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CS: RIFIUTI: grandi manovre - Perugia, 18 agosto 2021





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Il rinascimento della plastica aggrava la crisi climatica


Andriy Onufriyenko, Getty Images

Qualche anno fa un ricercatore dell’US Geological Survey (Usgs, l’agenzia federale statunitense che si occupa di risorse naturali e del rischio geologico) stava analizzando alcuni campioni d’acqua piovana raccolta sulle Montagne Rocciose. L’ultima cosa che pensava di trovare erano delle microplastiche. “Sta piovendo plastica”, ha scritto Gregory Wetherbee insieme a due colleghi.

Altri scienziati, in Europa, hanno scoperto che cadono, ogni giorno, circa 365 particelle di microplastica per metro quadrato sui Pirenei, nel sud della Francia. I ricercatori hanno trovato plastica ovunque, negli oceani, nell’aria, negli stomaci degli animali marini, persino nella placenta umana. Uno studio pubblicato sulla rivista Environmental Science and Technology, stima che gli esseri umani consumino decine di migliaia di particelle microplastiche all’anno. Secondo gli statunitensi, le stime si aggirano tra le 39mila e le 52mila particelle microplastiche all’anno. Questi numeri aumentano a 74mila e 121mila quando si considera anche l’assorbimento tramite inalazione. Ulteriori 90mila particelle microplastiche all’anno sono da considerare se si consuma acqua in bottiglia. Possiamo ingerirle mangiando pesce, respirarle nell’aria, assorbirle da cibi e bevande che sono state a contatto con imballaggi. Ma da dove viene la plastica?

“Oggi il 99 per cento della plastica prodotta deriva dalla raffinazione di gas e petrolio, ovvero gli stessi materiali il cui sfruttamento ha determinato la crisi climatica”, ha detto Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia.

Un problema complesso

Il rapporto
The plastic waste makers index (indice dei produttori di rifiuti plastici) afferma che solo venti aziende sono fonte di più della metà di tutti i prodotti di plastica usa e getta. La statunitense ExxonMobil – tra le principali emittrici di CO2 al mondo – è la maggiore produttrice di plastica monouso, dice il rapporto, seguita dalla Dow, dalla Sinopec, dall’Indorama Ventures, dalla Saudi Aramco, dalla PetroChina e altre aziende. Il rapporto ha analizzato la catena di approvvigionamento della plastica per collegare i rifiuti di plastica monouso alle aziende che per prime producono i polimeri, “i mattoni” di tutte le materie plastiche, e a chi le finanzia.

La questione della plastica è un problema complesso, ma la ricerca ha rivelato che, in realtà, sono solo poche aziende a rappresentare la maggior parte della produzione mondiale di polimeri destinati a finire tra i rifiuti di plastica monouso. Secondo lo stesso studio, i grandi investitori globali e le banche “stanno agevolando la crisi della plastica monouso”. Si stima che venti delle più grandi banche al mondo, tra cui la Barclays, l’Hsbc e ka Bank of America, abbiano prestato quasi trenta miliardi di dollari alla produzione di polimeri di plastica monouso dal 2011.

La produzione di plastica si basa in parte su un componente del gas naturale chiamato etano, rilasciato durante il fracking

Alla sua radice, quindi, la crisi globale della plastica è il risultato di un sistema fondato sull’uso di combustibili fossili. In particolare, non può essere considerata un problema a sé stante, separata dalla crisi climatica: inquinamento da plastica e collasso climatico sono due facce della stessa medaglia. Il processo di produzione della plastica e le sue conseguenze, una volta prodotta e dispersa nell’ambiente, sono entrambi fonti di emissioni di gas serra. Una nuova ricerca condotta con il dall’University of Hawaii suggerisce anche che la plastica rilasci gas serra quando si degrada nell’ambiente. Secondo il Center for international environmental law, le emissioni globali legate alla plastica potrebbero raggiungere 1,3 miliardi di tonnellate entro il 2030, tanto quanto quasi 300 centrali elettriche a carbone. E, se la produzione crescerà come previsto, la plastica occuperà tra il 10 e il 13 per cento delle emissioni di carbonio “consentite” dagli obiettivi climatici per tenere il riscaldamento al di sotto di 1,5 gradi.

La produzione di plastica, inoltre, si basa in parte su un componente del gas naturale chiamato etano, rilasciato durante il fracking, la tecnica estrattiva di petrolio e gas che richiede perforazioni e fratturazioni continue e che, secondo gli esperti, pone grossi rischi per il pericolo di perdite di gas, sismicità indotta e contaminazione delle falde acquifere. Il National Geographic riferisce che secondo il gruppo industriale American chemistry council, dal 2010 sono stati programmati o portati a compimento all’incirca 350 progetti petrolchimici con autorizzazione al fracking per un costo totale di oltre 200 miliardi di dollari. Le aziende di fracking statunitensi vendono il gas etano “in eccesso” ai produttori di plastica in Europa dove l’etano viene sottoposto a un processo che utilizza grandi quantità di energia e che “rompe” il gas in etilene, a sua volta poi trasformato in resina plastica.

Un falso assunto

Tra i grandi produttori di plastica, però, non ci sono solo le aziende petrolifere e i giganti petrolchimici, ma anche le multinazionali di bevande e packaging come la Coca-Cola, la Nestlé e la Unilever e quelle del tabacco. Si tratta di alcune tra le più grandi e potenti aziende del mondo che hanno unito le loro forze per la propria convenienza.


L’inchiesta Plastic wars di National public radio (Npr) e Public broadcasting service Frontline del 2020 ha rivelato che queste industrie hanno venduto al pubblico un’idea sapendo già in partenza che non avrebbe funzionato, e cioè che il problema si sarebbe risolto perché la maggior parte della plastica poteva essere e sarebbe stata riciclata. Ma non è così. I produttori di plastica l’hanno sempre saputo ma hanno speso milioni di dollari per comunicare il contrario. Come ha detto a NPR un ex funzionario dell’industria: “Vendere la possibilità del riciclo faceva vendere la plastica, anche se era una possibilità non vera”. L’indagine mostra come i consumatori siano stati ingannati, dall’industria petrolifera in particolare, a pensare che il riciclo avrebbe risolto il problema dei rifiuti. “Se il pubblico pensa che il riciclo funziona, allora non sarà così preoccupato per l’ambiente”, ha dichiarato a NPR Larry Thomas, ex presidente della Society of the plastics industry, conosciuta oggi come Plastics industry association, uno dei gruppi commerciali più potenti del settore.

Anna Efetova, Getty Images


I documenti interni mostrano che negli Stati Uniti i dirigenti delle aziende conoscevano questa realtà sul riciclo della plastica già negli anni settanta. Queste strategie di manipolazione, infatti, risalgono soprattutto agli anni settanta e ottanta, quando prevaleva il negazionismo climatico dell’industria, promosso dalle lobby con l’obiettivo di ritardare e ostacolare il più possibile le politiche di protezione ambientale.

Responsabilità individuale

Le aziende di combustibili fossili finanziavano esperti di comunicazione per creare campagne pubblicitarie che potessero far arrivare il loro messaggio al pubblico. Il più conosciuto tra questi è “l’Indiano che piange”, da
Crying Indian Ad, uno spot pubblicitario degli anni settanta il cui slogan recitava “Le persone inquinano, le persone possono fermare l’inquinamento”. Lo spot era parte di una campagna pubblicitaria messa su da Keep America Beautiful, un’organizzazione fondata da aziende leader nel settore di bevande e packaging con l’obiettivo di prevenire i divieti statali sugli imballaggi monouso.

