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Il rinascimento della plastica aggrava la crisi climatica

Andriy Onufriyenko, Getty Images
Qualche anno fa un ricercatore dell’US Geological Survey (Usgs, l’agenzia federale statunitense che si occupa di risorse naturali e del rischio geologico) stava analizzando alcuni campioni d’acqua piovana raccolta sulle Montagne Rocciose. L’ultima cosa che pensava di trovare erano delle microplastiche. “Sta piovendo plastica”, ha scritto Gregory Wetherbee insieme a due colleghi.
Altri scienziati, in Europa, hanno scoperto che cadono, ogni giorno, circa 365 particelle di microplastica per metro quadrato sui Pirenei, nel sud della Francia. I ricercatori hanno trovato plastica ovunque, negli oceani, nell’aria, negli stomaci degli animali marini, persino nella placenta umana. Uno studio pubblicato sulla rivista Environmental Science and Technology, stima che gli esseri umani consumino decine di migliaia di particelle microplastiche all’anno. Secondo gli statunitensi, le stime si aggirano tra le 39mila e le 52mila particelle microplastiche all’anno. Questi numeri aumentano a 74mila e 121mila quando si considera anche l’assorbimento tramite inalazione. Ulteriori 90mila particelle microplastiche all’anno sono da considerare se si consuma acqua in bottiglia. Possiamo ingerirle mangiando pesce, respirarle nell’aria, assorbirle da cibi e bevande che sono state a contatto con imballaggi. Ma da dove viene la plastica?
“Oggi il 99 per cento della plastica prodotta deriva dalla raffinazione di gas e petrolio, ovvero gli stessi materiali il cui sfruttamento ha determinato la crisi climatica”, ha detto Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia.
Un problema complesso
Il rapporto The plastic waste makers index (indice dei produttori di rifiuti plastici) afferma che solo venti aziende sono fonte di più della metà di tutti i prodotti di plastica usa e getta. La statunitense ExxonMobil – tra le principali emittrici di CO2 al mondo – è la maggiore produttrice di plastica monouso, dice il rapporto, seguita dalla Dow, dalla Sinopec, dall’Indorama Ventures, dalla Saudi Aramco, dalla PetroChina e altre aziende. Il rapporto ha analizzato la catena di approvvigionamento della plastica per collegare i rifiuti di plastica monouso alle aziende che per prime producono i polimeri, “i mattoni” di tutte le materie plastiche, e a chi le finanzia.
La questione della plastica è un problema complesso, ma la ricerca ha rivelato che, in realtà, sono solo poche aziende a rappresentare la maggior parte della produzione mondiale di polimeri destinati a finire tra i rifiuti di plastica monouso. Secondo lo stesso studio, i grandi investitori globali e le banche “stanno agevolando la crisi della plastica monouso”. Si stima che venti delle più grandi banche al mondo, tra cui la Barclays, l’Hsbc e ka Bank of America, abbiano prestato quasi trenta miliardi di dollari alla produzione di polimeri di plastica monouso dal 2011.
La produzione di plastica si basa in parte su un componente del gas naturale chiamato etano, rilasciato durante il fracking
Alla sua radice, quindi, la crisi globale della plastica è il risultato di un sistema fondato sull’uso di combustibili fossili. In particolare, non può essere considerata un problema a sé stante, separata dalla crisi climatica: inquinamento da plastica e collasso climatico sono due facce della stessa medaglia. Il processo di produzione della plastica e le sue conseguenze, una volta prodotta e dispersa nell’ambiente, sono entrambi fonti di emissioni di gas serra. Una nuova ricerca condotta con il dall’University of Hawaii suggerisce anche che la plastica rilasci gas serra quando si degrada nell’ambiente. Secondo il Center for international environmental law, le emissioni globali legate alla plastica potrebbero raggiungere 1,3 miliardi di tonnellate entro il 2030, tanto quanto quasi 300 centrali elettriche a carbone. E, se la produzione crescerà come previsto, la plastica occuperà tra il 10 e il 13 per cento delle emissioni di carbonio “consentite” dagli obiettivi climatici per tenere il riscaldamento al di sotto di 1,5 gradi.
La produzione di plastica, inoltre, si basa in parte su un componente del gas naturale chiamato etano, rilasciato durante il fracking, la tecnica estrattiva di petrolio e gas che richiede perforazioni e fratturazioni continue e che, secondo gli esperti, pone grossi rischi per il pericolo di perdite di gas, sismicità indotta e contaminazione delle falde acquifere. Il National Geographic riferisce che secondo il gruppo industriale American chemistry council, dal 2010 sono stati programmati o portati a compimento all’incirca 350 progetti petrolchimici con autorizzazione al fracking per un costo totale di oltre 200 miliardi di dollari. Le aziende di fracking statunitensi vendono il gas etano “in eccesso” ai produttori di plastica in Europa dove l’etano viene sottoposto a un processo che utilizza grandi quantità di energia e che “rompe” il gas in etilene, a sua volta poi trasformato in resina plastica.
Un falso assunto
Tra i grandi produttori di plastica, però, non ci sono solo le aziende petrolifere e i giganti petrolchimici, ma anche le multinazionali di bevande e packaging come la Coca-Cola, la Nestlé e la Unilever e quelle del tabacco. Si tratta di alcune tra le più grandi e potenti aziende del mondo che hanno unito le loro forze per la propria convenienza.
L’inchiesta Plastic wars di National public radio (Npr) e Public broadcasting service Frontline del 2020 ha rivelato che queste industrie hanno venduto al pubblico un’idea sapendo già in partenza che non avrebbe funzionato, e cioè che il problema si sarebbe risolto perché la maggior parte della plastica poteva essere e sarebbe stata riciclata. Ma non è così. I produttori di plastica l’hanno sempre saputo ma hanno speso milioni di dollari per comunicare il contrario. Come ha detto a NPR un ex funzionario dell’industria: “Vendere la possibilità del riciclo faceva vendere la plastica, anche se era una possibilità non vera”. L’indagine mostra come i consumatori siano stati ingannati, dall’industria petrolifera in particolare, a pensare che il riciclo avrebbe risolto il problema dei rifiuti. “Se il pubblico pensa che il riciclo funziona, allora non sarà così preoccupato per l’ambiente”, ha dichiarato a NPR Larry Thomas, ex presidente della Society of the plastics industry, conosciuta oggi come Plastics industry association, uno dei gruppi commerciali più potenti del settore.

Anna Efetova, Getty Images
I documenti interni mostrano che negli Stati Uniti i dirigenti delle aziende conoscevano questa realtà sul riciclo della plastica già negli anni settanta. Queste strategie di manipolazione, infatti, risalgono soprattutto agli anni settanta e ottanta, quando prevaleva il negazionismo climatico dell’industria, promosso dalle lobby con l’obiettivo di ritardare e ostacolare il più possibile le politiche di protezione ambientale.
Responsabilità individuale
I documenti interni mostrano che negli Stati Uniti i dirigenti delle aziende conoscevano questa realtà sul riciclo della plastica già negli anni settanta. Queste strategie di manipolazione, infatti, risalgono soprattutto agli anni settanta e ottanta, quando prevaleva il negazionismo climatico dell’industria, promosso dalle lobby con l’obiettivo di ritardare e ostacolare il più possibile le politiche di protezione ambientale.
Responsabilità individuale
Le aziende di combustibili fossili finanziavano esperti di comunicazione per creare campagne pubblicitarie che potessero far arrivare il loro messaggio al pubblico. Il più conosciuto tra questi è “l’Indiano che piange”, da Crying Indian Ad, uno spot pubblicitario degli anni settanta il cui slogan recitava “Le persone inquinano, le persone possono fermare l’inquinamento”. Lo spot era parte di una campagna pubblicitaria messa su da Keep America Beautiful, un’organizzazione fondata da aziende leader nel settore di bevande e packaging con l’obiettivo di prevenire i divieti statali sugli imballaggi monouso.
La campagna pubblicitaria, inoltre, introdusse l’idea della responsabilità individuale. L’obiettivo era distogliere l’attenzione dall’attività delle industrie e dalla produzione, in modo tale che potessero continuare ad agire indisturbate. Il messaggio all’opinione pubblica statunitense, e poi mondiale, era che la soluzione dell’inquinamento dipende dalle singole persone e non dal sistema. E che finché ci fosse stata la possibilità di riciclarla, la plastica non sarebbe mai stata un problema.
Eppure, una ricerca della fondazione Ellen MacArthur suggerisce che solo il 2 per cento della plastica è riciclato in prodotti con la stessa funzione. Un altro 8 per cento è trasformato in qualcosa di qualità inferiore, un processo detto “down cycling”. Il resto finisce in discariche, disperso nell’ambiente o incenerito. La maggior parte degli esperti fornisce cifre simili.
“Di tutta la plastica prodotta a partire dagli anni cinquanta è stato riciclato solo il 9 per cento. Il resto è finito in discariche e inceneritori sparsi nel territorio. E oggi i numeri globali indicano che, della plastica immessa in commercio in tutto il mondo, si riesce a riciclarne meno del 20 per cento”, ha spiegato Ungherese, aggiungendo che diversi elementi complicano lo smaltimento della plastica. “Innanzitutto, non tutta la plastica si ricicla, ma se ne ricicla solo una parte. In secondo luogo, alcune tipologie di materie plastiche, pur essendo tecnicamente riciclabili, non hanno domanda sul mercato quindi piuttosto raramente riescono a essere riprocessate per dare luogo a un prodotto che abbia delle caratteristiche qualitative paragonabili a quello di partenza. Quindi c’è un grosso problema”.
La plastica, infatti, si “degrada” ogni volta che viene riutilizzata, il che significa che non può essere riutilizzata infinite volte. Inoltre, la plastica nuova è economica e di qualità migliore. “Quindi tutti i proclami delle aziende che dicono ‘ricicla ricicla e ricicla’ si devono scontrare con la realtà dei fatti che non tutta la plastica effettivamente è riciclabile”, ha spiegato Ungherese.
Le aziende del settore, in sostanza, hanno speso decine di milioni di dollari per promuovere i benefici di un prodotto sapendo già quali sarebbero stati i problemi per lo smaltimento e l’inquinamento.
Rifiuti spediti oltremare
Ma questi sforzi di pressione e lobby non riguardano solo il passato. In una recente inchiesta, Unearthed, Greenpeace UK ha mostrato come la Exxon lavori usando gruppi di facciata per sottrarsi alla regolamentazione sulle sostanze chimiche tossiche e la plastica. L’azienda, svela Unearthed, ha lavorato con gruppi come l’American chemistry council che comprende le operazioni petrolchimiche della Exxon Mobil, della Chevron e della Shell, così come le principali aziende chimiche tra cui la Dow, per influenzare la politica sui rifiuti di plastica e sulle sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) ultimamente sottoposte a un maggiore controllo al livello globale perché legate a problemi di salute come danni al fegato, cancro e disturbi alla nascita e allo sviluppo. I Pfas sono soprannominati “prodotti chimici eterni” (forever chemicals) perché non si decompongono nell’ambiente. I giornalisti di Unearthed sono andati sotto copertura, fingendosi reclutatori aziendali per assumere un lobbista della Exxon, Keith McCoy, per conto di un cliente. Secondo McCoy, le strategie delle aziende sulla plastica sono estrapolate dallo stesso “manuale” che la Exxon ha usato per ritardare l’azione sul cambiamento climatico.
