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CS: RIFIUTI: grandi manovre - Perugia, 18 agosto 2021





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Riciclo degli imballaggi in plastica, Corte dei Conti Ue: “Bruxelles inverta la rotta o non si raggiungeranno gli obiettivi fissati per il 2030”

Nell'analisi appena pubblicata, l'istituzione ricorda che gli imballaggi costituiscono oltre il 60% dei rifiuti di plastica prodotti nell’Unione europea. Il tasso di riciclaggio oggi è al 42%, ma i nuovi metodi di calcolo più rigidi lo faranno calare al 30% contro un obiettivo del 55% da raggiungere entro dieci anni. A complicare il quadro c'è il fatto che dal 2021 la maggior parte delle spedizioni fuori dai confini Ue sarà vietata









Secondo la Corte dei Conti europea, l’Ue non raggiungerà gli obiettivi che si è posta per il riciclaggio degli imballaggi di plastica. Arrivare al 55% entro il 2030 sarà impossibile, a meno che i Paesi non incrementino i tassi di recupero. Perché i nuovi criteri di calcolo e un irrigidimento sull’esportazione dei rifiuti di plastica – che dal 2021 sarà vietata con la sola eccezione della plastica riciclabile e non contaminata – ridurranno per forza di cose il tasso di riciclaggio comunicato nell’Unione europea. Oltre ad aumentare il rischio di spedizioni illegali e reati legati ai rifiuti. Secondo la Corte, è necessaria “un’azione concertata” affinché si ottengano i risultati sperati in un periodo di 5-10 anni. “L’Ue deve invertire l’attuale situazione, nella quale le quantità incenerite sono maggiori di quelle riciclate” ha dichiarato Samo Jereb, membro della Corte dei conti europea responsabile dell’analisi. E questo senza considerare l’impatto del Covid, che ha riportato in auge i prodotti usa e getta.

I REQUISITI E LA RESPONSABILITA’ DEL PRODUTTORE – La Commissione sta programmando di modificare i requisiti essenziali a cui devono attenersi i produttori e che riguardano la fabbricazione e la composizione, nonché le procedure per il recupero di materia ed energia. Secondo uno studio svolto a febbraio 2020 per conto della Commissione Ue, infatti, al momento questi requisiti sono ritenuti “inapplicabili nella pratica”. E questo, osserva la Corte, potrebbe condurre a una migliore progettazione degli imballaggi a fini di riciclabilità, oltre che incentivare il riutilizzo. Tramite nuove norme, poi, l’Unione vuole armonizzare e potenziare i regimi di responsabilità estesa del produttore (EPR), in modo che essi promuovano la riciclabilità (ad esempio, mediante sistemi di modulazione degli oneri o persino sistemi di cauzione-rimborso) e non solo imballaggi più leggeri, come al momento prevede la maggior parte di questi regimi. Alcuni dei quali riguardano solamente gli imballaggi domestici, mentre altri comprendono anche gli imballaggi commerciali e industriali. Di fatto, finora, “una notevole carenza di dati, le difficoltà metodologiche di distinguere gli impatti dei regimi di responsabilità estesa del produttore da altri fattori e le sensibili differenze tra i sistemi utilizzati hanno impedito all’Ocse di valutare adeguatamente l’impatto di questi regimi”.

IL CALCOLO DEI TASSI DI RICICLAGGIO – “La modifica della direttiva sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio – spiega, inoltre, la Corte dei conti europea – ha introdotto criteri più rigidi per il calcolo dei tassi di riciclaggio. Le attuali cifre sono lungi dall’essere precise o confrontabili tra uno Stato membro e l’altro”. Quale effetto avrà questo? Il fatto che nuovi metodi di calcolo dovrebbero fornire un quadro più attendibile dell’effettiva percentuale di imballaggi di plastica che vengono riciclati fa ritenere ai magistrati contabili “che ciò potrebbe comportare una notevole diminuzione dei tassi di riciclaggio comunicati, che passerebbero dall’attuale 42% ad appena il 30%”. Non solo.

LO STOP AI RIFIUTI ALL’ESTERO – A breve dovrà essere applicata anche la recente Convenzione di Basilea, che fissa condizioni più rigide per l’invio di rifiuti di plastica all’estero. “Gli Stati membri dell’Ue – sottolinea la Corte dei Conti – fanno elevato ricorso a paesi non-Ue per gestire i propri rifiuti di imballaggio di plastica e raggiungere i rispettivi obiettivi di riciclaggio”. Di fatto, quasi un terzo del tasso di riciclaggio di imballaggi di plastica comunicato nell’Ue è ottenuto spedendo questi ultimi in paesi non-UE per farli riciclare. Gli esportatori devono dimostrare che i rifiuti sono trattati in condizioni simili a quelle vigenti nell’Ue. Gli Stati membri hanno sfruttato proprio questa opzione per spedire cospicue quantità di rifiuti di plastica in paesi d’oltremare e, in particolare, in Asia. Quando la Cina ha bloccato le importazioni, i Paesi di destinazione sono cambiati – hanno registrato un boom Thailandia, Taiwan e Indonesia – ma la prassi è rimasta. I rifiuti di imballaggio rappresentano una quota crescente delle esportazioni di rifiuti di plastica al di fuori dell’Ue: il 75 % nel 2017 rispetto al 43% nel 2012. A partire dal gennaio 2021, però, la maggior parte delle spedizioni di rifiuti di plastica sarà proibita. La Corte avverte che ciò, assieme alla carente capacità di trattare questo tipo di rifiuti nell’Ue non solo “costituisce un ulteriore rischio per il raggiungimento dei nuovi obiettivi”, ma rischia di far aumentare “le spedizioni illegali e i reati legati ai rifiuti, contro i quali il quadro dell’Ue è troppo debole”.

fonte: www.ilfattoquotidiano.it


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Raccolta differenziata: 40% rifiuti riciclabili va in discarica

Circa il 40% dei rifiuti riciclabili finisce in discarica, compromettendo la raccolta differenziata in Italia: i numeri dello studio voluto da DS Smith.



Circa il 40% dei rifiuti riciclabili finisce invece in discarica. A fornire alcuni dati in merito alla raccolta differenziata in Italia è uno studio della One Poll, svolto per conto della DS Smith. In molti quelli che lamentano assenza di informazioni o indicazioni poco chiare.

