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Comunicare la sostenibilità del packaging è importante?

Il packaging dei prodotti di largo consumo ha un impatto ambientale enorme. La corretta comunicazione in etichetta per lo smaltimento o una confezione sostenibile possono orientare le scelte del consumatore











Quasi tre milioni di tonnellate. Questo il peso del packaging dei prodotti di largo consumo in Italia nel 2019. 

Al momento i Fridays for Future di Greta Thunberg sono in stand-by, ma la sostenibilità ambientale e la salute del Pianeta sono questioni indifferibili, anche se al momento le emergenze principali sono legate alla pandemia.

Una eredità positiva dell’attuale emergenza pandemica è la crescita della sensibilità ambientale e della consapevolezza dello stretto legame tra la salute dell’uomo e quella del Pianeta. La prima spinta in questa direzione arriva dai consumatori, diventati più informati e più esigenti, disposti anche a pagare di più un prodotto con un packaging sostenibile (il 74% dei consumatori che hanno partecipato a un sondaggio di Environmetal Leader). Il packaging è uno dei problemi da affrontare, perché ogni prodotto ha un incarto o un imballaggio che sommandosi, come abbiamo detto in apertura, genera una mole di rifiuti immensa. Molte aziende, soprattutto quelle di grandi dimensioni che hanno più risorse da investire in ricerca, hanno cominciato a studiare packaging totalmente riciclabili sia per accresciuta sensibilità ambientale che per banale scelta di marketing (ma l’importante è il risultato…) e andare così incontro alle richieste dei consumatori.

In concreto a che punto siamo su sostenibilità del packaging e su informazioni per lo smaltimento? Dallo studio dell’Osservatorio Immagino di GS1 Italy vediamo che solo il 24,5% dei prodotti alimentari presenti sugli scaffali della grande distribuzione riporta sulla confezione le corrette indicazioni per lo smaltimento del packaging e solo il 6,2% è incartato con materiale completamente riciclabile. Ma proviamo a essere ottimisti. Food Packaging Forum ha pubblicato un’indagine di Markets and Markets secondo la quale il mercato del packaging sostenibile crescerà del 42,8% entro il 2025. Un’azienda italiana che investe molto sulla sostenibilità è Vitavigor, che produce snack e grissini: è in procinto di lanciare la nuova linea di prodotti VitaPop con packaging di carta 100% riciclabile. Per Federica Bigiogera, marketing manager di Vitavigor consumare green può essere utile all’ambiente, e anche «per i clienti è sempre più importante poter contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale anche nei piccoli gesti quotidiani, acquistando un prodotto con caratteristiche più sostenibili».

Stando ai dati di Osservatorio Immagino di GS1 Italy, l’acqua minerale è campione assoluto di riciclabilità del packaging dichiarato in etichetta (100%). La maglia nera è indossata dai piatti pronti (41,2%). «Comunicare al consumatore le informazioni sulla riciclabilità del packaging ne accresce la consapevolezza, ne orienta le scelte d’acquisto e aiuta nel corretto smaltimento dei rifiuti» sottolinea Samanta Correale, Business Intelligence Senior Manager di GS1 Italy.

fonte: www.rinnovabili.it


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Packaging che sembra plastica ma va nella carta. Una lettrice chiede chiarimenti a Mulino Bianco e Misura

 

Ormai in ogni casa si fa (o si dovrebbe fare) la raccolta differenziata dei rifiuti, eppure può succedere di incontrare dei materiali o delle indicazioni di smaltimento che ci lasciano perplessi. Di seguito pubblichiamo i dubbi di una lettrice su due confezioni molto simili e le risposte delle aziende.


Ho una domanda riguardante il packaging di due prodotti. Due aziende, Mulino Bianco e Misura, impiegano lo stesso materiale per il confezionamento di alcuni prodotti e indicano entrambe lo smaltimento nella frazione della carta. Eppure il materiale sembra plastica con un sottile strato di metallo, forse alluminio. Mi ricorda il tetrapak ma molto più sottile. Vi invio anche le foto. Ma mi chiedo: siamo sicuri della correttezza delle indicazioni di smaltimento presenti sulle confezioni? Stiamo facendo del nostro meglio, oppure queste aziende continuano a prendere per i fondelli le persone che realmente credono di contribuire 
a non inquinare più? Claudia



Sia il packaging di Mulino Bianco che di Misura deve essere smaltito nella frazione della carta

Di seguito la risposta di Mulino Bianco

La riciclabilità dei nostri imballaggi a base carta è stata concordata con Comieco: i materiali, che rispettano almeno la classe B del metodo Aticelca MC501, risultano riciclabili nel flusso standard delle cartiere. Come validato con test di laboratorio dedicati, i materiali utilizzati per i sacchetti dei nostri biscotti rispondono a questi requisiti e possono quindi essere conferiti nella raccolta differenziata della carta.