Un altro grande problema è che, spesso, la responsabilità per la gestione dei rifiuti di plastica viene scaricata su paesi terzi. Molti paesi europei esportano tonnellate di rifiuti di plastica l’anno. Il rapporto Trashed di Greenpeace, per esempio, sottolinea che quelli del Regno Unito, finiscono in Turchia, in Malaysia e in Polonia. Per molti anni, gli Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno inviato molti dei loro rifiuti in Cina fino a che, nel 2018, il paese ha imposto dei limiti sui rifiuti “importati”, così come ha fatto anche la Turchia nel 2020. Queste restrizioni, tuttavia, non hanno impedito ai paesi occidentali di trovare strade alternative per sbarazzarsi dei loro rifiuti e scaricarli oltremare.

A. Martin UW Photography, Getty Images
Secondo alcuni documenti esaminati dal New York Times, un gruppo industriale che rappresenta i più grandi produttori di prodotti chimici del mondo e le aziende di combustibili fossili sta facendo pressione per influenzare i negoziati commerciali degli Stati Uniti con il Kenya al fine di capovolgere la regolamentazione del paese sulla plastica, compreso il divieto sui sacchetti di plastica. Il gruppo sta anche facendo pressione affinché il Kenya continui a importare rifiuti plastici stranieri. Nel 2019, le esportazioni in Africa sono più che quadruplicate rispetto all’anno precedente. Sempre nel 2019, gli esportatori statunitensi hanno spedito più di 450 milioni di chilogrammi di rifiuti plastici in 96 paesi tra cui il Kenya, apparentemente per essere riciclati, sostiene l’indagine del New York Times.
Il punto è che la plastica è enormemente redditizia. L’industria petrolifera guadagna più di 400 miliardi di dollari all’anno producendo plastica. E adesso, con la domanda di combustibili fossili che continua a scendere, il settore deve trovare un modo per restare a galla. Per questo, sta puntando sempre più sulla plastica. E sta convincendo gli azionisti che i profitti deriveranno da lì. Secondo Greenpeace Italia, se le previsioni saranno rispettate, la plastica fornirà “l’ancora di salvezza” per aziende come la Shell, la Exxon e laBP che potranno perseverare nelle loro attività inquinanti basate sui combustibili fossili. Alcune stime indicano che la crescita della domanda di petrolio da parte del settore petrolchimico “sarà trainata per una quota che va dal 45 al 95 per cento proprio dalla crescente richiesta di plastica, finendo così per aggravare la crisi climatica”, sostiene Greenpeace Italia.
“Se osserviamo alcuni dati, soprattutto per il sudest asiatico e l’Europa, registriamo degli investimenti nel settore petrolchimico e per la produzione di plastiche che non si vedevano dalla fine degli anni settanta”, ha detto Ungherese.
Per l’industria fossile si tratta di un “rinascimento della plastica”. Il World economic forum prevede che la produzione di plastica raddoppierà nei prossimi vent’anni, in un momento in cui invece, soprattutto quella di plastica monouso, dovrebbe essere ridotta ai minimi.
Secondo Ungherese, la soluzione è fare in modo di ridurre l’uso della plastica a partire dall’usa e getta: “Oggi non ci sono ancora le condizioni per rimanere al 100 per cento senza plastica perché ci sono tantissimi ambiti in cui questo materiale è efficace e non può essere sostituito. Però l’usa e getta rappresenta il contrario di come dovrebbe essere usato perché si tratta di un materiale economico, leggero ma anche resistente e non biodegradabile. Noi invece lo usiamo per oggetti che restano nelle nostre mani da alcuni secondi a pochi minuti. È questo il paradosso di un oggetto che poi determina grandi danni sugli ecosistemi e sul mare. Una bottiglia, per esempio, è un contenitore che impiega centinaia di anni per degradarsi e noi l’abbiamo usato per pochissimo tempo”.
Soprattutto, è importante che si arrivi presto alla “responsabilità estesa al produttore”, cioè “chi immette nel mercato un prodotto deve essere responsabile dell’intero riciclo di vita”, ha aggiunto Ungherese. È poi è fondamentale che i governi stabiliscano una regolamentazione sulla produzione, senza ripetere il mito negazionista secondo cui agire contro la crisi climatica non conviene sul piano economico. “Arrivare prima alle soluzioni è un vantaggio competitivo non da poco, invece qui si continua ad adottare sempre la logica del meno peggio per lasciare alle aziende la possibilità di conservare le attività tradizionali”, ha commentato Ungherese. Anche perché, questo percorso agevolerebbe l’offerta dei posti di lavoro. Un’altra soluzione, infatti, sarebbe trasformare i prodotti in servizi, spiega il responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia. “Bisogna abbandonare un’economia lineare in cui compri un prodotto lo usi e lo getti via e andare verso un sistema in cui i prodotti diventano servizi. Per esempio, se voglio andare a fare il picnic con gli amici anziché comprare piatti o bicchieri di plastica li noleggio da una stoviglieria. Questo produce molti più posti di lavoro”.
L’azione dei singoli individui è necessaria ma non risolverà il problema. È necessaria un’azione urgente da parte dei governi e delle istituzioni, soprattutto se le aziende continuano a dare priorità al profitto sul resto. “Non vogliamo rivivere uno stesso film già visto con il clima,” ha dichiarato Ungherese “Queste aziende fanno enormi profitti vendendo il mito del riciclo e scaricando sulle singole persone la responsabilità, mentre continuano a incassare enormi profitti a scapito degli esseri umani e del pianeta su cui viviamo”.
fonte: www.internazionale.it
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Secondo alcuni documenti esaminati dal New York Times, un gruppo industriale che rappresenta i più grandi produttori di prodotti chimici del mondo e le aziende di combustibili fossili sta facendo pressione per influenzare i negoziati commerciali degli Stati Uniti con il Kenya al fine di capovolgere la regolamentazione del paese sulla plastica, compreso il divieto sui sacchetti di plastica. Il gruppo sta anche facendo pressione affinché il Kenya continui a importare rifiuti plastici stranieri. Nel 2019, le esportazioni in Africa sono più che quadruplicate rispetto all’anno precedente. Sempre nel 2019, gli esportatori statunitensi hanno spedito più di 450 milioni di chilogrammi di rifiuti plastici in 96 paesi tra cui il Kenya, apparentemente per essere riciclati, sostiene l’indagine del New York Times.
Il punto è che la plastica è enormemente redditizia. L’industria petrolifera guadagna più di 400 miliardi di dollari all’anno producendo plastica. E adesso, con la domanda di combustibili fossili che continua a scendere, il settore deve trovare un modo per restare a galla. Per questo, sta puntando sempre più sulla plastica. E sta convincendo gli azionisti che i profitti deriveranno da lì. Secondo Greenpeace Italia, se le previsioni saranno rispettate, la plastica fornirà “l’ancora di salvezza” per aziende come la Shell, la Exxon e laBP che potranno perseverare nelle loro attività inquinanti basate sui combustibili fossili. Alcune stime indicano che la crescita della domanda di petrolio da parte del settore petrolchimico “sarà trainata per una quota che va dal 45 al 95 per cento proprio dalla crescente richiesta di plastica, finendo così per aggravare la crisi climatica”, sostiene Greenpeace Italia.
“Se osserviamo alcuni dati, soprattutto per il sudest asiatico e l’Europa, registriamo degli investimenti nel settore petrolchimico e per la produzione di plastiche che non si vedevano dalla fine degli anni settanta”, ha detto Ungherese.
Per l’industria fossile si tratta di un “rinascimento della plastica”. Il World economic forum prevede che la produzione di plastica raddoppierà nei prossimi vent’anni, in un momento in cui invece, soprattutto quella di plastica monouso, dovrebbe essere ridotta ai minimi.
Secondo Ungherese, la soluzione è fare in modo di ridurre l’uso della plastica a partire dall’usa e getta: “Oggi non ci sono ancora le condizioni per rimanere al 100 per cento senza plastica perché ci sono tantissimi ambiti in cui questo materiale è efficace e non può essere sostituito. Però l’usa e getta rappresenta il contrario di come dovrebbe essere usato perché si tratta di un materiale economico, leggero ma anche resistente e non biodegradabile. Noi invece lo usiamo per oggetti che restano nelle nostre mani da alcuni secondi a pochi minuti. È questo il paradosso di un oggetto che poi determina grandi danni sugli ecosistemi e sul mare. Una bottiglia, per esempio, è un contenitore che impiega centinaia di anni per degradarsi e noi l’abbiamo usato per pochissimo tempo”.
Soprattutto, è importante che si arrivi presto alla “responsabilità estesa al produttore”, cioè “chi immette nel mercato un prodotto deve essere responsabile dell’intero riciclo di vita”, ha aggiunto Ungherese. È poi è fondamentale che i governi stabiliscano una regolamentazione sulla produzione, senza ripetere il mito negazionista secondo cui agire contro la crisi climatica non conviene sul piano economico. “Arrivare prima alle soluzioni è un vantaggio competitivo non da poco, invece qui si continua ad adottare sempre la logica del meno peggio per lasciare alle aziende la possibilità di conservare le attività tradizionali”, ha commentato Ungherese. Anche perché, questo percorso agevolerebbe l’offerta dei posti di lavoro. Un’altra soluzione, infatti, sarebbe trasformare i prodotti in servizi, spiega il responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia. “Bisogna abbandonare un’economia lineare in cui compri un prodotto lo usi e lo getti via e andare verso un sistema in cui i prodotti diventano servizi. Per esempio, se voglio andare a fare il picnic con gli amici anziché comprare piatti o bicchieri di plastica li noleggio da una stoviglieria. Questo produce molti più posti di lavoro”.
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fonte: www.internazionale.it
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Crisi climatica e inquinamento da plastica: le due facce dei combustibili fossili
Nei giorni scorsi, navigando in Adriatico con la nostra spedizione “Difendiamo il Mare”, ci siamo imbattuti in numerosi rifiuti galleggianti o abbandonati sulle spiagge: guanti monouso, involucri, imballaggi, bottiglie. Ma anche attrezzi da pesca, come le cassette in polistirolo usate per conservare il pescato, o le famigerate reti tubolari in cui vengono allevate le cozze che finiscono sulle nostre tavole. Una vasta gamma di oggetti che rende bene l’idea di quanto la plastica trovi impiego in numerose applicazioni.