Alta la percentuale degli italiani incerti su quali siano gli imballaggi e i prodotti che possono essere riciclati. Il 73% secondo lo studio. Arriva al 40% la quota di coloro che hanno ammesso di aver gettato rifiuti riciclabili nell’indifferenziata. Un comportamento che porta, a causa del mancato recupero dei materiali, a un danno di circa 390 milioni di euro all’anno.

L’assenza di informazioni dettagliate (secondo il 54% degli intervistati) in merito al riciclo delle confezioni o la totale assenza di indicazioni (40%) sono alla base di comportamenti scorretti. In alcuni casi orientati alla “prudenza”, ovvero al mancato conferimento nella raccolta differenziata per timore di inserire un rifiuto non riciclabile.

Il 65,5% dichiara di gettare rifiuti nell’indifferenziata quando incerto sul da farsi, mentre circa il 36% lo fa in maniera più sporadica. Oltre alla mancata indicazione sull’etichetta (indicata nel 45% dei casi), a pesare è anche la composizione multimateriale di alcuni imballaggi (33%). Incerto anche il comportamento in caso di contaminazione con altri tipi di rifiuti (23%). Il “riciclo prudente” impedisce il riciclo, sostiene DS Smith, di circa 9,1 milioni di tonnellate di rifiuti all’anno.

Dal lato opporto il 17,8% degli italiani conferisce nella raccolta differenziata rifiuti sui quali è in dubbio. Il 46% ha dichiarato di averlo fatto almeno una volta. La volontà di riciclare il rifiuto ha pesato per il 41%, seguita dalla disattenzione (33%) e dalla mancanza di informazioni (29%). Il 60% ha ammesso di conferire rifiuti con residui di cibo o bevande, compromettendo l’avvio a riciclo.


Raccolta differenziata: le 5 indicazioni di DS Smith

Al fine di migliorare le cose DS Smith ha lanciato, in collaborazione con la Ellen MacArthur Foundation, alcune regole per il Design Circolare. L’obiettivo è quello di aiutare le imprese a progettare imballaggi conferibili più facilie da conferire per i cittadini. 

Ha dichiarato Stefano Rossi, Packaging CEO di DS Smith:

C’è un innegabile desiderio di contribuire alla salvaguardia dell’ambiente da parte dei consumatori, anche attraverso il riciclo. Il problema è che ancora oggi molti imballaggi non sono riciclabili, le persone sono spesso confuse su cosa possa essere effettivamente avviato a seconda vita.

Abbiamo deciso di stilare i nostri principi di Design Circolare per contribuire alla soluzione di questo problema, aiutando le imprese a intercettare i bisogni dei consumatori. Con questi principi possiamo creare imballaggi adatti all’economia circolare, favorendo il riciclo ed eliminando sprechi e inquinamento. Inoltre, rendiamo più chiara l’informazione sugli imballaggi per aiutare i consumatori a riciclare sempre di più.

Questi i 5 punti chiave indicati da DS Smith per sostenere una corretta raccolta differenziata:

  • Proteggere i prodotti e i marchi – Innanzitutto, l’imballaggio deve saper proteggere adeguatamente il proprio prodotto, evitando impatti a livello economico e ambientale derivanti dallo spreco;

  • Ottimizzare l’utilizzo dei materiali – Ottimizzare dimensioni e peso dell’imballaggio permette di ridurre i rifiuti e di salvaguardare risorse naturali;

  • Pensare all’efficienza lungo la catena di fornitura – Un buon Imballaggio deve essere efficiente, ed essere ad esempio adeguato ottimizzando la logistica;
  • Riciclare e riutilizzare materiali – Un modo per eliminare gli sprechi è mantenere in vita il più a lungo possibile i materiali utilizzati, riciclandoli in maniera facile e veloce (14 giorni);
  • Continuare a lavorare sulla ricerca – Dobbiamo continuamente evolvere gli imballaggi pensandoli sempre più in chiave di economia circolare.


fonte: www.greenstyle.it

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Plastica: un sistema da riformare








È una autentica crociata quella che negli ultimi anni si sta combattendo ad ogni latitudine contro la plastica. Un materiale che, da simbolo della modernità, sembra oggi diventato simbolo di un sistema di sviluppo da cambiare. Ma è davvero così, o esiste anche per la plastica, in particolare per gli imballaggi, un futuro all'insegna della sostenibilità? Quali sono gli ostacoli lungo il percorso verso gli ambiziosi obiettivi fissati dall'Ue? Abbiamo provato a capirlo parlando con chi la raccoglie, seleziona e avvia a riciclo.

«Noi abbiamo oggi un immesso a consumo di oltre 2 milioni di tonnellate l'anno di imballaggi in plastica - spiega Walter Regis, presidente di Assorimap - con un avvio al riciclo di circa 600mila tonnellate, quindi 25,6%. Se però parliamo di riciclo effettivo scendiamo al 20%. Le direttive europee sull'economia circolare ci chiedono per il 2025 il 50% di riciclo effettivo e il 55% al 2030. Sicuramente il sistema così com'è non è in grado di poter centrare questi obiettivi». 

Insomma, in Italia dicono i numeri, 8 imballaggi in plastica su 10 non vengono riciclati. Un ritardo pesantissimo rispetto agli ambiziosi target europei. Questo anche perchè c'è plastica e plastica, e non tutte quelle che finiscono nel sacchetto della raccolta differenziata poi possono essere facilmente rigenerate. Per capirlo siamo andati in uno dei più grandi impianti italiani di selezione, dove i sacchetti della differenziata vengono separati nelle singole materie che poi verranno avviate a riciclo.