Di seguito la risposta di Misura

Per quel che riguarda la tipologia del nostro incarto, pur non vedendo con chiarezza dalla foto che ci avete inviato di quale prodotto si tratti, possiamo rassicurarla che tutte le confezioni in sacchetto dei nostri biscotti e cracker Misura sono certificate carta e come tali da smaltire nella raccolta di carta e cartone, secondo le indicazioni del suo comune.

La ringraziamo per la sua segnalazione che non fa che rafforzare il nostro impegno ad andare avanti sul fronte della sostenibilità, un tema che trova sempre più persone attente e giustamente esigenti. Abbiamo intrapreso questa strada già da tempo. Siamo stati tra i primi nel mercato italiano a togliere l’olio di palma dai nostri prodotti, abbiamo introdotto uova di galline allevate a terra, abbiamo scelto la via della qualità della filiera e delle materie prime.

Nel 2020 per esempio abbiamo dato il via a una vera rivoluzione e nel settore e per primi abbiamo sostituito gli incarti di plastica di pasta e snack Misura con materiali compostabili, confezioni che possono essere conferite nella raccolta dell’umido.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Lego, addio alla plastica: solo sacchetti di carta per gli imballaggi

Addio alla plastica per le confezioni di Lego: è questo l'annuncio del produttore degli iconici mattoncini, tutti i sacchetti saranno di carta.




Addio alla plastica da imballaggio. È questa la novità annunciata da Lego, l’azienda nota per i suoi iconici mattoncini. La società ha infatti confermato un piano per eliminare tutti gli involucri in plastica, preferendo invece soluzioni in carta. Una decisione importante, all’interno di un piano più ampio di investimenti per rendere l’universo dei giocattoli sempre più sostenibile.

A partire da inizio 2021, le confezioni di Lego non conterranno più sacchetti in plastica per raccogliere e suddividere i mattoncini. In alternativa, vi saranno delle confezioni in carta: ugualmente efficaci, ma del tutto amiche dell’ambiente. Il progetto rientra in un piano di investimento di 400 milioni di dollari per migliorare la sostenibilità del gruppo nei prossimi tre anni.

Lego lavora ormai da tempo per rendere le proprie operazioni sempre più verdi. Da diversi anni ha annunciato test e sperimentazioni per la creazione di mattoncini realizzati con materiali biodegradabili. Un traguardo non semplice da raggiungere, tuttavia in vista di realizzazione nei prossimi anni.

Nel frattempo, l’azienda ha deciso di eliminare la plastica aggiuntiva nei propri prodotti, come appunto quella impiegata per le confezioni. Così ha spiegato Tim Brooks, vicepresidente della Environmental Responsibility di Lego:

Riceviamo molte lettere dai bambini, i quali ci chiedono perché usiamo ancora plastica monouso nelle nostre confezioni. Questa domanda ci ha ispirati al cambiamento. Il progetto è parte di obiettivi più ampi per rendere tutto il nostro packaging sostenibile entro il 2025.
Un risparmio del 10%

La dismissione degli involucri in plastica porterà Lego a risparmiare 5.000 tonnellate di questo materiale ogni anno. Si tratta del 10% di tutto il fabbisogno annuale dell’azienda, una porzione decisamente rilevante per un gruppo che basa i propri prodotti proprio sulla plastica.

Per produrre mattoncini, ogni anno Lego impiega 90.000 tonnellate di plastica. Una quantità importante, anche se differente rispetto a sacchetti e involucri. Mentre questi ultimi sono usa e getta, i mattoncini sono progettati per durare nel tempo e garantire un continuo riutilizzo. Tanto che il meccanismo di attacco odierno è pienamente compatibile con mattoncini prodotti anche più di 40 anni fa.

Questo non ha però impedito al gruppo di pensare più in grande e, come già anticipato, sono in corso di sperimentazione alternative vegetali o biodegradabili proprio per i mattoncini.

Fonte: CNN

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Misura riparte plasticfree: nuove confezioni compostabili e in carta fsc





La plastica rappresenta un enorme fonte di inquinamento e ridurne l’utilizzo è uno dei primi passi per diminuire i costi ambientali, economici e sulla salute.

