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Pasta Agnesi nel compostabile

Il marchio del gruppo Colussi utilizza un imballaggio barriera frutto della collaborazione tra Novamont, Saes, Sacchital, TicinoPlast e IMA.







Per il confezionamento della pasta Agnesi, marchio del gruppo Colussi, è stato recentemente adottato un imballo multistrato compostabile, provvisto di barriera all’ossigeno e all’umidità, che una volta utilizzato è destinato a finire nella raccolta dell'umido (dove effettuata) per essere poi avviato a compostaggio industriale.
Il packaging, come nel caso di alcuni prodotti della linea Misura (sempre del gruppo Colussi) introdotti l'anno scorso (leggi articolo), è frutto della collaborazione tra Novamont, SAES, Sacchital, TicinoPlast e IMA, in questo caso con il contributo scientifico dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.

L’imballo è costituito da due strati: un film compostabile in Mater-bi di Novamont, laccato e metallizzato per ottenere barriera ad ossigeno e umidità, e uno strato esterno in carta proveniente da forestazione sostenibile (certificata FSC).

Agnesi ha avviato nello stabilimento di Fossano, in provincia di Cuneo, una nuova linea per il confezionamento di pasta con il nuovo pack compostabile. Con questo sviluppo - fa sapere il gruppo Colussi - la percentuale di incarti sostenibili sale a oltre il 90%, mentre la plastica si riduce all’8,5%.

“Dopo la rivoluzione green del marchio Misura - spiega Angelo Colussi, Presidente del gruppo Colussi - continuiamo a investire nell'ambiente e nello stesso tempo continuiamo a investire nell’Italia. Da una crisi come quella che stiamo vivendo occorre uscire puntando sul futuro. E il gruppo Colussi lo fa anticipando i tempi delle richieste che ci vengono dall’Europa con il Green Deal, scegliendo per primo non solo nel nostro Paese ma anche a livello internazionale un packaging plastic free". "Il nostro obiettivo - aggiunge - è di aumentare la quantità di incarti compostabili dei nostri prodotti, oltre che salvaguardarne la qualità e la freschezza che rimangono nostri asset fondamentali".

fonte: www.polimerica.it


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Biodegradabile non vuol dire quello che pensiamo

Alcuni elementi o imballaggi che sembrano facili da smaltire non lo sono poi così tanto









Negli ultimi anni un po’ dappertutto sono state adottate politiche per limitare l’uso della plastica e favorire invece l’utilizzo di imballaggi ecosostenibili, con l’obiettivo di ridurre l’inquinamento e limitare l’impatto ambientale dei rifiuti che produciamo ogni giorno. Tuttavia, c’è ancora un po’ di confusione su quale sia la differenza tra “biodegradabile” e “compostabile”. Un materiale classificato come biodegradabile non ha necessariamente un basso impatto ambientale, anzi: spesso alcuni tipi di imballaggio devono essere sottoposti a processi di smaltimento industriali che producono emissioni inquinanti e in ogni caso non si degradano in natura in tempi brevi o senza conseguenze sull’ambiente, come spesso siamo portati a immaginare.

Lo ha spiegato bene al New York Times Jason Locklin, direttore dell’Istituto dei Nuovi Materiali all’Università della Georgia, negli Stati Uniti, secondo cui la differenza tra “biodegradabile” e “compostabile” «disorienta parecchio non solo i consumatori, ma anche diversi scienziati». Secondo una ricerca di mercato citata dal Times, il 34 per cento delle persone intervistate pagherebbe di più per comprare acqua in bottiglie biodegradabili al 100 per cento, ma secondo i critici ai consumatori non è ben chiaro come i prodotti vengano smaltiti, e comunque chi progetta materiali biodegradabili spesso non ha ben chiare le conseguenze dell’intero ciclo di vita del prodotto.


Siamo portati a pensare che tutto ciò che è biodegradabile si possa decomporre in natura senza impatto ambientale, ma non è proprio così.


È il caso della carta, che di per sé è riciclabile, ma che negli imballaggi di tipo alimentare viene spesso usata con altri strati di plastica, alluminio o materiali che hanno funzione di protezione ma rendono praticamente impossibile il riciclo – peraltro uno dei motivi per cui Pringles sta provando a cambiare i tubi delle sue note confezioni di patatine.

