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Fare bene la raccolta dell’organico conviene, a noi e al pianeta
Un’analisi aggiornata e puntuale del settore del settore del riciclo dell’organico, che punta sempre di più sulla circolarità dei processi industriali per garantire una qualità elevata degli scarti organici e contribuire a contrastare gli effetti del riscaldamento globale. Dando, inoltre, un aiuto prezioso all’economia del nostro paese.
Persino al miglior riciclatore del mondo, anche al più motivato e meglio attrezzato, sarà successo almeno una volta di accorgersi che i sacchetti biodegradabili per l’umido sono finiti, e di pensare, con un pizzico di vergogna, “solo per stavolta, uso quello di plastica, dovrebbe essercene uno in fondo all’armadio…”. In realtà, questa scena dev’essere molto frequente (e di certo si accompagna a molti meno ripensamenti), almeno a giudicare dai risultati di un’indagine condotta da Cic e Corepla che ha calcolato quanta plastica finisce nel circuito del compostaggio (e quanta bioplastica finisce invece in quello del riciclo meccanico). Secondo lo studio, più del 36% dei sacchetti usati per la raccolta dell’umido non sono infatti compostabili: si tratta soprattutto dei tradizionali shopper in plastica (ce ne devono essere ancora moltissimi nascosti in fondo agli armadi, visto che sono ormai fuorilegge…) e dei sacchi per l’indifferenziato.
Quello della qualità della raccolta dell’umido – elemento centrale sia per l’ottimizzazione del processo di trattamento, con la riduzione degli scarti avviati a smaltimento e la riduzione dei costi, sia per ottenere un fertilizzante organico con un’elevata qualità agronomica – è uno dei temi centrali Biowaste – Risorsa per l’economia circolare, volume in formato digitale curato da Massimo Centemero ed Elisabetta Bottazzoli che sintetizza i risultati dell’attività del Consorzio Italiano Compostatori e ne delinea le prospettive future.
Il bilancio tracciato nel testo è complessivamente positivo: i numeri della raccolta della frazione organica sono in crescita, sia per il miglioramento dei sistemi di raccolta separata dei rifiuti sia per il ruolo, sempre più rilevante, delle regioni del Meridione e delle Isole. In particolare, nel 2018 in Italia la raccolta dell’umido e del verde ha superato i sette milioni di tonnellate, che corrispondono a quasi 120 chilogrammi pro capite/anno. Numeri importanti, che fanno ben sperare per il raggiungimento degli obiettivi (molto ambiziosi) fissati dal Pacchetto sull’economia circolare del Parlamento europeo per la gestione dei rifiuti: si punta infatti al 65% al 2035 di preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio degli urbani, mentre per quanto riguarda il divieto di collocamento in discarica degli urbani il target è massimo il 10% al 2035. Secondo i curatori del volume, una nota negativa è rappresentata dalla stagnazione della raccolta differenziata della frazione verde che, dopo avere raggiunto i due milioni di tonnellate, a partire dal 2016 ha interrotto il trend di crescita, arrivando addirittura a una flessione in alcuni anni.
In ogni caso, il quadro rimane incoraggiante, con prospettive di crescita molto interessanti anche in un’ottima di economia circolare. Il direttore del Consorzio, Massimo Centemero, dedica infatti diverse pagine al biometano ricavato attraverso dei processi di upgrading delle linee di produzione del biogas. Il biometano così ottenuto è di qualità pari o superiore di quello di origine fossile, e può essere usato nei trasporti e per le utenze domestiche e industriali. Al 2019 la produzione potenziale di biometano dei primi nove impianti operativi si aggirava intorno ai 100 milioni m3/anno, ma secondo le stime del Cic, qualora tutti gli impianti di taglia medio-grande si riconvertissero alla produzione di biometano da rifiuti organici, si potrebbe arrivare a circa 500 milioni m3/ anno, con ricadute estremamente positive per l’economia e l’occupazione.