La situazione sembra invece destinata a peggiorare ulteriormente, anche a causa di mascherine e guanti usa e getta che potrebbero aggiungersi alle tonnellate di rifiuti prodotti.

Per questo, Misura ha deciso di dare un segnale forte per una ripartenza plasticfree, sostituendo parte degli imballaggi di plastica con un packaging compostabile di origine vegetale e con carta FCS.
A cosa serve la plastica negli imballaggi e perché è necessario ridurne l’uso

La plastica è un materiale ampiamente utilizzato negli imballaggi alimentari poiché consente di proteggere i cibi dagli effetti dell’ossigeno e dell’umidità, mantenendoli freschi durante il loro stoccaggio nei magazzini e sugli scaffali dei supermercati.

Si tratta dunque di un materiale di indubbia utilità che però di contro rappresenta un enorme problema dal punto di vista ambientale.

Ogni anno infatti milioni di tonnellate di plastica finiscono nell’ambiente, dove permane per centinaia di anni, riducendosi via via in pezzi sempre più piccoli.

Plastica e microplastica costituiscono una minaccia per gli ambienti naturali e per la salute di tutti gli esseri viventi, incluso l’essere umano. Oltre a provocare ferite e avvelenamenti negli animali terrestri e marini, infatti, si stima che ognuno di noi ingerisca attraverso gli alimenti almeno 50mila microparticelle di plastica all’anno.

Siamo di fronte a una vera e propria emergenza che oggi che oggi, dopo il lockdown e con la necessità di utilizzare guanti di plastica e mascherine, rischia di sopraffarci.

Normalmente, secondo i dati WWF, solo nel Mediterraneo ogni anno arrivano 570 mila tonnellate di plastica abbandonata o raccolta in modo scorretto, a cui presto potrebbero aggiungersi oltre milioni di presidi sanitari.

Per ridurre l’inquinamento da plastica e i conseguenti costi ambientali, economici e per la salute, è necessario dunque ripartire in modo green, cominciando dal diminuire drasticamente l’utilizzo di plastica, soprattutto quella monouso utilizzata per gli imballaggi.
L’alternativa compostabile alla plastica di Misura


Per diminuire drasticamente l’utilizzo della plastica per gli imballaggi, Misura, noto marchio di alimenti formulati per coniugare gusto e benessere, ha deciso di introdurre un innovativo materiale di origine vegetale per confezionare i prodotti.

In questo modo sarà possibile eliminare due milioni e mezzo di confezioni di plastica, una quantità che potrebbe coprire oltre 22 volte Piazza Duomo a Milano.

Il nuovo packaging interesserà sette prodotti durante il 2020, la pasta integrale e gli snack della linea ‘Natura Ricca’, ma la plastica sarà eliminata anche da altri prodotti e sostituita con carta certificata FSC proveniente da coltivazioni forestali sostenibili e controllate.

In questo modo la riduzione di plastica sarà complessivamente pari al 52% rispetto allo scorso anno.Inoltre, tra il 2022 e il 2023, le nuove confezioni saranno estese anche ad altri prodotti, diminuendo ulteriormente le tonnellate di plastica per gli imballaggi, fino al 79%.

I nuovi incarti multistrato garantiranno l’effetto barriera nei confronti di ossigeno e umidità, così da mantenere inalterata la freschezza e la qualità dei prodotti.

Una volta raccolte e trattate, le confezioni non andranno a sommarsi alle tonnellate di rifiuti che produciamo ogni anno poiché si trasformeranno in compost per fertilizzare il suolo.

L’innovazione, presentata in occasione della Giornata mondiale dell’Ambiente, è nata grazie alla collaborazione tra Misura e Novamont, gruppo che ha sviluppato la bioplastica Mater-Bi, e con il contributo scientifico dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e di Slow Food.

Un percorso tra diverse realtà, tra cui anche Saes, Sacchital e TicinoPlast, durato oltre due anni che oggi consentirà una ripartenza del marchio sotto il segno della sostenibilità ambientale.

Con l’adozione dei nuovi imballi multistrato compostabili, Misura non intende solo adottare una soluzione sostenibile per confezionare i propri prodotti, ma anche essere d’esempio.