Tutti questi manufatti in plastica derivano dalla trasformazione di gas fossile e petrolio, il cui sfruttamento è tra le principali cause dell’emergenza climatica in corso. Inquinamento da plastica e crisi climatica sono quindi due facce della stessa medaglia, entrambe riconducibili a un’economia basata sullo sfruttamento delle fonti fossili.
Con l’elettrificazione dei trasporti e il crescente ricorso alle rinnovabili per altri settori industriali, sarebbe lecito aspettarsi una rapida riduzione dei consumi di petrolio e gas. Peccato che questo tanto atteso declino, fondamentale per mitigare la crisi climatica, potrebbe essere vanificato dalla produzione di plastica, destinata a triplicare entro il 2050. Se le previsioni saranno rispettate, la plastica fornirà l’ancora di salvezza per aziende come Shell, Exxon, BP, ENI, Ineos che potranno perseverare nel loro business inquinante basato sui combustibili fossili.
Alcune stime indicano che la crescita della domanda di petrolio da parte del settore petrolchimico, laddove i combustibili fossili vengono trasformati in plastica e altri materiali, sarà trainata per una quota che va dal 45 al 95 per cento proprio dalla crescente richiesta di plastica, finendo così per aggravare la crisi climatica.
È oramai evidente a tutti che i rifiuti in plastica inquinano il mare. Ma pochi sanno che la raffinazione di gas e petrolio ha conseguenze altrettanto devastanti per l’ambiente. Una situazione purtroppo ben nota alle persone che vivono a Brindisi, ultima tappa del nostro tour “Difendiamo il mare”, nonché la città che ospita uno dei principali poli petrolchimici dove si produce plastica nel nostro Paese.
Da anni cittadine e cittadini di Brindisi assistono impotenti alle frequenti sfiammate delle torce a cui sono associate le emissioni di pericolosi gas inquinanti. Il benzene, ad esempio, una sostanza cancerogena per l’essere umano, ha più volte raggiunto livelli preoccupanti nell’aria. Proprio per tutelare la cittadinanza da questo inquinante, nella primavera del 2020 il sindaco della città aveva imposto uno stop alle attività del petrolchimico. Livelli elevati di inquinamento sono stati registrati da ARPA Puglia anche nei mesi successivi. Una situazione che è sfociata in un contrasto tra l’amministrazione cittadina e il Ministero della Transizione Ecologica durante il processo di rinnovo dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) conclusosi nei mesi scorsi. Il sindaco chiedeva l’istallazione di una rete di centraline per misurare la presenza di inquinanti nell’area limitrofa al petrolchimico. Ma il Ministero della Transizione Ecologica non l’ha accolta, inducendo il primo cittadino della città pugliese a presentare un ricorso al TAR per far valere le sue istanze e proteggere la collettività.
Questo non è l’unico caso in cui la tutela della salute e dell’ambiente si scontrano con gli interessi industriali. Uno scenario che non vorremmo più vedere né in Italia né in altre parti del mondo, in cui comunità già gravate da decenni di inquinamento sono sottoposte al ricatto tra salute, ambiente e lavoro. Se vogliamo una vera transizione ecologica bisogna avere il coraggio di abbandonare le produzioni inquinanti e decarbonizzare la nostra economia, lasciandoci alle spalle sia l’uso di petrolio e gas fossile, sia i prodotti derivati, a partire dalla plastica monouso.
fonte: www.greenpeace.org
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Okavango, 130.000 elefanti africani in pericolo a causa della ricerca di petrolio
La vita di migliaia di elefanti di savana è in pericolo a causa della ricerca di nuovi pozzi di petrolio nell’area del delta dell’Okavango, tra Namibia e Botswana.
L’area della licenza per il giacimento si estende per più di 34mila chilometri quadrati di terreno di cui circa il 70 per cento si trova in Namibia, il resto in Botswana, e comprende parte dell’area vitale del delta dell’Okavango, uno dei più grandi delta interni del mondo. Il territorio è ricchissimo di flora e fauna, tanto che nel 2014 è entrato a far parte dei siti dell’Unesco. Tra le tante specie che abitano l’area – leoni, ippopotami, giraffe, antilopi, aquile – ci sono anche 130mila elefanti di savana che costituiscono la più grande popolazione di elefanti di savana d’Africa. L’elefante di savana, che insieme all’elefante di foresta costituisce una delle due specie di elefante africano, è a rischio d’estinzione. La popolazione di entrambe le specie ha subìto un forte calo dal 2008 a causa di un aumento significativo del bracconaggio che ha raggiunto il picco nel 2011 ma continua, ancora oggi, a minacciare le popolazioni. Il cambio d’uso del suolo costituisce un’altra minaccia significativa. Inoltre, in alcune parti del Botswana, il conflitto tra elefanti e comunità locali è in aumento poiché la perdita di habitat costringe gli animali ad avvicinarsi sempre di più ai raccolti. Secondo i dati dell’International union for conservation of nature, su un periodo di 31 anni, il numero di elefanti di foresta è diminuito di oltre l’86%, mentre quello degli elefanti di savana è diminuito di almeno il 60% negli ultimi 50 anni.
Danni alla biodiversità e all’ecosistema
Il governo namibiano ha fatto sapere che i pozzi esplorativi non sono situati in nessuna “area protetta o sensibile dal punto di vista ambientale e non avranno un impatto significativo sulla nostra fauna selvatica”, secondo quanto riportato dal Guardian. Ma gli scienziati, gli ambientalisti e le comunità locali dicono che il progetto potrebbe mettere in pericolo le forniture d’acqua e minacciare l’enorme area incontaminata del delta dell’Okavango in Botswana.
National Geographic ha riferito che la società, tra l’altro, sta smaltendo le acque reflue senza permessi, secondo un ministro del governo: le perforazioni per il primo pozzo di prova sono iniziate a gennaio e i fluidi di scarto vengono immagazzinati in quello che sembra essere uno stagno non rivestito, dove potrebbero essere assorbiti dal terreno e contaminare la fornitura d’acqua.
Lo stop ai fossili e il riscaldamento globale
Il mese scorso l’Agenzia internazionale per l’energia ha pubblicato il rapporto 2021 nel quale delinea la rotta del settore energetico globale per arrivare allo zero netto di emissioni entro il 2050. Dal rapporto non solo è chiaro che gli impegni dei governi sono ben al di sotto di ciò che è necessario per azzerare le emissioni di gas serra del settore energetico entro il 2050 e mantenere l’aumento della temperatura media globale sotto i 1,5 gradi, ma anche che lo sfruttamento e lo sviluppo di nuovi giacimenti di petrolio e gas, e più in generale di combustibili fossili, deve fermarsi quest’anno se il mondo vuole rimanere entro i limiti di sicurezza posti dalla comunità scientifica. Non esiste più “la necessità” di nuovi investimenti fossili.
Questo giacimento petrolifero è solo la più recente delle minacce per gli elefanti della regione, centinaia dei quali sono morti misteriosamente nell’ultimo anno. Un gruppo di elefanti morti è stato segnalato per la prima volta nel delta dell’Okavango all’inizio di maggio 2020, con 169 individui morti entro la fine del mese. A metà giugno, il numero era più che raddoppiato, con il 70 per cento delle morti intorno alle pozze d’acqua.
Gli scienziati stanno cercando di trovare la causa delle morti, ma credono che possano essere legate ad una quantità crescente di alghe tossiche, i cianobatteri, comparse nelle pozze d’acqua dove gli animali vanno ad abbeverarsi e a lavarsi. Secondo gli esperti, la loro comparsa sarebbe una conseguenza del riscaldamento globale.
In dosi sufficientemente elevate, i cianobatteri possono uccidere i mammiferi interferendo con la capacità del sistema nervoso di inviare segnali in tutto il corpo. Questo può risultare nella paralisi e nell’insufficienza cardiaca o respiratoria. Molti degli elefanti morti in Botswana sono stati visti camminare in cerchio prima di crollare improvvisamente, ha riferito il Guardian.
In un momento in cui la biodiversità è gravemente minacciata dagli effetti della crisi climatica e dalla perdita di habitat, i governi dovrebbero agire con urgenza per tutelare il più possibile le popolazioni, soprattutto le specie che sono più a rischio e quelle aree che sono cruciali per la loro sopravvivenza, proprio come l’Okavango.
fonte: www.lifegate.it
L’area della licenza per il giacimento si estende per più di 34mila chilometri quadrati di terreno di cui circa il 70 per cento si trova in Namibia, il resto in Botswana, e comprende parte dell’area vitale del delta dell’Okavango, uno dei più grandi delta interni del mondo. Il territorio è ricchissimo di flora e fauna, tanto che nel 2014 è entrato a far parte dei siti dell’Unesco. Tra le tante specie che abitano l’area – leoni, ippopotami, giraffe, antilopi, aquile – ci sono anche 130mila elefanti di savana che costituiscono la più grande popolazione di elefanti di savana d’Africa. L’elefante di savana, che insieme all’elefante di foresta costituisce una delle due specie di elefante africano, è a rischio d’estinzione. La popolazione di entrambe le specie ha subìto un forte calo dal 2008 a causa di un aumento significativo del bracconaggio che ha raggiunto il picco nel 2011 ma continua, ancora oggi, a minacciare le popolazioni. Il cambio d’uso del suolo costituisce un’altra minaccia significativa. Inoltre, in alcune parti del Botswana, il conflitto tra elefanti e comunità locali è in aumento poiché la perdita di habitat costringe gli animali ad avvicinarsi sempre di più ai raccolti. Secondo i dati dell’International union for conservation of nature, su un periodo di 31 anni, il numero di elefanti di foresta è diminuito di oltre l’86%, mentre quello degli elefanti di savana è diminuito di almeno il 60% negli ultimi 50 anni.
Il delta di Okavango, Botswana. © Chris Jackson/Getty Images
Una minaccia per la più grande popolazione di elefanti di savana d’Africa
La compagnia che sta esplorando l’area per gas e petrolio è ReconAfrica, una società canadese, quotata in borsa in Canada, Stati Uniti e Germania.
“Meno di 450mila elefanti sopravvivono in Africa, rispetto ai milioni di anni fa: 130mila di questi hanno stabilito questa regione come casa, e i piani illegittimi di ReconAfrica li mettono direttamente a rischio”, ha detto al Guardian Rosemary Alles della Global march for rhinos and elephants. E ha aggiunto: “C’è una profonda ironia qui. Abbiamo centinaia di elefanti che muoiono a causa di una fioritura di alghe causata dal cambiamento climatico, e a pochi chilometri di distanza vogliono iniziare a trivellare per ottenere ancora più petrolio”.
