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Biodegradabile non vuol dire quello che pensiamo

Alcuni elementi o imballaggi che sembrano facili da smaltire non lo sono poi così tanto









Negli ultimi anni un po’ dappertutto sono state adottate politiche per limitare l’uso della plastica e favorire invece l’utilizzo di imballaggi ecosostenibili, con l’obiettivo di ridurre l’inquinamento e limitare l’impatto ambientale dei rifiuti che produciamo ogni giorno. Tuttavia, c’è ancora un po’ di confusione su quale sia la differenza tra “biodegradabile” e “compostabile”. Un materiale classificato come biodegradabile non ha necessariamente un basso impatto ambientale, anzi: spesso alcuni tipi di imballaggio devono essere sottoposti a processi di smaltimento industriali che producono emissioni inquinanti e in ogni caso non si degradano in natura in tempi brevi o senza conseguenze sull’ambiente, come spesso siamo portati a immaginare.

Lo ha spiegato bene al New York Times Jason Locklin, direttore dell’Istituto dei Nuovi Materiali all’Università della Georgia, negli Stati Uniti, secondo cui la differenza tra “biodegradabile” e “compostabile” «disorienta parecchio non solo i consumatori, ma anche diversi scienziati». Secondo una ricerca di mercato citata dal Times, il 34 per cento delle persone intervistate pagherebbe di più per comprare acqua in bottiglie biodegradabili al 100 per cento, ma secondo i critici ai consumatori non è ben chiaro come i prodotti vengano smaltiti, e comunque chi progetta materiali biodegradabili spesso non ha ben chiare le conseguenze dell’intero ciclo di vita del prodotto.


Siamo portati a pensare che tutto ciò che è biodegradabile si possa decomporre in natura senza impatto ambientale, ma non è proprio così.


È il caso della carta, che di per sé è riciclabile, ma che negli imballaggi di tipo alimentare viene spesso usata con altri strati di plastica, alluminio o materiali che hanno funzione di protezione ma rendono praticamente impossibile il riciclo – peraltro uno dei motivi per cui Pringles sta provando a cambiare i tubi delle sue note confezioni di patatine.

È anche il caso degli imballaggi biodegradabili in PLA (acido polilattico), che si ricavano dalla lavorazione del mais o altre piante e da cui si ottengono bicchieri, posate e contenitori alimentari molto diffusi, studiati appositamente perché si smaltiscano entro poche settimane. Il problema è che i contenitori in PLA si decompongono rapidamente soltanto a temperature molto elevate, sopra i 60°C, e con un certo grado di umidità, pertanto si degradano in maniera efficace solo se vengono smaltiti attraverso un processo industriale: questo significa che se venissero dispersi in natura o finissero in discarica, senza le giuste condizioni, potrebbero volerci mesi o anche anni prima della loro completa degradazione.


“Biodegradabile” e “compostabile”, infatti, non sono sinonimi. Un materiale compostabile è anche biodegradabile, ma un materiale biodegradabile non è necessariamente compostabile o ecosostenibile.

Le direttive dell’Unione Europea definiscono biodegradabili i rifiuti da imballaggio che hanno «natura tale da poter subire una decomposizione fisica, chimica, termica o biologica grazie alla quale la maggior parte del compost di risulta finisca per decomporsi in biossido di carbonio, biomassa e acqua». Rispetto al materiale biodegradabile, quello compostabile si disintegra completamente in tempi più brevi – nel giro di poche settimane – e dopo il trattamento può essere riciclato per essere utilizzato come fertilizzante naturale o trasformato in biometano.

Tuttavia, anche i prodotti compostabili in bagassa, che si ottiene dalla polpa della canna da zucchero ed è diventata uno dei materiali più impiegati per realizzare piatti e contenitori monouso per il cibo d’asporto, hanno fatto discutere. Il Los Angeles Times per esempio ha raccontato che le ciotole usate dalla catena statunitense Sweetgreen, che vende insalate e cibi salutari, non erano compostabili come era stato pubblicizzato: contenevano infatti sostanze perfluoroalchiliche (PFAS), ovvero composti chimici impiegati per rendere le superfici impermeabili ad acqua e grassi. Le PFAS sono considerate dannose per la salute e soprattutto, in questo caso, contaminavano l’ambiente dopo la conclusione del processo di compostaggio, rendendo inefficace lo scopo iniziale del loro utilizzo.


Per questo, esistono enti come il Consorzio Italiano Compostatori (CIC) che si occupano di certificare quali materiali siano compostabili, interagendo sia con le imprese produttive, sia con le aziende che si occupano di smaltimento e riciclo. Solo se un materiale è classificato come compostabile si può avere la certezza che, dopo la degradazione del prodotto, nell’ambiente non finirà alcuna sostanza artificiale e si abbia davvero un materiale ecosostenibile.