L’impegno plasticfree di Misura vuole infatti essere di ispirazione per un cambiamento nel mondo del packaging alimentare, dimostrando che è possibile ridurre sensibilmente l’utilizzo di plastica e sostituirla con materiali ugualmente in grado di conservare gli alimenti, ma con un impatto positivo sull’ambiente.

Pochi anni fa abbiamo rinunciato all’uso dei sacchetti di plastica per la spesa, sostituendoli con shopper biodegradabili: un’esperienza italiana che si è poi trasformata in legge europea.

Eliminando la plastica dagli imballaggi alimentari, Misura ha l’ambizione di fare da apripista per l’intero settore agroalimentare, nonché di lanciare un forte segnale altri Paesi perché facciano altrettanto.

fonte: www.greenme.it



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Bisfenolo A: tutto da rifare. L’esposizione al Bpa probabilmente sottostimata dai metodi di dosaggio usati finora

















Con ogni probabilità, l’esposizione al bisfenolo A (Bpa) è stata sin qui calcolata in modo sbagliato, e tutti ne assumiamo più del previsto: molto di più. Un’analisi, appena pubblicata su Lancet Diabetes & Endocrinology dai ricercatori di diverse università statunitensi, dimostra  che i metodi di quantificazione ufficiali usati finora, tutti indiretti, sono grossolani e sottostimano i valori di Bpa. Applicandone uno più preciso e diretto si arriva a numeri  lontani da quelli ritenuti medi, sui quali sono sempre state basate le decisioni delle autorità sanitarie.
Ma andiamo con ordine. Il bisfenolo A, che arriva all’organismo da innumerevoli fonti, tra le quali numerosi materiali per confezionare i cibi, cosmetici, scontrini in carta termica e così via, viene subito metabolizzato. Per questo si è pensato di dosare, oltre al Bpa, anche i suoi derivati o metaboliti, i principali dei quali sono il Bpa solfato e il Bpa glucuronide, e di separare il bisfenolo a essi legato con un enzima della lumaca Helix pomatia, per quantificare  il tutto e sommarlo a quello libero circolante.
Questo approccio indiretto dipende molto dalla quantità di enzimi usati. Questo spiega perché, nonostante i moltissimi dati ottenuti in vitro e sugli animali abbiano dimostrato  che la sostanza è un interferente endocrino, le restrizioni adottate dalle autorità sanitarie dei diversi paesi siano sempre state piuttosto blande e circoscritte (per esempio ai biberon per bambini). I valori medi riscontrati nelle urine delle persone sommando il Bpa libero e quello derivato dai due metaboliti, sono sempre stati lontani dalle soglie di sicurezza.
Nel 2012 è stata lanciata l’iniziativa Clarity- Bpa, da Consortium linking academic and regulatory insights on toxicity of Bpa, volta proprio a chiarire le discrepanze, e si è visto che i danni iniziano a comparire a una dose molto più bassa di quella ritenuta sicura, ovvero a 2,5 microgrammi per chilo di peso, contro i 5 mila fissati come valore soglia. Tuttavia nulla è cambiato, proprio perché si è continuato a pensare che le concentrazioni assunte dall’uomo fossero comunque molto basse, e non preoccupanti.
biberon bpa
Secondo un’analisi, l’esposizione della popolazione al Bpa è stata probabilmente sottostimata dai test ufficiali utilizzati. Limiti esistono per i biberon
Ora i ricercatori hanno impiegato un metodo nuovo, che misura direttamente i metaboliti in base a standard predefiniti, lo hanno applicato all’urina di 29 donne incinte e hanno confrontato i risultati con quelli ottenuti con i dosaggi tradizionali. Hanno così visto che con i nuovi test la concentrazione media era addirittura di 44 volte superiore a quella dei dosaggi indiretti, cioè 51,99 nanogrammi per millilitro di urina, e anche più alta – di 19 volte – del valore medio ottenuto nel grande studio di popolazione National health and nutrition examination survey (Nhanes), pari a 2,77 nanogrammi per millilitro.
Per evitare errori indotti dai possibili cambiamenti metabolici dovuti alla gravidanza, il test è stato condotto anche sull’urina di cinque uomini e di cinque donne non incinte, e i risultati sono stati del tutto simili. Gli autori hanno poi compilato un database di 80 altri metaboliti minori, che potrebbero anch’essi essere sottoposti alla reazione diretta e aiutare quindi a fornire un quadro ancora più esatto.
Scontata la conclusione: i ricercatori invitano le autorità sanitarie a utilizzare questo nuovo sistema, e a rivedere i valori e le indicazioni date per buone finora. Inoltre ricordano che praticamente tutti i metodi analitici ufficiali usati per esempio per quantificare parabeni, triclosan, benzofenone e altre sostanze sospette si basano su analisi indirette simili a quelle del Bpa, e i risultati potrebbero quindi essere stati sempre sottostimati.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

