe dove cercare i competitors. Il problema nasce quando si va a guardare da vicino quella strategia, fatta – come sempre – di annunci e promesse ancora vistosamente e largamente contraddetti dalle pratiche attualmente in corso. Come dimostrano il Rapporto pubblicato di recente da Counter Balance ma anche la garanzia di ben 150 milioni di euro per la costruzione di un terminale per il gas liquido a Cipro per favorire l’estrazione nelle acque profonde del Mediterraneo orientale o i miliardi concessi negli ultimi tre anni per l’espansione di aeroporti e la costruzione di nuove strade e autostrade. In tutto, ben 28,7 miliardi di euro del budget della Bei sarebbero andati a operazioni ad alte emissioni nel settore dei trasporti e dell’energia. Un presente ancora molto imbarazzante per una sincera “banca del clima”, che lascia ampio credito alle ipotesi che vogliono quello annunciato come l’ennesimo ritocco green per continuare sostanzialmente il business di sempre?




Nel novembre 2019, con il lancio della sua nuova politica energetica la Banca europea per gli investimenti (BEI) ha gettato le basi per divenire la “banca per il clima” dell’Unione europea. La decisione di chiudere il rubinetto dei prestiti al settore estrattivo a partire dal 2021 ha generato un notevole dibattito nel settore finanziario e tra le banche di sviluppo pubbliche, finite sotto la pressione delle proteste dei giovani attivisti dei Fridays for Future, che chiedevono loro di azzerare i prestiti a un settore, quello delle fossili, che contribuisce in larga parte alla crisi climatica.

Se da un lato va dato atto ai banchieri di Lussemburgo dell’importanza di questa decisione, dall’altro la banca è ancora ben lontana dall’agognato impatto zero. Ce lo spiega bene il nuovo rapporto pubblicato da Counter Balance, dal titolo “The EU Climate Bank: Greenwashing or banking revolution?” (scaricabile in inglese qui: http://www.counter-balance.org/too-soon-to-call-eib-eu-climate-bank/ ). Secondo la rete di organizzazioni, di cui fa parte anche Re:Common, sono numerosi gli ambiti di investimento da cui la banca dovrebbe uscire per allineare le proprie operazioni agli impegni presi con l’Accordo di Parigi.

Prima di tutto, dovrebbe affrontare le preoccupanti lacune contenute nella policy sull’energia di cui sopra, che consente ancora di finanziare progetti nel settore del gas sulla base di vaghe promesse di una futura riduzione delle emissioni che dovrebbero rendere queste stesse opere più “green”. Poi c’è il problema dei “Progetti di interesse comune” della Commissione europea: la 4a lista dei progetti prioritari, approvata nel 2019, contiene ben 32 grandi infrastrutture per il trasporto, estrazione, stoccaggio e trattamento del gas che la BEI potrebbe finanziare. Infine le soglie di performance richieste ai clienti della banca non sarebbero per niente stringenti, aggiungendo una ulteriore finestra attraverso cui nuovi progetti fossili potrebbero beneficiare dei soldi della banca.

Solo qualche giorno fa il vice presidente della banca, Andrew McDowell, ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che “investire in nuove infrastrutture nel settore fossile, come terminali LNG, è sempre di più una decisione economicamente scorretta”. Eppure lo scorso giugno la BEI ha garantito ben 150 milioni di euro per la costruzione di un terminale LNG a Cipro, un progetto che favorirà l’espansione dell’estrazione di gas in acque profonde nel Mediterraneo orientale. Alla faccia delle considerazioni economiche, della politica energetica e della compatibilità climatica!

Secondo Counter Balance, il problema della sostenibilità climatica dei finanziamenti erogati va ben oltre il settore energetico: il rapporto segnala ad esempio l’impatto enorme su ambiente e clima di un modello di organizzazione dei trasporti incentrato sull’espansione del traffico aereo e sul commercio a lunga distanza, che la BEI continua a sostenere. Fra il 2016 e il 2019, la banca avrebbe finanziato l’espansione di aeroporti per 4 miliardi di euro; 10,5 miliardi di euro sono statti destinati alla costruzione di nuove strade e autostrade e 2,83 miliardi al settore marittimo, incluso per navi alimentate a gas. In tutto, 28,7 miliardi di euro del budget della Bei sarebbero andati a operazioni ad alte emissioni nel settore dei trasporti e dell’energia.