fonte: https://www.ricicla.tv/

#RifiutiZeroEmiliaRomagna: #SOTTOMURO100KG


















PROGRAMMA PROVVISORIO
9,00    accreditamento
9,30    apertura dei lavori, saluti dell’amministrazione comunale di Soliera, introduzione al programma della giornata
PRIMA PARTE: Qualità delle raccolte differenziate e riciclaggio: verso le nuove regole europee
9,35     Troppi scarti nella differenziata: occorre qualià. I dati regionali, Natale Belosi, Coordinatore Rete Rifiuti Zero ER
10,00     Via i cassonetti per migliorare la qualità, Davide De Battisti, Direttore AIMAG
10,15     200 giorni di rivoluzione a Forlì, Paolo Di Giovanni, Direttore ALEA
SECONDA PARTE: comuni verso rifiuti zero
10,30     L’Italia delle 300 comunità rifiuti zero: inizia la rivoluzione ecologica, Rossano Ercolini, premio Goldman per l’ambiente 2013, presidente Zero Waste Europe
11,00    parlano i comuni – interventi dei comuni rifiuti zero e dei comuni partecipanti  per esporre esperienze, problemi aperti, progetti, valori, obiettivi, prospettive, lavoro comune da mettere in campo. Coordina Monica Cinti, Sindaco di Monte S, Pietro, referente Comuni Rifiuti Zero ER
TERZA PARTE: i comuni virtuosi
12,30    Premiazione comuni sotto i 100 Kg
13,00    buffet

A Soliera, il centro Habitat in Via E. Berlnguer 201 lo trovi a questo link https://goo.gl/maps/h5KYCZ93tTtTFzZy7

fonte: https://rifiutizeroer.blogspot.com

Riciclare (e basta) i rifiuti, siamo sicuri che sia ancora una buona idea?

La recente polemica su come gestire i rifiuti di bioplastica ha avuto un esito del tutto prevedibile: il ritorno del partito degli inceneritori che ripropone la magica soluzione che fa scomparire i rifiuti dalla vista, anche se non dall’atmosfera che respiriamo. C’è una ragione per questo ritorno: le ultime vicende hanno messo in luce i limiti, se non il fallimento, dell’attuale politica di gestione dei rifiuti urbani, tutta basata sulla raccolta differenziata e il riciclo.













Intendiamoci: riciclare i rifiuti è una cosa buona. E non bisogna nemmeno frasi imbrogliare dalle leggende che dicono che i rifiuti differenziati vengono poi rimescolati tutti insieme e buttati in discarica. Non è così, anzi, in anni di lavoro abbiamo creato un’infrastruttura di prim’ordine per trattare i rifiuti urbani: è un patrimonio di tutta la società che va valorizzato.
Tuttavia, è anche vero che ci sono dei limiti al riciclo dei rifiuti: tanto per darvi un’idea, in Italia nel 2016 si differenziava meno del 50% della plastica immessa sul mercato e non se ne riciclava più del 25%. Chiaramente, non basta per evitare di ritrovarsi poi le microplastiche nel piatto e nel bicchiere. Ma perché non riusciamo a far meglio di così? Non è per cattiva volontà o per incompetenza. E’ normale, anche se in altri casi si fa un po’ meglio di così. Per esempio, con la carta si differenzia circa l’88% degli imballi, ma si ricicla soltanto l’80%. Ma la carta è un materiale facile da riciclare: la plastica è un’altra cosa, ce ne sono tanti tipi diversi, con in più la faccenda delle bioplastiche a complicare le cose. Così, già la differenziazione è lontana dall’essere perfetta (andate a visitare un impianto di trattamento dei rifiuti per vedere la quantità di robaccia che la gente butta dove non dovrebbe buttare: io l’ho fatto molte volte, è impressionante). Poi c’è un problema di costo dovuto a un principio economico ben noto: quello dei ritorni decrescenti. Riciclare un po’ è facile, riciclare molto comincia a costare caro. Riciclare moltissimo costa carissimo.
Così, sta succedendo che il riciclo dei rifiuti comincia a diventare un peso sulle finanze dei i cittadini già in difficoltà in un momento di contrazione economica. Da qui è nata la polemica sulle bioplastiche: gli impianti di compostaggio esistenti non riescono a trattarle, occorrerebbero impianti nuovi. Ma chi paga? Ovvio: il cittadino. Vedete il problema.
Allora, cosa fare? Bruciare tutto come vogliono fare gli inceneritoristi? Non necessariamente. Si può fare meglio di così con una buona gestione dei rifiuti urbani che si basa non solo sul riciclo, ma sui tre pilastri fondamentali dell’economia circolare: il riciclo, il riuso, e il non-uso. Il problema è che in Italia le politiche di riuso e non-uso sono quasi inesistenti. Lo si è visto con la recente polemica sulle stoviglie usa-e-getta. Invece di muoversi verso stoviglie riusabili, la soluzione proposta è stata l’uso di materiali (teoricamente) compostabili, ma sempre usa-e-getta.
Ma riuso e il non-uso sono soluzioni che non richiedono impianti e trattamenti complessi e i costi per il cittadino sono minori. In Germania, per esempio, si tende a recuperare le bottiglie di plastica molte volte prima di riciclarle. Allora, perché non si fa da noi? Può darsi che la ragione sia il meccanismo perverso delle lobby che premono per le soluzioni che portano il maggior ritorno economico, ma non necessariamente le migliori. Il riciclo dei rifiuti non sarebbe certamente l’unico caso in cui l’interesse di una lobby non coincide con l’interesse del cittadino.
Comunque, non disperiamo. Il fatto che siamo arrivati al limite del riciclo vuol dire che dobbiamo renderci conto della necessità di cambiare. Già ci da una robusta mano la Commissione europea che ha detto chiaramente che, compostabile o no, l’usa e getta deve sparire dal 2021. Da qui, possiamo andare avanti. Bottiglie del latte in vetro riusabili come si faceva una volta? Perché no?
Ugo Bardi
fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it