Pasta, latte e vino si comprano sfusi come nell’Italia degli anni Sessanta

Il boom economico ha gradualmente introdotto i prodotti di marca e il packaging












E’ stato il boom economico degli anni ’60 a decretare la graduale fine della vendita dei prodotti sfusi nel nostro paese. La nascita dei primi supermercati all’«americana» e le popolarissime réclame di Carosello fecero scoprire agli italiani la fascinazione dei prodotti di marca, la magia dei lunghi banconi carichi di scatole di cartone e flaconi di plastica. Ma per molti anni nel Belpaese tutto (dalla frutta all’olio, al vino e alle sigarette) si vendeva sfuso: niente plastica o cellophane, ma cartocci confezionati dai negozianti con carta paglia, carta pane, carta oleata, carta da zucchero. Per i liquidi, come vino ed olio, ci pensavano i clienti a portarsi le bottiglie da casa. E dai grandi sacconi di tela o juta sgorgavano legumi e grani. Poi, la Rivoluzione del commercio, l’infatuazione per le Grandi Marche (che comunque facevano pagare ai consumatori il costo del packaging e della pubblicità), la «igienizzazione» dello smercio dei prodotti alimentari hanno cambiato tutto. Fino ad oggi: complice la crescente attenzione di cittadini e famiglie per l’ambiente, ma soprattutto per il devastante costo economico ed ambientale del packaging (a cominciare dalla ormai tenutissima plastica) la tendenza si è invertita. E lo «sfuso» sta gradualmente riconquistando spazi, trovando consumatori sempre più interessati e molte catene commerciali pronte a rispondere alla domanda di prodotti sfusi, che consentono agli acquirenti di comprare quantità «libere» e risparmiando sul costo del confezionamento.
Una tendenza colta anche dal governo, che nel progettato decreto clima ha previsto un bonus per chi compra sfuso. Vero è che per adesso i prodotti non confezionati sono ancora una Cenerentola negli acquisti. Lo dimostrano le 2,1 milioni di tonnellate di plastica usate per gli imballaggi ogni anno in Italia, di cui secondo i dati Wwf il 76% appartengono al settore Food & Beverage.
Eppure, secondo uno studio della Coldiretti il 44% degli italiani si vuole impegnare nella lotta al cambiamento climatico anche riducendo gli acquisti di prodotti con imballaggi eccessivi. Per adesso, trovando però un’offerta ancora piuttosto modesta di negozi pronti a soddisfare questa domanda, che rifiuta il modello dominante di «mono-miniporzioni» per single, gli imballaggi ingombranti, i sette strati di cellophane in cui sono avvolti i cibi, le bottigliette d’acqua da 33 cl, con plastica per sole quattro sorsate.
Fatto sta che dal Nord al Sud sono sempre di più i punti vendita che vendono almeno una parte dei prodotti sfusi, tra cui andrebbero contati anche i banchi dei mercati rionali, le drogherie e i negozi etnici. Qualche nome: Mamma Natura e l’Angolo DiVino a Milano, Verde Sfuso a Genova, Mille Bolle a Mantova (detersivi); Sacco Matto a Torino; Effe Corta a Milano, Padova, Capannori e Prato (dove c’è anche Fuori dalle Scatole); Ettogrammo a Verona; Verde Serre a Reggio Emilia; Bio al sacco a Pisa; Pesonetto a Pesaro; Saponando a Roma, ProSud a Napoli; Tutto Sfuso ad Altamura; La Bottega del Pulito a Potenza; Quanto Basta a Spezzano della Sila.
Un esempio virtuoso e più «organizzato» è quello degli imprenditori torinesi di Negozio Leggero – premiati anche come #GreenHeroes dell’economia sostenibile dall’attore Alessandro Gassmann e da La Stampa-Tuttogreen – che dal 2010 a Torino vendono caramelle, caffè, cereali, farine, legumi, pasta, spezie, vini, detergenti, prodotti per l’igiene personale e trucchi. Tutto sfuso, con un successo commerciale clamoroso che ha portato - da Palermo a Parigi - all’apertura di 15 punti vendita. Oppure, la catena di prodotti biologici NaturaSì, che dopo aver eliminato le bottiglie di acqua in plastica dagli scaffali, aver scelto i sacchetti riutilizzabili per l’ortofrutta, e avviato la vendita sfusa di detersivi certificati ICEA, ha cominciato a vendere nei suoi supermercato bio oltre 22 prodotti - riso, farro integrale, quinoa, avena, miglio, fagioli, ceci, lenticchie rosse, piselli spezzati, zuppe, mandorle sgusciate, nocciole sgusciate, muesli, fiocchi d’avena, semi misti, frutta secca - senza confezioni tradizionali, ma con appositi erogatori per lo sfuso. Un’operazione che costa - e non poco - all’azienda, ammette il presidente di EcorNaturaSì Fabio Brescacin. Ma che elimina più di 6.500 chili l'anno di plastica per le piccole confezioni, riduce il consumo di acqua e le emissioni, e soprattutto fa risparmiare il 10 per cento sul prezzo dei prodotti senza confezione ai consumatori. Che possono trasportare gli alimenti erogati alla spina in sacchetti lavabili e riutilizzabili per sfusi, realizzati in cotone bio con trattamenti ecologici del tessuto.
fonte: www.lastampa.it