Inoltre, sembra che le vibrazioni emesse durante i lavori d’esplorazione petrolifera disturbano notoriamente gli elefanti, e l’aumento dei lavori di costruzione delle strade e il traffico non solo allontanerebbe gli animali, ma aprirebbe anche la zona ai bracconieri.
“Soprattutto quando hanno dei piccoli, evitano le zone dove c’è un’attività umana, dove c’è rumore e ciò che percepiscono come un pericolo. Questo può allontanarli dalle loro antiche rotte migratorie e avvicinarli ai villaggi e alle aree agricole, portando a più conflitti uomo-elefante”. Secondo gli esperti, dunque, il giacimento potrebbe avere effetti devastanti sugli ecosistemi, sulla fauna selvatica e sulle comunità locali.
Il Delta dell’Okavango, poi, è tra le più frequentate destinazioni per quanto riguarda l’eco turismo. Le trivellazioni hanno il potenziale di risultare in perdite ingenti non soltanto da un punto di vista ecologico, ma anche economico – soprattutto per le comunità locali il cui sostentamento si basa anche sulle entrate fornite dall’eco turismo.
Una minaccia per la più grande popolazione di elefanti di savana d’Africa
La compagnia che sta esplorando l’area per gas e petrolio è ReconAfrica, una società canadese, quotata in borsa in Canada, Stati Uniti e Germania.
“Meno di 450mila elefanti sopravvivono in Africa, rispetto ai milioni di anni fa: 130mila di questi hanno stabilito questa regione come casa, e i piani illegittimi di ReconAfrica li mettono direttamente a rischio”, ha detto al Guardian Rosemary Alles della Global march for rhinos and elephants. E ha aggiunto: “C’è una profonda ironia qui. Abbiamo centinaia di elefanti che muoiono a causa di una fioritura di alghe causata dal cambiamento climatico, e a pochi chilometri di distanza vogliono iniziare a trivellare per ottenere ancora più petrolio”.
Inoltre, sembra che le vibrazioni emesse durante i lavori d’esplorazione petrolifera disturbano notoriamente gli elefanti, e l’aumento dei lavori di costruzione delle strade e il traffico non solo allontanerebbe gli animali, ma aprirebbe anche la zona ai bracconieri.
“Soprattutto quando hanno dei piccoli, evitano le zone dove c’è un’attività umana, dove c’è rumore e ciò che percepiscono come un pericolo. Questo può allontanarli dalle loro antiche rotte migratorie e avvicinarli ai villaggi e alle aree agricole, portando a più conflitti uomo-elefante”. Secondo gli esperti, dunque, il giacimento potrebbe avere effetti devastanti sugli ecosistemi, sulla fauna selvatica e sulle comunità locali.
Il Delta dell’Okavango, poi, è tra le più frequentate destinazioni per quanto riguarda l’eco turismo. Le trivellazioni hanno il potenziale di risultare in perdite ingenti non soltanto da un punto di vista ecologico, ma anche economico – soprattutto per le comunità locali il cui sostentamento si basa anche sulle entrate fornite dall’eco turismo.
Danni alla biodiversità e all’ecosistema
Il governo namibiano ha fatto sapere che i pozzi esplorativi non sono situati in nessuna “area protetta o sensibile dal punto di vista ambientale e non avranno un impatto significativo sulla nostra fauna selvatica”, secondo quanto riportato dal Guardian. Ma gli scienziati, gli ambientalisti e le comunità locali dicono che il progetto potrebbe mettere in pericolo le forniture d’acqua e minacciare l’enorme area incontaminata del delta dell’Okavango in Botswana.
National Geographic ha riferito che la società, tra l’altro, sta smaltendo le acque reflue senza permessi, secondo un ministro del governo: le perforazioni per il primo pozzo di prova sono iniziate a gennaio e i fluidi di scarto vengono immagazzinati in quello che sembra essere uno stagno non rivestito, dove potrebbero essere assorbiti dal terreno e contaminare la fornitura d’acqua.
Lo stop ai fossili e il riscaldamento globale
Il mese scorso l’Agenzia internazionale per l’energia ha pubblicato il rapporto 2021 nel quale delinea la rotta del settore energetico globale per arrivare allo zero netto di emissioni entro il 2050. Dal rapporto non solo è chiaro che gli impegni dei governi sono ben al di sotto di ciò che è necessario per azzerare le emissioni di gas serra del settore energetico entro il 2050 e mantenere l’aumento della temperatura media globale sotto i 1,5 gradi, ma anche che lo sfruttamento e lo sviluppo di nuovi giacimenti di petrolio e gas, e più in generale di combustibili fossili, deve fermarsi quest’anno se il mondo vuole rimanere entro i limiti di sicurezza posti dalla comunità scientifica. Non esiste più “la necessità” di nuovi investimenti fossili.
Questo giacimento petrolifero è solo la più recente delle minacce per gli elefanti della regione, centinaia dei quali sono morti misteriosamente nell’ultimo anno. Un gruppo di elefanti morti è stato segnalato per la prima volta nel delta dell’Okavango all’inizio di maggio 2020, con 169 individui morti entro la fine del mese. A metà giugno, il numero era più che raddoppiato, con il 70 per cento delle morti intorno alle pozze d’acqua.
Gli scienziati stanno cercando di trovare la causa delle morti, ma credono che possano essere legate ad una quantità crescente di alghe tossiche, i cianobatteri, comparse nelle pozze d’acqua dove gli animali vanno ad abbeverarsi e a lavarsi. Secondo gli esperti, la loro comparsa sarebbe una conseguenza del riscaldamento globale.
In dosi sufficientemente elevate, i cianobatteri possono uccidere i mammiferi interferendo con la capacità del sistema nervoso di inviare segnali in tutto il corpo. Questo può risultare nella paralisi e nell’insufficienza cardiaca o respiratoria. Molti degli elefanti morti in Botswana sono stati visti camminare in cerchio prima di crollare improvvisamente, ha riferito il Guardian.
In un momento in cui la biodiversità è gravemente minacciata dagli effetti della crisi climatica e dalla perdita di habitat, i governi dovrebbero agire con urgenza per tutelare il più possibile le popolazioni, soprattutto le specie che sono più a rischio e quelle aree che sono cruciali per la loro sopravvivenza, proprio come l’Okavango.
fonte: www.lifegate.it
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Crociate green. La Commissione Ue registra una raccolta di firme per lo stop alla pubblicità dei combustibili fossili
Il divieto proposto dovrebbe applicarsi alla pubblicità e alla sponsorizzazione di eventi sportivi istruzionali ed eventi pubblici

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La Commissione Europea ha deciso di registrare un'Iniziativa dei Cittadini Europei denominata “Ban Fossil Fuel Advertising and Sponsorships”.
Stop a tutte le sponsorizzazioni
Gli organizzatori dell'iniziativa chiedono alla Commissione di proporre una normativa che vieti la pubblicità e la sponsorizzazione dei combustibili fossili, di tutti i tipi di veicoli che utilizzano tali combustibili (esclusi i veicoli destinati a servizi di trasporto di interesse economico generale) e di tutte le aziende che estraggono, raffinano, producono, forniscono, distribuiscono o vendono combustibili fossili. Il divieto proposto dovrebbe applicarsi sia online che offline e riguardare la pubblicità e la sponsorizzazione, anche nel contesto di sport, istruzione, scienza, eventi pubblici ed eventi mediatici di terzi.
Soddisfatte le condizioni
Secondo gli organizzatori, i combustibili fossili coinvolti includono petrolio, gas fossile e carbone. La Commissione, considerando legalmente ammissibile l’iniziativa, ha deciso di registrarla.
fonte: www.e-gazette.it
Stop a tutte le sponsorizzazioni
Gli organizzatori dell'iniziativa chiedono alla Commissione di proporre una normativa che vieti la pubblicità e la sponsorizzazione dei combustibili fossili, di tutti i tipi di veicoli che utilizzano tali combustibili (esclusi i veicoli destinati a servizi di trasporto di interesse economico generale) e di tutte le aziende che estraggono, raffinano, producono, forniscono, distribuiscono o vendono combustibili fossili. Il divieto proposto dovrebbe applicarsi sia online che offline e riguardare la pubblicità e la sponsorizzazione, anche nel contesto di sport, istruzione, scienza, eventi pubblici ed eventi mediatici di terzi.
Soddisfatte le condizioni
Secondo gli organizzatori, i combustibili fossili coinvolti includono petrolio, gas fossile e carbone. La Commissione, considerando legalmente ammissibile l’iniziativa, ha deciso di registrarla.
fonte: www.e-gazette.it
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Nel 2017 bruciare i combustibili fossili ha causato 1 milione di morti
Quanto il PM2,5 contribuisce a malattie e mortalità in oltre 200 Paesi

Lo studio “Source sector and fuel contributions to ambient PM2,5 and attributable mortality across multiple spatial scales”, pubblicatio su Nature Communications da un team interdisciplinare di ricercatori di tutto il mondo, ha esaminato in modo completo le fonti e gli effetti sulla salute dell’inquinamento atmosferico, non solo a livello globale, ma anche per ogni singolo Paese: più di 200, scoprendo che «Nel 2017, in tutto il mondo più di un milione di morti erano attribuibili alla combustione di combustibili fossili. Più della metà di questi decessi era attribuibile al carbone».
I ricercatori ricordano che «L’inquinamento è allo stesso tempo una crisi globale e un problema personale devastante. Viene analizzato dai satelliti, ma il PM2,5 – minuscole particelle che possono infiltrarsi nei polmoni di una persona – può anche far ammalare una persona che cucina la cena ogni sera su un fornello».
Uno degli autori dello studio, Randall Martin del Department of energy, environmental, and chemical engineering della Washington University – St. Louis, conferma che «Il PM2,25 è il principale fattore di rischio ambientale per la mortalità al mondo. Il nostro obiettivo principale è comprenderne le fonti». Martin ha condotto lo studio insieme a Michael Brauer, della School of population and public health dell’università della British Columbia e i due ricercatori hanno lavorato su un dataset e strumenti specifici dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington, del Joint Global Change Research Institute dell’Università del Maryland e del Pacific Northwest National Laboratory e avvalendosi della colaborazione di altri scienziati, università e organizzazioni di tutto il mondo , accumulando una grande quantità di dati, strumenti analitici e risorse intellettuali.
La principale autrice dello studio, Erin McDuffie, una ricercatrice del laboratorio di Martin, ha utilizzato diversi strumenti di calcolo per intrecciare i dati, migliorandoli al tempo stesso, e ha sviluppato un nuovo e più completo dataset globale esistente sulle emissioni che provocano l’inquinamento atmosferico. La McDuffie ha anche apportato miglioramenti al modello GEOS-Chem, uno strumento di calcolo avanzato utilizzato nel laboratorio Martin per modellare aspetti specifici della chimica atmosferica.