Teoricamente, i materiali biodegradabili e compostabili certificati EN 13432, come i sacchetti in bioplastica per la spesa, andrebbero smaltiti nella raccolta differenziata assieme ai rifiuti organici, per essere poi avviati al corretto impianto di smaltimento. Tuttavia, da questo punto di vista ci sono indicazioni diverse. A Milano funziona così, mentre AMA, la società che si occupa dei rifiuti a Roma, dice che i sacchetti biodegradabili vanno conferiti nell’indifferenziato.

Come viene spiegato nel rapporto sui Rifiuti Urbani dell’ISPRA – l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale – nel 2018 sono state trattati circa 2,8 milioni di tonnellate in impianti di trattamento integrato anaerobico/aerobico, mentre circa 304 mila tonnellate sono state avviate in impianti di digestione anaerobica. In Italia per i prossimi anni è previsto il potenziamento dei vari tipi di impianti di compostaggio dedicati al trattamento biologico dei rifiuti urbani, perché in alcuni casi lo smaltimento dei rifiuti urbani organici avviene ancora in discarica.


A ogni modo, nel nostro paese la ricerca di tecnologie efficienti in campo di prodotti e imballaggi a basso impatto ambientale va avanti da oltre trent’anni. Per esempio, l’azienda novarese Novamont ha brevettato già diversi anni fa MATER-BI, una famiglia di bioplastiche biodegradabili e compostabili che sono certificate secondo le principali norme europee e internazionali e vengono impiegate in diversi settori, dalla ristorazione alla raccolta differenziata, mentre di recente l’azienda lodigiana Intimaluna ha introdotto sul mercato gli assorbenti EcoLuna, che non contengono plastica e sono compostabili con certificazione ICEA.

fonte: www.ilpost.it


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La lezione dell’Università di Plymouth sulle buste biodegradabili: non esistono pasti gratis

Anche il sacchetto biodegradabile e compostabile è «progettato per essere gestito nel circuito della raccolta dell’umido in appositi impianti industriali», spiegano da Assobioplastiche. Non si tratta di una panacea contro i rifiuti in plastica tradizionale




















Un nuovo studio sugli imballaggi biodegradabili condotto dai ricercatori Imogen E. Napper e Richard C. Thompson dell’Università di Plymouth, i cui risultati sono stati divulgati ieri, aiuta a circoscrivere meglio il contributo che questi materiali possono dare nel gestire i nostri rifiuti, e in particolare a ridurre l’inquinamento da plastica, provando a rispondere a una semplice domanda: cosa accade in tre anni a un tipo di sacchetto in polietilene alta densità, due sacchetti oxo-degradabili, un sacchetto con sopra apposta la parola “biodegradabile” e, infine, un sacchetto biodegradabile e compostabile?
Queste buste sono state lasciate esposte all’aria aperta, nel suolo e in mare, ambienti che potrebbero potenzialmente incontrare se scartate – e non correttamente conferite nei rispettivi contenitori per l’immondizia – come rifiuti. Dopo 9 mesi tutte le buste esposte all’aria aperta si erano frammentate in pezzi più piccoli; se interrate o lasciate in mare, le buste biodegradabili, oxo-biodegradabili e convenzionali dopo 3 anni non solo erano integre, ma ancora in grado di essere usate per trasportare un carico; anche il sacchetto biodegradabile e compostabile, pur con qualche segno di deterioramento e incapace di trasportare un carico, è risultato presente nel sottosuolo dopo 27 mesi, mentre in ambiente marino si è disintegrato dopo 3 mesi.
«Questa ricerca – spiega Thompson – solleva una serie di domande su ciò che il pubblico potrebbe aspettarsi quando vede qualcosa etichettato come biodegradabile. Abbiamo dimostrato che i materiali testati non presentavano alcun vantaggio consistente, affidabile e rilevante contro i rifiuti marini. Mi interessa che questi nuovi materiali presentino anche sfide nel loro riciclaggio. Il nostro studio sottolinea la necessità di standard relativi ai materiali degradabili, delineando chiaramente il percorso di smaltimento appropriato e i tassi di degradazione che possono essere previsti».
È bene però precisare che non si tratta di una novità: come Assobioplastiche – l’Associazione italiana delle bioplastiche e dei materiali biodegradabili e compostabili – asserisce sin dalla sua nascita è «scorretto utilizzare il termine “biodegradabile” rispetto a prodotti a base di polimeri tradizionali o con l’aggiunta di additivi che ne accelerano la frammentazione (i cosiddetti oxo-degradabili). Gli unici prodotti a potersi fregiare correttamente di tale definizione sono quelli in bioplastica compostabile, come peraltro già chiarito nel 2015 in Italia dall’Agcm (direzione Tutela del consumatore) nel caso dei sacchetti oxo-degradabili, all’epoca utilizzati da alcune insegne della Gdo». Ed è vero che lo studio dell’Università di Plymouth ci dice che «solo il sacchetto biodegradabile e compostabile anche se erroneamente disperso nell’ambiente per effetto di cattive abitudini (littering), va incontro a totale decomposizione in ambiente marino in soli tre mesi e presenta un impatto ambientale ridotto».
Il fatto è che la biodegradabilità «non deve essere mai vista come una più comoda soluzione o una scusa per la disseminazione incontrollata nell’ambiente (che porterebbe al paradosso di legittimare ad esempio il littering degli scarti e residui organici in mare, in quanto biodegradabili)». Si tratta di un rischio cui il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) ha messo in guardia sin dal 2015; e che è stato affrontato con chiarezza nel 2017 da un gigante industriale del settore, l’italiana Novamont; la soluzione «non è la biodegradazione in quanto tale (che comunque i sacchetti in bioplastica compostabile possiedono a differenza degli altri), quanto la ricerca e l’applicazione di modelli di corretta gestione dei rifiuti organici», sottolinea oggi Assobioplastiche. Ricordando che anche gli imballaggi in materiali biodegradabili e compostabili «sono progettati per essere gestiti nel circuito della raccolta dell’umido in appositi impianti industriali». Cercare di affibbiare loro l’etichetta di panacea contro il problema dei rifiuti, marini in particolare, fa male alla credibilità del settore quanto alla salubrità dell’ambiente: è qui che si gioca il ruolo di una buona comunicazione in materia.
fonte: www.greenreport.it