La campagna pubblicitaria, inoltre, introdusse l’idea della responsabilità individuale. L’obiettivo era distogliere l’attenzione dall’attività delle industrie e dalla produzione, in modo tale che potessero continuare ad agire indisturbate. Il messaggio all’opinione pubblica statunitense, e poi mondiale, era che la soluzione dell’inquinamento dipende dalle singole persone e non dal sistema. E che finché ci fosse stata la possibilità di riciclarla, la plastica non sarebbe mai stata un problema.


Eppure, una ricerca della fondazione Ellen MacArthur suggerisce che solo il 2 per cento della plastica è riciclato in prodotti con la stessa funzione. Un altro 8 per cento è trasformato in qualcosa di qualità inferiore, un processo detto “down cycling”. Il resto finisce in discariche, disperso nell’ambiente o incenerito. La maggior parte degli esperti fornisce cifre simili.

“Di tutta la plastica prodotta a partire dagli anni cinquanta è stato riciclato solo il 9 per cento. Il resto è finito in discariche e inceneritori sparsi nel territorio. E oggi i numeri globali indicano che, della plastica immessa in commercio in tutto il mondo, si riesce a riciclarne meno del 20 per cento”, ha spiegato Ungherese, aggiungendo che diversi elementi complicano lo smaltimento della plastica. “Innanzitutto, non tutta la plastica si ricicla, ma se ne ricicla solo una parte. In secondo luogo, alcune tipologie di materie plastiche, pur essendo tecnicamente riciclabili, non hanno domanda sul mercato quindi piuttosto raramente riescono a essere riprocessate per dare luogo a un prodotto che abbia delle caratteristiche qualitative paragonabili a quello di partenza. Quindi c’è un grosso problema”.

La plastica, infatti, si “degrada” ogni volta che viene riutilizzata, il che significa che non può essere riutilizzata infinite volte. Inoltre, la plastica nuova è economica e di qualità migliore. “Quindi tutti i proclami delle aziende che dicono ‘ricicla ricicla e ricicla’ si devono scontrare con la realtà dei fatti che non tutta la plastica effettivamente è riciclabile”, ha spiegato Ungherese.

Le aziende del settore, in sostanza, hanno speso decine di milioni di dollari per promuovere i benefici di un prodotto sapendo già quali sarebbero stati i problemi per lo smaltimento e l’inquinamento.

Rifiuti spediti oltremare

Ma questi sforzi di pressione e lobby non riguardano solo il passato. In una recente inchiesta,
Unearthed, Greenpeace UK ha mostrato come la Exxon lavori usando gruppi di facciata per sottrarsi alla regolamentazione sulle sostanze chimiche tossiche e la plastica. L’azienda, svela Unearthed, ha lavorato con gruppi come l’American chemistry council che comprende le operazioni petrolchimiche della Exxon Mobil, della Chevron e della Shell, così come le principali aziende chimiche tra cui la Dow, per influenzare la politica sui rifiuti di plastica e sulle sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) ultimamente sottoposte a un maggiore controllo al livello globale perché legate a problemi di salute come danni al fegato, cancro e disturbi alla nascita e allo sviluppo. I Pfas sono soprannominati “prodotti chimici eterni” (forever chemicals) perché non si decompongono nell’ambiente. I giornalisti di Unearthed sono andati sotto copertura, fingendosi reclutatori aziendali per assumere un lobbista della Exxon, Keith McCoy, per conto di un cliente. Secondo McCoy, le strategie delle aziende sulla plastica sono estrapolate dallo stesso “manuale” che la Exxon ha usato per ritardare l’azione sul cambiamento climatico.

Un altro grande problema è che, spesso, la responsabilità per la gestione dei rifiuti di plastica viene scaricata su paesi terzi. Molti paesi europei esportano tonnellate di rifiuti di plastica l’anno. Il rapporto Trashed di Greenpeace, per esempio, sottolinea che quelli del Regno Unito, finiscono in Turchia, in Malaysia e in Polonia. Per molti anni, gli Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno inviato molti dei loro rifiuti in Cina fino a che, nel 2018, il paese ha imposto dei limiti sui rifiuti “importati”, così come ha fatto anche la Turchia nel 2020. Queste restrizioni, tuttavia, non hanno impedito ai paesi occidentali di trovare strade alternative per sbarazzarsi dei loro rifiuti e scaricarli oltremare.

A. Martin UW Photography, Getty Images


Secondo alcuni documenti esaminati dal New York Times, un gruppo industriale che rappresenta i più grandi produttori di prodotti chimici del mondo e le aziende di combustibili fossili sta facendo pressione per influenzare i negoziati commerciali degli Stati Uniti con il Kenya al fine di capovolgere la regolamentazione del paese sulla plastica, compreso il divieto sui sacchetti di plastica. Il gruppo sta anche facendo pressione affinché il Kenya continui a importare rifiuti plastici stranieri. Nel 2019, le esportazioni in Africa sono più che quadruplicate rispetto all’anno precedente. Sempre nel 2019, gli esportatori statunitensi hanno spedito più di 450 milioni di chilogrammi di rifiuti plastici in 96 paesi tra cui il Kenya, apparentemente per essere riciclati, sostiene l’indagine del New York Times.


Il punto è che la plastica è enormemente redditizia. L’industria petrolifera guadagna più di 400 miliardi di dollari all’anno producendo plastica. E adesso, con la domanda di combustibili fossili che continua a scendere, il settore deve trovare un modo per restare a galla. Per questo, sta puntando sempre più sulla plastica. E sta convincendo gli azionisti che i profitti deriveranno da lì. Secondo Greenpeace Italia, se le previsioni saranno rispettate, la plastica fornirà “l’ancora di salvezza” per aziende come la Shell, la Exxon e laBP che potranno perseverare nelle loro attività inquinanti basate sui combustibili fossili. Alcune stime indicano che la crescita della domanda di petrolio da parte del settore petrolchimico “sarà trainata per una quota che va dal 45 al 95 per cento proprio dalla crescente richiesta di plastica, finendo così per aggravare la crisi climatica”, sostiene Greenpeace Italia.

“Se osserviamo alcuni dati, soprattutto per il sudest asiatico e l’Europa, registriamo degli investimenti nel settore petrolchimico e per la produzione di plastiche che non si vedevano dalla fine degli anni settanta”, ha detto Ungherese.

Per l’industria fossile si tratta di un “rinascimento della plastica”. Il World economic forum prevede che la produzione di plastica raddoppierà nei prossimi vent’anni, in un momento in cui invece, soprattutto quella di plastica monouso, dovrebbe essere ridotta ai minimi.


Secondo Ungherese, la soluzione è fare in modo di ridurre l’uso della plastica a partire dall’usa e getta: “Oggi non ci sono ancora le condizioni per rimanere al 100 per cento senza plastica perché ci sono tantissimi ambiti in cui questo materiale è efficace e non può essere sostituito. Però l’usa e getta rappresenta il contrario di come dovrebbe essere usato perché si tratta di un materiale economico, leggero ma anche resistente e non biodegradabile. Noi invece lo usiamo per oggetti che restano nelle nostre mani da alcuni secondi a pochi minuti. È questo il paradosso di un oggetto che poi determina grandi danni sugli ecosistemi e sul mare. Una bottiglia, per esempio, è un contenitore che impiega centinaia di anni per degradarsi e noi l’abbiamo usato per pochissimo tempo”.

