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E’ Chioggia il vincitore 2021 di ‘Un sacco in Comune, a tutta plastica!’

Vittoria di Chioggia nel progetto “Un sacco in Comune, a tutta plastica!”, la competizione promossa da Corepla e patrocinata dal Ministero della Transizione Ecologica che dal 28 giugno al 25 luglio ha coinvolto i Comuni di Chioggia, Fiumicino, Crotone, Termini Imerese, Marsala e Licata per migliorare la qualità della raccolta degli imballaggi in plastica.




E’ il Comune di Chioggia il vincitore 2021 di “Un sacco in Comune, a tutta plastica!”, la competizione promossa da Corepla e patrocinata dal Ministero della Transizione Ecologica che dal 28 giugno al 25 luglio ha coinvolto i Comuni di Chioggia, Fiumicino, Crotone, Termini Imerese, Marsala e Licata per migliorare la qualità della raccolta degli imballaggi in plastica.

Il Comune, che vantava già di un trend molto positivo, ha fatto registrare nelle 4 settimane dedicate alla campagna, un miglioramento di oltre il 3% di raccolta degli imballaggi in plastica raggiungendo così la vetta più alta del podio.

“Un esempio importante, quello di Chioggia, che dimostra come si possa sempre fare di più e meglio – ha dichiarato il presidente di Corepla, Giorgio Quagliuolo -. I complimenti vanno ai cittadini e agli operatori addetti alla raccolta, all’Amministrazione Comunale e ai gestori del servizio, per l’ottimo ed efficace lavoro di squadra che ha permesso di raggiungere un miglioramento qualitativo della plastica raccolta, dimostrando un notevole livello di sensibilità rispetto alle tematiche ambientali. È fondamentale – ha concluso Quagliuolo – che i cittadini tengano sempre presente che comportamenti virtuosi e una costante attenzione nel fare la raccolta differenziata massimizzano il riciclo e contribuiscono a dare una seconda vita agli imballaggi in plastica”.

E così, grazie all’impegno dei cittadini, Chioggia si è aggiudicata un arredo in plastica riciclata proveniente dalla raccolta differenziata.

L’iniziativa affianca la campagna “Riportiamoli a bordo” per la sensibilizzazione contro la dispersione dei rifiuti nell’ambiente promossa sempre dal Ministero della Transizione Ecologica, in collaborazione con Corepla e Castalia. Il progetto, avviato a dicembre 2019, prevede la raccolta dei rifiuti galleggianti lungo gli 800 km di coste italiane attraverso la flotta antinquinamento del Ministero.

fonte: www.ecodallecitta.it


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Potenziare l'economia circolare nel settore degli imballaggi in plastica

La ripresa economica post Covid 19 dovrà andare nella direzione di disaccoppiare l'uso degli imballaggi di plastica dal consumo di materie prime a base fossile, facendo anche in modo che la plastica non venga gettata negli oceani e sul suolo e che con una sua minore produzione si possa immettere meno gas serra in atmosfera contribuendo a raggiungere gli obiettivi climatici definiti dall’accordo di Parigi





Nella prima fase della Pandemia, ma non solo, abbiamo assistito ad un aumento dei rifiuti da imballaggio anche quelli in plastica, l'usa e getta veniva preferito in quanto ritenuto più sicuro per motivi igienico sanitari.

Per fortuna, alcuni autorevoli professionisti della salute pubblica (100 scienziati provenienti da 18 paesi) hanno affermato, alla fine di giugno del 2020, che era possibile continuare a usare in sicurezza imballaggi riutilizzabili, determinando una sostanziale attenuazione delle preoccupazioni in merito alla sicurezza degli imballaggi riutilizzabili.

Standard elevati e protocolli d'igiene e sicurezza sono una parte importante di qualsiasi sistema di imballaggio, che sia monouso o riutilizzabile. La sicurezza e l'igiene non sono determinate dal fatto che un bene sia monouso o riutilizzabile, ma da come gli imballaggi e i contenitori sono gestiti e manipolati.

La maggior parte dei sistemi di riutilizzo, alcuni attivi da decenni, hanno resistito agli impatti della pandemia senza bisogno di fare alcun cambiamento nei loro processi di pulizia. I modelli di business del riuso che offrono, in molte parti del mondo, servizi di consegna a domicilio, ritiro e/o restituzione hanno continuato a funzionare senza problemi, e alcuni hanno persino prosperato durante la pandemia, come è accaduto per le aziende che offrono contenitori riutilizzabili ai clienti (Loop e Vessel, ad esempio o Algramo, un fornitore di sistemi di ricarica di imballaggi riutilizzabili a Santiago del Cile, che ha prosperato durante l'isolamento (lock down), grazie al suo sistema di distribuzione su triciclo senza contatti con i clienti).

Le varie opportunità che si possono realizzare in quest’ambito sono ancora in gran parte non sfruttate, per questo si prevede che il mercato degli imballaggi riutilizzabili crescerà generando molti profitti (si stima 145 miliardi di dollari nel 2026). Investire in modelli economici in grado di riutilizzare la plastica riduce la necessità di imballaggi monouso (usa e getta) e produce benefici economici ma anche ambientali. I modelli economici improntati al riuso degli imballaggi in plastica possono giocare un ruolo fondamentale nel
permettere ai materiali plastici di alta qualità di essere mantenuti in circolazione all'interno dell'economia con un risparmio di materia prima e riduzione della produzione di rifiuti plastici, affrontare l'inquinamento da plastica che colpisce il suolo, i fiumi, i mari e gli oceani con benefici ai consumatori e all’economia, ridurre le emissioni di gas serra prodotte dal comparto della produzione della plastica. Un rapporto di Material Economics ha stimato che i modelli di business che aumentano il riutilizzo degli imballaggi di plastica potrebbero ridurre le emissioni di circa 3 milioni di tonnellate all'anno entro il 2050. Se anche solo i flaconi, per i prodotti destinati alla cura della persona e della casa, fossero riutilizzabili, questi potrebbero determinare, insieme a modelli di consegna di tipo innovativo, una riduzione dell'80-85% delle emissioni di gas serra rispetto ai tradizionali contenitori monouso che utilizziamo, per lo più, oggi.

Per potenziare l'economia circolare in questo settore industriale abbiamo bisogno di
impianti di raccolta, selezione e riciclaggio in grado di aumentare la circolazione di materiali di alta qualità in plastica
creare un mercato secondario di questi materiali.

Per fare questo, sono necessari investimenti in infrastrutture e tecnologie in grado di migliorare radicalmente l'economia di questo comparto produttivo, aumentando la qualità e la diffusione del riciclaggio. Nel 2016, la quota globale di plastica non gestita correttamente era di circa il 41%, e stime prevedono che aumenterà al 56% nel 2040, contribuendo a triplicare il volume annuale di plastica nell'oceano. Questo accade in quanto una buona parte di questo materiale, a livello globale ad oggi, non viene ancora raccolta, mentre un’altra parte, seppure raccolta, finisce poi per essere gettata in modo inconsulto nell'ambiente.

Per contribuire ad aumentare i tassi di raccolta, saranno necessari investimenti in tutte quelle aree, in cui i rifiuti non vengono ancora gestiti in modo corretto e dove saranno necessari forti investimenti nella strutturazione del settore, che potrebbe aumentare il valore degli imballaggi di plastica post-utilizzo e ridurre la probabilità di perdite di materiale.

Per quanto riguarda i processi di selezione e riciclaggio, solo il 35-40% della plastica raccolta per il riciclaggio è attualmente utilizzata in un nuovo ciclo di produzione (a causa di perdite significative durante la lavorazione), bisogna quindi che vengano aumentati gli sforzi per accrescere i tassi di raccolta con azioni per migliorare il rendimento, la qualità e l'economia legata al riciclaggio. Ciò richiederà di indirizzare gli investimenti nei processi di selezione e riciclaggio, avvalendosi delle ultime innovazioni tecnologiche in grado di garantire maggiori controlli dei processi, marcatura chimica e automazione.

Tuttavia, la capacità di creare flussi post-utilizzo di elevata purezza e a prezzi competitivi dipenderà molto dal design degli imballaggi e dei materiali, che ha un impatto diretto e significativo sull'economia del riciclaggio. Senza una ri-progettazione di questi imballaggi, circa il 30% degli stessi non sarà mai riutilizzato o riciclato.

Gli investimenti negli impianti di riciclaggio possono anche offrire opportunità per combattere il cambiamento climatico oltre che creare nuovi posti di lavoro.

Uno studio di Material Economics ha mostrato che realizzare impianti di riciclaggio di alta qualità, in Europa, potrebbe fornire fino al 60-70% del materiale necessario per la produzione di plastica, avvicinandosi ai livelli di riciclaggio previsti oggi per l'alluminio. Con il riciclaggio si potrebbe ridurre di circa il 90% le emissioni di CO2 derivanti dalla nuova produzione di plastica, con un significativo impatto sulla lotta ai cambiamenti climatici.