È anche il caso degli imballaggi biodegradabili in PLA (acido polilattico), che si ricavano dalla lavorazione del mais o altre piante e da cui si ottengono bicchieri, posate e contenitori alimentari molto diffusi, studiati appositamente perché si smaltiscano entro poche settimane. Il problema è che i contenitori in PLA si decompongono rapidamente soltanto a temperature molto elevate, sopra i 60°C, e con un certo grado di umidità, pertanto si degradano in maniera efficace solo se vengono smaltiti attraverso un processo industriale: questo significa che se venissero dispersi in natura o finissero in discarica, senza le giuste condizioni, potrebbero volerci mesi o anche anni prima della loro completa degradazione.


“Biodegradabile” e “compostabile”, infatti, non sono sinonimi. Un materiale compostabile è anche biodegradabile, ma un materiale biodegradabile non è necessariamente compostabile o ecosostenibile.

Le direttive dell’Unione Europea definiscono biodegradabili i rifiuti da imballaggio che hanno «natura tale da poter subire una decomposizione fisica, chimica, termica o biologica grazie alla quale la maggior parte del compost di risulta finisca per decomporsi in biossido di carbonio, biomassa e acqua». Rispetto al materiale biodegradabile, quello compostabile si disintegra completamente in tempi più brevi – nel giro di poche settimane – e dopo il trattamento può essere riciclato per essere utilizzato come fertilizzante naturale o trasformato in biometano.

Tuttavia, anche i prodotti compostabili in bagassa, che si ottiene dalla polpa della canna da zucchero ed è diventata uno dei materiali più impiegati per realizzare piatti e contenitori monouso per il cibo d’asporto, hanno fatto discutere. Il Los Angeles Times per esempio ha raccontato che le ciotole usate dalla catena statunitense Sweetgreen, che vende insalate e cibi salutari, non erano compostabili come era stato pubblicizzato: contenevano infatti sostanze perfluoroalchiliche (PFAS), ovvero composti chimici impiegati per rendere le superfici impermeabili ad acqua e grassi. Le PFAS sono considerate dannose per la salute e soprattutto, in questo caso, contaminavano l’ambiente dopo la conclusione del processo di compostaggio, rendendo inefficace lo scopo iniziale del loro utilizzo.


Per questo, esistono enti come il Consorzio Italiano Compostatori (CIC) che si occupano di certificare quali materiali siano compostabili, interagendo sia con le imprese produttive, sia con le aziende che si occupano di smaltimento e riciclo. Solo se un materiale è classificato come compostabile si può avere la certezza che, dopo la degradazione del prodotto, nell’ambiente non finirà alcuna sostanza artificiale e si abbia davvero un materiale ecosostenibile.

Teoricamente, i materiali biodegradabili e compostabili certificati EN 13432, come i sacchetti in bioplastica per la spesa, andrebbero smaltiti nella raccolta differenziata assieme ai rifiuti organici, per essere poi avviati al corretto impianto di smaltimento. Tuttavia, da questo punto di vista ci sono indicazioni diverse. A Milano funziona così, mentre AMA, la società che si occupa dei rifiuti a Roma, dice che i sacchetti biodegradabili vanno conferiti nell’indifferenziato.

Come viene spiegato nel rapporto sui Rifiuti Urbani dell’ISPRA – l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale – nel 2018 sono state trattati circa 2,8 milioni di tonnellate in impianti di trattamento integrato anaerobico/aerobico, mentre circa 304 mila tonnellate sono state avviate in impianti di digestione anaerobica. In Italia per i prossimi anni è previsto il potenziamento dei vari tipi di impianti di compostaggio dedicati al trattamento biologico dei rifiuti urbani, perché in alcuni casi lo smaltimento dei rifiuti urbani organici avviene ancora in discarica.