Soprattutto, è importante che si arrivi presto alla “responsabilità estesa al produttore”, cioè “chi immette nel mercato un prodotto deve essere responsabile dell’intero riciclo di vita”, ha aggiunto Ungherese. È poi è fondamentale che i governi stabiliscano una regolamentazione sulla produzione, senza ripetere il mito negazionista secondo cui agire contro la crisi climatica non conviene sul piano economico. “Arrivare prima alle soluzioni è un vantaggio competitivo non da poco, invece qui si continua ad adottare sempre la logica del meno peggio per lasciare alle aziende la possibilità di conservare le attività tradizionali”, ha commentato Ungherese. Anche perché, questo percorso agevolerebbe l’offerta dei posti di lavoro. Un’altra soluzione, infatti, sarebbe trasformare i prodotti in servizi, spiega il responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia. “Bisogna abbandonare un’economia lineare in cui compri un prodotto lo usi e lo getti via e andare verso un sistema in cui i prodotti diventano servizi. Per esempio, se voglio andare a fare il picnic con gli amici anziché comprare piatti o bicchieri di plastica li noleggio da una stoviglieria. Questo produce molti più posti di lavoro”.

L’azione dei singoli individui è necessaria ma non risolverà il problema. È necessaria un’azione urgente da parte dei governi e delle istituzioni, soprattutto se le aziende continuano a dare priorità al profitto sul resto. “Non vogliamo rivivere uno stesso film già visto con il clima,” ha dichiarato Ungherese “Queste aziende fanno enormi profitti vendendo il mito del riciclo e scaricando sulle singole persone la responsabilità, mentre continuano a incassare enormi profitti a scapito degli esseri umani e del pianeta su cui viviamo”.

fonte: www.internazionale.it


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Il vuoto nel sistema dell’esportazione rifiuti

La geopolitica del rifiuto cerca soluzioni facili e costi ridotti all’estero, ma il sistema delle esportazioni è un nervo scoperto per i traffici illeciti















Le due puntate dell’inchiesta relativa all’esportazione dei rifiuti italiani in Tunisia hanno molti elementi di riflessione sia sulla gestione del rifiuto in sé, sia sulla geopolitica del business e della filiera legata allo scarto. L’eredità ingombrante della stagione dell’emergenza rifiuti della Campania, delle ecoballe e della rotta dei rifiuti che segue legislazioni più favorevoli e minori costi di smaltimento è un tema su cui non solo l’Italia ma l’Europa tutta dovrà fare prima o poi veramente i conti. Nasce e prospera una vera geopolitica del rifiuto.

Ma c’è una questione sistemica che in tutta la vicenda emerge sulle altre, ed è quella relativa alle autorizzazioni per l’esportazione dei rifiuti al di fuori del territorio nazionale per un loro eventuale riciclo. Al di là delle tecnicalità complesse (codici CER, fidejussioni e competenze) il nervo scoperto di tutta la vicenda è come sia stato possibile che la Regione Campania abbia potuto autorizzare l’esportazione di un rifiuto reputato riciclabile verso un Paese, nel caso specifico la Tunisia, e verso uno stabilimento di destinazione, sprovvisto delle infrastrutture per trattare e riciclare quello stesso rifiuto. Non solo: dalle note di cui è in possesso IrpiMedia si evince anche come della procedura fosse stato informato anche il ministero dell’Ambiente e le autorità competenti tunisine.

L’inchiesta/1



Arresti eccellenti e aziende fantasma: il traffico di rifiuti tra Italia e Tunisia

Documenti confidenziali mostrano il retroscena di uno scandalo che, partito dalla Campania, ha provocato le dimissioni di un ministro a Tunisi

Le rotte aperte per l’esportazione (legale) dei rifiuti si sono spesso trasformate grazie a filiere che mischiano legale e illegale in corridoi da traffico illecito dei rifiuti. Da una parte grazie a quelle “centrali affaristico-imprenditorial-criminali”, per usare una definizione particolarmente calzante del sostituto procuratore nazionale Antimafia Roberto Pennisi, dall’altra per demerito di un sistema di autorizzazioni che permette quanto successo nella vicenda che abbiamo denunciato con la nostra inchiesta. Un vuoto informativo dal lato italiano e legislativo dal lato tunisino.

L’inchiesta/2


Salerno, Varna e Sousse il triangolo dietro i container di rifiuti bloccati in Tunisia

Intermediazioni, interessi e bolle portano anche in Calabria e Bulgaria: indaga l’antimafia, ma l’inchiesta è ferma per la mancata collaborazione internazionale


Nessuno, dalla Regione al ministero, sembrava sapere se la Tunisia fosse realmente attrezzata per trattare quel tipo di rifiuto: gli unici accertamenti sono stati quelli sulla carta. Dall’altra, l’assenza di una normativa ambientale strutturata ha fatto sì che a Sousse arrivassero rifiuti per cui nessuno stabilimento presente sul territorio era attrezzato. Ed è proprio in questi vuoti che la filiera criminale del rifiuto prospera, usando a proprio favore imprenditori, aziende, norme, funzionari pubblici e procedure. Se realmente l’Italia e l’Europa tengono alla cosiddetta “economia del riciclo”, oltre ai denari degli ambiziosi “piani Marshall” ambientali, vadano a individuare questi vuoti in grado di generare crimini e corruzioni. Col rischio finale che dopo il profitto per pochi il rifiuto venga smaltito in maniera scorretta al Paese di destinazione o torni in Italia bloccato in un porto. Sulle spalle della collettività, in Italia come all’estero.

fonte: irpimedia.irpi.eu


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Johnson travolto da un mare di plastica, la denuncia di Greenpeace: «GB esporta 1.800 tonnellate di rifiuti al giorno»

Lo spot di Greenpeace per sensibilizzare sul tema dei rifiuti e dell'inquinamento. «Il problema non coinvolge solo il Regno Unito, ma anche l’Italia che esporta una grande quantità di rifiuti in plastica sia in Malesia che in Turchia. É il momento di dire basta alla plastica monouso»




Un mare di plastica travolge il primo ministro Boris Johnson. Un'immagine provocatoria quella contenuta nel nuovo spot realizzato da Greenpeace Uk dal titolo Wasteminster. A Downing street disaster per sensibilizzare sul tema dei rifiuti. Realizzato dallo studio creativo Birthplace attraverso la società di produzione Park Village e con la partnership di Method & Madness, il filmato mostra Johnson (raffigurato come una statua di cera) che parla alla nazione dei successi e dell’impegno del Regno Unito in tema di inquinamento, riprendendo frasi realmente pronunciate dal premier e e dall'ex segretario per l'ambiente Michael Gove. Improvvisamente, tonnellate di rifiuti di plastica iniziano a cadere dal cielo e invadono Westminster.