Inoltre, a fronte della preoccupante accelerazione delle manifestazioni dei cambiamenti climatici, nel libro viene più volte rimarcato il contributo fondamentale che la produzione di compost può dare al sequestro del carbonio nei suoli. L’aumento delle temperature e le variazioni nei regimi delle precipitazioni (combinati con pratiche agricole invasive) rischiano infatti di trasformare i suoli, che oggi sono ancora assorbitori netti di carbonio, in sorgenti di CO2, con il rischio di innescare retroazioni positive molto pericolose. L’aggiunta di compost contribuisce invece a mantenere in salute i suoli e a preservarne la fertilità e la biodiversità. Anche se queste considerazioni possono sembrare remote, secondo i dati presentati in occasione dell’ultima giornata mondiale contro la desertificazione, le percentuali di territorio a rischio desertificazione nel nostro paese sono del 70% in Sicilia, del 58% in Molise, 57% in Puglia, 55% in Basilicata, mentre in Sardegna, Marche, Emilia Romagna, Umbria, Abruzzo e Campania sono comprese tra il 30 e il 50% (complessivamente il 20% del territorio italiano in pericolo di desertificazione.
Un motivo in più per pensarci, la prossima volta che ci viene la tentazione di recuperare quel vecchio sacchetto nascosto in fondo all’armadio.
fonte: https://www.puntosostenibile.it
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La lezione dell’Università di Plymouth sulle buste biodegradabili: non esistono pasti gratis
Anche il sacchetto biodegradabile e compostabile è «progettato per essere gestito nel circuito della raccolta dell’umido in appositi impianti industriali», spiegano da Assobioplastiche. Non si tratta di una panacea contro i rifiuti in plastica tradizionale
Un nuovo studio sugli imballaggi biodegradabili condotto dai ricercatori Imogen E. Napper e Richard C. Thompson dell’Università di Plymouth, i cui risultati sono stati divulgati ieri, aiuta a circoscrivere meglio il contributo che questi materiali possono dare nel gestire i nostri rifiuti, e in particolare a ridurre l’inquinamento da plastica, provando a rispondere a una semplice domanda: cosa accade in tre anni a un tipo di sacchetto in polietilene alta densità, due sacchetti oxo-degradabili, un sacchetto con sopra apposta la parola “biodegradabile” e, infine, un sacchetto biodegradabile e compostabile?
Queste buste sono state lasciate esposte all’aria aperta, nel suolo e in mare, ambienti che potrebbero potenzialmente incontrare se scartate – e non correttamente conferite nei rispettivi contenitori per l’immondizia – come rifiuti. Dopo 9 mesi tutte le buste esposte all’aria aperta si erano frammentate in pezzi più piccoli; se interrate o lasciate in mare, le buste biodegradabili, oxo-biodegradabili e convenzionali dopo 3 anni non solo erano integre, ma ancora in grado di essere usate per trasportare un carico; anche il sacchetto biodegradabile e compostabile, pur con qualche segno di deterioramento e incapace di trasportare un carico, è risultato presente nel sottosuolo dopo 27 mesi, mentre in ambiente marino si è disintegrato dopo 3 mesi.
«Questa ricerca – spiega Thompson – solleva una serie di domande su ciò che il pubblico potrebbe aspettarsi quando vede qualcosa etichettato come biodegradabile. Abbiamo dimostrato che i materiali testati non presentavano alcun vantaggio consistente, affidabile e rilevante contro i rifiuti marini. Mi interessa che questi nuovi materiali presentino anche sfide nel loro riciclaggio. Il nostro studio sottolinea la necessità di standard relativi ai materiali degradabili, delineando chiaramente il percorso di smaltimento appropriato e i tassi di degradazione che possono essere previsti».
È bene però precisare che non si tratta di una novità: come Assobioplastiche – l’Associazione italiana delle bioplastiche e dei materiali biodegradabili e compostabili – asserisce sin dalla sua nascita è «scorretto utilizzare il termine “biodegradabile” rispetto a prodotti a base di polimeri tradizionali o con l’aggiunta di additivi che ne accelerano la frammentazione (i cosiddetti oxo-degradabili). Gli unici prodotti a potersi fregiare correttamente di tale definizione sono quelli in bioplastica compostabile, come peraltro già chiarito nel 2015 in Italia dall’Agcm (direzione Tutela del consumatore) nel caso dei sacchetti oxo-degradabili, all’epoca utilizzati da alcune insegne della Gdo». Ed è vero che lo studio dell’Università di Plymouth ci dice che «solo il sacchetto biodegradabile e compostabile anche se erroneamente disperso nell’ambiente per effetto di cattive abitudini (littering), va incontro a totale decomposizione in ambiente marino in soli tre mesi e presenta un impatto ambientale ridotto».