A ogni modo, nel nostro paese la ricerca di tecnologie efficienti in campo di prodotti e imballaggi a basso impatto ambientale va avanti da oltre trent’anni. Per esempio, l’azienda novarese Novamont ha brevettato già diversi anni fa MATER-BI, una famiglia di bioplastiche biodegradabili e compostabili che sono certificate secondo le principali norme europee e internazionali e vengono impiegate in diversi settori, dalla ristorazione alla raccolta differenziata, mentre di recente l’azienda lodigiana Intimaluna ha introdotto sul mercato gli assorbenti EcoLuna, che non contengono plastica e sono compostabili con certificazione ICEA.

fonte: www.ilpost.it


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Studio CIC - COREPLA 2020: triplicano le bioplastiche compostabili nella raccolta dell’organico

Il dato emerge dallo studio condotto da Consorzio Italiano Compostatori (CIC) e Corepla, nell’ambito dell’accordo annuale per le attività di monitoraggio relative alla quantità e qualità degli imballaggi in plastica e compostabili conferiti negli scarti di cucina e di giardino




È aumentata negli ultimi 3 anni la presenza di bioplastiche compostabili nella raccolta degli scarti di cucina, la cui incidenza è più che triplicata, passando dalle circa 27.000 t/anno (espresse sul secco) dell’indagine del 2016/2017 alle circa 83.000 t/anno s.s. di quella del 2019/2020. Aumenta anche la plastica tradizionale che viene erroneamente conferita nell’umido, che passa dalle circa 65.000 t/anno (espresso sul secco) del 2016/2017 alle circa 90.000 t/anno del 2019/2020.

È quanto emerge dallo studio condotto da Consorzio Italiano Compostatori (CIC) e Corepla, nell’ambito dell’accordo annuale per le attività di monitoraggio relative alla quantità e qualità degli imballaggi in plastica e compostabili conferiti negli scarti di cucina e di giardino.

Lo studio, presentato dal Direttore del CIC Massimo Centemero, si pone in continuità con quello svolto dai consorzi nel 2016/2017 e ha monitorato la composizione del rifiuto organico così da quantificare la presenza di Materiale Compostabile (MC) quale scarti di cucina e di giardino, carta, plastica compostabile, e di Materiale Non Compostabile (MNC) rappresentato da plastica tradizionale, vetro, metalli, pannolini, cialde caffè, altro.

Realizzata su un campione significativo di impianti che trattano scarti di cucina e di giardino, l’analisi ha riguardato gli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile idonei alla filiera del rifiuto a matrice organica che vengono avviati a recupero presso impianti di compostaggio e di digestione anaerobica. Inoltre, sono stati quantificati gli imballaggi in plastica tradizionale che, erroneamente, entrano nella filiera e sono considerati impurità.

“Questo studio è fondamentale per capire come avviene la raccolta differenziata da parte dei cittadini. Di conseguenza, ci permette di valutare i comportamenti da adottare come consorzi per promuovere la corretta modalità di differenziazione sia degli imballaggi in plastica tradizionale che di quelli in plastica biodegradabile e compostabile, così da migliorare la raccolta differenziata e assicurare un riciclo di qualità da entrambe le parti”, spiegano il presidente del CIC Flavio Bizzoni e il presidente del COREPLA Antonello Ciotti.

Secondo l’analisi, l’umido proveniente dalle raccolte differenziate è costituito per il 94,8% da Materiale Compostabile. Le plastiche compostabili certificate UNI 13432 presenti nei rifiuti organici sono in aumento rispetto al 2016/2017: la loro incidenza è infatti passata dall’1,5% al 3,7%. Si tratta quasi esclusivamente di bioplastica flessibile e gli imballaggi rappresentano il 70% dei manufatti in bioplastica presenti nell’umido. Lo studio ha confermato inoltre, così come per la precedente ricerca, l’assenza di bioplastiche nel compost a dimostrazione dell’effettiva degradazione della bioplastica negli impianti.

I Materiali Non Compostabili presenti nell’umido rappresentano invece il 5,2%, con un leggero aumento del +0,3% rispetto al monitoraggio 2016/2017. L’incidenza della plastica rappresenta il 3,1% del totale: il 90% della plastica presente nell’umido è flessibile e gli imballaggi rappresentano circa il 50% dei manufatti in plastica.

L’indagine ha consentito inoltre di approfondire e conoscere meglio le abitudini degli italiani in relazione ai sacchi e ai sacchetti utilizzati per il conferimento della frazione umida.

Rispetto al 2017 si nota un aumento interessante del 6,8% dei manufatti conformi alla norma. Il 63,8% dei sacchi per contenere l’umido è infatti compostabile: a farla da padrone sono le shopper in plastica compostabile (38,5%), mentre diminuiscono del 6% gli appositi per la RD del rifiuto organico (15,1%) e vengono rilevati anche sacchi compostabili appositi grandi oltre i 50 litri (2,4%). Interessante è la comparsa degli ortofrutta compostabili tra i manufatti utilizzati per conferire l’organico (7,6%), introdotti nei reparti dei supermercati a partire dal 2018.