Inoltre, secondo alcuni studi, la necessità di forza lavoro nel settore della lavorazione dei materiali riciclabili può generare circa 20 volte più posti di lavoro rispetto a quelli necessari nelle discariche, e i produttori di plastica che utilizzano materiali riciclati possono avere bisogno di circa 100 volte più posti di lavoro rispetto a quelli richiesti nelle discariche.

Purtroppo basarsi solo sulla gestione dei rifiuti e non sul riciclaggio non riuscirà a fermare l'inquinamento da plastica, perché non sarà né tecnicamente né finanziariamente fattibile. Per questo si rende necessaria un'economia circolare per la plastica, in modo che questa non diventi mai rifiuto in grado di creare inquinamento, adottando un approccio integrato che dispieghi soluzioni sia a monte che a valle per affrontare efficacemente l'inquinamento da plastica.

Questo include l'implementazione degli interventi di sistema sia da parte dell'industria che dei governo, tesi ad eliminare, ad esempio, gli imballaggi di plastica problematici e non necessari passare da modelli monouso a modelli di riutilizzo dei contenitori in plastica
sostituire la plastica con altri materiali, quando necessario.

Per catalizzare il cambiamento, in modo che venga adottato un approccio integrato, è necessaria una collaborazione tra diversi settori ma anche tra Stati e regioni che sia guidata da un senso condiviso della direzione da intraprendere. Un approccio di economia circolare globale di questo tipo avrebbe il potenziale per
ridurre il volume annuale di plastica che entra nei nostri oceani di oltre l'80%
generare un risparmio di 200 miliardi di dollari all'anno
ridurre le emissioni di gas serra del 25%
creare 700.000 posti di lavoro netti aggiuntivi entro il 2040.

Al momento l'iniziativa New Plastics Economy sta lavorando in questa direzione, negli ultimi quattro anni, ha cercato di radunare imprese e governi affinché acquisissero una visione comune di un'economia circolare per la plastica. Questo lavoro ha fatto si che più di 850 organizzazioni, che fanno parte della catena del valore della plastica, sia nel settore privato che pubblico, si unissero nel New Plastics Economy Global Commitment (Accordo globale per una economia delle nuove plastiche) e nella rete Plastics Pact (Patto per le plastiche).

Queste iniziative guidano l'azione collettiva contro la plastica di cui non abbiamo bisogno, in modo che tutta la plastica di cui abbiamo bisogno sia riutilizzabile, riciclabile o compostabile.

L'obiettivo è far circolare tutta la plastica che usiamo, mantenendola nell'economia e fuori dall'ambiente.

Per approfondire: The circular economy: a transformative Covid-19 recovery strategy

fonte: www.arpat.toscana.it

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Come funziona RecyClass?

Paolo Glerean, illustra in dettaglio il sistema di valutazione della riciclabilità degli imballaggi in plastica introdotto dall'associazione europea dei riciclatori Plastics Recyclers Europe (PRE).













Nove anni orsono, l' associazione europea dei riciclatori di plastica PRE(Plastics Recyclers Europe) ha iniziato a lavorare a RecyClass, un sistema di valutazione della riciclabilità degli imballaggi in plastica che, sulla falsariga delle classi energetiche per gli elettrodomestici, attribuisce ad un imballaggio una classe che va dalla A alla F a seconda del grado di riciclabilità. Uno strumento di straordinaria efficacia che non lascia spazio al greenwashing e rende più circolare l’utilizzo delle plastiche.
Il responsabile di RecyClass, Paolo Glerean (nella foto), ha seguito il progetto fin dagli esordi e crede molto nella possibilità che questo strumento contribuisca ad armonizzare le linee guida finalizzate al riciclo, anche in considerazione del fatto che il “problema plastica” – ma sarebbe meglio dire “problema monouso” – è emerso nella sua dimensione attuale soltanto da pochi anni.

Può descriverci in cosa consiste a grandi linee RecyClass: da chi è stato ideato, lanciato e con quale scopo?

L’idea di RecyClass è nata nel 2010 da un dialogo-confronto tra me e Roberto Alibardi, fondatore di Aliplast. Ci chiedevamo, allora, come poter classificare gli imballaggi in plastica in base a quanto riciclabili fossero. Da quel dialogo è scaturito un embrione di progetto che ho presentato ad un incontro di Plastics Recyclers Europe, associazione nella quale Aliplast era appena entrata a far parte. Con mia sorpresa, il neo-presidente Ton Emans ha subito colto l’importanza dell’idea e mi ha affiancato seduta stante alcuni riciclatori molto esperti, mettendomi a capo di una task-force per realizzare questo progetto.
Nel 2014 è stato lanciato da Plastics Recyclers Europe il tool online www.recyclass.eu che consente – gratuitamente – di valutare la classe di riciclabilità di un imballaggio in plastica, dalla A (classe migliore) alla F (classe peggiore).
L’utente riceve anche l’informazione di quali parti/componenti dell’imballaggio ne hanno causato un’eventuale declassamento, dando modo all’utente di capire su quali parti concentrarsi per migliorare.



Lo scopo iniziale era – ed in parte lo è ancora – supportare con uno strumento semplice le aziende medio-piccole, che rappresentano la spina dorsale dell’economia europea, nel processo di miglioramento della riciclabilità dei loro imballaggi. Solitamente queste aziende non hanno delle risorse interne specializzate in imballaggi e sono lasciate a loro stesse in queste scelte. Con una discreta sorpresa, fin da subito dopo il lancio abbiamo capito che il maggiore interesse verso lo strumento veniva manifestato da grossi brand i quali, usandolo, capivano quanto le loro nozioni sul riciclo delle materie plastiche non fossero propriamente connesse alla realtà.
Dopo qualche anno in cui il dialogo tra il team di RecyClass ed i grossi brand/converters si era fatto particolarmente intenso, abbiamo deciso di professionalizzare questo servizio, creando una piattaforma (RecyClass Platform), assumendo delle risorse altamente specializzate e preparate ed impiegandole a tempo pieno su due aspetti-obiettivi fondamentali: uniformare le linee-guida sugli imballaggi in plastica in Europa e dare a queste una solida base scientifica, eliminando quindi via via i pareri soggettivi sul tema per sostituirli con dai basati su test scientifici che replicano in scala laboratorio quanto avviene in un processo di riciclo e di ri-trasformazione del riciclato in un nuovo prodotto. Questa evoluzione ha visto e vede compartecipare molti importanti brands, provenienti da diverse aree del mercato, ma anche produttori di tecnologia e di materie prime, oltre a grandi trasformatori. Lo strumento online conta più di tremila utenti attivi.

Quale è il valore aggiunto, il contributo che Recyclass può dare in un momento in cui la plastica è nell’occhio del ciclone per l’inquinamento ambientale pervasivo e i tassi di riciclo insufficienti?


Sono fermamente convinto che la battaglia sulla sostenibilità della plastica, degli imballaggi in particolare, si giochi sugli scaffali. Se gli imballaggi sono progettati in modo da rappresentare a fine vita una vera risorsa in termini di valore, allora ci sarà qualcuno che se ne prenderà cura, avviandoli ad una filiera del riciclo che verrà remunerata da quanto valore potrà generare. Viceversa, se questo non avviene e quindi l’imballaggio esausto rappresenta solo un costo, allora nonostante tutti i sistemi più o meno cogenti o incentivanti, il materiale plastico in esso contenuto sarà sempre considerato un peso per l’economia.
In questo senso RecyClass consente di guidare i produttori di imballaggi verso imballaggi di maggiore valore a fine vita. Da un certo punto di vista, questo è anche il modo per fare della lobby costruttiva nel senso di promuovere anche standardizzazioni nella raccolta-selezione sul territorio europeo. 

Gli scaffali della Grande Distribuzione Europea sono molto simili tra loro nei diversi Paesi EU, ci troviamo spesso gli stessi prodotti. Perché i sistemi di raccolta e la selezione non debbono essere il più possibile uniformati?

Il fatto che la plastica sia sotto attacco, soprattutto per l’inquinamento marino, non cambia il fatto che, spesso, rappresenti la soluzione con l’uso più efficiente delle risorse, basti pensare al rapporto tra peso del contenitore e peso del contenuto. Questo non deve essere un alibi per disfarsene in modo dannoso per l’ambiente. RecyClass da questo punto di vista mira a supportare in modo concreto le aziende che vogliano veramente trasformare i propri imballaggi plastici in imballaggi circolari. Questo significa elevare la qualità della materia plastica – rifiuto in modo da produrre materie prime seconde di qualità più alta a costi minori, rendendo sempre più la materia plastica riciclata succedanea della materia plastica vergine.