Il gioco sporco dei pro-inceneritori

























Il Sole 24 ore, organo di Confindustria, prosegue la sua battaglia pro inceneritori. Attraverso la penna di Jacopo Giliberto a finire sotto accusa sono stavolta gli “indignati”, ovvero comitati, associazioni ambientaliste e singoli “che con il ‘no inceneritore’”a suo dire “riempiono le discariche e aiutano la malavita degli incendi.” Un’accusa pesante la sua, non c’è che dire, e non si capisce bene se il torto dei ‘no inceneritore’ sia dovuto più a ignoranza, a connivenza malavitosa o a entrambe. Nell’articolo a sua firma, pubblicato il 21 maggio 2019, ci sono due passaggi meritevoli di attenzione. Nel primo, in cui è contenuta la frase incriminata, afferma quanto segue:
Inseriti i dati nei criteri della scienza econometrica il risultato è che per sbloccare il riciclo a Palermo, Napoli, Roma e in altre città nemiche dell’ambiente servirebbero inceneritori per 6,3 milioni di tonnellate di spazzatura l’anno. Cioè una quantità impiantistica ben diversa dal fabbisogno impiantistico di 1,8 milioni di tonnellate stimato da un decreto del 2016, quell’articolo 35 del decreto Sblocca Italia il quale disturba quegli indignati che con il “no inceneritore” riempiono le discariche e aiutano la malavita degli incendi.”
Le sue argomentazioni oltre ad essere fuorvianti sono intellettualmente disoneste, e i suoi ragionamenti hanno il grave limite di essere parziali e condotti utilizzando parametri di convenienza.
Se la politica non promuove e impone con provvedimenti adeguati politiche virtuose e subisce le pressioni di una classe imprenditoriale intenta a proseguire a puro scopo speculativo con pratiche obsolete, dannose e antieconomiche, non si possono accusare le vittime del sistema di esserne responsabili. Le discariche sono la conseguenza dell’assenza colpevole della politica. È tutto il sistema dei gestione dei rifiuti a dover essere messo in discussione e non esclusivamente la parte finale. Invece l’attenzione è concentrata sul mucchio senza considerare cosa lo genera. Il dibattito in questo modo inevitabilmente si restringe al finto dilemma discariche-inceneritori.
Ma anche così, andando più a fondo nella questione sollevata da Giliberto, se si mettono a confronto discariche gestite male con inceneritori gestiti bene, potrebbe anche valere la teoria del “piuttosto che la malavita è meglio incenerire”. Malauguratamente però, checché ne dica Giliberto, anche dietro gli inceneritori c’è il malaffare e lo dimostrano le numerose inchieste giudiziarie a riguardo: vedasi ad esempio il sequestro avvenuto ai primi del 2019 del cantiere per la costruzione del nuovo inceneritore di Tossilo disposto dalla procura 
Gli indignati del ‘no inceneritore’, dovrebbe sapere Giliberto, si oppongono sia alle discariche sia agli inceneritori perché, dati alla mano, entrambe le pratiche sono dannose e antieconomiche e soggette a infiltrazioni malavitose. Nel suo articolo di promozione a tutto tondo dell’incenerimento, o termovalorizzazione come gli piace chiamarla, omette di dire quali siano i costi economici di realizzazione e gestione degli inceneritori, i costi economici, sanitari e ambientali delle sostanze altamente inquinanti contenute nei fumi e nelle ceneri. Da quanto traspare dalle sue righe le ceneri e le emissioni sembrerebbero inesistenti, cosicché tutto quanto viene bruciato evapora o diventa utile sostanza riciclabile. Ebbene, per i 6,3 milioni di tonnellate di rifiuti da incenerire a cui fa riferimento, vengono prodotte non meno di 1,89 milioni di tonnellate di ceneri da stoccare in discariche speciali o miscelare nei cementi da costruzione e tra gli 8,82 e i 9,45 milioni di tonnellate di fumi caldi. Che poi gli inceneritori economicamente convengano dovrebbe venirlo a spiegare in Sardegna dove conferire in discarica costa circa 90 euro a tonnellata mentre all’inceneritore circa 190, ciò senza parlare dei buchi da decine di milioni di euro generati dalle gravi inefficienze di questi ultimi. E Cagliari è stata a lungo la città con la Tari più cara d’Italia nonostante conferisca i rifiuti all’inceneritore del Tecnocasic di cui è anche azionista. In Sardegna inoltre non si può scegliere dove conferire perché si incenerisce per legge: così dispose Oppi quando era assessore all’ambiente nella giunta Cappellacci, e Pigliaru durante il suo mandato non si è certo sognato di cambiare le disposizioni. Quindi in discarica va solo ciò che resta quando non 