Diminuisce, seppur ancora presente in modo significativo con una percentuale del 36,2% del totale, l’utilizzo di sacchi non compostabili, nonostante l’obbligo di raccolta con manufatti biodegradabili e compostabili: ancora alto l’utilizzo di shopper di plastica (10,6%) e di sacchi tradizionali per l’indifferenziato (21%), ma si nota una diminuzione di sacchetti per l’ortofrutta in plastica, sostituiti da quelli compostabili (passando dal 9% all’1,8%), mentre scompaiono quasi del tutto i manufatti per la raccolta rifiuti organici in plastiche additivate/OXO bio-degradabili (0,1%).

“Dobbiamo purtroppo constatare l’aumento della presenza dei Materiali Non Compostabili (MNC), di cui le plastiche tradizionali rappresentano il 60%, nelle raccolte differenziate degli scarti di cucina e giardino. Solo negli scarti di cucina i MNC sono passati dalle circa 190.000 t/a (espresse sul tal quale) rilevate nella precedente indagine del 2016/2017, alle circa 240.000 t/a t.q. di quella attuale (2019/2020)”, dichiara Flavio Bizzoni, presidente del CIC. “I dati raccolti evidenziano che il pur considerevole aumento della presenza dei manufatti flessibili in bioplastica compostabile da solo non è bastato a garantire la diminuzione delle plastiche tradizionali. Questa consistente presenza dei MNC provoca a tutta la filiera enormi costi per il loro smaltimento che, nel solo 2019, possono essere stimati in una cifra che va dai 90 ai 120 milioni di euro, con l’effetto inoltre di ‘trascinare’ allo smaltimento rilevanti quantità di materiale organico sottraendolo così alla produzione di compost di qualità”.

“Ridurre drasticamente i MNC nel settore del biowaste, che recupera ogni anno il 40,4% del rifiuto urbano differenziato - conclude Bizzoni - deve diventare una priorità per tutti, Governo e soggetti istituzionali preposti. Servono urgenti e mirati interventi, sia legislativi che di informazione, per mettere i cittadini, fulcro imprescindibile della nostra filiera, nelle condizioni di poter dare il loro determinante contributo”.

“L’analisi svolta insieme al CIC – dichiara il presidente di Corepla Antonello Ciotti – dimostra come, nonostante gli evidenti passi avanti compiuti, occorra proseguire nell’azione di sensibilizzazione e di informazione dei cittadini rispetto alle prassi di differenziazione dei rifiuti, anche a fronte dell’aumento dell’utilizzo di plastiche monouso avvenuto in concomitanza con l’emergenza sanitaria. Plastica e bioplastica sono risorse che vanno correttamente raccolte e trattate a vantaggio dell’Ambiente e di un’economia che, oggi più di ieri, guarda alla sostenibilità come ambito su cui impostare le strategie di ripresa del Paese. Corepla è da sempre impegnato su questo fronte, come dimostrano i risultati di raccolta del 2019, e intende continuare a sostenere l’affermazione di una cultura ambientale fatta di innovazione, ricerca e anche nuova occupazione qualificata, elemento, quest’ultimo, che speriamo possa contrassegnare sempre più il futuro del Paese. Proprio per questo, è evidente la necessità di rafforzare il sistema italiano di trattamento sia delle plastiche compostabili che di quelle tradizionali, ampliando la capacità del sistema paese di trattare questo tipo di rifiuto”.


fonte: www.ecodallecitta.it

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Misura riparte plasticfree: nuove confezioni compostabili e in carta fsc





La plastica rappresenta un enorme fonte di inquinamento e ridurne l’utilizzo è uno dei primi passi per diminuire i costi ambientali, economici e sulla salute.

La situazione sembra invece destinata a peggiorare ulteriormente, anche a causa di mascherine e guanti usa e getta che potrebbero aggiungersi alle tonnellate di rifiuti prodotti.

Per questo, Misura ha deciso di dare un segnale forte per una ripartenza plasticfree, sostituendo parte degli imballaggi di plastica con un packaging compostabile di origine vegetale e con carta FCS.
A cosa serve la plastica negli imballaggi e perché è necessario ridurne l’uso

La plastica è un materiale ampiamente utilizzato negli imballaggi alimentari poiché consente di proteggere i cibi dagli effetti dell’ossigeno e dell’umidità, mantenendoli freschi durante il loro stoccaggio nei magazzini e sugli scaffali dei supermercati.