Quali sono i vantaggi complessivi per industria che aderisce e quali sono gli effetti che possono esserci a livello di comunicazione marketing e anche rispetto ad un potenziale greenwashing che le aziende possono esercitare sul packaging?


Come dicevo prima, uno degli scopi della piattaforma RecyClass è quello di uniformare le linee-guida sul design-for-recycling in Europa e questo sottintende anche una uniformazione relativa alle definizioni. All’interno della piattaforma abbiamo creato anche una task-force che sta lavorando sulla creazione di linee-guida per i cd. “recyclability claims”, ovvero un insieme di istruzioni sui comportamenti corretti da utilizzare in sede di dichiarazioni relative alla riciclabilità degli imballaggi in plastica. Se consideriamo che nella piattaforma ci sono i principali brands mondiali di FMCG, è facile immaginare come questo documento possa diventare una specie di disciplinare condiviso.
Al di là di questo, la valutazione relativa alla classe di riciclabilità può essere apposta all’imballaggio solo previo certificazione, ovvero la analisi condotta on-line dall’utente deve essere validata da un auditor autorizzato che ne verifichi la veridicità ed attinenza al caso specifico. Solo dopo questo passaggio al richiedente è concesso l’uso del logo con la classe ottenuta.

In cosa si differenzia da progetti di etichettatura che hanno interessato gli imballaggi di plastica in diversi paesi allo scopo di informare sulle probabilità che un determinato imballaggio aveva di venire realmente riciclato?

Spesso i sistemi di etichettatura sugli imballaggi non si riferiscono alla riciclabilità, ma al fatto che una determinata tipologia di imballaggio vada conferito all’interno di una determinata raccolta. Si ragiona in questo caso sulla categoria cui l’imballaggio appartiene (ad esempio tratto tutti i flaconi in polietilene ad alta densità HDPE allo stesso modo, perché i flaconi di HDPE in una determinata area sono raccolti e, sperabilmente, “widely recycled”. Un esempio è lo schema OPRL –On Pack Recycling Label in Inghilterra .


Ciò che invece RecyClass fa è valutare il singolo imballaggio e non la sua appartenenza ad una categoria che, normalmente, viene raccolta e avviata a riciclo. Solo così si può aumentare la qualità dei rifiuti da riciclare, dare una definizione generalistica “widely recycled” ad una categoria non permette di avviare quella sana competizione tra produttori che consente il miglioramento continuo della riciclabilità. Sono “widely recycled”, allora perché devo migliorare? Da notare che un imballaggio – nell’esempio un flacone HDPE – che abbia un design pessimo che lo rende irriciclabile, spesso sarà etichettato come “widely recycled” perché appartiene ad una categoria che viene raccolta e, spesso riciclata.

Può indicarci, in poche parole, come sia possibile una valutazione del grado di riciclabilità di un imballaggio accedendo alla piattaforma dello schema e di quali dati si debba preventivamente disporre?

E’ molto semplice: si accede al tool online (www.recyclass.eu) al quale ci si deve registrare con email e password. Lo strumento guida l’utente con delle domande a risposta multipla, dietro le quali si “nascondono” le linee-guida sul design-for-recycling che sono il cuore di RecyClass.
Occorre avere di fronte a sé l’imballaggio da valutare, completo delle informazioni relative alla sua composizione. Solo nella parte finale verrà chiesto di effettuare dei test (10) di svuotamento dell’imballaggio per misurare quanto residuo di contenuto resta alla fine dell’operazione, fattore che compartecipa alla valutazione sulla riciclabilità. Questa viene definita auto-analisi, intendendo che ogni utente può farla da sé. Quando invece l’utente intende utilizzare il logo RecyClass sull’imballaggio valutato e con la classe ottenuta, deve fare verificare e certificare la propria auto-analisi da un auditor autorizzato RecyClass. Al termine della certificazione vengono rilasciati logo e certificato da poter apporre sull’imballaggio. Il processo di certificazione viene condotto sulla base di una metodologia che, come per tutti i documenti utilizzati nella Piattaforma, è di pubblico dominio e visionabile dal sito di RecyClass.

Quali sono le variabili che entrano in gioco in fase di progettazione di un imballaggio? Quali possono rendere più laborioso e costoso il processo di riciclaggio e influire sul “punteggio” ovvero la classe che RecyClass assegna?

Ci sono imballaggi per i quali non esiste una filiera di raccolta-selezione-riciclo e questi finiscono direttamente in classe F, di solito dopo le prime domande poste dal tool. Per gli altri imballaggi, che rientrano invece nelle filiere, le domande vanno a valutare i singoli componenti o combinazioni, variando a seconda della tipologia dell’imballaggio valutato. Evidentemente le domande su una bottiglia in HDPE saranno diverse da quelle su un film flessibile, perché diverse sono le linee-guida sottostanti. L’uso dell’etichetta sbagliata (ad esempio in PVC su una bottiglia in PET) causa pesanti declassamenti, mentre un’etichetta non ottimale ma tollerata (come quelle di carta) causa la perdita di un solo livello nella scala di valutazione.


Per ogni componente e sue combinazioni ci sono delle scelte preferite in quanto non impattano sui processi di selezione-riciclo (verde nelle linee-guida), delle scelte tollerate in quanto hanno un impatto limitato e gestibile (arancio nelle linee-guida) o non tollerate affatto in quanto mettono a rischio la riciclabilità dell’imballaggio (rosso). L’elenco di queste componenti è lungo e varia a seconda della categoria di imballaggio, può andare dal materiale di cui è fatto il corpo dell’imballaggio, fino ai collanti ed ai materiali usati per le etichette, ai materiali con cui sono fatti i tappi/chiusure o i film di sigillatura, la quantità e qualità di inchiostri usati per le stampe, gli eventuali materiali utilizzati per dare maggiore barriera alla luce o ai gas e così via. Le linee-guida sono documenti tecnici, di difficile lettura per chi non è del settore. Il tool online nasce per rappresentare un’interfaccia semplice a favore dell’utente non tecnico.

Come hanno rilevato studi e sondaggi tra cui il Progetto SCELTA, la preoccupazione sull’inquinamento da plastica ha indotto buona parte dell’opinione pubblica a credere che la biodegradabilità di un materiale/manufatto equivalga ad un ridotto impatto ambientale. Come stanno affrontando i brand con cui siete in contatto questo “sentiment plastic free”?

Per quello che è il mio punto di osservazione, vedo che i brand – ingiustamente posti in fondo alla classifica dei soggetti di cui fidarsi, da quanto risulta dall’indagine effettuata all’interno del Progetto Scelta – se opportunamente “illuminati” cercano di basare le proprie scelte su dati e quindi sull’uso razionale delle risorse. Da questo punto di vista, spesso la plastica “tradizionale” rappresenta la migliore soluzione tra quantità di risorse impiegata e risultato ottenuto, mentre la plastica biodegradabile non offre spesso una soluzione migliorativa rispetto alla plastica tradizionale. In ogni caso va raccolta separatamente per essere avviata in impianti dedicati per cui nulla di diverso rispetto alla plastica tradizionale. Al di là di operazioni di immagine, il vero punto non è quindi se usare plastica o meno ma come utilizzarla per conservarne i vantaggi, eliminandone l’aspetto negativo dato dal littering, che si lega spesso alla non riciclabilità e al valore negativo del rifiuto irriciclabile. Da questo punto di vista, credo la Piattaforma RecyClass sia la testimonianza vivente dell’impegno dei brands e dell’industria del packaging nel voler trovare delle soluzioni vere al problema. E’ un impegno recente ma particolarmente sostenuto. E’un peccato che il consumatore medio non possa vedere cosa succede “dietro le scene” ma sarebbe sorpreso di vedere quante risorse siano oggi dedicate a questo tema.

Come procede l’adesione dei marchi? Considerato che le linee guida per il riciclo esistono da tempo e che RecyClass è uno schema volontario quali misure legislative e fiscali sarebbero necessarie per rendere più circolare il fine vita degli imballaggi in plastica?