Shopper illegali. Assobioplastiche in Commissione Ecomafie: 'In Italia rimangono ancora oltre 40mila tonnellate di sacchetti non a norma'

La Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati ha audito il presidente dell’associazione Assobioplastiche Marco Versari e il direttore Carmine Pagnozzi.

















La Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati questo pomeriggio ha audito il presidente dell’associazione Assobioplastiche Marco Versari e il direttore Carmine Pagnozzi. Il tema dell’audizione sono stati gli illeciti legati alla contraffazione dei sacchetti biodegradabili e compostabili.

I due rappresentanti hanno delineato il fenomeno, dando alcuni numeri sulle dimensioni del mercato illegale delle buste. «Per la prima volta, il mercato legale ha di poco superato la quota del 50%. Tuttavia, in Italia rimangono ancora oltre 40mila tonnellate di sacchetti non a norma», ha dichiarato Versari. Secondo le informazioni riferite dagli auditi, la filiera legale oggi vale 550 milioni di euro, mentre il giro d’affari di quella illegale è stimabile in 400 milioni di euro.

Durante l’audizione, i due rappresentanti di Assobioplastiche hanno anche spiegato le dinamiche economiche che caratterizzano il mercato dei sacchetti illegali, oggi utilizzati quasi esclusivamente dai venditori ambulanti, nei mercati e nei piccoli negozi al dettaglio. Ambienti dove è più difficile fare informazione dei singoli esercenti. «La filiera è molto parcellizzata e caratterizzata da soggetti con sospetti legami con la criminalità organizzata. La distribuzione ai commercianti avviene attraverso operatori che vendono i sacchetti in contanti. Questi si approvvigionano da piccoli distributori in città, che a loro volta fanno capo a distributori più grandi. L’ultimo anello della distribuzione si rifornisce tramite importazione», ha spiegato Pagnozzi.

Nel tempo, secondo quanto dichiarato da Versari, anche le forme di illegalità si sono evolute. «All’inizio si mettevano in commercio prodotti che dissimulavano la conformità alla legge sulla compostabilità. Oggi, invece, si commercializzano prodotti fuori norma ma anonimi, limitando così le possibili conseguenze sul piano giuridico: in quest’ultimo caso, infatti, si dovrà rispondere solo di un illecito amministrativo».

«La Commissione intende accendere un faro su questa filiera invisibile: vogliamo risalire agli operatori che importano i sacchetti illegali, senza limitarci a colpire i piccoli commercianti che oggi ne fanno uso. Con questo obiettivo, stiamo già lavorando a un protocollo con Assobioplastiche e gli organi di controllo territoriali», ha dichiarato il Presidente della Commissione Stefano Vignaroli.

Link al video dell'audizione: https://webtv.camera.it/evento/13601