Grazie a questa combinazione di emissioni e modellizzazione, il team è stato in grado di individuare diverse fonti di inquinamento atmosferico, che vanno dalla produzione di energia, alla combustione di petrolio e gas, fino alle tempeste di polvere.
Lo studio ha anche utilizzato nuove tecniche di telerilevamento satellitari per valutare l’esposizione al PM2,5 in tutto il mondo. Il team di ricercatori ha quindi inserito queste informazioni nel rapporto tra il PM2,5 e gli effetti sulla salute del Global Burden of Disease, per determinare le relazioni tra la salute e ciascuna delle oltre 20 diverse fonti di inquinamento.
La McDuffie si è chiesta: «Quanti decessi sono attribuibili all’esposizione all’inquinamento atmosferico da fonti specifiche?». La risposta che proviene dai dati è che rafforzano molto di quello che i ricercatori già sospettavano, in particolare a livelloglobale. Tuttavia, lo studio fornisce informazioni quantitative riguardo a diverse parti del mondo, individuando quali fonti sono responsabili del grave inquinamento in zone diverse.
«Ad esempio – spiega ancora la McDuffie – i fornelli e il riscaldamento domestico sono ancora responsabili del rilascio di particolato in molte regioni dell’Asia e la produzione di energia rimane un grande inquinatore su scala globale».
A svolgere un ruolo sono anche le fonti naturali: a<per esempio, nel 2017, nell’Africa subsahariana occidentale la polvere trasportata dal vento rappresentava quasi tre quarti del particolato atmosferico rispetto al tasso globale di appena il 16%.
Quando si tratta di prendere in considerazione la mitigazione del rischio, i dati di questo studio diventano particolarmente importanti e la McDuffie fa notare che «In definitiva, sarà importante considerare le fonti su scala subnazionale quando si sviluppano strategie di mitigazione per ridurre l’inquinamento atmosferico».
Martin e la McDuffie concordano sul fatto che quel che emerge chiaramente dallo studio è che «In poche parole, l’inquinamento atmosferico continua a far ammalare le persone e a ucciderle».
Il progetto ha anche implicazioni positive: sebbene dal monitoraggio dell’inquinamento venga fuori che è in aumento, emerge però che ci sono ancora molte aree che non hanno la capacità di determinare a che livello sia perché non hanno gli strumenti necessari per farlo. Ad esempio, per un Paese povero è difficile determinare quanto inquinamento è prodotto del traffico locale rispetto alle pratiche agricole o agli incendi boschivi.
La McDuffie conclude: «La buona notizia è che potremmo fornire a questi luoghi alcune delle prime informazioni sulle loro principali fonti di inquinamento. Altrimenti potrebbero non avere queste informazioni prontamente disponibili per loro. Questo fornisce dà loro un inizio».
fonte: www.greenreport.it

Lo studio “Source sector and fuel contributions to ambient PM2,5 and attributable mortality across multiple spatial scales”, pubblicatio su Nature Communications da un team interdisciplinare di ricercatori di tutto il mondo, ha esaminato in modo completo le fonti e gli effetti sulla salute dell’inquinamento atmosferico, non solo a livello globale, ma anche per ogni singolo Paese: più di 200, scoprendo che «Nel 2017, in tutto il mondo più di un milione di morti erano attribuibili alla combustione di combustibili fossili. Più della metà di questi decessi era attribuibile al carbone».
I ricercatori ricordano che «L’inquinamento è allo stesso tempo una crisi globale e un problema personale devastante. Viene analizzato dai satelliti, ma il PM2,5 – minuscole particelle che possono infiltrarsi nei polmoni di una persona – può anche far ammalare una persona che cucina la cena ogni sera su un fornello».
Uno degli autori dello studio, Randall Martin del Department of energy, environmental, and chemical engineering della Washington University – St. Louis, conferma che «Il PM2,25 è il principale fattore di rischio ambientale per la mortalità al mondo. Il nostro obiettivo principale è comprenderne le fonti». Martin ha condotto lo studio insieme a Michael Brauer, della School of population and public health dell’università della British Columbia e i due ricercatori hanno lavorato su un dataset e strumenti specifici dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington, del Joint Global Change Research Institute dell’Università del Maryland e del Pacific Northwest National Laboratory e avvalendosi della colaborazione di altri scienziati, università e organizzazioni di tutto il mondo , accumulando una grande quantità di dati, strumenti analitici e risorse intellettuali.
La principale autrice dello studio, Erin McDuffie, una ricercatrice del laboratorio di Martin, ha utilizzato diversi strumenti di calcolo per intrecciare i dati, migliorandoli al tempo stesso, e ha sviluppato un nuovo e più completo dataset globale esistente sulle emissioni che provocano l’inquinamento atmosferico. La McDuffie ha anche apportato miglioramenti al modello GEOS-Chem, uno strumento di calcolo avanzato utilizzato nel laboratorio Martin per modellare aspetti specifici della chimica atmosferica.
Grazie a questa combinazione di emissioni e modellizzazione, il team è stato in grado di individuare diverse fonti di inquinamento atmosferico, che vanno dalla produzione di energia, alla combustione di petrolio e gas, fino alle tempeste di polvere.
Lo studio ha anche utilizzato nuove tecniche di telerilevamento satellitari per valutare l’esposizione al PM2,5 in tutto il mondo. Il team di ricercatori ha quindi inserito queste informazioni nel rapporto tra il PM2,5 e gli effetti sulla salute del Global Burden of Disease, per determinare le relazioni tra la salute e ciascuna delle oltre 20 diverse fonti di inquinamento.
La McDuffie si è chiesta: «Quanti decessi sono attribuibili all’esposizione all’inquinamento atmosferico da fonti specifiche?». La risposta che proviene dai dati è che rafforzano molto di quello che i ricercatori già sospettavano, in particolare a livelloglobale. Tuttavia, lo studio fornisce informazioni quantitative riguardo a diverse parti del mondo, individuando quali fonti sono responsabili del grave inquinamento in zone diverse.
«Ad esempio – spiega ancora la McDuffie – i fornelli e il riscaldamento domestico sono ancora responsabili del rilascio di particolato in molte regioni dell’Asia e la produzione di energia rimane un grande inquinatore su scala globale».
A svolgere un ruolo sono anche le fonti naturali: a<per esempio, nel 2017, nell’Africa subsahariana occidentale la polvere trasportata dal vento rappresentava quasi tre quarti del particolato atmosferico rispetto al tasso globale di appena il 16%.
Quando si tratta di prendere in considerazione la mitigazione del rischio, i dati di questo studio diventano particolarmente importanti e la McDuffie fa notare che «In definitiva, sarà importante considerare le fonti su scala subnazionale quando si sviluppano strategie di mitigazione per ridurre l’inquinamento atmosferico».
Martin e la McDuffie concordano sul fatto che quel che emerge chiaramente dallo studio è che «In poche parole, l’inquinamento atmosferico continua a far ammalare le persone e a ucciderle».
Il progetto ha anche implicazioni positive: sebbene dal monitoraggio dell’inquinamento venga fuori che è in aumento, emerge però che ci sono ancora molte aree che non hanno la capacità di determinare a che livello sia perché non hanno gli strumenti necessari per farlo. Ad esempio, per un Paese povero è difficile determinare quanto inquinamento è prodotto del traffico locale rispetto alle pratiche agricole o agli incendi boschivi.
La McDuffie conclude: «La buona notizia è che potremmo fornire a questi luoghi alcune delle prime informazioni sulle loro principali fonti di inquinamento. Altrimenti potrebbero non avere queste informazioni prontamente disponibili per loro. Questo fornisce dà loro un inizio».
fonte: www.greenreport.it
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L’idrogeno per la decarbonizzazione
Il contributo italiano alla transizione non solo per gli aspetti che riguardano la ricerca e la tecnologie ma anche per la posizione geografica privilegiata nella costruzione della nuova infrastruttura energetica europea
La Commissione Europea ha pubblicato a luglio 2020 la strategia sull’idrogeno per un’Europa climaticamente neutra in cui si ribadisce il percorso di accelerazione rispetto allo sviluppo dell’idrogeno. Il ruolo di questo vettore energetico crescerà significativamente nell’abbattimento delle emissioni di gas climalteranti, tanto che l’Europa ha stanziato importanti risorse all’interno del “Next Generatione EU”.
L’Italia è tra quei paesi, insieme a Germania, Portogallo, Francia, Paesi Bassi e Spagna, che hanno definito le linee guida preliminari per una strategia nazionale per l’idrogeno e punta al raggiungimento di un primo obiettivo del 2% nel mix energetico al 2030 con una prima iniezione di risorse per 10 miliardi di Euro di investimenti. Si tratta di un progetto ambizioso, così come è ambizioso il percorso che l’Europa ha tracciato e che l’Italia, insieme a gli altri paesi, dovrà seguire per arrivare alla decarbonizzazione nel 2050.
A confermare l’impegno dell’Italia in Europa allo sviluppo della tecnologia sull’idrogeno è stata la partecipazione ad IPCEI (Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo) sull’idrogeno, dove è stato sottoscritto l’impegno a promuovere lo sviluppo di una catena del valore sulle tecnologie e sistemi dell’idrogeno. Il primo progetto di larga scala sarà incentrato su “Tecnologie e sistemi dell’idrogeno” e riguarderà tutta la catena di valore, dalla ricerca e sviluppo all’implementazione delle installazioni. Attraverso questo progetto si punterà a produrre idrogeno sostenibile, in particolare da fonti rinnovabili;
produrre elettrolizzatori e mezzi pesanti di trasporto alimentati a idrogeno, come navi, aerei, veicoli commerciali; sviluppare soluzioni per lo stoccaggio, la trasmissione e la distribuzione dell’idrogeno; implementare applicazioni industriali dell’idrogeno, per favorire la decarbonizzazione degli impianti industriali, specie in quei settori di difficile elettrificazione.
Obiettivi e strategie
Nella strategia europea sull’idrogeno, la priorità per il raggiungimento degli obiettivi europei di carbon-neutrality al 2050 è quella di sviluppare idrogeno verde sul lungo periodo, favorendo un sistema energetico integrato, e idrogeno low-carbon (blu) nella fase di transizione a breve e medio termine, in grado di ridurre rapidamente le emissioni derivanti dalla produzione di idrogeno e perseguire lo sviluppo di un mercato sostenibile su scala significativa.
La strategia UE ha definito una tabella di marcia molto ambiziosa che prevede
una prima fase (2020-2024) in cui è prevista la decarbonizzazione dell’attuale produzione d’idrogeno;
una seconda fase (2025-2030) in cui l’idrogeno verde diventa parte sostanziale del sistema energetico integrato europeo;
una terza fase (2030-2050) in cui le tecnologie per l’idrogeno verde dovrebbero essere mature per uno sviluppo su larga scala, contribuendo in modo sostanziale alla decarbonizzazione nel 2050.