Come dicevo, l’adesione è molto alta e procede a ritmi importanti. E’ vero che alcune linee-guida esistono da parecchi anni, credo le prime siano degli anni ’90 da parte del EPR tedesco, ma la sensibilità vera sul tema è scoppiata un paio di anni fa. Da allora l’impegno di brands ed industria è diventato serrato e reale. Tutto ad un tratto si è scoperto che mancano degli standard condivisi (non abbiamo ancora una definizione condivisa di cosa significhi "riciclabile", relativamente a definizioni, metodologie di prova, dichiarazioni legate alla riciclabilità. Tutto questo, se deve essere fatto bene, richiede tempo e lavoro.
Dal punto di vista normativo vedo che la Commissione EU si sta muovendo in modo coerente e credo la Plastic Strategy pubblicata a gennaio 2018 sia un testo importante e con un approccio concreto al tema. Al suo interno si prevede la definizione degli Essential Design Requirements legati agli imballaggi, cioè verrà definito per legge le cose che non vanno fatte in sede di progettazione di un imballaggio. Questo sicuramente aiuterà ad evitare gli sprechi più macroscopici di risorse e supporterà un percorso di maggiore standardizzazione. Sicuramente la previsione di quantità obbligatorie di materiale riciclato nei prodotti/imballaggi sarà un fattore determinante per trainare la circolarità delle plastiche.
Dal punto di vista fiscale, degli sgravi (IVA agevolata, crediti di imposta per gli acquirenti, etc.) legati all’acquisto di materiale riciclato potranno aiutarne la diffusione sui diversi mercati. Da non dimenticare una leva quasi-fiscale ovvero il contributo ambientale per i beni inseriti in contesti di responsabilità estesa del produttore. La sua modularità legata alla riciclabilità del singolo imballaggio sicuramente sarà una leva per incentivare le imprese ad investire sulla riciclabilità, fatto che si tradurrà anche in una maggiore efficienza dei sistemi EPR stessi che potranno vedere migliorato il rapporto costi/ricavi da questa evoluzione. Anche uno sconto sul contributo legato alla quantità di materia plastica riciclata (lo stanno facendo in Francia) sicuramente si inserisce in questo tipo di strumenti a favore di una maggiore circolarità delle plastiche.

Silvia Ricci


fonte: www.polimerica.it

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Plastica, flacone vecchio 50 anni ripescato ad Ancona

Plastica, ripescato ad Ancona un flacone di detergente risalente a 50 anni fa: il prodotto è infatti uscito dal commercio negli anni '70.








Un flacone di plastica risalente agli anni ’70 è stato ripescato nel porto di Ancona, completamente intatto. È questa l’ultima dimostrazione dei danni ambientali che può causare questo materiale, noto per la sua estrema durata. La plastica più comune può richiedere infatti anche 500 anni per potersi degradare in Natura.

L’oggetto in questione veniva utilizzato per la distribuzione di un detergente domestico, famoso dagli anni ’50 agli anni ’70, quando poi la sua produzione è stata interrotta.

Plastica eterna nei mari

Il flacone in questione è stato rinvenuto nelle acque del porto di Ancona, così come già accennato. Il contenitore è stato intercettato da Pelikan, l’imbarcazione di Garbage Group pensata per la raccolta della plastica in mare, e ha destato subito allarme e curiosità.

Si tratta infatti di una confezione del Polivetro Sidol, un detergente a uso domestico uscito dal mercato negli anni ’70. Datare il flacone non è semplice, poiché questo prodotto è rimasto in commercio più di 20 anni, di conseguenza potrebbe essere addirittura più vecchio. In ogni caso, si presume siano almeno 50 anni che questo oggetto si trova abbandonato in mare.

Paolo Baldoni, CEO di Garbage Group, ha così commentato il rinvenimento:

La plastica è anche “capsula del tempo”, probabilmente la peggiore e più pericolosa di sempre proprio a causa della sua particolarissima durabilità. Ritrovare un flacone come questo può sembrare assurdo, ma la cosa ancora più grave è che un prodotto di questo genere può resistere tra i 400 e 500 anni in mare.

Baldoni, così come riferisce l’agenzia di stampa ANSA, ha anche rimarcato come l’inquinamento da plastica sia quasi sempre dovuto al comportamento non adeguato dei cittadini. Questi materiali possono essere infatti correttamente smaltiti e riciclati, purtroppo vengono invece spesso abbandonati nell’ambiente, per poi accumularsi nei mari e negli oceani. Una volta nelle acque, questo materiale minaccia la sopravvivenza di numerose specie marine, poiché scambiato per prede e ingerito per errore. Ancora, i frammenti di plastica – le cosiddette microplastiche – sono oggi il contaminante più diffuso, tanto da aver raggiunto le vette dell’Everest e le profondità della Fossa delle Marianne.


Fonte: ANSA

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Ora è ufficiale, l’Ue ha introdotto la sua plastic tax

Si tratta di un’aliquota uniforme di prelievo sul peso dei rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati pari a 0,8 euro per chilogrammo











Mentre per la plastic tax italiana sembra confermato un rinvio a luglio 2021, così come previsto dalla legge di Bilancio all’esame del Parlamento, per la tassa sugli imballaggi in plastica non riciclata introdotta a livello Ue è arrivata la pubblicazione in Gazzetta ufficiale.

Si tratta di un’iniziativa che rientra nell’ambito della caccia a nuove “risorse proprie” per sostenere il piano di ripresa post-Covid Next Generation Eu di cui l’Italia è prima beneficiaria: «In linea con la strategia europea per la plastica, il bilancio dell’Unione può contribuire a ridurre l’inquinamento da rifiuti di imballaggio di plastica. Una risorsa propria basata su contributi nazionali proporzionali alla quantità di rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati in ciascuno Stato membro fornirà un incentivo a ridurre il consumo di prodotti di plastica monouso, promuoverà il riciclaggio e darà impulso all’economia circolare. Allo stesso tempo gli Stati membri saranno liberi di adottare le misure più adeguate per conseguire tali obiettivi, conformemente al principio di sussidiarietà».

La plastic tax si applicherà a decorrere dal 1 gennaio 2021, ma entrerà in vigore il primo giorno del primo mese successivo al ricevimento da parte dell’Ue dell’ultima notifica da parte degli Stati membri dell’adozione della decisione.

Più nel dettaglio, la plastic tax europea prevede «un’aliquota uniforme di prelievo sul peso dei rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati generati in ciascuno Stato membro. L’aliquota uniforme di prelievo è pari a 0,80 euro per chilogrammo. Ad alcuni Stati membri si applica una riduzione forfettaria». In questo contesto «per “plastica” si intende un polimero ai sensi dell’articolo 3, punto 5), del regolamento (CE) n. 1907/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio», mentre «il peso dei rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati è calcolato come differenza tra il peso dei rifiuti di imballaggio di plastica prodotti in uno Stato membro in un determinato anno e il peso dei rifiuti di imballaggio di plastica riciclati nello stesso anno».

Nell’ambito della raccolta di nuove “risorse proprie” che possano permettere all’Ue di operare senza attingere ulteriormente a risorse dei vari bilanci nazionali, l’introduzione della plastic tax rappresenta solo un primo passo: nel primo semestre 2021 la Commissione presenterà proposte relative a un meccanismo di adeguamento del carbonio (carbon tax) alla frontiera.

fonte: www.greenreport.it


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Riciclo degli imballaggi in plastica, Corte dei Conti Ue: “Bruxelles inverta la rotta o non si raggiungeranno gli obiettivi fissati per il 2030”

Nell'analisi appena pubblicata, l'istituzione ricorda che gli imballaggi costituiscono oltre il 60% dei rifiuti di plastica prodotti nell’Unione europea. Il tasso di riciclaggio oggi è al 42%, ma i nuovi metodi di calcolo più rigidi lo faranno calare al 30% contro un obiettivo del 55% da raggiungere entro dieci anni. A complicare il quadro c'è il fatto che dal 2021 la maggior parte delle spedizioni fuori dai confini Ue sarà vietata









Secondo la Corte dei Conti europea, l’Ue non raggiungerà gli obiettivi che si è posta per il riciclaggio degli imballaggi di plastica. Arrivare al 55% entro il 2030 sarà impossibile, a meno che i Paesi non incrementino i tassi di recupero. Perché i nuovi criteri di calcolo e un irrigidimento sull’esportazione dei rifiuti di plastica – che dal 2021 sarà vietata con la sola eccezione della plastica riciclabile e non contaminata – ridurranno per forza di cose il tasso di riciclaggio comunicato nell’Unione europea. Oltre ad aumentare il rischio di spedizioni illegali e reati legati ai rifiuti. Secondo la Corte, è necessaria “un’azione concertata” affinché si ottengano i risultati sperati in un periodo di 5-10 anni. “L’Ue deve invertire l’attuale situazione, nella quale le quantità incenerite sono maggiori di quelle riciclate” ha dichiarato Samo Jereb, membro della Corte dei conti europea responsabile dell’analisi. E questo senza considerare l’impatto del Covid, che ha riportato in auge i prodotti usa e getta.