«La più grande discarica di plastica d'Europa è in Turchia»

«Ogni giorno — denuncia l'associazione ambientalista — il Regno Unito spedisce 1.800 tonnellate di rifiuti in plastica, ovvero 688mila tonnellate all’anno in altri Paesi nel sud-est del mondo, primi tra tutti Turchia e Malesia, causando un’emergenza sanitaria per la popolazione locale e inquinando gli oceani». Proprio pochi giorni fa Greenpeace UK aveva confermato nel suo ultimo rapporto (qui il report completo) come la maggior parte dei rifiuti in plastica, una risorsa che andrebbe valorizzata, vengano invece esportati in Paesi dove vengono inceneriti, producendo inquinamento. Secondo lo studio, il Regno Unito è il Paese che produce più plastica pro capite al mondo. «Ogni giorno circa 241 camion di rifiuti di plastica arrivano in Turchia da tutta Europa. Per quanto possiamo vedere dai dati, continuiamo a essere la più grande discarica di rifiuti di plastica in Europa», ha affermato Nihan Temiz Ataş, responsabile dei progetti di biodiversità di Greenpeace Mediterraneo, con sede in Turchia.

«Stop al monouso»

Un problema che coinvolge anche l'Italia e altri Paesi, che «continuano a inviare ingenti quantità di materie plastiche non riciclabili in Turchia e in altre nazioni del Sud del mondo non dotate di impianti adeguati per il trattamento e con norme ambientali non rigorose». Questa è una delle tragiche conseguenze dell'enorme produzione di «plastica monouso che soffoca i mari e il pianeta», spiega Giuseppe Ungherese, responsabile della Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. «Le grandi multinazionali come Coca Cola, Nestlé e Pepsi — ad esempio — continuano ad alimentare questa crisi e a fare enormi profitti, grazie soprattutto all'inazione dei governi. È il momento, quindi, di dire basta alla plastica monouso» 

Rifiuti esportati in modo illegale

Quello dei rifiuti europei ritrovati a migliaia di chilometri di distanza dal luogo d’origine (ed esportati in modo illegale) è un tema più volte denunciato da numerose associazioni. Nel 2020, ad esempio, proprio greenpeace aveva monitorato più di 1.300 tonnellate di rifiuti in plastica spedite illegalmente dall’Italia ad aziende malesi. E questo solo nei primi nove mesi del 2019 quando, su un totale di 65 spedizioni dirette in Malesia, 43 erano state inviate a impianti privi dei permessi per importare e riciclare rifiuti stranieri 


fonte: www.corriere.it


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Rifiuti: boom delle esportazioni dall'Ue

 











Nel 2020 le esportazioni di rifiuti vero i Paesi non Ue hanno doppiato le importazioni. Principale destinazione la Turchia, dove sono finiti ben 13 milioni di tonnellate di scarti, rappresentati principalmente da rottami e carta




Ricicla.tv


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La Cina dal 1° gennaio vieta l'importazione di rifiuti. Ma adesso dove finiranno?

Finora il Paese gestiva quasi la metà dei rifiuti solidi globali provenienti da tutto il mondo. Ora deve occuparsi delle sue oltre 200mila tonnellate di rifiuti. Timori per nuovi mercati, non sempre regolamentati, nel sud est asiatico e in Turchia









Fra un paio di settimane finirà un'era, quella della Cina "pattumiera" del mondo, e inizierà ufficialmente un nuovo e complicato futuro per i rifiuti solidi di tutto il Pianeta. Dal primo gennaio 2021 la Cina vieterà infatti tutte le importazioni di rifiuti solidi da altri Paesi, sarà vietato anche lo scarico, il deposito e lo smaltimento in territorio cinese di rifiuti esteri. Un cambiamento epocale per una nazione che dagli anni Ottanta si occupa di smaltire e riciclare gli scarti del globo. Da ormai tre anni, le politiche "green" cinesi, hanno iniziato un percorso chiaro, prima con il divieto di importazione di 24 tipi di rifiuti solidi, tra cui carta non differenziata e tessuti, e poi con plastica e altri materiali. Fino al 2017 la Cina aveva lavorato quasi la metà dei prodotti riciclati di tutto il mondo, circa 45 milioni di tonnellate all'anno tra metallo, plastica e carta. Poi queste cifre sono iniziate a scendere vertiginosamente: 22,63 milioni di tonnellate nel 2018, 13,48 milioni nel 2019 e quest'anno, fino a novembre, appena 7,18 milioni, con un calo anno del 41%.
Dal prossimo anno scatterà il divieto totale, che potrà essere per i vari paesi del mondo un'opportunità per iniziare a ripensare come ridurre drasticamente certe produzioni e scarti di materiali, ma che potrebbe anche diventare un boomerang per la gestione dei rifiuti globale. Diversi paesi asiatici infatti - ha sottolineato un recente report di Greenpeace - dalla Malesia al Vietnam alla Thailandia sino all'Indonesia, hanno iniziato ad occuparsi dei rifiuti esteri, molti dei quali provenienti dall'Europa, con sistemi di smaltimento non sempre cristallini.

E questo è un problema: per esempio nella battaglia legata alla gestione della plastica, materiale di cui appena il 9% viene completamente riciclato e recuperato al mondo, il fatto che tonnellate di nuovi rifiuti plastici da Europa a Stati Uniti possano finire nei Paesi del Sud est asiatico preoccupa per la salute del Pianeta, avverte Greenpeace. Proprio questi paesi, tra l'altro, ospitano la maggior parte dei 10 fiumi più inquinati e più dannosi per il trasporto della plastica fino al mare e ai suoi fragili ecosistemi.

Anche l'Italia, sostiene un report di Greenpeace, non è esente da questi meccanismi, dato che siamo all'undicesimo posto tra i principali esportatori di rifiuti plastici al mondo. Nel 2018 abbiamo spedito all'estero 197mila tonnellate, per un giro di affari di 58,9 milioni di euro e lo scorso anno abbiamo esportato per esempio almeno 1300 tonnellate di plastica proprio in Malesia.

Nella Cina fra i paesi più impattanti al mondo a livello di emissioni climalteranti e che oggi promette un forte impegno a favore dell'ambiente, cresce dunque la consapevolezza della questione ecologica, tanto che nonostante molte economie locali siano basate proprio sull'import dei rifiuti, il nuovo divieto viene salutato quasi ovunque come positivo per il futuro green del Paese, una "vittoria" come l'ha definita Qiu Qiwen, responsabile del dipartimento dei rifiuti solidi e chimici del Ministero dell'Ecologia e dell'Ambiente (MEE).

Per le associazioni ambientalisti cinesi, come Greenpeace Asia, è "un'opportunità per tutti i Paesi per ridurre la produzione di rifiuti. Questo veto aumenta la pressione sui paesi esportatori di rifiuti affinché riflettano su come produrne meno, che è la vera soluzione alla crisi che stiamo affrontando".

A preoccupare però resta il fatto legato a chi sarà ora, con l'entrata in vigore del divieto totale, ad occuparsi delle enormi quantità di rifiuti plastici, di metallo e di carta, provenienti da tutto il mondo. Rapporti degli ambientalisti indicavano che già dopo i primi blocchi cinesi "la maggior parte della plastica è andata a paesi e regioni meno regolamentati su queste materie e nel sud-est asiatico che, in particolare, non ha restrizioni adeguate per impedire importazioni eccessive, o capacità reali di trattare tutta quella spazzatura".

Si stima addirittura che negli ultimi decenni la Cina sia occupata di quasi il 95% della plastica usata dell'Unione Europea e il 70% di quella degli Stati Uniti: è dunque ovvio che oggi, nonostante la produzione globale di scarti di plastica sia in calo, buona parte di questo materiale debba trovare nuovi mercati per l'export.