Per approfondimenti:
progetto di ricerca Celle a combustibile a ossidi solidi reversibili (SOFC-SOEC)
Celle a combustibile ed elettrolizzatori ad ossidi solidi (SOFC-SOEC)
IRENA - Green hydrogen cost reduction
ENI - Idrogeno, vettore della decarbonizzazione
CDP, ENI E SNAM firmano accordo per la decarbonizzazione del sistema energetico
fonte: www.arpat.toscana.it
#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897. Grazie!
L’Italia è tra quei paesi, insieme a Germania, Portogallo, Francia, Paesi Bassi e Spagna, che hanno definito le linee guida preliminari per una strategia nazionale per l’idrogeno e punta al raggiungimento di un primo obiettivo del 2% nel mix energetico al 2030 con una prima iniezione di risorse per 10 miliardi di Euro di investimenti. Si tratta di un progetto ambizioso, così come è ambizioso il percorso che l’Europa ha tracciato e che l’Italia, insieme a gli altri paesi, dovrà seguire per arrivare alla decarbonizzazione nel 2050.
A confermare l’impegno dell’Italia in Europa allo sviluppo della tecnologia sull’idrogeno è stata la partecipazione ad IPCEI (Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo) sull’idrogeno, dove è stato sottoscritto l’impegno a promuovere lo sviluppo di una catena del valore sulle tecnologie e sistemi dell’idrogeno. Il primo progetto di larga scala sarà incentrato su “Tecnologie e sistemi dell’idrogeno” e riguarderà tutta la catena di valore, dalla ricerca e sviluppo all’implementazione delle installazioni. Attraverso questo progetto si punterà a produrre idrogeno sostenibile, in particolare da fonti rinnovabili;
produrre elettrolizzatori e mezzi pesanti di trasporto alimentati a idrogeno, come navi, aerei, veicoli commerciali; sviluppare soluzioni per lo stoccaggio, la trasmissione e la distribuzione dell’idrogeno; implementare applicazioni industriali dell’idrogeno, per favorire la decarbonizzazione degli impianti industriali, specie in quei settori di difficile elettrificazione.
Lo sviluppo del settore idrogeno è favorito da alcune caratteristiche intrinseche del vettore. L’idrogeno può essere infatti utilizzato come vettore energetico ad alta intensità in grado di svolgere un ruolo nell’integrazione delle fonti rinnovabili nei sistemi energetici, poiché può essere stoccato in grandi quantità e per lungo periodo ed ha la possibilità di collegare tra loro reti energetiche (sector coupling – collegare settori diversi), trasferendo l’eccesso di produzione da energie rinnovabili ad altri settori. Inoltre, perché l’idrogeno possa svolgere un ruolo attivo nella transizione energetica, deve essere prodotto e trasportato per gli usi finali in maniera sostenibile.
Sistemi di produzione
Esistono varie tecnologie per la produzione di idrogeno. Ad oggi il 95% dell’idrogeno europeo è prodotto tramite lo steam methane reforming – SMR e tramite autothermal reforming – ATR, entrambi i processi sono ad elevata intensità di carbonio. Queste modalità di produzione lo definiscono come idrogeno grigio, che utilizza combustibili fossili come materia prima e produce emissioni di biossido di carbonio. Questi processi possono però essere associati con sistemi di cattura, uso e stoccaggio del carbonio (carbon capture, utilisation and storage - CCUS) e comprendenti tutte quelle soluzioni in grado di ridurre le emissioni di gas serra degli impianti inquinanti o rimuoverle direttamente dall’atmosfera, in questo caso l’idrogeno prodotto viene definito idrogeno blu o low -carbon Hydrogen.
Il restante 5% è un sottoprodotto derivato dai processi di lavorazione dei cloro-alcalini nell’industria chimica. Gli elettrolizzatori alcalini possono essere utilizzati per la produzione dedicata di idrogeno, mentre esistono altri metodi di produzione dell’idrogeno tramite l’uso di elettrolizzatori basati su una membrana polimerica elettrolitica (PEM) e ad ossido solido (Solid oxide electrolyzer cell - SOEC) in questo caso si ha una cella a combustibile ad ossido solido che funziona in modalità rigenerativa per ottenere l'elettrolisi dell'acqua utilizzando un ossido solido, o ceramica, elettrolita per produrre idrogeno gassoso e ossigeno. È uso riferirsi alla produzione di idrogeno tramite elettrolizzatori con l’espressione Power to gas (P2G). Nei casi in cui l’elettricità usata nel processo sia derivante da fonti rinnovabili si parla di idrogeno verde.
Esistono varie tecnologie per la produzione di idrogeno. Ad oggi il 95% dell’idrogeno europeo è prodotto tramite lo steam methane reforming – SMR e tramite autothermal reforming – ATR, entrambi i processi sono ad elevata intensità di carbonio. Queste modalità di produzione lo definiscono come idrogeno grigio, che utilizza combustibili fossili come materia prima e produce emissioni di biossido di carbonio. Questi processi possono però essere associati con sistemi di cattura, uso e stoccaggio del carbonio (carbon capture, utilisation and storage - CCUS) e comprendenti tutte quelle soluzioni in grado di ridurre le emissioni di gas serra degli impianti inquinanti o rimuoverle direttamente dall’atmosfera, in questo caso l’idrogeno prodotto viene definito idrogeno blu o low -carbon Hydrogen.
Il restante 5% è un sottoprodotto derivato dai processi di lavorazione dei cloro-alcalini nell’industria chimica. Gli elettrolizzatori alcalini possono essere utilizzati per la produzione dedicata di idrogeno, mentre esistono altri metodi di produzione dell’idrogeno tramite l’uso di elettrolizzatori basati su una membrana polimerica elettrolitica (PEM) e ad ossido solido (Solid oxide electrolyzer cell - SOEC) in questo caso si ha una cella a combustibile ad ossido solido che funziona in modalità rigenerativa per ottenere l'elettrolisi dell'acqua utilizzando un ossido solido, o ceramica, elettrolita per produrre idrogeno gassoso e ossigeno. È uso riferirsi alla produzione di idrogeno tramite elettrolizzatori con l’espressione Power to gas (P2G). Nei casi in cui l’elettricità usata nel processo sia derivante da fonti rinnovabili si parla di idrogeno verde.
Obiettivi e strategie
Nella strategia europea sull’idrogeno, la priorità per il raggiungimento degli obiettivi europei di carbon-neutrality al 2050 è quella di sviluppare idrogeno verde sul lungo periodo, favorendo un sistema energetico integrato, e idrogeno low-carbon (blu) nella fase di transizione a breve e medio termine, in grado di ridurre rapidamente le emissioni derivanti dalla produzione di idrogeno e perseguire lo sviluppo di un mercato sostenibile su scala significativa.
La strategia UE ha definito una tabella di marcia molto ambiziosa che prevede
una prima fase (2020-2024) in cui è prevista la decarbonizzazione dell’attuale produzione d’idrogeno;
una seconda fase (2025-2030) in cui l’idrogeno verde diventa parte sostanziale del sistema energetico integrato europeo;
una terza fase (2030-2050) in cui le tecnologie per l’idrogeno verde dovrebbero essere mature per uno sviluppo su larga scala, contribuendo in modo sostanziale alla decarbonizzazione nel 2050.
Per approfondimenti:
progetto di ricerca Celle a combustibile a ossidi solidi reversibili (SOFC-SOEC)
Celle a combustibile ed elettrolizzatori ad ossidi solidi (SOFC-SOEC)
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CDP, ENI E SNAM firmano accordo per la decarbonizzazione del sistema energetico
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Bus elettrici: l’Italia investe ancora troppo in combustibili fossili
Con solo il 5,4% dei bus a zero emissioni, il nostro Paese rallenta la transizione europea a una mobilità più sostenibile

Secondo un nuovo studio di Transport & Environment (T&E), ONG ambientalista e promotrice della campagna Clean Cities alla quale collabora anche Legambiente, «L’Italia è in forte ritardo sugli investimenti in mobilità elettrica». L’analisi di di T&E prende in esame 17 Paesi europei ed evidenzia la percentuale di immatricolazione di nuovi autobus a zero emissioni. Legambiente fa notare che «L’Italia è in fondo alla classifica, con solo il 5,4% di nuovi bus entrati in servizio nel 2019 a idrogeno o elettrici, seguita solo da Grecia, Svizzera, Irlanda e Austria. Un dato che diventa ancora più preoccupante se si pensa che il nostro Paese è uno tra i principali acquirenti di autobus in Europa: Italia, Polonia, Germania, Regno Unito, Spagna e Francia acquistano circa il 70% dei bus urbani europei, e la loro mancata conversione a una mobilità più sostenibile rallenta in modo significativo la diffusione di bus a emissioni zero del continente, con un impatto altissimo per l’ambiente. E mentre l’80% degli investimenti tedeschi del 2020 sono destinati ad autobus elettrici, e la Polonia annuncia che nelle città con una popolazione di 100.000 o più persone tutto il trasporto pubblico sarà elettrico entro il 2030, stanziando oltre 290 milioni di euro per sostenere questo obiettivo, l’Italia resta indietro. Secondo i dati ANFIA, nel 2019 sono stati immatricolati in Italia solo 63 bus elettrici e a idrogeno: 16 in Sicilia, 15 in Lombardia, 13 in Piemonte, 10 in Liguria».
Andrea Poggio, responsabile mobilità sostenibile di Legambiente, sottolinea che «Nel primo semestre del 2020 l’Italia ha messo in strada solo 170 nuovi bus, contro i 363 del primo semestre 2019, registrando un calo del 53% e diminuendo gli acquisti sulla mobilità pubblica in un momento in cui avere più mezzi era necessario per garantire distanziamento. Inoltre, in seguito all’emergenza Covid sono stati estesi i contributi pubblici per l’acquisto di nuovi autobus, anche di quelli a metano o diesel, con il risultato che compriamo meno autobus dei grandi paesi europei e gran parte dei quali ancora fortemente inquinanti. Non possiamo condannare le nostre città a usare mezzi pubblici vecchi, inquinanti ed alimentati a gasolio o gas fossile, con l’unica eccezione dell’olio di palma, ancora più nocivo del petrolio a livello ambientale».
Danimarca, Lussemburgo e Paesi Bassi guidano la classifica europea di bus a emissioni zero sono: il 78% degli autobus danesi immatricolati nel 2019 è elettrico o a idrogeno, come il 67% di quelli lussemburghesi e il 66% degli olandesi. Anche Svezia, Norvegia e Finlandia sono tra i primi: in questi Paesi gli autobus elettrici immatricolati rappresentano rispettivamente il 26%, 24% e 23%.
