Con ogni probabilità, l’esposizione al bisfenolo A (Bpa) è stata sin qui calcolata in modo sbagliato, e tutti ne assumiamo più del previsto: molto di più. Un’analisi, appena pubblicata su Lancet Diabetes & Endocrinology dai ricercatori di diverse università statunitensi, dimostra che i metodi di quantificazione ufficiali usati finora, tutti indiretti, sono grossolani e sottostimano i valori di Bpa. Applicandone uno più preciso e diretto si arriva a numeri lontani da quelli ritenuti medi, sui quali sono sempre state basate le decisioni delle autorità sanitarie.
Ma andiamo con ordine. Il bisfenolo A, che arriva all’organismo da innumerevoli fonti, tra le quali numerosi materiali per confezionare i cibi, cosmetici, scontrini in carta termica e così via, viene subito metabolizzato. Per questo si è pensato di dosare, oltre al Bpa, anche i suoi derivati o metaboliti, i principali dei quali sono il Bpa solfato e il Bpa glucuronide, e di separare il bisfenolo a essi legato con un enzima della lumaca Helix pomatia, per quantificare il tutto e sommarlo a quello libero circolante.
Questo approccio indiretto dipende molto dalla quantità di enzimi usati. Questo spiega perché, nonostante i moltissimi dati ottenuti in vitro e sugli animali abbiano dimostrato che la sostanza è un interferente endocrino, le restrizioni adottate dalle autorità sanitarie dei diversi paesi siano sempre state piuttosto blande e circoscritte (per esempio ai biberon per bambini). I valori medi riscontrati nelle urine delle persone sommando il Bpa libero e quello derivato dai due metaboliti, sono sempre stati lontani dalle soglie di sicurezza.
Nel 2012 è stata lanciata l’iniziativa Clarity- Bpa, da Consortium linking academic and regulatory insights on toxicity of Bpa, volta proprio a chiarire le discrepanze, e si è visto che i danni iniziano a comparire a una dose molto più bassa di quella ritenuta sicura, ovvero a 2,5 microgrammi per chilo di peso, contro i 5 mila fissati come valore soglia. Tuttavia nulla è cambiato, proprio perché si è continuato a pensare che le concentrazioni assunte dall’uomo fossero comunque molto basse, e non preoccupanti.

Ora i ricercatori hanno impiegato un metodo nuovo, che misura direttamente i metaboliti in base a standard predefiniti, lo hanno applicato all’urina di 29 donne incinte e hanno confrontato i risultati con quelli ottenuti con i dosaggi tradizionali. Hanno così visto che con i nuovi test la concentrazione media era addirittura di 44 volte superiore a quella dei dosaggi indiretti, cioè 51,99 nanogrammi per millilitro di urina, e anche più alta – di 19 volte – del valore medio ottenuto nel grande studio di popolazione National health and nutrition examination survey (Nhanes), pari a 2,77 nanogrammi per millilitro.
Per evitare errori indotti dai possibili cambiamenti metabolici dovuti alla gravidanza, il test è stato condotto anche sull’urina di cinque uomini e di cinque donne non incinte, e i risultati sono stati del tutto simili. Gli autori hanno poi compilato un database di 80 altri metaboliti minori, che potrebbero anch’essi essere sottoposti alla reazione diretta e aiutare quindi a fornire un quadro ancora più esatto.
Scontata la conclusione: i ricercatori invitano le autorità sanitarie a utilizzare questo nuovo sistema, e a rivedere i valori e le indicazioni date per buone finora. Inoltre ricordano che praticamente tutti i metodi analitici ufficiali usati per esempio per quantificare parabeni, triclosan, benzofenone e altre sostanze sospette si basano su analisi indirette simili a quelle del Bpa, e i risultati potrebbero quindi essere stati sempre sottostimati.
fonte: www.ilfattoalimentare.it