Tonnellate di plastica sono dirette ora sia nel sud est asiatico sia in Medio Oriente e Turchia, ma non sempre legalmente. A fine novembre, proprio in Italia, nel porto di Cagliari, sono stati posti sotto sequestro due container carichi di rifiuti plastici: venivano spediti in Turchia come materiale ex novo per l'industria della plastica, ma in realtà si trattava di rifiuti plastici provenienti da operazioni di trattamento. Secondo i carabinieri del Noe dopo il primo blocco cinese è in atto proprio una intensificazione di queste esportazioni di rifiuti plastici dall'Italia verso Stati dell'Europa orientale e dell'Asia.


Un problema, quello della gestione dei rifiuti esteri, che per la Cina dal 1° gennaio in poi non sarà più affar suo. Nel paese è infatti cresciuta in maniera esponenziale la produzione di scarti interni e ora la Cina si occuperà esclusivamente dei suoi rifiuti solidi: si parla di circa 215 milioni di tonnellate l'anno, che poi finiscono tra inceneritori e discariche. Per China Business News solo tra il 20 e il 30% dei rifiuti di plastica cinesi vengono poi realmente riciclati, ma per ovviare a queste carenze già dal 2019 la Cina ha concentrato nuove risorse economiche, oltre 15 miliardi di euro, per una gestione più efficace dei propri rifiuti. Undici città e cinque aree metropolitane sono state selezionate per avviare programmi di rifiuti zero, di riciclaggio e riduzione degli scarti.

Politiche che si affiancano, oltre alle promesse sulle emissioni zero entro il 2060, a iniziative legate per esempio a sacchetti non biodegradabili vietati da gennaio nelle grandi città, oppure vari veti per materiali non riciclabili. I cinesi hanno dunque deciso di concludere un'era per avviarne un'altra, più green e rispettosa dell'ambiente dicono, passando ora la palla agli altri Paesi, chiamati a una minore riduzione globale di rifiuti.

fonte: www.greenandblue.it

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Gli Usa hanno prodotto la maggior parte dei rifiuti di plastica e ne sono il terzo esportatore al mondo

Smentite le conclusioni di un precedente studio che dava la colpa dell’inquinamento marino da plastica ai grandi fiumi asiatici



Lo studio “The United States’ contribution of plastic waste to land and ocean SEA Research Professor of Oceanography Kara Lavender Law”, pubblicato su Science Advances da un team di ricercatori statunitensi, rivela che l’esportazione di rifiuti di plastica all’estero ha nascosto il vero contributo degli Usa alla crisi dell’inquinamento da plastica e che gli Stati Uniti sono in realtà una delle principali fonti di plastica. inquinamento negli ambienti costieri: il terzo Paese del mondo

Il nuovo studio smentisce la diffusa convinzione che gli Usa stiano “gestendo” adeguatamente – cioè raccogliendo, collocando in discarica, riciclando o contenendo – i loro rifiuti di plastica. Infatti, uno studio del 2015, “Plastic waste inputs from land into the ocean”, pubblicato nel 2015 su Science da ricercatori statunitensi e australiani, e che utilizzava dati del 2010 che non tenevano conto delle esportazioni di rifiuti di plastica, aveva classificato gli Usa al 20esimo posto al mondo per il loro contributo all’inquinamento da plastica degli oceani causato da rifiuti mal gestiti.

Greenpeace Usa denuncia che «Lo studio del 2015 è stato ingannevolmente utilizzato dall’industria e dai governi per affermare che una manciata di fiumi in Asia sono i principali responsabili della crisi dell’inquinamento da plastica, nonostante il fatto che molte compagnie statunitensi vendano prodotti di plastica all’estero e che il Nord del mondo invii molti dei suoi rifiuti di plastica a questi Paesi».

Utilizzando i dati sulla produzione di rifiuti di plastica del 2016 – gli ultimi numeri disponibili – scienziati di Sea Education Association, DSM Environmental Services, università della Georgia e Ocean Conservancy hanno calcolato che «Più della metà di tutta la plastica raccolta per il riciclaggio (1,99 milioni di tonnellate metriche delle 3,91 milioni tonnellate metriche raccolte) negli Stati Uniti sono state spedite all’estero. Di questo, l’88% delle esportazioni è andato in Paesi che faticano a gestire, riciclare o smaltire efficacemente la plastica e tra il 15 e il 25% era di scarso valore o contaminato, il che significa che, in realtà, era non riciclabile».

Tenendo conto di questi fattori, i ricercatori hanno stimato che fino a 1 milione di tonnellate di rifiuti di plastica prodotte negli Stati Uniti hanno finito per inquinare l’ambiente all’estero.

La principale autrice dello studio, Kara Lavender Law, che insegna ricerca oceanografica alla Sea Education Association, sottolinea che «Per anni, gran parte della plastica che abbiamo messo nel bidone blu è stata esportata per il riciclaggio in Paesi che lottano per gestire i propri rifiuti, per non parlare delle grandi quantità consegnate dagli Stati Uniti. E se si considera quanti dei nostri rifiuti di plastica non sono effettivamente riciclabili perché sono di scarso valore, contaminati o difficili da trattare, non sorprende che molti finiscano per inquinare l’ambiente».

Lo studio ha anche stimato che nel 2016 il 2 – 3% di tutti i rifiuti di plastica prodotti negli Usa – tra 0,91 e 1,25 milioni di tonnellate – è stato disseminato o scaricato illegalmente nell’ambiente statunitense e i ricercatori ec videnziano che «In combinazione con le esportazioni di rifiuti, ciò significa che gli Stati Uniti hanno contribuito fino a 2,25 milioni di tonnellate di plastica finite nell’ambiente. Di queste, fino a 1,5 milioni di tonnellate di plastica sono finite negli ambienti costieri (entro 50 km da una costa), dove la vicinanza alla costa aumenta la probabilità che la plastica entri nell’oceano portata dal vento o attraverso i corsi d’acqua. Questo classifica gli Stati Uniti al terzo posto a livello mondiale per il contributo all’inquinamento da plastica costiera».

Uno degli autori dello studio, Nick Mallos, direttore senior del programma Trash Free Seas® di Ocean Conservancy, ricorda che «Gli Stati Uniti producono la maggior parte dei rifiuti di plastica di qualsiasi altro Paese al mondo, ma invece di guardare il problema in faccia, li abbiamo esternalizzati ai Paesi in via di sviluppo e siamo diventati uno dei principali contributori alla crisi della plastica oceanica. La soluzione deve iniziare a casa. Dobbiamo crearne meno, eliminando le plastiche monouso non necessarie; dobbiamo produrre meglio, sviluppando nuovi modi innovativi per imballare e consegnare le merci e, dove la plastica è inevitabile, dobbiamo migliorare drasticamente i nostri tassi di riciclaggio».

Lo studio ha rilevato che sebbene gli Stati Uniti rappresentino solo il 4% della popolazione mondiale, nel 2016, hanno prodotto il 17% di tutti i rifiuti di plastica del mondo. In media, gli americani hanno prodotto pro capite quasi il doppio dei rifiuti di plastica di un cittadino dell’Unione europea.

Un’altra autrice dello studio, Jenna Jambeck, del College of Engineering dell’università della Georgia, evidenzia che «La ricerca precedente ha fornito valori globali per l’input della plastica nell’ambiente e nelle aree costiere, ma analisi dettagliate come questa sono importanti per i singoli Paesi, per valutare ulteriormente i loro contributi. Nel caso degli Stati Uniti, è di fondamentale importanza esaminare il nostro giardino di casa e assumerci la responsabilità della nostra impronta plastica globale».