James Nix, responsabile merci di T&E, ha ricordato che «Le flotte di autobus urbani percorrono milioni di chilometri ogni anno. Se vogliamo decarbonizzare le nostre città, questi veicoli devono diventare emissions free il prima possibile. Gli Stati nordici, il Lussemburgo e i Paesi Bassi stanno mostrando come mettere in circolazione gli autobus elettrici. Altri Paesi, in particolare quelli che acquistano molti autobus, come Italia, Spagna e Francia, e quelli all’inizio della transizione, come l’Austria, devono aumentarli».
Secondo Veronica Aneris, direttrice per l’Italia di Transport & Environment, «E’ davvero incomprensibile come, con oltre 200 miliardi in arrivo dall’Europa, la bozza di Recovery Plan approvata dal Consiglio dei Ministri preveda l’acquisto di circa 5.000 nuovi autobus di cui ben 2.700 a gas fossile, ovvero centinaia di milioni di euro sprecati in fossili tecnologie obsolete. I bus elettrici riducono l’inquinamento atmosferico, ci aiutano a combattere il cambiamento climatico, a ridurre il rumore e il costo totale d’esercizio. Ora i soldi ci sono. Com’è possibile che il benessere dei cittadini e del pianeta non venga mai messo al primo posto? Ci auguriamo che il Parlamento ora ponga rimedio a questa misura».
Transport & Environment pubblica anche lo studio “Five key steps for electic bus success” che identifica i passaggi per aumentare la percentuale di autobus elettrici su strada, a partire dalla leadership politica e dal sostegno finanziario. Il dossier, che prende in esame 13 casi studio, vuole fornire una guida ai Comuni e agli operatori che intendono investire sugli e-bus. I casi studio italiani riguardano alcune città piemontesi (Asti, Cuneo, Alessandria e Torino) e la città di Milano. Sia Torino che Milano, infatti, sono due delle quattro città italiane (insieme a Cagliari e Bergamo) che prevedono un trasporto pubblico locale a emissioni zero entro il 2030.
T&E fa l’esempio del governo olandese che nel 2016 ha approvato una normativa che prevede che tutti gli autobus appena acquistati devono essere a emissioni zero dal 2025 e dal 2030 tutti gli autobus in uso devono essere a emissioni zero. E come parte del processo di appalto pubblico, i contratti di autobus dovrebbero essere assegnati solo agli operatori che soddisfano o superano questi obiettivi.
Nix ha concluso: «Gli autobus urbani a emissioni zero ci aiutano a combattere l’inquinamento atmosferico, a contrastare i cambiamenti climatici, a ridurre il rumore e a ridurre i costi totali rispetto agli autobus diesel nel corso della loro vita. Gli stati membri dell’Ue devono garantire che i piani di ripresa post Covid che stanno attualmente scrivendo finanzino la sostituzione degli autobus fossili con quelli a emissioni zero».
fonte: www.greenreport.it

Secondo un nuovo studio di Transport & Environment (T&E), ONG ambientalista e promotrice della campagna Clean Cities alla quale collabora anche Legambiente, «L’Italia è in forte ritardo sugli investimenti in mobilità elettrica». L’analisi di di T&E prende in esame 17 Paesi europei ed evidenzia la percentuale di immatricolazione di nuovi autobus a zero emissioni. Legambiente fa notare che «L’Italia è in fondo alla classifica, con solo il 5,4% di nuovi bus entrati in servizio nel 2019 a idrogeno o elettrici, seguita solo da Grecia, Svizzera, Irlanda e Austria. Un dato che diventa ancora più preoccupante se si pensa che il nostro Paese è uno tra i principali acquirenti di autobus in Europa: Italia, Polonia, Germania, Regno Unito, Spagna e Francia acquistano circa il 70% dei bus urbani europei, e la loro mancata conversione a una mobilità più sostenibile rallenta in modo significativo la diffusione di bus a emissioni zero del continente, con un impatto altissimo per l’ambiente. E mentre l’80% degli investimenti tedeschi del 2020 sono destinati ad autobus elettrici, e la Polonia annuncia che nelle città con una popolazione di 100.000 o più persone tutto il trasporto pubblico sarà elettrico entro il 2030, stanziando oltre 290 milioni di euro per sostenere questo obiettivo, l’Italia resta indietro. Secondo i dati ANFIA, nel 2019 sono stati immatricolati in Italia solo 63 bus elettrici e a idrogeno: 16 in Sicilia, 15 in Lombardia, 13 in Piemonte, 10 in Liguria».
Andrea Poggio, responsabile mobilità sostenibile di Legambiente, sottolinea che «Nel primo semestre del 2020 l’Italia ha messo in strada solo 170 nuovi bus, contro i 363 del primo semestre 2019, registrando un calo del 53% e diminuendo gli acquisti sulla mobilità pubblica in un momento in cui avere più mezzi era necessario per garantire distanziamento. Inoltre, in seguito all’emergenza Covid sono stati estesi i contributi pubblici per l’acquisto di nuovi autobus, anche di quelli a metano o diesel, con il risultato che compriamo meno autobus dei grandi paesi europei e gran parte dei quali ancora fortemente inquinanti. Non possiamo condannare le nostre città a usare mezzi pubblici vecchi, inquinanti ed alimentati a gasolio o gas fossile, con l’unica eccezione dell’olio di palma, ancora più nocivo del petrolio a livello ambientale».
Danimarca, Lussemburgo e Paesi Bassi guidano la classifica europea di bus a emissioni zero sono: il 78% degli autobus danesi immatricolati nel 2019 è elettrico o a idrogeno, come il 67% di quelli lussemburghesi e il 66% degli olandesi. Anche Svezia, Norvegia e Finlandia sono tra i primi: in questi Paesi gli autobus elettrici immatricolati rappresentano rispettivamente il 26%, 24% e 23%.
James Nix, responsabile merci di T&E, ha ricordato che «Le flotte di autobus urbani percorrono milioni di chilometri ogni anno. Se vogliamo decarbonizzare le nostre città, questi veicoli devono diventare emissions free il prima possibile. Gli Stati nordici, il Lussemburgo e i Paesi Bassi stanno mostrando come mettere in circolazione gli autobus elettrici. Altri Paesi, in particolare quelli che acquistano molti autobus, come Italia, Spagna e Francia, e quelli all’inizio della transizione, come l’Austria, devono aumentarli».
Secondo Veronica Aneris, direttrice per l’Italia di Transport & Environment, «E’ davvero incomprensibile come, con oltre 200 miliardi in arrivo dall’Europa, la bozza di Recovery Plan approvata dal Consiglio dei Ministri preveda l’acquisto di circa 5.000 nuovi autobus di cui ben 2.700 a gas fossile, ovvero centinaia di milioni di euro sprecati in fossili tecnologie obsolete. I bus elettrici riducono l’inquinamento atmosferico, ci aiutano a combattere il cambiamento climatico, a ridurre il rumore e il costo totale d’esercizio. Ora i soldi ci sono. Com’è possibile che il benessere dei cittadini e del pianeta non venga mai messo al primo posto? Ci auguriamo che il Parlamento ora ponga rimedio a questa misura».
Transport & Environment pubblica anche lo studio “Five key steps for electic bus success” che identifica i passaggi per aumentare la percentuale di autobus elettrici su strada, a partire dalla leadership politica e dal sostegno finanziario. Il dossier, che prende in esame 13 casi studio, vuole fornire una guida ai Comuni e agli operatori che intendono investire sugli e-bus. I casi studio italiani riguardano alcune città piemontesi (Asti, Cuneo, Alessandria e Torino) e la città di Milano. Sia Torino che Milano, infatti, sono due delle quattro città italiane (insieme a Cagliari e Bergamo) che prevedono un trasporto pubblico locale a emissioni zero entro il 2030.
T&E fa l’esempio del governo olandese che nel 2016 ha approvato una normativa che prevede che tutti gli autobus appena acquistati devono essere a emissioni zero dal 2025 e dal 2030 tutti gli autobus in uso devono essere a emissioni zero. E come parte del processo di appalto pubblico, i contratti di autobus dovrebbero essere assegnati solo agli operatori che soddisfano o superano questi obiettivi.
Nix ha concluso: «Gli autobus urbani a emissioni zero ci aiutano a combattere l’inquinamento atmosferico, a contrastare i cambiamenti climatici, a ridurre il rumore e a ridurre i costi totali rispetto agli autobus diesel nel corso della loro vita. Gli stati membri dell’Ue devono garantire che i piani di ripresa post Covid che stanno attualmente scrivendo finanzino la sostituzione degli autobus fossili con quelli a emissioni zero».
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Il Garage Italia soffoca di asfalto e inquinamento, ma si continua a comprare auto nuove
Eccoci all’ennesima ondata di incentivi per comprare auto nuove; che dire?? Ci sembra decisamente "un'ottima e lungimirante" politica visto che il nostro paese ha “solo” 51 milioni di veicoli di cui 39 milioni di autovetture e quasi 5 milioni di autocarri!!

Eccoci all’ennesima ondata di incentivi per comprare auto nuove; che dire?? Ci sembra decisamente "un'ottima e lungimirante" politica visto che il nostro paese ha “solo” 51 milioni di veicoli di cui 39 milioni di autovetture e quasi 5 milioni di autocarri...
Siamo ai primi posti della classifica mondiale con oltre 645 automobili ogni mille abitanti. L’Italia è ormai un immenso garage percorso da strade e autostrade dove si intasano le automobili che si debbono comprare e ricomprare all’infinito.
Visto che ne siamo sommersi, non ha alcun senso continuare a comprare automobili ma come se nulla fosse, vengono incentivate ancora, incredibilmente pure le macchine alimentate con combustibili fossili.
Ma chi potrà mai comprare auto nuove, anche incentivate, a maggior ragione in tempi di “emergenza”, crisi economica e disoccupazione? Eppure siamo bombardati ovunque da pubblicità di auto dai costi improponibili e non solo le auto costano tanto ma sono fra i peggiori investimenti che si possano fare.
Appena uscite dal concessionario si svalutano immediatamente e i costi di mantenimento reali sono migliaia di euro l’anno che fanno lavorare come pazzi le persone per pagarle. Però non dite queste cose agli italiani che quando si tratta di investire sulla coibentazione della casa o su di un impianto solare, chiedono in quanto tempo si ammortizza o se veramente conviene...
Ci si lamenta costantemente di non avere abbastanza soldi ma quando si tratta di buttarli siamo sempre in prima linea. Agiamo solo se ce lo dice la pubblicità e se la pubblicità ci fa vedere sfavillanti mostri di acciaio che sfrecciano nel deserto, non sappiamo resistere e dobbiamo comprare per forza un carro armato con le ruote, strapieno di accessori per passare il tempo durante le file. Cioè esattamente come nella realtà, fermi imbottigliati nel traffico, altro che sfrecciare nel deserto. Infatti le auto sono diventate salotti con tutti i comfort e gadget super tecnologici, così quando siamo in fila possiamo trastullarci senza pensare troppo alla pubblicità che ci faceva vedere il nostro bolide solitario nel nulla. Ed è veramente ridicolo vedere una stufa con le ruote di derivazione ottocentesca totalmente inefficiente dal punto di vista energetico ma strapiena di meraviglie tecnologiche.