Lo spreco alimentare per ignoranza: la confusione sulla data di scadenza spinge a gettare via cibo ancora commestibile. Lo studio americano


















Lo spreco di cibo deriva anche dalla scarsa conoscenza del vero significato della data di scadenza riportata sulle etichette. Lo dimostra uno studio pubblicato su Waste Management dai ricercatori del Johns Hopkins Centre for a Livable Future di Baltimora, nel quale oltre mille persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni sono state interrogate sulle abitudini domestiche e sulle opinioni relative alle diciture che indicano le scadenze di nove diversi cibi.
Il risultato è che l’84% dei partecipanti ha ammesso di buttare via alimenti vicini alla data di scadenza almeno occasionalmente, e il 37% di farlo abitualmente. Più della metà delle persone aveva idee errate sulla scadenza. C’è chi pensa a una regolamentazione stabilita a livello federale, chi ritiene la data   un’indicazione relativa al giorno successivo rispetto all’effettiva scadenza, mentre in realtà si tratta di consigli dei produttori. Proprio questo gruppo, soprattutto se di età compresa tra i 18 e i 34 anni, era più inclini a eliminare cibo ancora confezionato.
Negli Stati Uniti le nuove norme adottate da pochi mesi, prevedono due tipi di diciture: “da consumarsi preferibilmente entro…”, che indica il giorno oltre il quale la qualità nutrizionale dell’alimento non è più assicurata al 100% perché potrebbe progressivamente diminuire, e “da consumare prima di…”,  che indica  la data entro la quale il prodotto deve essere consumato. Anche se in linea generale gli intervistati associano la prima dicitura alla qualità e la seconda alla sicurezza e tendono a buttare più spesso i cibi su cui compare la scadenza e quelli deperibili, ci sono alcuni aspetti meno scontati, a dimostrazione del fatto che il messaggio delle diciture non è correttamente interpretato.
Così, per esempio, il pollo crudo è molto temuto e il 69% degli intervistati lo “cestina”  quando è vicino alla data di scadenza, mentre potrebbe essere consumato anche nei giorni successivi, dopo un’attenta e completa cottura. Per quanto riguarda gli alimenti confezionati, il 62% afferma di buttarli quando si raggiunge la data indicata, così come sostiene di fare il 61% delle persone per i piatti pronti a base di carne. Se  si approfondisce il tema però  si score che la percentuale di chi lo getta il formaggio molle scaduto è pari al 49%, anche se si tratta di prodotti  che rappresentano una fonte reale di contaminazione batterica. Ultimi in classifica sono risultati i cibi in scatola e i cereali da colazione, che comunque il 47% degli intervistati dice di buttare dopo la data impressa sull’etichetta, anche se è noto che il pericolo per questi cibi è molto basso.
etichetta cibo uomo
Il 47% degli intervistati dice di buttare dopo la data impressa sull’etichetta cereali per la colazione e carne in scatola anche se i rischi sono improbabili
In definitiva, concludono gli autori, c’è bisogno di una seria campagna di informazione – soprattutto mirata ai giovani, che sembrano essere più attenti, ma troppo spesso male informati – per spiegare  meglio di quanto non si sia fatto finora il reale significato delle date apposte sulle confezioni degli alimenti.
fonte: www.ilfattoalimentare.it