Una co-autrice, Natalie Starr, a capo del DSM Environmental Services, fa notare che «Per un po’ di tempo, per gli Stati Uniti è stato più economico spedire i propri materiali riciclabili all’estero piuttosto che lavorarli qui a casa, ma ciò ha comportato un grande costo per il nostro ambiente. Per affrontare la sfida attuale, dobbiamo fare conti diversi, investendo nelle tecnologie di riciclaggio e nei programmi di raccolta, oltre ad accelerare la ricerca e lo sviluppo per migliorare le prestazioni e ridurre i costi delle materie plastiche più sostenibili e delle alternative di imballaggio».

Graham Forbes, leader del progetto Global Plastics di Greenpeace USA, ha commentato: «Per anni, corporation e governi del Nord del mondo hanno fatto fare da capro espiatorio ai Paesi asiatici per la crisi dell’inquinamento da plastica. Ora, questo studio completo ora rivela che gli Stati Uniti hanno prodotto più rifiuti di plastica di qualsiasi altro Paese e un’enorme quantità di questi sta finendo nel nostro ambiente. Questo dimostra che l’argomento delle infrastrutture di riciclaggio, così come lo vediamo portato avanti dall’industria, è uno stratagemma. I produttori di plastica e le grandi compagnie di beni di consumo hanno affermato che se costruiamo semplicemente infrastrutture di riciclaggio in Africa e in Asia, possiamo continuare a sfornare plastica monouso. Gli Stati Uniti hanno un’infrastruttura per i rifiuti relativamente robusta, ma si stima che nel 2016 negli oceani l’inquinamento da plastica sia 5 volte superiore rispetto al 2010. Gli Stati Uniti devono smetterla di incolpare gli altri Paesi per un loro problema e rinunciare alla loro dipendenza dalla plastica monouso. Gli Stati Uniti sono il secondo esportatore mondiale (lo studio in realtà dice il terzi, ndr) di rifiuti di plastica. Questa analisi punta i riflettori sulla quantità di rifiuti probabilmente scartati che spediamo in Paesi che non possono gestirli. Anche se molti americani hanno accesso alla raccolta della plastica, gran parte di essa non viene rielaborata in nuovi materiali. Gran parte di questa plastica alla fine finisce per inquinare il nostro ambiente, ma almeno negli Usa è fuori dalla vista e lontano dalla mente degli amministratori pubblici e delle corporation che vogliono disperatamente che l’industria della plastica distrugga le nostre comunità, oceani e corsi d’acqua. L’idea che possiamo semplicemente continuare a sostenere il riciclaggio per affrontare la crisi dell’inquinamento è una fantasia portata avanti dalle aziende sin dagli anni ’70. Questa analisi dimostra che, solo dal 2010 al 2016, la produzione di plastica è cresciuta del 26% e la crisi dell’inquinamento sta solo peggiorando a causa della pandemia. I ricercatori sono chiari nella loro valutazione che il modo migliore per ridurre la plastica nell’ambiente è produrne meno. Per affrontare l’aggravarsi della crisi dell’inquinamento, i governi e le corporation negli Stati Uniti e nel mondo devono smetterla di ingannare le persone che amministrano e servono e impegnarsi seriamente a porre fine alla nostra dipendenza dalla plastica usa e getta».

fonte: www.greenreport.it


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Rifiuti di plastica, dove finiscono quelli Ue dopo lo stop cinese all’import. L’Est Europa punto di transito per spedizioni illecite in Asia

Nei prossimi giorni la Commissione deve ratificare nuove norme sulle spedizioni tra nazioni. Greenpeace che quelle della plastica siano vietate. Mentre l’Interpol ha già messo in guardia “sulla necessità di aumentare i controlli”, vista la capacità delle organizzazioni criminali di sfruttare le difficoltà di smaltimento dei vari paesi. Nei Paesi dell'Est è più semplice ricorrere alle discariche e si pagano tasse e prezzi di smaltimento inferiori, ma da lì parte anche l'export illegale





A circa due anni e mezzo dal divieto imposto dalla Cina di importare rifiuti di plastica e non potendo contare su un sistema di riciclo capace di assorbire l’accumulo, all’Europa non basta aver ‘dirottato’ i rifiuti verso i paesi del Sud-Est asiatico come Malesia, Thailandia e Indonesia o verso la Turchia, che tra il 2016 e il 2018 ha aumentato di sette volte le sue importazioni. Perché fino al bando di Pechino le esportazioni di rifiuti plastici in Cina rappresentavano l’85% del totale europeo. Così in alcuni paesi, come Italia e Spagna, sono aumentati i roghi di rifiuti. Mentre quelli dell’Europa dell’Est hanno assunto un ruolo strategico come nuovi importatori, a volte anche solo di facciata, per offrire un punto di transito e poi spedire illegalmente i rifiuti nel Sud-Est Asiatico. Dietro queste triangolazioni c’è spesso la criminalità organizzata. Come sottolinea l’Interpol in un recente rapporto, poi, “recenti episodi di violenza associati a casi di smaltimento illegale di rifiuti potrebbero rivelare profili nuovi”. In Francia, nell’agosto 2019, il sindaco della città di Signes è stato ucciso per aver tentato di impedire lo scarico illegale di rifiuti da un camion.

LA CONVENZIONE DI BASILEA – Nei prossimi giorni la Commissione europea dovrà ratificare i nuovi emendamenti della Convenzione di Basilea (in vigore dal 1° gennaio 2021) riguardo alle spedizioni tra nazioni di alcune tipologie di rifiuti in plastica. “Insieme a numerose ong europee, abbiamo scritto alla Commissione Ue per chiedere che anche le spedizioni di rifiuti in plastica tra Stati europei vengano vietate col recepimento dei nuovi emendamenti, perché è un fenomeno in rapida crescita negli ultimi anni e che ci preoccupa molto”, ha spiegato a ilfattoquotidiano.it Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. Mentre l’Interpol ha già messo in guardia “sulla necessità di aumentare i controlli”, vista la capacità che le organizzazioni criminali hanno mostrato negli ultimi due anni di eludere le leggi e sfruttare le difficoltà di smaltimento dei vari paesi.

L’EUROPA CHE IMPORTA I RIFIUTI – Se nel rapporto ‘Le rotte globali, e italiane, dei rifiuti di plastica’ pubblicato nel 2019 da Greenpeace, si spiega che i rifiuti raggiungono l’Asia anche attraverso triangolazioni con altri paesi europei dove i controlli sono meno accurati e che tra il 2017 e il 2018 l’export verso la Romania è aumentato del 385 per cento, in una recente analisi la Corte dei Conti Ue fornisce i dati sugli incrementi che si sono registrati in diversi Stati tra il 2016 e il 2019. n Slovenia +68%, in Polonia +30%, in Repubblica Ceca +26%, in Spagna +25%, nei Paesi Bassi e in Francia +20% circa. E che gli Stati membri possono fungere da punti di transito lo ha dimostrato anche l’operazione Green Tuscany, coordinata dall’Europol, nel corso della quale lo scorso anno sono state arrestate 96 persone. Facevano parte di un gruppo della criminalità organizzata che trasportava illegalmente rifiuti di plastica dall’Italia alla Cina, passando per la Slovenia. Alcune imprese slovene, infatti, fornivano a ditte italiane documenti attraverso i quali si attestava che i rifiuti erano stati riciclati prima di essere inviati in Cina. Sono state scoperte 560 spedizioni illegali di rifiuti, per 8 milioni di euro.