Il fatto è che la biodegradabilità «non deve essere mai vista come una più comoda soluzione o una scusa per la disseminazione incontrollata nell’ambiente (che porterebbe al paradosso di legittimare ad esempio il littering degli scarti e residui organici in mare, in quanto biodegradabili)». Si tratta di un rischio cui il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) ha messo in guardia sin dal 2015; e che è stato affrontato con chiarezza nel 2017 da un gigante industriale del settore, l’italiana Novamont; la soluzione «non è la biodegradazione in quanto tale (che comunque i sacchetti in bioplastica compostabile possiedono a differenza degli altri), quanto la ricerca e l’applicazione di modelli di corretta gestione dei rifiuti organici», sottolinea oggi Assobioplastiche. Ricordando che anche gli imballaggi in materiali biodegradabili e compostabili «sono progettati per essere gestiti nel circuito della raccolta dell’umido in appositi impianti industriali». Cercare di affibbiare loro l’etichetta di panacea contro il problema dei rifiuti, marini in particolare, fa male alla credibilità del settore quanto alla salubrità dell’ambiente: è qui che si gioca il ruolo di una buona comunicazione in materia.
fonte: www.greenreport.it
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Shopper illegali. Assobioplastiche in Commissione Ecomafie: 'In Italia rimangono ancora oltre 40mila tonnellate di sacchetti non a norma'
La Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati ha audito il presidente dell’associazione Assobioplastiche Marco Versari e il direttore Carmine Pagnozzi.
La Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati questo pomeriggio ha audito il presidente dell’associazione Assobioplastiche Marco Versari e il direttore Carmine Pagnozzi. Il tema dell’audizione sono stati gli illeciti legati alla contraffazione dei sacchetti biodegradabili e compostabili.
I due rappresentanti hanno delineato il fenomeno, dando alcuni numeri sulle dimensioni del mercato illegale delle buste. «Per la prima volta, il mercato legale ha di poco superato la quota del 50%. Tuttavia, in Italia rimangono ancora oltre 40mila tonnellate di sacchetti non a norma», ha dichiarato Versari. Secondo le informazioni riferite dagli auditi, la filiera legale oggi vale 550 milioni di euro, mentre il giro d’affari di quella illegale è stimabile in 400 milioni di euro.
Durante l’audizione, i due rappresentanti di Assobioplastiche hanno anche spiegato le dinamiche economiche che caratterizzano il mercato dei sacchetti illegali, oggi utilizzati quasi esclusivamente dai venditori ambulanti, nei mercati e nei piccoli negozi al dettaglio. Ambienti dove è più difficile fare informazione dei singoli esercenti. «La filiera è molto parcellizzata e caratterizzata da soggetti con sospetti legami con la criminalità organizzata. La distribuzione ai commercianti avviene attraverso operatori che vendono i sacchetti in contanti. Questi si approvvigionano da piccoli distributori in città, che a loro volta fanno capo a distributori più grandi. L’ultimo anello della distribuzione si rifornisce tramite importazione», ha spiegato Pagnozzi.
Nel tempo, secondo quanto dichiarato da Versari, anche le forme di illegalità si sono evolute. «All’inizio si mettevano in commercio prodotti che dissimulavano la conformità alla legge sulla compostabilità. Oggi, invece, si commercializzano prodotti fuori norma ma anonimi, limitando così le possibili conseguenze sul piano giuridico: in quest’ultimo caso, infatti, si dovrà rispondere solo di un illecito amministrativo».