Quindi quale sarebbe la ricetta da seguire per divenire davvero la banca per il clima di cui l’Ue possa vantarsi? Per iniziare, la BEI dovrebbe smarcarsi dai falsi miti della transizione green promossa dalle grandi corporation. Primo fra tutti, quello del “gas verde” o “rinnovabile”, che di fatto non esiste (e forse non esisterà mai). Come non esiste l’“aviazione verde”, ma per ora ci sono solo tante promesse delle multinazionali sulle riduzioni di emissioni future di uno dei settori più pericolosi per il clima. In entrambi i casi, il rischio che risorse pubbliche continuino a sostenere settori così inquinanti sulla base di impegni sulla carta che potrebbero materializzarsi solo in parte (o per niente) è davvero troppo alto. C’è poi il mito della “finanza verde”, che riduce le proprie emissioni tramite meccanismi di offsetting della biodiversità, rischiando di alimentare l’accaparramento di terre, la deforestazione, le violazioni dei diritti umani delle comunità coinvolte. Anche questo è un mito da decostruire, non solo per investimenti in grandi infrastrutture (verdi!) ma anche per investimenti in mega impianti fotovoltaici o per lo sfruttamento dell’energia eolica. “Rinnovabili” certo, ma insostenibili.

Per trasformarsi nella Banca per il clima dell’UE, la BEI dovrebbe rivedere radicalmente la lettura del modello di sviluppo che sostiene. Serve un processo lungo e complesso, che richiederebbe alla banca di svincolarsi dalle pressioni del settore estrattivo e dell’industria pesante, ma anche da quello del settore finanziario, tra i grandi promotori dei mega-corridoi infrastrutturali orientati a favorire il transito sempre più rapido (e estrattivista) di merci su scala globale. Un vero e proprio piano di sviluppo di infrastrutture nei cinque continenti che se realizzato, diventerà la spina dorsale del sistema economico per i prossimi cinquanta e più anni, e che non può essere compatibile con la tutela deBanca del clima o del maquillagel clima e la necessaria riduzione di emissioni su scala globale. Chissà se i banchieri di Lussemburgo saranno tanto ambiziosi da voler creare una “vera” banca per il clima, o se anche loro sperano che pochi ritocchi bastino a consegnare al mondo un immagine “green”, continuando però con il business as usual.

Fonte Re:Common



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Indagine della BEI sul Clima: il 94% degli italiani intende smettere di utilizzare le bottiglie di plastica e il 66% lo ha già fatto

La Banca europea per gli investimenti (BEI) ha lanciato la seconda edizione dell’Indagine sul Clima, condotta in partenariato con la BVA. L’indagine è un indicatore di come i cittadini percepiscono il fenomeno dei cambiamenti climatici nell’Unione europea, negli Stati Uniti d’America e in Cina
