IL RAPPORTO DELL’INTERPOL – Nel recente rapporto ‘Tendenze criminali emergenti nel mercato globale dei rifiuti di plastica da gennaio 2018’ l’Interpol analizza diversi fenomeni. Quello più evidente è proprio l’aumento delle importazioni illegali di rifiuti di plastica non solo nei paesi del Sud e Sud-Est asiatico, ma anche in quelli dell’Ue, in particolare dell’Europa dell’Est. I rifiuti possono essere smaltiti illegalmente in questi paesi europei o ‘deviati’ verso impianti di riciclaggio non autorizzati nei paesi dell’Asia. Dal rapporto emerge che se “l’Asia è il principale importatore, epicentro del commercio globale, ma anche di quello illegale”, l’Europa è sì il principale esportatore, ma è “un attore chiave anche dal punto di vista delle importazioni”. Ma l’Interpol spiega chiaramente che, per compensare la perdita di accesso al mercato cinese non basta dirottare i rifiuti nel Sud-Est Asiatico o in altri paesi europei. Spesso vengono smaltiti in modo irregolare o direttamente nei paesi dove sono stati prodotti, o nei paesi importatori, vicini o lontani. Si va dall’incenerimento illegale allo scarico nei siti non autorizzati, dal riciclaggio illegale all’incendio. Il 40% dei paesi che ha fornito dati all’Interpol sull’evoluzione del trattamento illegale dei rifiuti nei loro territori dal 2018 ha segnalato un aumento di attività illecite. In Europa l’hanno denunciato Repubblica Ceca, Francia, Irlanda, Italia, Slovacchia, Spagna e Svezia. Da un lato, negli Stati che prima esportavano i loro rifiuti in Cina sono aumentati smaltimento nelle discariche illegali e roghi, sia accidentali che intenzionali. Dall’altro, nei paesi importatori, la fornitura di rifiuti in rapida crescita ha alimentato impianti di riciclaggio non autorizzati e discariche illegali.

LA CONVENZIONE DI BASILEA – In occasione della Conferenza delle Parti della convenzione di Basilea, dietro la proposta della Norvegia e sotto una forte spinta della Commissione Europea, nel 2019 sono stati approvati degli emendamenti che classificano molti rifiuti in plastica come pericolosi o difficili da riciclare e, quindi, soggetti all’obbligo di notifica e di autorizzazione preventiva. Oggi, però, la bozza del documento sul controllo delle spedizioni a cui lavora la Commissione, sembra fare dei passi indietro. “Se quanto scritto sulla bozza venisse confermato, l’Unione Europea subirebbe un grande danno ambientale, perché permetterebbe ad alcune tipologie di rifiuti plastici pericolosi di venire inceneriti per la produzione di energia, ma anche politico”, spiega Giuseppe Ungherese. L’articolo 11 della Convenzione di Basilea consente di modificare gli accordi solo a condizione che venga garantito lo stesso livello di protezione ambientale. “In questo caso – sostiene Greenpeace – permettere il libero scambio di rifiuti plastici potenzialmente pericolosi, non solo per il riciclo ma anche per la produzione di energia tramite l’incenerimento, non soddisfa tale condizione”.

GLI ESCAMOTAGE – E potrebbe avere un effetto negativo, ancor più nei paesi dell’Est, dove già oggi le importazioni dei rifiuti di plastica sono cresciute anche a causa di una carenza di controlli. Qui è più semplice ricorrere alle discariche e si pagano tasse e prezzi per lo smaltimento inferiori rispetto ad altre realtà europee. La criminalità sfrutta la dipendenza dalle discariche per esportare e smaltire illegalmente i rifiuti, magari riuscendo a far passare con documenti falsi anche quelli pericolosi. “L’Ue, poi, impone regimi di controllo più rigorosi – spiega l’Interpol – sui rifiuti destinati al recupero esportati in paesi non Ocse (anche confinanti con l’Ue) rispetto alle esportazioni all’interno dell’Ue”. Qui è più facile far passare rifiuti anche pericolosi per quelli inclusi nelle ‘liste verdi’, soggetti solo a obblighi generali di informazione e non a notifiche e autorizzazioni preventive. Secondo l’Interpol, questo spiega il perché siano aumentate le spedizioni illegali all’interno dell’Ue. Repubblica Ceca e Romania sono tra i paesi in cui determinati fenomeni sono più frequenti: “Le spedizioni di rifiuti falsamente etichettate come ‘per il recupero’ finiscono per essere smaltite o bruciate, poiché la struttura di destinazione viene modificata una volta che la spedizione entra nel paese”. Una recente operazione ha permesso di far luce su una spedizione illegale partita dal Regno Unito e messa in piedi da cinque gruppi criminali organizzati: migliaia di tonnellate di rifiuti, sulla carta ‘plastica destinata al riciclo’ in Polonia dove, invece, proprietari di discariche illegali l’hanno bruciata dietro un compenso di milioni di euro.

L’INCENERIMENTO E L’EXPORT MILIONARIO TRA ITALIA E ROMANIA – L’aumento di roghi e quello di discariche illegali all’interno dell’Ue non sono gli unici fenomeni osservati. Cresce anche l’incenerimento. “L’industria del cemento – scrive l’Interpol – viene utilizzata a tal fine, perché è consentito incenerire molti tipi di rifiuti per il recupero energetico”. In Irlanda, l’industria del cemento brucia una quantità crescente di rifiuti di plastica, anche perché il Paese ha urgente bisogno di un’alternativa alla Cina, dove finiva il 95% dei rifiuti di plastica riciclabili domestici. E poi c’è l’industria del cemento in Romania, che ingoia ‘carburante-spazzatura’ a prezzi irrisori rispetto alla media europea. Gli scandali sull’infiltrazione mafiosa delle cosche italiane nelle discariche rumene, infatti, non hanno fermato determinati interessi e il commercio del combustibile derivato dai rifiuti, che oggi si chiama ‘combustibile solido secondario’ è da sempre un settore di interesse della criminalità organizzata. Nei cementifici, costruiti anche vicino a centri abitati, arrivano anche rifiuti che non dovrebbero arrivare con effetti devastanti per la salute dei cittadini.

fonte: www.ilfattoquotidiano.it

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Malesia: scoperto un grave caso di importazione illegale di rifiuti tossici

La scoperta di un carico di EAFD, sottoprodotto tossico della produzione di acciaio, rivela il più grande caso di rifiuti tossici importati illegalmente in Malesia.




Le autorità malesi hanno individuato 110 container abbandonati di metalli pesanti pericolosi provenienti dalla Romania e diretti in Indonesia, entrati illegalmente nel paese. La scoperta mette a nudo il più grande caso di rifiuti tossici della Malesia, diventata negli ultimi anni la principale destinazione mondiale per i rifiuti di plastica dopo che la Cina ne ha vietato le importazioni.

Il governo di Kuala Lumpur sta da tempo negoziando con i paesi di origine dei rifiuti per recuperare centinaia di scarti tossici e meno tossici entrati illegalmente nel paese. Il ministro dell’Ambiente e dell’Acqua, Tuan Ibrahim Tuan Man, ha dichiarato che 1.864 tonnellate di EAFD (polveri da abbattimento fumi da forno elettrico, un sottoprodotto della produzione di acciaio che contiene metalli pesanti come zinco, cadmio e piombo) sono stati trovati abbandonati nel porto di Tanjung Pelepas, nello stato meridionale di Johor.