I REQUISITI E LA RESPONSABILITA’ DEL PRODUTTORE – La Commissione sta programmando di modificare i requisiti essenziali a cui devono attenersi i produttori e che riguardano la fabbricazione e la composizione, nonché le procedure per il recupero di materia ed energia. Secondo uno studio svolto a febbraio 2020 per conto della Commissione Ue, infatti, al momento questi requisiti sono ritenuti “inapplicabili nella pratica”. E questo, osserva la Corte, potrebbe condurre a una migliore progettazione degli imballaggi a fini di riciclabilità, oltre che incentivare il riutilizzo. Tramite nuove norme, poi, l’Unione vuole armonizzare e potenziare i regimi di responsabilità estesa del produttore (EPR), in modo che essi promuovano la riciclabilità (ad esempio, mediante sistemi di modulazione degli oneri o persino sistemi di cauzione-rimborso) e non solo imballaggi più leggeri, come al momento prevede la maggior parte di questi regimi. Alcuni dei quali riguardano solamente gli imballaggi domestici, mentre altri comprendono anche gli imballaggi commerciali e industriali. Di fatto, finora, “una notevole carenza di dati, le difficoltà metodologiche di distinguere gli impatti dei regimi di responsabilità estesa del produttore da altri fattori e le sensibili differenze tra i sistemi utilizzati hanno impedito all’Ocse di valutare adeguatamente l’impatto di questi regimi”.

IL CALCOLO DEI TASSI DI RICICLAGGIO – “La modifica della direttiva sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio – spiega, inoltre, la Corte dei conti europea – ha introdotto criteri più rigidi per il calcolo dei tassi di riciclaggio. Le attuali cifre sono lungi dall’essere precise o confrontabili tra uno Stato membro e l’altro”. Quale effetto avrà questo? Il fatto che nuovi metodi di calcolo dovrebbero fornire un quadro più attendibile dell’effettiva percentuale di imballaggi di plastica che vengono riciclati fa ritenere ai magistrati contabili “che ciò potrebbe comportare una notevole diminuzione dei tassi di riciclaggio comunicati, che passerebbero dall’attuale 42% ad appena il 30%”. Non solo.

LO STOP AI RIFIUTI ALL’ESTERO – A breve dovrà essere applicata anche la recente Convenzione di Basilea, che fissa condizioni più rigide per l’invio di rifiuti di plastica all’estero. “Gli Stati membri dell’Ue – sottolinea la Corte dei Conti – fanno elevato ricorso a paesi non-Ue per gestire i propri rifiuti di imballaggio di plastica e raggiungere i rispettivi obiettivi di riciclaggio”. Di fatto, quasi un terzo del tasso di riciclaggio di imballaggi di plastica comunicato nell’Ue è ottenuto spedendo questi ultimi in paesi non-UE per farli riciclare. Gli esportatori devono dimostrare che i rifiuti sono trattati in condizioni simili a quelle vigenti nell’Ue. Gli Stati membri hanno sfruttato proprio questa opzione per spedire cospicue quantità di rifiuti di plastica in paesi d’oltremare e, in particolare, in Asia. Quando la Cina ha bloccato le importazioni, i Paesi di destinazione sono cambiati – hanno registrato un boom Thailandia, Taiwan e Indonesia – ma la prassi è rimasta. I rifiuti di imballaggio rappresentano una quota crescente delle esportazioni di rifiuti di plastica al di fuori dell’Ue: il 75 % nel 2017 rispetto al 43% nel 2012. A partire dal gennaio 2021, però, la maggior parte delle spedizioni di rifiuti di plastica sarà proibita. La Corte avverte che ciò, assieme alla carente capacità di trattare questo tipo di rifiuti nell’Ue non solo “costituisce un ulteriore rischio per il raggiungimento dei nuovi obiettivi”, ma rischia di far aumentare “le spedizioni illegali e i reati legati ai rifiuti, contro i quali il quadro dell’Ue è troppo debole”.

fonte: www.ilfattoquotidiano.it


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Ecospedia, il nuovo servizio app per una spesa con meno plastica

Dal 1 ottobre è disponibile su Play Store e App Store un nuovo servizio rivolto a sette comuni del Consorzio dei Navigli per scegliere dove acquistare prodotti con meno imballaggi in plastica.




Da oggi una spesa con meno plastica e più consapevole è possibile grazie al servizio ECOSPEDIA, servizio offerto all’interno dell’App Junker e rivolto ai territori di Corbetta, Albairate, Cassinetta di Lugagnano, Cisliano, Cusago, Ozzero e Morimondo, su iniziativa del Consorzio dei Comuni dei Navigli e in collaborazione con Confcommercio Abbiategrasso.

ECOSPEDIA è stato realizzato da A.I.C.A. (Associazione Internazionale per la Comunicazione Ambientale) nell’ambito del progetto “Plastic Challenge” indetto dalla Fondazione Cariplo.

L’obiettivo di ECOSPEDIA – accessibile scaricando l’App Junker tramite Play Store o AppStore a partire dal 1 ottobre 2020 – è quello di indicare attraverso una facile mappa l’esercizio commerciale più vicino che offre imballaggi alternativi alla plastica. I punti commerciali saranno consultabili direttamente sulla mappa oppure filtrando per prodotto (acqua, uova, latticini, carne, pesce, detersivi, ecc.). Inoltre, i negozi aderenti alla rete di ECOSPEDIA saranno identificabili tramite l’adesivo apposto all’ingresso del locale.

L’App viene lanciata con tutti i servizi informativi inerenti alla raccolta differenziata previsti da Junker, mentre nell’area dedicata a ECOSPEDIA, accessibile tramite un pulsante ben visibile, si potranno trovare già i primi negozi aderenti alla rete: da questo momento qualunque negozio dei territori selezionati sia in grado di offrire prodotti a basso contenuto di plastica o totalmente plastic-free può aggiungersi alla rete. Sarà sufficiente contattare l’associazione A.I.C.A. o rivolgersi al Consorzio dei Comuni dei Navigli.

Infine, il servizio ECOSPEDIA offre anche una serie di buone pratiche plastic-free: grazie a uno studio di benchmark realizzato prima del lancio della campagna, nell’App è stato inserito un elenco di consigli utili su come ridurre la plastica nella propria spesa e quali nuovi servizi potrebbe ospitare il proprio territorio in futuro.


“Meno plastica, una spesa fantastica”

È questo il claim che accompagna il lancio di ECOSPEDIA. In Italia, infatti, su circa 2,2 milioni di tonnellate di imballaggi in plastica immessi al consumo nel 2017, circa il 43,5% è stato avviato a riciclo, mentre il 40% è stato oggetto di recupero energetico. Su un trend che vede un aumento costante dell’immissione al consumo, la quota parte di plastiche non riciclate è rimasta essenzialmente invariata negli ultimi 4 anni. Tale contesto ci dimostra che è necessario agire soprattutto in un’ottica di prevenzione e riduzione, puntando prioritariamente sul cambiamento delle abitudini di consumo e degli stili di vita, in ottica di economia circolare.

Il progetto ha come obiettivo quello di rendere protagonisti di questo paradigma gli esercizi commerciali di prossimità, perché siano essi stessi a farsi portatori del cambiamento.

«Il progetto Ecospedia prevede un cambio delle abitudini di acquisto dei cittadini e il coinvolgimento del territorio in un progetto innovativo che crea da un lato legami e gesti nuovi e che dall’altro coinvolge interlocutori differenti, da chi gestisce i rifiuti, ai commercianti, ai Comuni oltre al Consorzio dei Comuni dei Navigli e alla Confcommercio Abbiategrasso. – spiega Emanuela Rosio, Presidente di A.I.C.A. – L’obiettivo di A.I.C.A. è aiutare i cittadini a scegliere e renderli consapevoli che si può fare acquisti in modo diverso e soprattutto che è un diritto dei consumatori acquistare prodotti con meno imballi, rispondendo proprio alle loro richieste che abbiamo raccolto e analizzato con una survey realizzata nei mesi scorsi».

«Continuano le azioni concrete per promuovere nel territorio “buone pratiche” quotidiane, volte da un lato a ridurre l’inquinamento, dall’altro ad aumentare progressivamente gli standard di qualità della vita. – afferma Carlo Ferrè, presidente dei Comuni del Consorzio dei Navigli – I cittadini dei nostri comuni consorziati hanno sempre aderito con grande interesse ai progetti e alle campagne di sensibilizzazione ambientale dimostrando di essere virtuosi e lungimiranti. In questo modo si riesce a creare una fitta rete territoriale, fatta di persone “responsabili e consapevoli”, che permette anche di ottimizzare il sistema di gestione integrata dei rifiuti urbani, per esempio riducendo le diverse tipologie di scarti, in primis la plastica, e migliorando la qualità della differenziata».

fonte: www.envi.info


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Riciclare la plastica ha davvero senso?