c’è più capienza o gli impianti sono fermi. Si potrebbe obiettare che quelli sardi son pessimi esempi da prendere a riferimento, e allora basta andare a vedere cosa ha già prodotto a livello di buco economico il mega inceneritore danese di Copenaghen prima ancora di aver acceso i forni 
Gli inceneritori, se gestiti bene, potrebbero anche convenire economicamente, ma per far ciò hanno necessità di andare a regime, essere condotti con estrema accuratezza, devono bruciare rifiuto secco ad alto valore energetico e continuare a godere di ricchi incentivi economici. I problemi si presentano quando anche una sola di queste condizioni viene a mancare e, solitamente, a parte l’ultima, una o più delle altre mancano sempre. Detto in altre parole: un inceneritore per avere un rendimento termico adeguato deve essere posto a valle di una buona raccolta differenziata affinché arrivi continuamente molta sostanza povera di umido e ricca soprattutto di plastiche; ma anche così, se non si raggiungono i quantitativi previsti a progetto, nonostante gli incentivi, la macchina si inceppa. Gli inceneritori nella realtà vengono alimentati con quello che arriva, solitamente rifiuto di pessima qualità, hanno rendimenti bassissimi prossimi allo zero e per garantire le adeguate temperature di combustione in caldaia devono essere addizionati combustibili fossili in generose quantità. Hanno costi di gestione molto elevati, crescenti esponenzialmente col livello di sofisticazione, tanto che diversi impianti in giro per il mondo sono stati chiusi in conseguenza degli esorbitanti costi dei sistemi di abbattimento dei fumi. Per dirla tutta, gli inceneritori rivestono notevole interesse in quanto, essendo equiparati agli impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili, godono di sostanziosi incentivi economici (volendo, si potrebbero chiamare impianti diversamente fossili). Ma non promuovono il riciclo e il recupero perché devono necessariamente andare a regime avendo elasticità di funzionamento pressoché nulla. A titolo di esempio: un impianto dimensionato per 100.000 tonnellate/anno difficilmente può scendere sotto le 90.000 senza andare in perdita. In questo modo si vincola negativamente ogni prospettiva di incremento della differenziata.
Per dovere di verità Giliberto avrebbe dovuto confrontare i dati dei comuni virtuosi con gli inceneritori, anche quelli più efficienti, al netto degli incentivi però, per vedere chi ne esce fuori con le ossa rotte. E senza accusare i comuni virtuosi di ricorrere agli inceneritori, come ha fatto in articoli precedenti, come se fossero questi a poter decidere liberamente della destinazione ultima dei rifiuti residui e non invece le Regioni o le politiche statali.
Bene avrebbe fatto a sottolineare che, mentre l’Europa procede sempre più velocemente col suo piano per ridurre i rifiuti plastici, l’Italia sta a guardare e nessun impianto della filiera del riciclo è stato considerato “strategico” e “di preminente interesse nazionale” come invece sono stati dichiarati nel 2014 gli inceneritori con l’art. 35 dello Sblocca Italia, nessun piano efficace di riduzione dei rifiuti è stato messo in atto sino ad ora, nessuna regola è stata introdotta per imporre alle aziende di usare imballaggi davvero riciclabili. Altro che inceneritori “in secondo piano”!
Ma evidentemente l’interesse a promuovere gli inceneritori è molto grande, tanto che sono anni che Confindustria si scaglia contro comitati e Unione Europea (a proposito: la Corte Europea ha dato ragione ai comitati ricorrenti contro l’art. 35 dello sblocca Italia, a dispetto de Il Sole, Renzi e lega-5 stelle. Meno male che l’Europa c’è!, viene da dire).
Due note importanti:
1 – Nella raccolta differenziata la premialità è rivolta a chi fa più differenziata e non a chi produce meno rifiuti, perciò, paradossalmente, un comune che produce 100 kg di rifiuti pro capite all’anno con una differenziata al 50% viene penalizzato mentre un comune con 1000 kg anno pro capite e differenziata al 70% viene premiato. Eppure il primo produce appena 50 kg di residuo secco mentre il secondo 300 kg! Quale dei due, ragionevolmente, andrebbe premiato? La Regione Sardegna, a questo proposito, è una delle più contestate per il suo criterio totalmente indirizzato verso la differenziata fine a se stessa.
2 – I consorzi obbligatori per il recupero della materia utile come il Corepla sono in mano alle società produttrici di imballaggi che hanno tutto l’interesse a incenerirli e produrne di nuovi.
Questo, Giliberto si è dimenticato di scriverlo.
Nel secondo passaggio di interesse dell’articolo c’è una verità sulla quale c’è pieno accordo e nel quale si raccoglie tutta la sostanza attorno alla quale i comitati si battono contro discariche e inceneritori:
“L’autorità dell’energia e dei servizi a rete Arera, cui è stato assegnato anche il compito di regolazione del segmento dei rifiuti, lavorerà per ripensare il sistema attuale di calcolo della tassa rifiuti. «Oggi la Tari si basa sulla superficie della casa o dell’azienda e, per le famiglie, anche sul numero di persone. Sono strumenti inadeguati», osserva Beccarello. «L’Europa chiede che la tariffa
sia correlata con il principio che chi inquina paga (e quindi servono criteri di misurazione dei rifiuti prodotti) e con il principio di conservazione di risorse (bisogna calcolare la qualità e l’organizzazione del sistema di gestione dei rifiuti). Sarà un cambio di passo importante per stimolare comportamenti virtuosi nei cittadini ma anche nei Comuni e nelle aziende che danno loro il servizio di nettezza urbana».”
Di fatto dobbiamo produrre meno rifiuti e più riciclabili. Ed è questa la battaglia di comitati e associazioni, ciò che Giliberto racconta parzialmente, gettando intenzionalmente su di essi un’ombra oscura. L’economia circolare è in contrapposizione alla realizzazione di nuove discariche e inceneritori perché vanificano le politiche di riduzione della produzione di rifiuti. L’economia circolare non è, come equivocamente ha scritto Giliberto in un altro suo articolo del 22 novembre 2018, completata dalla termovalorizzazione. L’economia è circolare quando niente diventa rifiuto e tutto rientra in circolo. E fino a prova contraria le ceneri degli inceneritori finiscono stoccate in discarica e i fumi con tutti i loro inquinanti nell’aria che respiriamo.
L’Unione Europea (ancora: meno male!) a questo proposito imporrà a breve agli Stati membri vincoli sul recuperato invece che sul differenziato; con quest’ultimo sistema, infatti, si potrebbe paradossalmente avere anche recupero zero. Prova ne sia quanto è successo da quando la Cina prima e l’India poi hanno vietato l’ingresso di numerose tipologie di rifiuti provenienti dall’Occidente, tra cui plastica, carta e metalli: è saltata tutta la teoria sulla buona differenziata e in pochi mesi gli impianti di riciclo sono andati in crisi e i cumuli di rifiuti e di materiale riciclabile sono cresciuti vertiginosamente e non si sa più dove metterli.
Ad essere ridotta deve essere innanzitutto la produzione di rifiuti e deve essere fatto ogni sforzo affinché tutti i materiali prodotti siano resi riciclabili e possano effettivamente essere reimmessi nel ciclo produttivo o reintrodotti in natura. Cittadini e amministrazioni devono essere messi in condizione di svolgere la loro parte e dotati degli strumenti adeguati, non si può considerarli i maggiori responsabili quando è tutta l’architettura dei rifiuti nel suo complesso a non funzionare. Ecco perché il ragionamento sugli inceneritori è erroneo in quanto parte da un presupposto sbagliato, cominciando cioè dalla fine del ciclo e non dall’inizio.
Ma per andare nella direzione della minore produzione di rifiuti ci vogliono tanta volontà, determinazione, impegno e capacità politica, e molti investimenti per finanziare la ricerca e la promozione di attività virtuose. Finanziamenti che basterebbe togliere dagli incentivi per gli inceneritori e le finte pratiche rinnovabili. A quel punto si potrebbe anche imporre una tariffa di 500 euro a tonnellata, e allora sì che vedremmo le amministrazioni seriamente impegnate a ridurre l’ammontare del secco residuo.
Sarebbe conveniente anche per Confindustria se i suoi soci industriali fossero più preparati, illuminati e all’avanguardia e perciò desiderosi di mettersi alla prova con tematiche concrete, certo complesse ma oltremodo stimolanti

Antonio Muscas

fonte: http://www.pesasardignablog.info/

In Francia Patto governo-imprese-Ong sugli imballaggi in plastica. Critiche da associazioni ambientaliste, che chiedono leggi vincolanti



