La Banca europea per gli investimenti (BEI) ha lanciato la seconda edizione dell’Indagine sul Clima, condotta in partenariato con la BVA, una società di consulenza specializzata in ricerche di mercato. L’indagine è un indicatore di come i cittadini percepiscono il fenomeno dei cambiamenti climatici nell’Unione europea, negli Stati Uniti d’America e in Cina. La seconda serie di risultati fa luce sulle azioni che i singoli cittadini contano di fare per contrastare i cambiamenti climatici.
Paragonati al resto d’Europa, gli italiani dicono nel complesso di essere disposti a fare di più per adeguare il loro stile di vita nel segno della prevenzione ai cambiamenti climatici. L’indagine valuta le seguenti quattro categorie di azioni:
Prodotti alimentari. La sostenibilità in materia alimentare è al centro dell’impegno dei cittadini italiani. Il 93% cerca attivamente di comprare più prodotti locali e stagionali e il 48% lo fa già sistematicamente. Gli italiani si dicono anche pronti a modificare la loro alimentazione: il 73% ha ridotto il consumo di carne rossa. Vi è in ogni caso una discrepanza tra le fasce di età più giovani e quelle più anziane: rispetto ai più giovani, gli italiani più anziani si impegnano di più ad acquistare unicamente prodotti alimentari locali. 
Rifiuti. Il 97% degli italiani non usa più prodotti in plastica, o almeno ne ha ridotto il consumo. Più in particolare, il 94% degli italiani dice di avere l’intenzione di smettere di comprare le bottiglie di plastica, il 96% ha intenzione di comprare meno prodotti imballati con la plastica. Le donne, rispetto agli uomini, sembrano essere più propense a limitare il consumo della plastica: il 65% delle italiane dice di aver smesso di utilizzare i sacchetti di plastica per la spesa rispetto al 55% degli uomini.
Trasporti. Quando si tratta di optare per mezzi di trasporto più ecocompatibili, il 69% degli italiani dice di scegliere di camminare oppure di prendere la bicicletta per gli spostamenti giornalieri. Solo il 54% sceglie di usare i trasporti pubblici, percentuale che è inferiore alla media europea (64%). 
Vacanze. Il 77% degli italiani dice di trovarsi d’accordo con l’idea di fare meno viaggi in aereo per combattere i cambiamenti climatici, percentuale che è superiore di due punti rispetto alla media europea (75%). Per il 30% degli italiani si tratta già di una pratica consueta.  Analogamente, l’86% dei cittadini italiani dice che opterebbe per il treno, invece dell’aereo, per delle percorrenze pari o inferiori a cinque ore.  
Abitazione. Il 38% degli italiani dice di aver ridotto l’uso dei condizionatori, come pratica rispettosa dell’ambiente, mentre coloro che si dicono disposti a non accenderli più nell’anno nuovo raggiungono il 75%, ovvero una percentuale quasi doppia. Inoltre, il 60% della popolazione intende passare a un fornitore di energia verde, mentre il 22% sostiene di averlo già fatto. 
Marchi e società. Il 79% dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni dice di aver partecipato, o parteciperà, a manifestazioni a favore del clima, cifra che scende al 69% per la fascia di età compresa tra i 30 e i 64 anni. Inoltre, il 54% degli italiani intende investire in fondi verdi, e l’11% dice di averlo già fatto.
Anche i cittadini di altre parti del mondo si dimostrano disposti ad agire fattivamente contro i cambiamenti climatici nel 2020. Sul tema del ridurre il consumo della plastica il consenso è chiaro: l’81% degli americani, il 93% degli europei e il 98% dei cinesi dicono di aver l’intenzione di comprare meno prodotti di plastica. In ogni caso, per quanto riguarda l’abitazione, gli atteggiamenti non sono uniformi: oltre il 94% degli intervistati cinesi intende passare a un fornitore di energia verde, mentre solo il 70% degli europei e il 64% degli americani ha in conto di farlo. Un andamento analogo emerge nella propensione a investire in fondi verdi: oltre l’86% della popolazione in Cina è ben disposta a farlo nel 2020, mentre quella degli Stati Uniti lo è per il 56% e quella europea per il 52%. 
La Vicepresidente della BEI Emma Navarro, responsabile dell’azione per il clima e dell’ambiente, ha affermato: Mi entusiasma vedere quanto i cittadini europei si impegnino nella nostra lotta comune contro i cambiamenti climatici. Le azioni individuali positive per il clima creano quelle tendenze economiche e sociali nelle nostre società che saranno d’aiuto nel risolvere la problematica dei cambiamenti climatici. La Banca europea per gli investimenti è decisamente impegnata a fornire i mezzi che consentono ai cittadini di portare avanti questa lotta che è la realizzazione di un futuro più sostenibile. Rincuora vedere come le persone si facciano paladine di questa causa e la rendano parte integrante della loro vita: in questa lotta ce la faremo solo se decidiamo di batterci insieme.” 

BEI: stop agli investimenti fossili entro il 2020

L’istituto finanziario europeo propone di eliminare gradualmente il sostegno ai progetti energetici legati ai combustibili fossili. Ma l’ok deve arrivare dai 27 ministri delle finanze dell’UE



















Una nuova battuta di arresto si prospetta all’orizzonte degli investimenti fossili. La Banca europea per gli investimenti (BEI), l’istituzione finanziaria dell’UE, ha presentato una proposta per eliminare gradualmente il sostegno ai nuovi progetti energetici inquinanti. L’obiettivo è mettere al bando entro la fine del 2020 i finanziamenti oggi destinati alla “produzione di petrolio e gas, a infrastrutture principalmente dedicate al gas naturale, alla produzione di energia o calore basato su combustibili fossili”.