«La Commissione intende accendere un faro su questa filiera invisibile: vogliamo risalire agli operatori che importano i sacchetti illegali, senza limitarci a colpire i piccoli commercianti che oggi ne fanno uso. Con questo obiettivo, stiamo già lavorando a un protocollo con Assobioplastiche e gli organi di controllo territoriali», ha dichiarato il Presidente della Commissione Stefano Vignaroli.
Link al video dell'audizione: https://webtv.camera.it/evento/13601
Link al video dell'audizione: https://webtv.camera.it/evento/13601
fonte: www.ecodallecitta.it
Suggerimenti per un 2019 Plastic free
Ridurre per poi eliminare dal nostro quotidiano la plastica mono uso è un buon obiettivo per il 2019, a cui tutti possiamo partecipare.
Cosa fare per un mondo plastic free:
Utilizzare sacchetti in tessuto invece di quelli monouso, anche per gli acquisti non alimentari
Verificare che i sacchetti utilizzati per la raccolta dell'umido, monouso biodegradabili, siano anche compostabili, come dichiarato dai marchi certificati che devono necessariamente essere stampati sul prodotto
Utilizzare brocche da tavola per l'acqua del rubinetto oppure borracce e thermos per il trasporto invece delle bottigliette. Vetro e alluminio sono lavabili e riutilizzabili facilmente, a differenza del PET con cui sono fatte le bottigliette che posso facilmente contaminarsi e non andrebbero mai riutilizzate, come suggerisce il Consorzio Acqua Potabile
Utilizzare piatti, bicchieri e posate in ceramica o plastica durevole, se si ha la possibilità di lavarli, oppure in materiale mono uso certificato come biodegradabile e compostabile
Fare in modo che la macchinetta del caffè in ufficio non eroghi più i bicchierini di plastica e usare invece tazze di ceramica o vetro (basta chiedere al servizio manutenzione che periodicamente rifornisce la macchina)
Preferire contenitori per riporre il cibo in vetro, lavabili e riutilizzabili. Il vetro è un materiale inerte e non tossico anche quando contiene cibo ad alte temperature, a differenza della plastica
Per la lavatrice utilizzare poco detersivo, preferire quello liquido, lavare a basse temperature, lavare meno
Preferire vestiti in fibre naturali quali cotone, lana, lino, canapa, seta e ridurre al minimo i capi sintetici o misti per evitare le micro plastiche
Nei prodotti di bellezza scegliere quelli che non contengono micro plastiche, come gli scrub a base di gusci triturati (in attesa della messa al bando dal 2020)
La plastica ha cambiato il nostro mondo, permettendo la produzione di beni a basso costo, leggeri, colorati, infrangibili, con caratteristiche tecniche uniche che hanno permesso la loro diffusione in tutto il mondo e in tutti i settori. La sua grande diffusione è diventata però un problema, visto che proviene dal petrolio e dopo l’utilizzo può inquinare. Viene utilizzata anche per imballaggi e oggetti che vengono utilizzati solo per pochi minuti e poi, nella maggior parte dei casi, restano nell’ambiente per secoli, degradandosi a poco a poco ed entrando direttamente nella nostra catena alimentare.
Le masse di frammenti di plastica che galleggiano negli oceani e le spiagge coperte di vecchie bottiglie e pezzetti di reti da pesca sono immagini che tutti abbiamo in mente quando parliamo di inquinamento da plastica.
Alcune importanti misure sono state prese per ridurre questi fenomeni.
L’Italia ha anticipato la normativa europea ha sostituito le borse di plastica mono uso per la spesa e per i reparti frutta e verdura, con omologhi in materiale biodegradabile e compostabile, come raccontato nel post dedicato alle novità ambientali del 2018
Ora dal 1 gennaio 2019 grazie a un emendamento proposto da Ermete Realacci, i cotton fioc saranno prodotti e commercializzati solo se biodegradabili.
Secondo un recente censimento a cui ha partecipato anche Legambiente i cotton fioc rappresentano circa il 4% dei rifiuti censiti sulle spiagge europee, ma salgono 5,2% nel Mar Mediterraneo .