In Francia è stato sottoscritto un Patto nazionale sugli imballaggi in plastica, che vede la collaborazione di governo, imprese e Ong, per ridurre i rifiuti plastici. Il Patto è stato firmato dal ministero per la Transizione ecologica, da diverse imprese della grande distribuzione e soprattutto del settore alimentare come Auchan, Biscuits Bouvard, Carrefour, Casino, Coca-Cola, Danone, Franprix, L´Oréal, LSDH, Monoprix, Nestlé, Système-U eUnilever, oltre che da Wwf e Fondazione Tara Expéditions.
I firmatari del Patto si impegnano a redigere un elenco di imballaggi classificati come problematici o non necessari, indicando le azioni da intraprendere; raggiungere collettivamente, entro il 2022, il 60% di imballaggi di plastica effettivamente riciclati; lavorare sull’ecodesign degli imballaggi per renderli riutilizzabili, riciclabili o compostabili al 100% entro il 2025; svolgere attività di sensibilizzazione e di educazione del grande pubblico sui problemi dell’inquinamento da plastica.
Sul rispetto degli impegni assunti vigileranno i poteri pubblici e le due Ong, e dal 2021 sono previsti rapporti annuali sui progressi realizzati. Se il meccanismo degli impegni volontari non dovesse funzionare “passeremo dagli incentivi alle sanzioni”, ha avvertito il segretario di Stato alla Transizione ecologica, Brune Poirson, che sta studiando dei meccanismi finanziari di incentivazione per l’ecodesign.
Nonostante il coinvolgimento del Wwf nel Patto, il ricorso ad accordi volontari, anziché a provvedimenti legislativi vincolanti, viene criticato da altre associazioni ambientaliste, come Zero Waste France e Surfrider Foundation Europe, membro del movimento Break Free From Plastic, che riunisce 1.700 organizzazioni della società civile a livello internazionale. Secondo queste associazioni il problema principale è la riduzione dell’uso della plastica per gli imballaggi monouso, che continuano la loro crescita esponenziale e sui quali nel Patto non c’è alcun impegno, dato che ci si limita agli aspetti, seppur positivi, del riciclaggio e del riutilizzo. Per queste associazioni è necessario che nella legge sull’economia circolare, discussa nei prossimi mesi, venga indicato un obiettivo nazionale di riduzione degli imballaggi in plastica, che riguardi tutti gli attori economici e non solo i sottoscrittori di Patti volontari.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

I contenitori in plastica non sono sempre riciclabili
















La British Plastics Federation chiede incentivi finanziari per permettere alle industrie di impiegare un numero maggiore di materiali plastici riutilizzabili


La maggior parte dei contenitori in plastica per alimenti non sembra essere realmente riciclabile. A parer dell’Associazione del governo londinese, solo un terzo dei prodotti destinati al riciclaggio può realmente essere riutilizzato.
Stop ai materiali di scarsa qualità

Secondo l'analisi LGA, delle 525.000 tonnellate di vasi, vaschette e vassoi di plastica che vengono utilizzati dalle famiglie nel Regno Unito ogni anno, solo 169.000 possono essere riciclate. Pare che i produttori di contenitori utilizzino un mix di polimeri di bassa qualità. La British Plastics Federation ha chiesto un incentivo finanziario al governo, per permettere ai progettisti di impiegare un numero maggiore di plastiche riutilizzabili, nella realizzazione della loro merce. Una migliore cura nei materiali utilizzati potrebbe rendere più riciclabili l’80% delle confezioni che vengono scartate. La LGA vorrebbe fortemente che il governo introducesse il divieto, per le industrie, di impiegare materie di scarsa qualità nella realizzazione dei propri prodotti. Sarebbe opportuno, inoltre, per la LGA, che i creatori di materie plastiche iniziassero a pagare i costi della raccolta e dello smaltimento dei loro articoli di basso livello.
Limiti nell’impianto di riciclaggio

Potrebbero bastare pochi e semplici cambiamenti per fare la differenza. I pasti da scaldare al microonde, per esempio, vengono spesso serviti in involucri di materiale plastico nero, utilizzato per indicare l’alta qualità dell’alimento al loro interno. Questo colore, però, non può essere riconosciuto dagli scanner di selezione nell’impianto di riciclaggio e viene, per questo motivo, scartato e portato in discarica. “È impensabile che si permetta l’utilizzo di materie difficili da riciclare. La plastica nera è una di queste; l’unica ragione del suo impiego è la sua capacità di rendere il cibo migliore”, ha rivelato a BBC News Cllr Peter Fleming della LGA. I cestini per raccogliere la frutta e la verdura, inoltre, sembrano essere costituiti in buona parte dal polistirene, noto per essere un materiale di difficile riutilizzo. Al momento, nel Regno Unito, non è presente alcun sistema fiscale che spinga i progettisti a realizzare prodotti utili al riciclaggio. Simon Ellin, presidente dell’Associazione, ha dichiarato che le industrie dei materiali plastici hanno una grande responsabilità in questo campo ed è giunto il momento che se ne occupino.


fonte: https://tg24.sky.it

I rifiuti raccolti vengono riciclati davvero?

Il Regno Unito si è posto la domanda, scoprendo però troppe incertezze legate all’export della spazzatura: la sostenibilità passa per la prossimità, con impianti a servizio del territorio




