Si tratta dunque di un materiale di indubbia utilità che però di contro rappresenta un enorme problema dal punto di vista ambientale.

Ogni anno infatti milioni di tonnellate di plastica finiscono nell’ambiente, dove permane per centinaia di anni, riducendosi via via in pezzi sempre più piccoli.

Plastica e microplastica costituiscono una minaccia per gli ambienti naturali e per la salute di tutti gli esseri viventi, incluso l’essere umano. Oltre a provocare ferite e avvelenamenti negli animali terrestri e marini, infatti, si stima che ognuno di noi ingerisca attraverso gli alimenti almeno 50mila microparticelle di plastica all’anno.

Siamo di fronte a una vera e propria emergenza che oggi che oggi, dopo il lockdown e con la necessità di utilizzare guanti di plastica e mascherine, rischia di sopraffarci.

Normalmente, secondo i dati WWF, solo nel Mediterraneo ogni anno arrivano 570 mila tonnellate di plastica abbandonata o raccolta in modo scorretto, a cui presto potrebbero aggiungersi oltre milioni di presidi sanitari.

Per ridurre l’inquinamento da plastica e i conseguenti costi ambientali, economici e per la salute, è necessario dunque ripartire in modo green, cominciando dal diminuire drasticamente l’utilizzo di plastica, soprattutto quella monouso utilizzata per gli imballaggi.
L’alternativa compostabile alla plastica di Misura


Per diminuire drasticamente l’utilizzo della plastica per gli imballaggi, Misura, noto marchio di alimenti formulati per coniugare gusto e benessere, ha deciso di introdurre un innovativo materiale di origine vegetale per confezionare i prodotti.

In questo modo sarà possibile eliminare due milioni e mezzo di confezioni di plastica, una quantità che potrebbe coprire oltre 22 volte Piazza Duomo a Milano.

Il nuovo packaging interesserà sette prodotti durante il 2020, la pasta integrale e gli snack della linea ‘Natura Ricca’, ma la plastica sarà eliminata anche da altri prodotti e sostituita con carta certificata FSC proveniente da coltivazioni forestali sostenibili e controllate.

In questo modo la riduzione di plastica sarà complessivamente pari al 52% rispetto allo scorso anno.Inoltre, tra il 2022 e il 2023, le nuove confezioni saranno estese anche ad altri prodotti, diminuendo ulteriormente le tonnellate di plastica per gli imballaggi, fino al 79%.

I nuovi incarti multistrato garantiranno l’effetto barriera nei confronti di ossigeno e umidità, così da mantenere inalterata la freschezza e la qualità dei prodotti.

Una volta raccolte e trattate, le confezioni non andranno a sommarsi alle tonnellate di rifiuti che produciamo ogni anno poiché si trasformeranno in compost per fertilizzare il suolo.

L’innovazione, presentata in occasione della Giornata mondiale dell’Ambiente, è nata grazie alla collaborazione tra Misura e Novamont, gruppo che ha sviluppato la bioplastica Mater-Bi, e con il contributo scientifico dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e di Slow Food.

Un percorso tra diverse realtà, tra cui anche Saes, Sacchital e TicinoPlast, durato oltre due anni che oggi consentirà una ripartenza del marchio sotto il segno della sostenibilità ambientale.

Con l’adozione dei nuovi imballi multistrato compostabili, Misura non intende solo adottare una soluzione sostenibile per confezionare i propri prodotti, ma anche essere d’esempio.

L’impegno plasticfree di Misura vuole infatti essere di ispirazione per un cambiamento nel mondo del packaging alimentare, dimostrando che è possibile ridurre sensibilmente l’utilizzo di plastica e sostituirla con materiali ugualmente in grado di conservare gli alimenti, ma con un impatto positivo sull’ambiente.

Pochi anni fa abbiamo rinunciato all’uso dei sacchetti di plastica per la spesa, sostituendoli con shopper biodegradabili: un’esperienza italiana che si è poi trasformata in legge europea.