Riusciamo a riciclarne solo una piccola parte, con processi costosi e complessi: e l’idea che basti differenziare i rifiuti rischia di spingerci a usarla









La pandemia di COVID-19 ha generato una grande e imprevista quantità di rifiuti di plastica. Non ci sono ancora numeri certi a livello mondiale, ma più di un dato aneddotico o locale indica che l’utilizzo della plastica è aumentato dall’inizio dell’anno. Secondo il ministero dell’Ecologia e dell’Ambiente cinese, al picco dell’epidemia la città di Wuhan produceva 240 tonnellate di rifiuti sanitari al giorno, contro le 40 tonnellate prodotte in tempi normali.

A Singapore, secondo un sondaggio citato dal Los Angeles Times, nelle otto settimane del primo lockdown, tra aprile e maggio, i cittadini hanno buttato nella spazzatura 1.470 tonnellate di rifiuti plastici più del solito, per l’aumento degli imballaggi e delle consegne a domicilio. Il Thailand Environment Institute ha stimato che a Bangkok ad aprile si sia consumato il 62 per cento di plastica in più che nello stesso mese dell’anno precedente. E negli Stati Uniti il governatore della California, Gavin Newsom, ha sospeso temporaneamente il divieto all’utilizzo di buste di plastica usa e getta.

La produzione di tutta questa plastica è un problema, perché nonostante il successo delle campagne per la raccolta differenziata in gran parte dei paesi più ricchi “il riciclo della plastica continua a essere un’attività economicamente marginale”, come ha scritto nel settembre del 2018 l’OCSE in un rapporto, in cui si legge che a livello globale la quantità di plastica riciclata corrisponde al 14-18 per cento del totale. Il resto della plastica finisce in inceneritori e termovalorizzatori (24 per cento) oppure è lasciato nelle discariche o disperso nell’ambiente (58-62 per cento).

Nell’Unione Europea le cose vanno un po’ meglio – è riciclato circa il 20 per cento della plastica – mentre negli Stati Uniti poco più del 10 per cento. I risultati del riciclo della plastica sono miseri soprattutto se messi a confronto con altri materiali: sia i principali metalli industriali (ferro, alluminio, rame) sia la carta hanno tassi di riciclo che superano il 50 per cento.

Con risultati così magri, e che sono migliorati poco nel tempo, in molti hanno cominciato a sostenere che il riciclo della plastica sia un’attività poco efficace, arrivando a definirla “autoassolutoria”. Questo mese il sito di NPR, rispettata emittente radiofonica statunitense, ha pubblicato un’inchiesta in cui, consultando documenti d’archivio e intervistando alcune persone coinvolte, sostiene che le grandi compagnie del petrolio abbiano finanziato negli ultimi decenni tutte le maggiori campagne per il riciclo della plastica perché, anche se riciclare è poco efficace, “se il pubblico pensa che il riciclo funziona allora non si preoccuperà per l’ambiente” e continuerà a usare la plastica, come ha detto alla giornalista Laura Sullivan l’ex presidente di un gruppo che rappresenta gli interessi dell’industria della plastica negli Stati Uniti.

Lo scetticismo nei confronti del riciclo della plastica è molto diffuso. “Il riciclo della plastica è un mito”, titolava il Guardian ad agosto del 2019; “il riciclo della plastica non funziona”, titolava Mother Jones nel maggio di quest’anno; “il riciclo della plastica sta fallendo”, scriveva Cnbc ad agosto. Pochi giorni fa, Politico Europe ha titolato che “Il riciclo sta uccidendo il pianeta”, riferendosi a tutto il riciclo, non soltanto quello della plastica.

Per capire se riciclare la plastica abbia senso, bisogna partire da come la si ricicla, e dalle ragioni per cui se ne ricicla così poca. «Il punto fondamentale è che c’è una differenza enorme tra recupero e raccolta da una parte e riutilizzo e riciclo dall’altra», spiega Alessandro Trentini, fondatore di Idea Plast, una società lombarda che fa progetti di arredo urbano e di ingegneria con la plastica riciclata. Gettare un rifiuto di plastica nel bidone della raccolta differenziata è soltanto l’inizio di un processo molto lungo che nella maggior parte dei casi non si conclude con il riciclo del rifiuto.

In Italia, per esempio, i livelli di raccolta e recupero dei rifiuti sono elevati. Nel 2018 si è raccolto in modo differenziato il 58,1 per cento dei rifiuti urbani a livello nazionale, e in alcune regioni come l’Emilia-Romagna e la Lombardia il dato supera il 70 per cento. Ma nonostante questi risultati ottimi, il tasso di riciclo e riutilizzo della plastica è molto basso.

Secondo uno studio dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, soltanto il 30 per cento della plastica raccolta in Italia è riciclata. Un altro 40 per cento viene bruciato in termovalorizzatori o inceneritori, e il resto finisce in discarica. Si ricicla così poca plastica principalmente perché il metodo di riciclo più diffuso, il riciclo meccanico, è complicato, oneroso e non funziona bene per tutti i tipi di materiale.

Questo non significa che sia il caso di gettare tutta la plastica nella raccolta indifferenziata o di smantellare le filiere del riciclo. Una parte della plastica è comunque riciclata, e gli effetti positivi per l’ambiente e per l’economia sono tangibili. Ma separare la plastica dagli altri rifiuti non dovrebbe illuderci di aver contribuito a salvare il pianeta.

La teoria del riciclo meccanico
La stragrande maggioranza della plastica riciclata nel mondo passa per un processo di recupero meccanico. Questo avviene in varie fasi, che sono spiegate molto bene in uno studio fatto nel 2017 da ricercatori del Belgio e titolato “Mechanical and chemical recycling of solid plastic waste”. Il riciclo meccanico prevede che la plastica sia selezionata, lavata e poi sminuzzata da una macchina in scagliette finissime chiamate flakes. Queste scagliette sono poi trasformate in granuli, che sono più comodi per essere riutilizzati e trasformati a loro volta in nuovi oggetti di plastica. Ciascuna di queste fasi, però, è complicata e presenta dei problemi. 



(Chris McGrath/Getty Images)

La plastica va raccolta
A seconda di come si fa la raccolta differenziata – e a seconda di come le amministrazioni cittadine raccolgono i rifiuti – cambia il modo di riciclare. Nei paesi europei, per esempio, l’UE ha dato la priorità agli imballaggi di plastica. La Commissione europea ha approvato una direttiva aggiornata nel 2018 che fissa obiettivi ambiziosi per la raccolta e il riciclo degli imballaggi (entro il 2025 il 50 per cento di quelli di plastica dovrà essere riciclato) e stabilisce la creazione di incentivi economici.

Grazie alla direttiva, integrata dalla legislazione nazionale, in Italia la raccolta degli imballaggi ha un percorso di valorizzazione definito e genera un corrispettivo economico per le amministrazioni locali, che ricevono un contributo ambientale a seconda della purezza degli imballaggi di plastica che raccolgono. Questo significa che in Italia il riciclo degli imballaggi è efficiente: secondo dati del Conai, il Consorzio Nazionale Imballaggi, il 46 per cento di quelli di plastica è riciclato – manca poco agli obiettivi europei. Il problema è che per tutti gli altri rifiuti in plastica non è previsto il riciclaggio, spesso perchè non tecnologicamente realizzabile. I comuni spingono quindi per la raccolta differenziata dei soli imballaggi e moltissima plastica finisce nell’indifferenziato: circa il 15 per cento dei rifiuti urbani indifferenziati è costituito da plastica, che ha molta meno possibilità di essere riciclata mentre è il componente più energetico dei rifiuti se questi vengono bruciati.

La plastica va selezionata
Gli oggetti di plastica che buttiamo nella spazzatura non sono fatti tutti con lo stesso materiale e non si possono riciclare tutti allo stesso modo. Quando arrivano nell’impianto di riciclo, i rifiuti plastici devono anzitutto essere separati gli uni dagli altri. La plastica raccolta può essere selezionata sulla base di vari criteri, come la forma, la densità, la dimensione, il colore o la composizione chimica. Quest’ultima è la caratteristica più importante, perché ciascun oggetto di plastica è prodotto con un polimero diverso, cioè con una macromolecola sintetica, o con un mix di polimeri, e non tutti si possono riciclare assieme e con la stessa facilità.

Esistono molti metodi meccanici e automatici per selezionare e separare i vari rifiuti di plastica, alcuni dei quali si fanno all’inizio del processo e altri alla fine, dopo la macinatura. In alcuni casi è usato un getto d’aria per separare i materiali più leggeri da quelli più pesanti, in altri si usa un sistema di separazione per “flottazione” in acqua per distinguere i materiali più densi che vanno a fondo da quelli che galleggiano, in altri ancora si usano i raggi X, e così via.