Secondo le stime del Governo, nel Regno Unito vengono prodotti ogni anno 11 milioni di tonnellate di imballaggi, che vanno poi a comporre circa il 17% di tutti i rifiuti domestici e commerciali. Un ammontare significativo, che il Paese tenta di gestire dal 1997 attraverso un sistema di mercato (adottato a seguito della relativa direttiva Ue su imballaggi e rifiuti da imballaggio) che sembra funzionare molto bene: secondo i dati ufficiali forniti dal department for Environment food and rural affairs, nel 2017 risulta infatti riciclato il 64% degli imballaggi, a fronte di un obiettivo fissato al 55%.
Il problema è che, secondo un’indagine condotta dal National audit office (Nao) direttamente su richiesta dell’Environmental audit committee, il rischio che si tratti di dati gonfiati è molto concreto.
Ad oggi le principali aziende d’Oltremanica che gestiscono gli imballaggi – ovvero quelle con un giro d’affari da almeno 50 tonnellate di imballaggi e un fatturato da oltre 2 milioni di sterline – sono obbligate a dimostrare che almeno un certo ammontare dei loro prodotti viene riciclato; per dimostrare di aver assolto l’obbligo bastano i documenti forniti a queste aziende dagli impianti che gestiscono il rifiuto nel Regno Unito, o che lo esportano all’estero per essere riciclato.
Il problema è che la seconda opzione – quella dell’export – è sempre più praticata. La quota di rifiuti da imballaggio esportati è sestuplicata a partire dal 2002, mentre la quantità di materiali avviati a riciclo entro i patri confini è rimasta la stessa. Così, nel 2017 ben la metà dei rifiuti da imballaggio ufficialmente riciclati è stata in realtà spedita all’estero, senza fondate certezze sul destino dei materiali.
«Sembra che il sistema sembra essersi evoluto in un modo comodo per il governo di raggiungere gli obiettivi fissati, senza affrontare i sottostanti problemi di riciclo sottostanti – si legge nelle conclusioni dell’indagine Nao – Il governo non ha prove del fatto che il sistema abbia incoraggiato le aziende a ridurre al minimo gli imballaggi, o a renderli facili da riciclare. E si basa sull’esportazione dei rifiuti in altre parti del mondo senza controlli adeguati per garantire che questi materiali siano effettivamente riciclati, e senza considerare se i Paesi di destinazione continueranno ad accettarli a lungo termine».
Un interrogativo, quest’ultimo, che si è manifestato con improvvisa violenza nell’ultimo anno, quando la Cina ha bandito l’import di molte tipologie di rifiuti, mettendo in crisi non solo il Regno Unito ma anche molti altri Paesi europei – Italia compresaoltre agli Usa. L’approccio utilizzato per tamponare l’emergenza non fa però che riproporre il medesimo modello di business, ovvero spostando altrove i flussi di rifiuti finora inviati in Cina: è la stessa Nao a notare che i dati del primo trimestre 2018 suggeriscono come la lacuna cinese sia stata colmata incrementando l’export di rifiuti in altri Paesi, ma sottolinea che non è chiaro se tale modus operandi possa essere mantenuto nel tempo. Alcuni Stati di destinazione – come Vietnam, Thailandia ma anche Polonia – stanno stringendo i cordoni, dopo la Cina.

A medio e lungo termine non si intravede altra soluzione che seguire la gerarchia per una corretta gestione del ciclo integrato dei rifiuti, che inizia con la prevenzione e prosegue con il riuso, il riciclo, il recupero di energia e la discarica. Per poter davvero governare i rifiuti prodotti (e avere un’idea precisa della loro destinazione finale) è però indispensabile seguire il principio di prossimità, oltre a quello di sostenibilità: ovvero aziende e consumatori che producono rifiuti in un territorio non possono al contempo pensare di cedere alla sindrome Nimby, e rifiutare sdegnati gli impianti industriali necessari a gestire i rifiuti all’interno (o il più vicino possibile) del territorio dove questi vengono prodotti, garantendo l’autosufficienza quantomeno a livello nazionale. Al contempo, dopo aver riciclato i rifiuti le materie prime seconde devono poter tornare a essere ri-acquistate sul mercato, e questo a sua volta richiede sensibilità da parte dei consumatori ed incentivi normativi ed economici da parte delle istituzioni pubbliche. Si tratta di un lavoro assai più complesso e faticoso rispetto a intraprendere la via dell’export dei rifiuti, ma è anche l’unico che al momento appaia sostenibile.

fonte: www.greenreport.it

Quanto è circolare l’economia? In quella italiana l’uso di materiali riciclati è fermo al 18,5% sul totale

Come migliorare? Fluttero: «Iva agevolata, diffusione del Gpp e corretta informazione dei consumatori»





















L’Ispra informa che nel 2016 per i rifiuti urbani in Italia «la percentuale di preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio si attesta al 47,7%», mentre per i rifiuti speciali il recupero di materia è al 65%. Eppure per Eurostat (2014) il “circular material use rate” è ancora al 18,5%. Cosa significa, e come si spiega quest’ampio divario?
«Si tratta di indicatori diversi, anche se in qualche modo collegati. Il tasso di circolarità nell’uso di materia elaborato da Eurostat misura la quota di materiale recuperato e reimmesso nell’economia ed è parametrato all’uso complessivo della materia. Esso, quindi, misura l’impiego di materiale riciclato, che va a sostituire la materia prima vergine o naturale, rispetto a tutta la materia impiegata. In alcuni settori, ad esempio quelli della produzione di imballaggi in carta, vetro o alluminio, tale tasso è molto alto, e può raggiungere picchi dell’80/90%, ma evidentemente ci sono altri settori in cui è molto basso o quasi nullo.
Diverso è invece il tasso di riciclaggio o di preparazione per il riutilizzo, calcolati sul peso complessivo dei rifiuti raccolti. Essi misurano le quote di rifiuti avviati a riciclo o preparazione per il riutilizzo; la nuova metodologia europea appena adottata precisa che occorre considerare i rifiuti che entrano nell’impianto di riciclo o che hanno subito una prima selezione».
Secondo l’ultimo sondaggio condotto da Lorien Consulting per Legambiente e Conou il 58% degli italiani si ritiene ben informato su “la raccolta differenziata e il riciclo dei rifiuti”, eppure solo per il 46% dello stesso campione intervistato il rifiuto differenziato dovrebbe essere avviato a riciclo. Come pensa sia nata questa percezione distorta, e quali i possibili interventi per sanarla?
«Considero più preoccupante che il 42% degli intervistati non si ritenga ben informato sulla raccolta differenziata perché questa e la parte del ciclo di gestione dei rifiuti che riguarda direttamente i cittadini. La percezione legata all’avvio al riciclo è importante ma l’operatività riguarda maggiormente istituzioni pubbliche e settore della imprese private».
Su quali strumenti economici e fiscali crede sarebbe più opportuno fare leva per favorire in Italia l’effettiva applicazione della gerarchia per un corretto ciclo integrato dei rifiuti, e dunque anche una più efficiente economia circolare?
«In primis, IVA agevolata per prodotti che contengono una quota minima di riciclato, in modo da rendere competitivo il costo tra questi ultimi rispetto ai prodotti realizzati esclusivamente con materiale vergine; poi contributi ambientali differenziati per i prodotti più facilmente riciclabili, o che contengono materiale riciclato, o che sono riparabili, o facilmente disassemblabili in parti costituite da uno o più materiali, in modo da facilitare il riciclo. Occorrerebbe comunque eliminare i sussidi ambientalmente dannosi, che ammontano, secondo le stime contenute nel catalogo del Ministero dell’ambiente, a 16,2 miliardi di euro (a fronte dei 15,7 miliardi di euro dei sussidi ambientalmente favorevoli). Un ruolo importante lo gioca anche la diffusione del GPP e l’applicazione dei CAM, ovvero dei criteri minimi ambientali negli appalti e negli acquisti pubblici. Più in generale, occorre favorire una corretta informazione di utenti e consumatori anche attraverso la certificazione ambientale di prodotto, che ha lo scopo di verificare specifiche caratteristiche di sostenibilità, ad es. la durabilità oppure il contenuto di materiale riciclato».
E per quanto riguarda invece gli strumenti normativi?