“Questi tipi di progetti – si legge nel testo rivelato dalla Reuters – non saranno presentati per l’approvazione al Consiglio della BEI dopo la fine del 2020″. Una decisione storica e quanto mai attesa dal mondo verde comunitario, la cui applicazione non è tuttavia scontata. Le risorse della Banca sono costituite, in primo luogo, dal capitale sottoscritto dagli Stati membri che, attraverso i rispettivi Ministri delle Finanze, ne controllano il Consiglio dei governatori (Board of Governors).  Il gruppo stabilisce le linee guida della politica creditizia, approva i conti e il bilancio annuali e decide in merito alla partecipazione dell’istituto alle operazioni di finanziamento al di fuori dell’Unione europea: perché la proposta passi, i Ventisette devono, pertanto, dare il loro consenso.
Facile immaginare chi potrebbe non sostenere la scelta. Come nelle altre grandi questioni climatiche che coinvolgono l’Europa, gli Stati dell’Europa orientale, ancora fortemente dipendenti dal carbone, potrebbero costituire l’opposizione più rilevante. Ma a storcere il naso potrebbero essere anche paesi come l’Italia dove la BEI, ad esempio, sta contribuendo a finanziare il gasdotto Trans-Adriatico.

La Banca cerca da subito di rassicurare gli animi.  “Questa transizione a lungo termine (verso fonti di energia più ecologiche) è profonda”, afferma il documento dell’istituto. “La solidarietà è necessaria per garantire il sostegno di gruppi o regioni potenzialmente vulnerabili “, continua la proposta promettendo un sostegno supplementare a quegli Stati membri o regioni con “un percorso di transizione più impegnativo”. La BEI stima che, attualmente, meno del 5 per cento dei suoi prestiti vada a favore di progetti fossili. Secondo il gruppo non governativo CEE Bankwatch Network l’Istituto avrebbe speso 12 miliardi di euro nel settore tra il 2013 e il 2017.

fonte: www.rinnovabili.it

Economia circolare europea: 10mld di euro ai progetti più rivoluzionari

Le banche e gli istituti nazionali di promozione più grandi dell’UE lanciano una nuova iniziativa finanziaria a sostengono della circular economy


















Progetti innovativi per promuovere l’economia circolare europea cercasi. Da Lussemburgo, cinque enti Finanziari e istituti nazionali di Promozione, sotto l’egida della Banca europea degli investimenti, hanno lanciato una nuova iniziativa congiunta. L’obiettivo? Sostenere, con un investimento di 10 miliardi di euro, lo sviluppo e l’attuazione di progetti e programmi dedicati alla circular economy. Ciò significa non solo iniziative in grado di promuovere il riciclo ma anche capaci di prevenire ed eliminare la produzione di rifiuti, migliorare l’efficienza d’uso delle risorse e sostenere la circolarità in tutti i settori economici dell’Unione.

Nell’ambito progetto saranno offerti prestiti, investimenti azionari o garanzie in relazione a progetti ammissibili, unitamente allo sviluppo di strutture di finanziamento innovative a favore di infrastrutture pubbliche e private, comuni, imprese private e istituti di ricerca. I sei enti – di cui fa parte anche l’italiana Cassa Depositi e Prestiti (CDP) – condivideranno competenze specifiche, esperienze e capacità finanziarie per migliorare i singoli contributi nei confronti dell’economia circolare europea.

Come accelerare la transizione verso l’economia circolare europea

“L’iniziativa congiunta – fa sapere il gruppo in una nota stampa – sarà incentrata, in particolare, su investimenti negli Stati membri dell’UE in grado di contribuire a una più rapida transizione verso un’economia circolare e riguarderà tutte le fasi della catena di valore e del ciclo di vita di prodotti e servizi”:
  • progettazione e produzione circolari – applicazione di strategie improntate alla riduzione e al riciclaggio dei rifiuti in modo da escludere la produzione dei rifiuti stessi fin dall’inizio, prima della commercializzazione;
  • utilizzo circolare ed estensione della vita utile – possibilità di riutilizzare, riparare, riconvertire, rinnovare o rigenerare prodotti in fase di utilizzo;
  • recupero del valore circolare – in riferimento a materiali e ad altre risorse recuperabili dai rifiuti, al calore di scarto e/o al riutilizzo delle acque reflue a seguito di trattamento;
  • sostegno circolare – agevolazione di strategie circolari in tutte le fasi del ciclo di vita, ad esempio attraverso l’impiego di fondamentali tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), la digitalizzazione e i servizi di supporto a modelli commerciali e catene del valore di tipo, appunto, circolare.
fonte: www.rinnovabili.it