Eliminando la plastica dagli imballaggi alimentari, Misura ha l’ambizione di fare da apripista per l’intero settore agroalimentare, nonché di lanciare un forte segnale altri Paesi perché facciano altrettanto.

fonte: www.greenme.it



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Verso un packaging più sostenibile, dalla riduzione degli sprechi al biodesign

Il problema del packaging in eccesso è un fenomeno enorme e globale. La ricerca per trovare soluzioni sostenibili avanza, anche grazie ad alternative sperimentali come gli imballaggi alimentari edibili e compostabili.





Amplificato dall’e-commerce diventato in tutto il mondo una modalità di acquisto sempre più diffusa, il problema di come ridurre il packaging in eccesso di milioni di prodotti e del suo smaltimento è affrontato dai consorzi di produttori e dai colossi delle vendite online secondo linee guida sostenibili. Intanto, designer e biologi lavorano insieme a ricerche innovative di biodesign, per sperimentare packaging alternativi e sostenibili che utilizzano batteri e microorganismi capaci di sostituire i materiali derivati dal petrolio.




Il raffinato packaging dei prodotti Armani Dolci con la storica azienda torinese Gobino, brand di lusso molto attenti all’utilizzo di materiali riciclabili © Armani
Packaging, perché è così importante

Il packaging è considerato dalle aziende di qualsiasi tipologia merceologica un elemento molto importante per la percezione del marchio da parte dei consumatori con un impatto positivo sul suo valore e sulla sua riconoscibilità. La sua funzione va al di là dell’aspetto puramente pratico di proteggere e trasportare il prodotto. Ha il compito di differenziarlo sullo scaffale dei negozi e, soprattutto, della grande distribuzione, dove la forma, il materiale e l’elemento grafico complessivo devono essere fortemente attrattivi.

Non si spiegherebbe altrimenti la grande attenzione che le aziende hanno sempre posto nella progettazione dei contenitori dei loro prodotti in tutti i settori, ma specialmente nel campo agro-alimentare, dei cosmetici, della moda, del superfluo e del lusso. Spesso però non preoccupandosi affatto del loro riciclo. Il packaging per molti prodotti è in certi casi un surplus non strettamente necessario, sbagliato secondo i principi della sostenibilità, eccessivo e inutile agli occhi di molti anche se valutato soltanto con il criterio del buonsenso.

La progettazione del packaging va dunque ripensata a tutti i livelli, come in parte sta già accadendo, per evitare lo spreco e l’utilizzo non necessario di materiali, seppur riciclabili. Il fenomeno è oggi di dimensioni gigantesche, ma qualcosa sta cambiando e parte anche dall’atteggiamento dei consumatori e dalla globale crescente attitudine verso la sostenibilità.



Alla vigilia della nuova era plastic free. Infografica dello studio Ipsos sull’atteggiamento dei consumatori italiani nei confronti del packaging dei prodotti © Ipsos
Packaging e sostenibilità, la tendenza dei consumatori

Secondo l’indagine condotta dalla società di ricerche di mercato americana Research and markets, una delle più grandi al mondo, la domanda dei consumatori sta progressivamente orientando le aziende verso il packaging sostenibile, il cui mercato globale raggiungerà un valore di circa 440 miliardi di dollari entro il 2025, con un tasso di crescita annuale del 7,7 per cento. L’atteggiamento critico e sempre più sensibile delle persone sugli effetti sociali e ambientali dell’intero ciclo di vita del prodotto si estende anche al packaging che spesso è il primo e più evidente elemento e si rivela fondamentale nel processo decisionale di acquisto.

Nel 2018 il sondaggio European consumer packaging perceptions, che ha coinvolto a 7mila consumatori di sette paesi europei, ha rivelato che due terzi degli italiani tra i 50 e 60 anni vorrebbe che le confezioni dei prodotti fossero più ecosostenibili. Come materiali, l’89 per cento preferisce il cartone alla plastica. Di rilievo l’attitudine dei millennials, nati tra il 1980 e il 2000: il 55 per cento dichiara di aver cambiato marca per evitare l’uso eccessivo di packaging. Un altro dato importante è che tre quarti degli italiani dichiara che le proprie decisioni d’acquisto sono influenzate, se non determinate, dagli imballaggi e dalle confezioni dei prodotti. Porzione leggermente inferiore all’81 per cento della Spagna e al 77 per cento di Germania e Polonia, ma comunque un segnale positivo.