«La definizione di criteri End of Waste per i principali flussi di rifiuti recuperabili; l’introduzione di percentuali minime obbligatorie di materiale riciclato, ove tecnicamente fattibile, nei beni o manufatti acquistati dalle stazioni appaltanti. In generale, la semplificazione amministrativa degli adempimenti a carico delle imprese “circolari”, soprattutto quelle piccole e medie».

fonte: www.greenreport.it

In autunno parte il 'Contatore Ambientale' di Milano che misura quanto fa bene la raccolta differenziata

Realizzato grazie alla collaborazione tra Comune, Conai, Amsa, A2a Ambiente e Amat permetterà di conoscere precisamente quanta acqua o emissioni di Co2 vengono risparmiate, quanto compost viene creato, quanto vetro, alluminio, acciaio, carta, cartone, legno e plastica vengono riciclati



















Quanto vale la raccolta differenziata a Milano? Dal prossimo autunno sul sito del Comune sarà possibile conoscere esattamente quali e quanti vantaggi genera il corretto trattamento dei rifiuti grazie al Contatore Ambientale, frutto della collaborazione tra il Comune di Milano, Conai, Amsa, A2A Ambiente e Amat, che oggi in Sala Arazzi a Palazzo Marino hanno sottoscritto il protocollo d’intesa per la sua realizzazione.

Uno strumento che permetterà di valutare i benefici ambientali derivanti da un efficiente sistema integrato di gestione dei rifiuti urbani, qual è quello milanese, e di conoscere precisamente quanta acqua o emissioni di Co2 vengono risparmiate, quanto compost viene creato dal materiale organico, quanto vetro, alluminio, acciaio, carta, cartone, legno e plastica vengono riciclati riutilizzati e dunque quante e quali materie prime vergini vengono risparmiate.

I dati, disponibili sul portale Open Data, saranno facilmente consultabili sul sito istituzionale dell’Amministrazione.

“L’attivazione del Contatore è un passaggio importante per le politiche ambientali del Comune di Milano – commenta l’assessore alla Mobilità e Ambiente Marco Granelli -, perché restituisce ai cittadini la piena consapevolezza di quanto una intelligente gestione dei nostri rifiuti sia utile a tutti, in termini non solo ecologici ma anche economici. Rendersi conto dei benefici e comunicarli in modo efficace è fondamentale, poiché i primi artefici del successo della differenziata sono proprio i cittadini che ogni giorno con le buone pratiche separano in maniera sempre più precisa e responsabile gli scarti prodotti”.

“Consumo responsabile e produzione responsabile rappresentano uno dei 17 Goal dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile – aggiunge Gloria Zavatta, presidente di Amat -. Sensibilizzare i cittadini e le imprese è molto importante e il Contatore della Raccolta Differenziata della città risponde a questo bisogno. Permetterà inoltre di calcolare in maniera rigorosa tutte le fasi di gestione dei rifiuti e i quantitativi di nuovi prodotti che (simbolicamente) si possono ottenere con i materiali avviati a riciclo”.

“Conai è felice di mettere a disposizione la propria esperienza per diffondere la cultura del riciclo e per favorire la transizione al nuovo modello di produzione e consumo proprio dell’economia circolare. Il contatore ambientale nasce per quantificare i benefici ambientali ed economici generati dalla corretta gestione dei rifiuti urbani”, ha dichiarato Giorgio Quagliuolo, Presidente di Conai, Consorzio Nazionale Imballaggi. “È fondamentale che i cittadini sappiano che quanto viene raccolto separatamente può avere una nuova vita: attraverso questo strumento racconteremo loro i risultati in termini di discariche evitate, di risparmio di energia e materie vergini, di nuovi prodotti creati con le materie prime seconde ottenute grazie anche al loro contributo”.

LA DIFFERENZIATA A MILANO

Oggi la percentuale di raccolta è arrivata al 55,6%, un risultato che pone Milano al vertice tra le metropoli europee insieme a Vienna e che fa ben sperare rispetto all’obiettivo del fissato del 60 per cento fissato dall’Amministrazione per il 2020.

Merito del modello portato avanti dal Gruppo A2A, che si basa sulla gestione integrata dell’intera catena dei rifiuti, dalla raccolta al trattamento, dal recupero di materia alla produzione di energia. Il cento per cento dei rifiuti urbani milanesi è avviato a riciclo o a recupero, nessun rifiuto primario viene destinato alla discarica.

Tra giugno e novembre di quest’anno, sono stati potenziati inoltre i servizi di raccolta differenziata nella zona ovest di Milano, estendendo a tutte le utenze domestiche il servizio porta a porta del cartone e riducendo la frequenza di ritiro del rifiuto indifferenziato. Il sistema, attivo nel 50% delle utenze milanesi, raggiungerà tutta la città entro il 2019.

“Le innovazioni al sistema di raccolta differenziata stanno dando risultati positivi - dichiara Mauro De Cillis, Direttore Operativo di Amsa – Nella zona nord ovest di Milano abbiamo registrato un deciso calo dei rifiuti indifferenziati (-6,7%) e un significativo aumento delle frazioni riciclabili come carta e cartone (+9,7%), plastica e metalli (+8,7%) e organico (+8,7%). Un importante successo ottenuto grazie all’impegno e alla sensibilità ambientale dei cittadini di Milano”.

La raccolta differenziata inoltre è attiva in 67 mercati comunali, l’estensione del servizio al 100 per cento dei mercati è prevista entro il 2019

fonte: www.ecodallecitta.it