“Il ritrovamento del carico di EAFD, in transito in Malesia e diretto in Indonesia, è la più grande scoperta del suo genere nella storia del nostro paese”, ha dichiarato Tuan Ibrahim. Il ministro ha sottolineato che il carico di EAFD, che fa parte dell’elenco dei rifiuti tossici ai sensi della Convenzione di Basilea, era stato classificato come zinco concentrato nei moduli di dichiarazione.

Considerando che il Dipartimento dell’Ambiente, in quanto autorità della Convenzione di Basilea per la Malesia, non ha concesso o ricevuto notifiche dall’esportatore di rifiuti per il transito, il governo malese ha contattato l’autorità rumena per organizzare il rimpatrio dei container, incaricando contestualmente l’Interpol per ulteriori indagini. Finora, l’ambasciata rumena a Kuala Lumpur non ha risposto a una richiesta di commento da parte di Reuters.

Già a gennaio di quest’anno, la Malesia avevo rispedito al mittente 150 container pieni di rifiuti arrivati illegalmente da 13 paesi di Asia, Europa e Nord America. In quell’occasione, per decisione della ministra federale dell’Ambiente, Yeo Bee Yin, le spese di “rimpatrio” delle 3.700 tonnellate di rifiuti furono interamente addebitate ai paesi “esportatori”, tra cui comparivano Francia, Gran Bretagna, Usa e Canada in testa.

fonte: www.rinnovabili.it



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Riciclo, la Turchia apre le porte ai rifiuti italiani















Intervista esclusiva al presidente dei riciclatori turchi: “La nostra industria è pronta ad accogliere i rifiuti in carta e plastica raccolti dalle imprese italiane”



fonte: www.ricicla.tv


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Un’altra Giornata per le vittime dell’amianto senza impianti per smaltire la fibra killer

Lo scorso anno il ministero dell’Ambiente ha sbloccato fondi da 385 milioni per le bonifiche e avviato una nuova commissione di esperti, ma senza discariche per smaltire in sicurezza i rifiuti l’unica valvola di sfogo è l’export




Neanche l’emergenza coronavirus, coi suoi 27mila morti solo in Italia, può fermare le altre crisi sanitarie che silenziosamente si portano via ogni anno migliaia di vite: oggi come ogni anno si commemora la Giornata mondiale delle vittime dell’amianto. Più che un’emergenza, una cronicità per il nostro Paese: a distanza di quasi 30 anni dalla legge 257/1992 che ne ha vietato l’utilizzo, i morti riconducibili all’amianto sono circa 6mila all’anno in Italia, e continueranno a crescere. Come ricorda il sottosegretario all’Ambiente con delega alle Bonifiche, Roberto Morassut, «il picco delle patologie ad esso correlate è previsto, secondo l’Osservatorio nazionale amianto (Ona), tra il 2025 e il 2030».

Del resto lungo lo stivale l’Ona stima la presenza di 40 milioni di tonnellate di materiali contenenti amianto che aspettano di essere bonificate e smaltite. «È una minaccia sia per gli adulti che per i bambini visto che la fibra killer si nasconde ovunque intorno a noi – spiega il Consiglio nazionale dei geologi – nelle scuole, negli ospedali, nelle biblioteche e persino negli edifici culturali». L’amianto è stato usato in una grande varietà di materiali da costruzione, e l’Ona ad esempio ne ha segnalato la presenza in 2.400 scuole, 1.000 biblioteche ed edifici culturali, 250 ospedali.

Il pericolo non sta nel materiale in sé, ma nel cattivo stato di conservazione dei manufatti che lo contengono come nel rilascio spontaneo di fibre in natura da parte di rocce naturalmente amiantifere; è l’esposizione a queste fibre invisibili che può causare mesotelioma, tumore del polmone, tumore della laringe, dello stomaco e del colon. Per questo è necessario realizzare sul territorio discariche dove poter smaltire in sicurezza i rifiuti contenenti amianto derivanti dalle bonifiche: senza questi impianti anche le bonifiche rimangono al palo, perché non sappiamo dove smaltirne i rifiuti. Ma se sul primo fronte si registrano timidi progressi, nessuno è stato ancora compiuto sul secondo.

«Lo scorso anno – ricorda Morassut – sono stati sbloccati i fondi per 385 milioni di euro, destinati alle regioni, per interventi di bonifica dall’amianto da realizzare entro il 2025 negli edifici pubblici, in particolare per la rimozione e lo smaltimento nelle scuole e negli ospedali». Ma le nuove discariche, che vengono spesso tacciate ingiustamente di essere parte del problema amianto anziché parte della soluzione, sul territorio rimangono un argomento tabù.

«In Italia sono ancora molti i materiali contenenti amianto che attendono di essere smaltiti o inertizzati e ci sono molti siti in cui devono ancora essere effettuate le bonifiche. C’è poi il problema – conferma Vincenzo Giovine, vicepresidente del Consiglio nazionale dei geologi – della mancanza di discariche regionali in cui smaltire i rifiuti che contengono questo minerale».

Una criticità evidenziata tra gli altri proprio dal ministero dell’Ambiente nel 2017, durante una conferenza organizzata dal M5S alla Camera, e all’interno dell’ultimo report dedicato da Legambiente all’eterna emergenza amianto. Anche il poco amianto bonificato prende in larga parte la via dell’estero, come testimoniano gli ultimi dati Ispra: la Germania è il Paese che riceve (profumatamente pagata) la quasi totalità del nostro export d’amianto, circa 100 mila tonnellate smaltite in miniere dismesse e in particolare in quella salina di Stetten, autorizzata a ricevere 250 tipologie di rifiuti utilizzate per la messa in sicurezza delle cavità che si generano a seguito dell’attività estrattiva.

Per affrontare il cronico problema dell’amianto lo scorso anno il ministero dell’Ambiente ha istituito una commissione ad hoc, di cui si attendono a breve le conclusioni, ma le anticipazioni che filtrano dal dicastero non comprendono novità sul fronte impiantistico: «Confluiranno nel collegato ambientale con l’introduzione dello strumento sanzionatorio – anticipa nel merito Morassut – Saranno previsti un aumento delle pene per chiunque abbia contribuito a determinare o ad anticipare l’insorgenza di un tumore correlato all’esposizione all’amianto e la reclusione da tre a sei anni e la multa da 20.000 euro a 50.000 euro per chiunque commercia, estrae, produce amianto o prodotti contenenti amianto».

Chi bonifica, invece, dove smaltisce i rifiuti contenenti amianto? «Conferiamo l’amianto in Germania ma – dichiaravano già tre anni fa dall’Ispra – ci hanno fatto sapere che presto non lo accetteranno più e non esistono altre possibilità che creare dei luoghi di conferimento in Italia». Ancora una volta, occorre una presa di coscienza: è necessario dotarsi degli impianti di smaltimento per gestire secondo logica di sostenibilità e prossimità i rifiuti che noi stessi produciamo. Una lezione che sta impartendo anche Covid-19, colpendo duro (anche) sulla fragilità del sistema italiano di gestione dei rifiuti, fatta di carenze infrastrutturali, eccessiva burocrazia e decisioni politiche spesso rinviate, di cui continuiamo ogni giorno a pagare il conto.

fonte: www.greenreport.it


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