Altri sondaggi confermano che questa tendenza è in crescita, come quelli condotti dall’istituto di ricerche di mercato Lux Research che ha stimato che gli imballaggi biodegradabili possono competere con quelli derivati dal petrolio e garantire perfino prestazioni migliori. O l’indagine a livello mondiale condotta da Tetrapak, da cui emerge che nell’ambito delle bevande c’è una crescente importanza che gli acquirenti attribuiscono al packaging eco-friendly. I due terzi dei seimila intervistati in dodici paesi hanno, infatti, affermato di scegliere prodotti che rispettano l’ambiente, anche quando costano un po’ di più. Inoltre, secondo lo studio Ipsos, Alla vigilia della nuova era plastic free, presentato a maggio 2019 al Museo della scienza e della tecnica di Milano, l’imballaggio o la confezione secondo il 41 per cento degli 
italiani è ritenuto il primo fattore di sostenibilità su cui viene valutato un marchio.

A lato della positiva attitudine dei consumatori, tuttavia, sono le scelte politiche i veri strumenti in grado di accelerare il processo, com’è stato per l’adozione dei sacchetti biodegradabili per l’ortofrutta ed è urgente la necessità di definire le regole all’interno del vasto settore produttivo di packaging e imballaggi.

fonte: www.lifegate.it

Nuova Zelanda: il cibo e' nudo - niente imballaggi o 100% compostabili





In inglese e' Food in the nude e succede in Nuova Zelanda dove un gruppo di supermercato ha deciso di eliminare gli imballaggi di plastica in toto da frutta e verdura.

Il gruppo Foodstuffs, che controlla tre catene diverse di supermercati alimentari ha firmato la New Zealand Plastic Packaging Declaration con cui si vuole eliminare il packaging oppure, ove necessario, usarlo al 100% compostabile o reciclabile entro il 2025.

Foodstuffs da sola controlla il 53% del mercato alimentare della Nuova Zelanda il che vuol dire che la sua decisione avra' un grande impatto.

In seguito all'iniziativa la sorpresa: le vendite di verdure sono aumentate... del 300%!

Mi pare che questo solo numero la dice tutta: alla gente piace il contatto con la natura, anche nel supermercato per quanto limitato. Una cosa e' toccare e vedere una melanzana, ed un altra vederla sottovuoto in una vaschetta di polistirolo.

Secondo gli addetti al settore e' la piu' grande risposta positiva a qualsiasi iniziativa mai presa dai supermercati neozelandesi in 30 anni.

Il tutto fa parte dell'iniziativa di combattere lo spreco di plastica. Come nazione la Nuova Zelanda ha deciso di abbandonare la plastica usa e getta. Le buste di plastica non sono piu distribuite e saranno illegali a partire dal 1 Luglio 2019.

L'idea del Nude Food, strano a dirsi eh? viene dagli USA. Il promotore neozelandese dell'iniziativa, Nigel Bond, venne qui e visito' un Whole Foods, una catena di supermercati che cerca di vendere il piu' possibile merce organica e senza imballaggi. C'e' pure un sistema di inumidamento che ogni tanto manda una pioggerella sulla verdura per manternerla fresca e cosi il cellophane e la vaschetta non sono necessari, ne amati.

Whole Foods e' oggi di proprieta' di Amazon, perche' a un certo punto le sue finanze non erano piu' eccellenti e ovviamente il cibo costa un po di piu'. Ma e' stato grazie a lei se il movimento della frutta e della verdura organica e' nato e trionfato qui negli USA. In un certo senso Whole Foods e' stata vittima del suo successo: quando anche i supermercati normali hanno iniziato ad avere settori organici, Whole Foods non e' piu' riuscita a tenersi in piedi da sola.

Ma torniamo a Nigel Bond: quando visito' un Whole Foods americano decise che la verdura non gli era mai sembrata cosi bella, in bella mostra. E cosi penso' di adattare l'idea e di migliorarla nel suo paese.

La pioggerella nei negozi di Bond e' ottimizzata in modo da arivare a cadenze giuste, e fa si che il cibo mantenga freschezza, colore, vitamina. L'acqua e' purificata in modo che non ci siano cloro o batteri.

Solo funghi, uva e alcuni tipi di mirtilli sono in scatole biodegradabili o reciclabili. Si stanno anche sperimentando alternative compostabili per involucri di pesce e vassioetti compostabili.

Ogni passo, e' un buon passo. 

Maria Rita D'Orsogna

fonte: https://dorsogna.blogspot.com