Certi materiali sono più facili di altri da selezionare. Per esempio il polietilene tereftalato – cioè il PET, la plastica di cui sono fatte le bottiglie d’acqua minerale – è uno dei polimeri con tasso di riciclo maggiore perché è facile da separare e da processare. I processi di separazione più raffinati richiedono anche l’intervento manuale di persone che, dopo la prima scrematura fatta dai macchinari, dividono le bottiglie di latte dai vasetti dello yogurt e da altri rifiuti. Ma alla fine rimane quasi impossibile fare una separazione perfetta, e il recupero non è mai totale. Se i materiali non sono separati correttamente, o non sono divisibili tra loro, sono macinati assieme in quello che è chiamato in gergo tecnico “plasmix”, cioè vari polimeri mischiati che sono molto difficili da riutilizzare oppure sono scartati. Il risultato è che una parte non trascurabile della plastica raccolta per essere riciclata non è selezionata per il riciclo.

La plastica è spesso impura
I rifiuti di plastica che gettiamo nella spazzatura provengono in gran parte dagli imballaggi, e per questo sono quasi sempre contaminati da sostanze organiche (il cibo) e da sostanze inorganiche non polimeriche (tutto quello che non è plastica, come per esempio la carta o la colla dell’etichetta sulle bottigliette d’acqua). I rifiuti di plastica, prima o dopo il processo di selezione, sono lavati meccanicamente più di una volta, ma capita che siano sono troppo contaminati e che alla fine sia difficile o impossibile portare a termine il processo di riciclo.

La plastica riciclata non è quasi mai come quella vergine
La carta e il vetro riciclati, se sono riciclati per bene, sono quasi indistinguibili da quelli vergini: un quaderno può essere riciclato in un nuovo quaderno. Al contrario un fustino del detersivo non è praticamente mai riciclato in un altro fustino del detersivo. In inglese si dice che la plastica non è “recycled”, ma “downcycled”, perché il risultato del processo è quasi sempre qualcosa di meno pregiato e meno valido dal punto di vista commerciale.

Questa degradazione è provocata da due fattori. Il primo è che il recupero meccanico della plastica non produce mai un polimero puro, ma un mix di polimeri che crea materiali meno pregiati, o per caratteristiche funzionali (è meno flessibile, meno resistente al calore) o per caratteristiche estetiche (è meno lucido, più difficile da levigare). Il secondo fattore che crea la degradazione riguarda il processo stesso di riciclo, che in alcuni casi sminuzza e in altri scalda i polimeri. In questo caso si parla di degradazione termomeccanica. Inoltre anche i polimeri più puri e meglio lavorabili non sono riciclabili quanto si vuole e alla meglio hanno pochi cicli di vita (spesso due soltanto) prima di dover essere buttati definitivamente. Un altro dei problemi della plastica, infatti, è che non si può riciclare all’infinito. 



(Paula Bronstein/Getty Images)

Manca l’incentivo economico
Abbiamo visto che il recupero meccanico della plastica è complesso, richiede manodopera umana e macchinari, e inoltre restituisce un prodotto quasi sempre inferiore a quello creato con plastica vergine. Per questo, il riciclo della plastica è un business poco sostenibile e potenzialmente in perdita, se si escludono incentivi e sgravi pubblici. Come ha scritto il Guardian, alla fine del 2019, con il prezzo del petrolio molto basso, per la prima volta nella storia il prezzo sul mercato delle scagliette (flakes) di plastica riciclata ha superato quello della plastica vergine.

E poi c’è il fatto che spediamo la plastica in giro per il mondo
La scarsa convenienza economica del riciclare plastica è diventata evidente a partire dal 2018. Prima di allora, il 70 per cento circa dei rifiuti plastici del mondo, in gran parte prodotto in Europa e Nordamerica, era raccolto, imbarcato su navi cargo e spedito in Cina: l’intero processo era più conveniente che riciclare la plastica sul posto. Il riciclo della maggior parte della plastica del mondo era dunque lasciato alla Cina, e spesso le cose non funzionavano: molti rifiuti erano abbandonati in discarica o dispersi nell’ambiente.

A partire dal gennaio 2018, però, il governo cinese ha approvato regole più severe, ha vietato l’importazione di 24 tipi di materiali e ha imposto che i rifiuti fossero contaminati al massimo per lo 0,5 per cento. In questo modo, l’invio in Cina di rifiuti di plastica si è praticamente interrotto e le filiere del riciclo in Europa e Stati Uniti sono andate in crisi. Successivamente la Thailandia, il Vietnam, l’India e la Malesia hanno cominciato ad accettare plastica, ma anche loro hanno messo regole più stringenti dopo aver avuto problemi ambientali. A marzo del 2019, poco dopo le nuove regole cinesi, il New York Times raccontava che alcune grandi città americane avevano già smesso del tutto di riciclare la plastica. A Memphis i rifiuti erano mandati in discarica, a Philadelphia bruciati nei termovalorizzatori perché, scriveva il giornale, “i costi” erano “saliti alle stelle”.

Il costo ambientale
L’argomento principale contro chi dice che riciclare la plastica costa troppo è che spesso chi fa i conti non riesce a guardare oltre il proprio bilancio. La plastica riciclata costa di più della plastica vergine se si tiene conto unicamente del processo di produzione, ma appena si alza un po’ lo sguardo le cose cambiano. «Il costo ambientale non è mai internalizzato», dice Valeria Frittelloni, responsabile del Centro Nazionale dei rifiuti e dell’economia circolare dell’Ispra. Secondo uno studio del 2019 uscito sul Marine Pollution Bulletin, inquinare gli oceani con la plastica ci è costato finora 2.500 miliardi di dollari in mancato sfruttamento delle risorse economiche date dal mare: pesca, turismo, acquacoltura – e questo senza contare gli eventuali costi di bonifica, che uno studio di Deloitte ha stimato in decine di miliardi di dollari all’anno.

C’è chi spera nel riciclo chimico
Molti analisti ed esperti sperano che i problemi e le inefficienze del riciclo meccanico della plastica potranno essere superati dal riciclo chimico o molecolare, una tecnica di cui si parla ormai da qualche anno ma che non è ancora stata applicata su larga scala. Il riciclo chimico è un processo di “depolimerizzazione”, che semplificando significa: i materiali sono scomposti chimicamente nei loro elementi più semplici e poi riutilizzati.

La tecnica più usata è la pirolisi, che usando il calore scinde i legami chimici della plastica per generare un materiale liquido che può essere usato per produrre nuovo materiale vergine. Questo significherebbe che gran parte della plastica potrebbe essere recuperata al 100 per cento. Per ora, tuttavia, il riciclo chimico è costoso e alcuni ricercatori sono scettici, perché i processi di pirolisi potrebbero rilasciare nell’ambiente tossine e sostanze tossiche. Secondo l’industria, invece, il recupero chimico porterà i tassi del riciclo della plastica ai livelli di altri materiali come la carta e i metalli.

fonte: www.ilpost.it



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Studio CIC - COREPLA 2020: triplicano le bioplastiche compostabili nella raccolta dell’organico

Il dato emerge dallo studio condotto da Consorzio Italiano Compostatori (CIC) e Corepla, nell’ambito dell’accordo annuale per le attività di monitoraggio relative alla quantità e qualità degli imballaggi in plastica e compostabili conferiti negli scarti di cucina e di giardino




È aumentata negli ultimi 3 anni la presenza di bioplastiche compostabili nella raccolta degli scarti di cucina, la cui incidenza è più che triplicata, passando dalle circa 27.000 t/anno (espresse sul secco) dell’indagine del 2016/2017 alle circa 83.000 t/anno s.s. di quella del 2019/2020. Aumenta anche la plastica tradizionale che viene erroneamente conferita nell’umido, che passa dalle circa 65.000 t/anno (espresso sul secco) del 2016/2017 alle circa 90.000 t/anno del 2019/2020.

È quanto emerge dallo studio condotto da Consorzio Italiano Compostatori (CIC) e Corepla, nell’ambito dell’accordo annuale per le attività di monitoraggio relative alla quantità e qualità degli imballaggi in plastica e compostabili conferiti negli scarti di cucina e di giardino.

Lo studio, presentato dal Direttore del CIC Massimo Centemero, si pone in continuità con quello svolto dai consorzi nel 2016/2017 e ha monitorato la composizione del rifiuto organico così da quantificare la presenza di Materiale Compostabile (MC) quale scarti di cucina e di giardino, carta, plastica compostabile, e di Materiale Non Compostabile (MNC) rappresentato da plastica tradizionale, vetro, metalli, pannolini, cialde caffè, altro.

Realizzata su un campione significativo di impianti che trattano scarti di cucina e di giardino, l’analisi ha riguardato gli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile idonei alla filiera del rifiuto a matrice organica che vengono avviati a recupero presso impianti di compostaggio e di digestione anaerobica. Inoltre, sono stati quantificati gli imballaggi in plastica tradizionale che, erroneamente, entrano nella filiera e sono considerati impurità.