Se ci sono pubblicità più fasulle, imbarazzanti e completamente anacronistiche rispetto alla realtà di crisi e inquinamento che si sta vivendo, sono proprio quelle delle automobili.
Altro aspetto da notare è che si pubblicizzano e si autorizza la costruzione di bolidi che superano abbondantemente i limiti di velocità che in Italia sono al massimo di 130 chilometri orari. Perchè quindi costruire auto che hanno velocità pazzesche e sono molto pericolose, tant’è che la velocità è una delle cause maggiori degli incidenti? Non dovrebbero essere fuorilegge le auto che superano i limiti di velocità? Ma figuriamoci se leviamo il brivido del piacere dell’affondare il piede sull’acceleratore, se poi c’è chi ci lascia la pelle, purtroppo interessa poco e niente a chi incassa.
Perché si agisce in modo così completamente senza senso, antieconomico, pericoloso e inquinante? Perchè le case automobilistiche hanno assunto negli anni un potere tale che anche le follie più assurde sono presentate come assolutamente normali.
E così per fare contenti gli industriali, che ci fanno pure credere che le loro auto hanno basse emissioni, (gli stessi che magari sono stati coinvolti nello scandalo delle emissioni truccate), si continua a supportare in ogni modo un mercato di dinosauri. E ovviamente i sindacati non hanno nulla da dire, cosa gli importa a loro se si inquina il pianeta, si esauriscono le risorse e i portafogli, l’importante è che la gente lavori, poi cosa produca e con quali negative conseguenze non è affar loro.
Si vogliono assolutamente incentivare le auto? Lo si faccia allora solo con macchine elettriche a due posti, tanto cosa ci si fa con un carro armato di auto a cinque o sette posti se ci si va pressochè sempre da soli (altrimenti come si spiegano 39 milioni di automobili in Italia). Le auto elettriche non hanno tanta autonomia? Meglio, così si usano meno le auto e più i mezzi pubblici.
Qualcuno dirà: ma poi cosa fanno i poveri lavoratori che non costruiscono più automobili? Si formano su tutto il settore della mobilità sostenibile, dell’efficienza energetica e delle energie rinnovabili dove le tecnologie sono simili a quelle automobilistiche così nessuno perde il lavoro, anzi gli occupati aumentano decisamente visto che ormai il mercato dell’auto è saturo mentre per quello dei pannelli solari, ad esempio, abbiamo da lavorare per un migliaio di anni, vista la situazione pessima da questo punto di vista del fu Paese del sole.
E chi ha detto poi che comprare una auto nuova, che sulla carta si dice inquini meno, sia più conveniente piuttosto che tenersi la propria che magari funziona ancora perfettamente? I costi energetici, di inquinamento, di costruzione e smaltimento delle auto sempre più sofisticate, sono così alti che si fa fatica a trovare tutta questa convenienza ambientale. E perché nei bei depliant patinati della automobili non si mette anche tutto il costo energetico/ambientale che è servito per costruirle e che servirà per smaltirle? Meglio di no, meglio mettere la solita donna poco vestita affianco al motore rombante, con tanti saluti al rispetto per le stesse equiparate ad oggetti.
E perché mai quindi lo Stato si ostina a voler tenere in piedi una industria dinosauro, costosa, dannosa e senza senso? Il segreto di Pulcinella è presto svelato: oltre che fare un favore agli industriali che hanno potentissime lobby, si incassano fior di soldi dai mega balzelli di accise, bolli e ogni possibile tassa che gira intorno al circo dell’automobile.
Chiedere allo Stato di incassare soldi in maniera più sana, lungimirante e intelligente è un campo che riguarda la fantascienza, inutile anche solo pensarlo.
Anche perché nelle menti del paleozoico di chi sforna queste trovate degli incentivi per le auto preistoriche, c’è ancora la storiella che il mercato dell’auto trascina la crescita, ovvero il percorso più veloce per farci affondare tutti e far arricchire i sempre più ricchi. E con questa cecità totale ci avviamo su fiammanti auto nuove verso le nostre autostrade continuando ad intasare e inquinare a più non posso.
Buon viaggio...
Paolo Ermani
fonte: www.ilcambiamento.it
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Eccoci all’ennesima ondata di incentivi per comprare auto nuove; che dire?? Ci sembra decisamente "un'ottima e lungimirante" politica visto che il nostro paese ha “solo” 51 milioni di veicoli di cui 39 milioni di autovetture e quasi 5 milioni di autocarri...
Siamo ai primi posti della classifica mondiale con oltre 645 automobili ogni mille abitanti. L’Italia è ormai un immenso garage percorso da strade e autostrade dove si intasano le automobili che si debbono comprare e ricomprare all’infinito.
Visto che ne siamo sommersi, non ha alcun senso continuare a comprare automobili ma come se nulla fosse, vengono incentivate ancora, incredibilmente pure le macchine alimentate con combustibili fossili.
Ma chi potrà mai comprare auto nuove, anche incentivate, a maggior ragione in tempi di “emergenza”, crisi economica e disoccupazione? Eppure siamo bombardati ovunque da pubblicità di auto dai costi improponibili e non solo le auto costano tanto ma sono fra i peggiori investimenti che si possano fare.
Appena uscite dal concessionario si svalutano immediatamente e i costi di mantenimento reali sono migliaia di euro l’anno che fanno lavorare come pazzi le persone per pagarle. Però non dite queste cose agli italiani che quando si tratta di investire sulla coibentazione della casa o su di un impianto solare, chiedono in quanto tempo si ammortizza o se veramente conviene...
Ci si lamenta costantemente di non avere abbastanza soldi ma quando si tratta di buttarli siamo sempre in prima linea. Agiamo solo se ce lo dice la pubblicità e se la pubblicità ci fa vedere sfavillanti mostri di acciaio che sfrecciano nel deserto, non sappiamo resistere e dobbiamo comprare per forza un carro armato con le ruote, strapieno di accessori per passare il tempo durante le file. Cioè esattamente come nella realtà, fermi imbottigliati nel traffico, altro che sfrecciare nel deserto. Infatti le auto sono diventate salotti con tutti i comfort e gadget super tecnologici, così quando siamo in fila possiamo trastullarci senza pensare troppo alla pubblicità che ci faceva vedere il nostro bolide solitario nel nulla. Ed è veramente ridicolo vedere una stufa con le ruote di derivazione ottocentesca totalmente inefficiente dal punto di vista energetico ma strapiena di meraviglie tecnologiche.
Se ci sono pubblicità più fasulle, imbarazzanti e completamente anacronistiche rispetto alla realtà di crisi e inquinamento che si sta vivendo, sono proprio quelle delle automobili.
Altro aspetto da notare è che si pubblicizzano e si autorizza la costruzione di bolidi che superano abbondantemente i limiti di velocità che in Italia sono al massimo di 130 chilometri orari. Perchè quindi costruire auto che hanno velocità pazzesche e sono molto pericolose, tant’è che la velocità è una delle cause maggiori degli incidenti? Non dovrebbero essere fuorilegge le auto che superano i limiti di velocità? Ma figuriamoci se leviamo il brivido del piacere dell’affondare il piede sull’acceleratore, se poi c’è chi ci lascia la pelle, purtroppo interessa poco e niente a chi incassa.
Perché si agisce in modo così completamente senza senso, antieconomico, pericoloso e inquinante? Perchè le case automobilistiche hanno assunto negli anni un potere tale che anche le follie più assurde sono presentate come assolutamente normali.
E così per fare contenti gli industriali, che ci fanno pure credere che le loro auto hanno basse emissioni, (gli stessi che magari sono stati coinvolti nello scandalo delle emissioni truccate), si continua a supportare in ogni modo un mercato di dinosauri. E ovviamente i sindacati non hanno nulla da dire, cosa gli importa a loro se si inquina il pianeta, si esauriscono le risorse e i portafogli, l’importante è che la gente lavori, poi cosa produca e con quali negative conseguenze non è affar loro.
Si vogliono assolutamente incentivare le auto? Lo si faccia allora solo con macchine elettriche a due posti, tanto cosa ci si fa con un carro armato di auto a cinque o sette posti se ci si va pressochè sempre da soli (altrimenti come si spiegano 39 milioni di automobili in Italia). Le auto elettriche non hanno tanta autonomia? Meglio, così si usano meno le auto e più i mezzi pubblici.
Qualcuno dirà: ma poi cosa fanno i poveri lavoratori che non costruiscono più automobili? Si formano su tutto il settore della mobilità sostenibile, dell’efficienza energetica e delle energie rinnovabili dove le tecnologie sono simili a quelle automobilistiche così nessuno perde il lavoro, anzi gli occupati aumentano decisamente visto che ormai il mercato dell’auto è saturo mentre per quello dei pannelli solari, ad esempio, abbiamo da lavorare per un migliaio di anni, vista la situazione pessima da questo punto di vista del fu Paese del sole.
E chi ha detto poi che comprare una auto nuova, che sulla carta si dice inquini meno, sia più conveniente piuttosto che tenersi la propria che magari funziona ancora perfettamente? I costi energetici, di inquinamento, di costruzione e smaltimento delle auto sempre più sofisticate, sono così alti che si fa fatica a trovare tutta questa convenienza ambientale. E perché nei bei depliant patinati della automobili non si mette anche tutto il costo energetico/ambientale che è servito per costruirle e che servirà per smaltirle? Meglio di no, meglio mettere la solita donna poco vestita affianco al motore rombante, con tanti saluti al rispetto per le stesse equiparate ad oggetti.
E perché mai quindi lo Stato si ostina a voler tenere in piedi una industria dinosauro, costosa, dannosa e senza senso? Il segreto di Pulcinella è presto svelato: oltre che fare un favore agli industriali che hanno potentissime lobby, si incassano fior di soldi dai mega balzelli di accise, bolli e ogni possibile tassa che gira intorno al circo dell’automobile.
Chiedere allo Stato di incassare soldi in maniera più sana, lungimirante e intelligente è un campo che riguarda la fantascienza, inutile anche solo pensarlo.
Anche perché nelle menti del paleozoico di chi sforna queste trovate degli incentivi per le auto preistoriche, c’è ancora la storiella che il mercato dell’auto trascina la crescita, ovvero il percorso più veloce per farci affondare tutti e far arricchire i sempre più ricchi. E con questa cecità totale ci avviamo su fiammanti auto nuove verso le nostre autostrade continuando ad intasare e inquinare a più non posso.
Buon viaggio...
Paolo Ermani
fonte: www.ilcambiamento.it
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