“Questo studio è fondamentale per capire come avviene la raccolta differenziata da parte dei cittadini. Di conseguenza, ci permette di valutare i comportamenti da adottare come consorzi per promuovere la corretta modalità di differenziazione sia degli imballaggi in plastica tradizionale che di quelli in plastica biodegradabile e compostabile, così da migliorare la raccolta differenziata e assicurare un riciclo di qualità da entrambe le parti”, spiegano il presidente del CIC Flavio Bizzoni e il presidente del COREPLA Antonello Ciotti.

Secondo l’analisi, l’umido proveniente dalle raccolte differenziate è costituito per il 94,8% da Materiale Compostabile. Le plastiche compostabili certificate UNI 13432 presenti nei rifiuti organici sono in aumento rispetto al 2016/2017: la loro incidenza è infatti passata dall’1,5% al 3,7%. Si tratta quasi esclusivamente di bioplastica flessibile e gli imballaggi rappresentano il 70% dei manufatti in bioplastica presenti nell’umido. Lo studio ha confermato inoltre, così come per la precedente ricerca, l’assenza di bioplastiche nel compost a dimostrazione dell’effettiva degradazione della bioplastica negli impianti.

I Materiali Non Compostabili presenti nell’umido rappresentano invece il 5,2%, con un leggero aumento del +0,3% rispetto al monitoraggio 2016/2017. L’incidenza della plastica rappresenta il 3,1% del totale: il 90% della plastica presente nell’umido è flessibile e gli imballaggi rappresentano circa il 50% dei manufatti in plastica.

L’indagine ha consentito inoltre di approfondire e conoscere meglio le abitudini degli italiani in relazione ai sacchi e ai sacchetti utilizzati per il conferimento della frazione umida.

Rispetto al 2017 si nota un aumento interessante del 6,8% dei manufatti conformi alla norma. Il 63,8% dei sacchi per contenere l’umido è infatti compostabile: a farla da padrone sono le shopper in plastica compostabile (38,5%), mentre diminuiscono del 6% gli appositi per la RD del rifiuto organico (15,1%) e vengono rilevati anche sacchi compostabili appositi grandi oltre i 50 litri (2,4%). Interessante è la comparsa degli ortofrutta compostabili tra i manufatti utilizzati per conferire l’organico (7,6%), introdotti nei reparti dei supermercati a partire dal 2018.

Diminuisce, seppur ancora presente in modo significativo con una percentuale del 36,2% del totale, l’utilizzo di sacchi non compostabili, nonostante l’obbligo di raccolta con manufatti biodegradabili e compostabili: ancora alto l’utilizzo di shopper di plastica (10,6%) e di sacchi tradizionali per l’indifferenziato (21%), ma si nota una diminuzione di sacchetti per l’ortofrutta in plastica, sostituiti da quelli compostabili (passando dal 9% all’1,8%), mentre scompaiono quasi del tutto i manufatti per la raccolta rifiuti organici in plastiche additivate/OXO bio-degradabili (0,1%).

“Dobbiamo purtroppo constatare l’aumento della presenza dei Materiali Non Compostabili (MNC), di cui le plastiche tradizionali rappresentano il 60%, nelle raccolte differenziate degli scarti di cucina e giardino. Solo negli scarti di cucina i MNC sono passati dalle circa 190.000 t/a (espresse sul tal quale) rilevate nella precedente indagine del 2016/2017, alle circa 240.000 t/a t.q. di quella attuale (2019/2020)”, dichiara Flavio Bizzoni, presidente del CIC. “I dati raccolti evidenziano che il pur considerevole aumento della presenza dei manufatti flessibili in bioplastica compostabile da solo non è bastato a garantire la diminuzione delle plastiche tradizionali. Questa consistente presenza dei MNC provoca a tutta la filiera enormi costi per il loro smaltimento che, nel solo 2019, possono essere stimati in una cifra che va dai 90 ai 120 milioni di euro, con l’effetto inoltre di ‘trascinare’ allo smaltimento rilevanti quantità di materiale organico sottraendolo così alla produzione di compost di qualità”.

“Ridurre drasticamente i MNC nel settore del biowaste, che recupera ogni anno il 40,4% del rifiuto urbano differenziato - conclude Bizzoni - deve diventare una priorità per tutti, Governo e soggetti istituzionali preposti. Servono urgenti e mirati interventi, sia legislativi che di informazione, per mettere i cittadini, fulcro imprescindibile della nostra filiera, nelle condizioni di poter dare il loro determinante contributo”.

“L’analisi svolta insieme al CIC – dichiara il presidente di Corepla Antonello Ciotti – dimostra come, nonostante gli evidenti passi avanti compiuti, occorra proseguire nell’azione di sensibilizzazione e di informazione dei cittadini rispetto alle prassi di differenziazione dei rifiuti, anche a fronte dell’aumento dell’utilizzo di plastiche monouso avvenuto in concomitanza con l’emergenza sanitaria. Plastica e bioplastica sono risorse che vanno correttamente raccolte e trattate a vantaggio dell’Ambiente e di un’economia che, oggi più di ieri, guarda alla sostenibilità come ambito su cui impostare le strategie di ripresa del Paese. Corepla è da sempre impegnato su questo fronte, come dimostrano i risultati di raccolta del 2019, e intende continuare a sostenere l’affermazione di una cultura ambientale fatta di innovazione, ricerca e anche nuova occupazione qualificata, elemento, quest’ultimo, che speriamo possa contrassegnare sempre più il futuro del Paese. Proprio per questo, è evidente la necessità di rafforzare il sistema italiano di trattamento sia delle plastiche compostabili che di quelle tradizionali, ampliando la capacità del sistema paese di trattare questo tipo di rifiuto”.


fonte: www.ecodallecitta.it

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Arriva in Europa la pellicola spray commestibile per frutta e verdura che riduce sprechi alimentari e rifiuti di plastica

Il nuovo rivestimento commestibile arriverà in Europa: riduce gli sprechi alimentari e i rifiuti causati dagli imballaggi di plastica

















Gli imballaggi in plastica per gli alimenti consentono ai cibi di rimanere freschi più a lungo, ma sono una fonte di inquinamento che non possiamo sottovalutare. Per questo, la ricerca studia da tempo alternative più ecosostenibili per conservare frutta e verdura e ridurre al tempo stesso i rifiuti.
Da oggi, grazie a una nuova tecnologia americana, è possibile imballare gli alimenti senza produrre rifiuti inquinanti, utilizzando un rivestimento naturale e commestibile.

Il rivestimento spray controlla i due principali fattori che causano il deterioramento dei prodotti freschi: la perdita d’acqua e l’azione dell’ossigeno.
Limitando la disidratazione e bloccando le reazioni che necessitano di ossigeno, frutta e verdura si conservano per il doppio del tempo.
Il nuovo imballaggio commestibile è stato progettato nel 2012 dalla startup Apeel Sciences grazie a una sovvenzione della Bill & Melinda Gates Foundation.
L‘obiettivo era quello di creare un materiale che contribuisse alla riduzione degli sprechi alimentari nei paesi in via di sviluppo, che non dispongono di frigoriferi.
Il rivoluzionario prodotto è stato poi lanciato negli Stati Uniti lo scorso anno, dove ha permesso di ridurre sia i rifiuti sia lo spreco alimentare.
Realizzato a partire da materie prime vegetali e privo di odore e sapore, l’imballaggio è stato sperimentato inizialmente sugli avocado, che hanno una finestra di maturità molto breve: grazie a questo speciale rivestimento, gli avocado hanno mantenuto il giusto grado di maturazione fino a 6 giorni, anziché per due o tre giorni.
L’imballaggio commestibile è stato poi utilizzato con successo anche su mele, limoni, lime, asparagi, cetrioli e altri prodotti freschi e da questa settimana arriverà per la prima volta in Europa in alcune catene di supermercati.
La Commissione europea ha infatti approvato l’uso del nuovo rivestimento a giugno di quest’anno: i primi paesi in cui saranno introdotti alimenti confezionati con il nuovo rivestimento commestibile saranno Germania, Danimarca e Regno Unito.
Ogni anno in Europa 88 milioni di tonnellate di cibo viene sprecato: supermercati, negozi, ristoranti e famiglie, gettano via moltissimi alimenti freschi che si deteriorano in fretta, per un costo di 143 miliardi di euro all’anno.
Per far fronte allo spreco alimentare, negli ultimi anni è cresciuto l’uso di imballaggi di plastica che hanno però portato alla produzione di tonnellate di rifiuti, molte delle quali finiscono per inquinare mari, fiumi e suolo.
È dunque molto importante riuscire a trovare metodi alternativi che consentano di ridurre lo spreco di cibo senza impattare sull’ambiente e questo nuovo spray commestibile potrebbe essere la soluzione.
fonte: www.greenme.it