Occorrerà invece aspettare altri 12 mesi per il previsto stop all’uso delle microplastiche nei cosmetici da risciacquo, una misura che avrà un forte impatto globale visto che sono Made in Italy la maggior parte dei cosmetici prodotti al mondo.
Sono primi passi importanti a cui si affiancheranno dal 2021 decisioni europee che vieteranno posate, piatti, cannucce, imballaggi per alimenti pronti monouso di plastica, che fanno parte dei dieci prodotti i che rappresentano il 70% dell’inquinamento delle spiagge e degli oceani.
Nel mondo si calcola che venga utilizzato un miliardo di cannucce monouso al giorno. Un miliardo al giorno. Una quantità enorme per un prodotto sostanzialmente inutile.
La commissione Ambiente della UE voterà sul testo nel gennaio 2019, entro due anni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ue i Paesi membri dovranno recepire la direttiva e rendere così illegali questi prodotti monouso, di cui esistono alternative.
Greenpeace Italia ha dichiarato che «quello lanciato dall’Unione europea è un segnale importante che risponde alle richieste e alle preoccupazioni di migliaia di cittadini. Ancora, però, si è lontani da una vera soluzione. Non introducendo misure vincolanti per gli Stati membri per ridurre il consumo di contenitori per alimenti, e ritardando di quattro anni l’obbligo di raccogliere separatamente il 90 % delle bottiglie in plastica, l’Europa regala così alle grandi multinazionali la possibilità di fare ancora enormi profitti con la plastica usa e getta a scapito del Pianeta».
Per spingere il Ministro dell’ambiente e del mare a varare una serie di misure tra cui l’ introduzione di una cauzione sugli imballaggi monouso, che siano messe fuori produzione in Italia le microplastiche da tutti i prodotti e non solo dai cosmetici , siano censiti e poi recuperati gli attrezzi da pesca dispersi in mare è ancora possibile firmare la petizione per un Mediterraneo plastic free, lanciata lo scorso agosto.
La petizione, lanciata dl WWF Italia, ha superato le 600.000 firme e vuole raggiungere il milione.
Dopo aver contribuito alla messa al bando delle microplastiche nei cosmetici, Marevivo ha lanciato da poco la campagna #StopMicrofibre, per sensibilizzazione sul problema delle microplastiche rilasciate dai tessuti sintetici in lavatrice.
Dalle lavatrici di casa finiscono nelle acque di scarico frammenti di prodotti come il poliestere, il nylon, l’acrilico, che rappresentano circa il 60% del materiale di cui sono composti i nostri capi d’abbigliamento. I caldi, colorati ed economici maglioni in pile, le camice in poliestere e le calze in nylon sono quindi nocivi per gli ecosistemi visto che ad ogni lavaggio si staccano pezzettini invisibili di tessuto che attraverso gli scarichi finiscono poi nei depuratori che solo in parte riescono a filtrarli.
Nondimeno, una volta entrati nell'ecosistema marino, i microframmenti nocivi iniziano ad assorbire sostanze inquinanti e tossiche e vengono ingeriti dagli organismi che li scambiano per cibo; si accumulano nei tessuti in concentrazioni sempre crescenti via via che si sale nella catena alimentare fino a raggiungere potenzialmente l’uomo.
stop microfibre
“Sulla tossicità delle microplastiche siamo all’anno zero. Ne sappiamo pochissimo”, spiega Andrea Binelli, co-autore di un recente studio, intervistato da La Stampa - Tanto che la EU non li ha ancora inseriti come nuovi contaminanti da ricercare nelle acque potabili. Alcuni Paesi cominciano a bandire o regolamentare l’uso di microsfere plastiche, ma mancano ancora conoscenze sufficienti per una normativa efficace”
Qui un efficace video sui danni che provocano le micro fibre.
Investire su tessuti sintetici più eco-friendly potrebbe rappresentare una valida soluzione visto che il 60% di tutti gli indumenti a livello globale è realizzato in poliestere ma è necessario anche migliorare il sistema di filtraggio dei depuratori delle acque reflue, è quanto raccomanda Marevivo. Che chiede inoltre a tutti di ridurre quanto più possibile gli acquisti, di riciclare e riusare.
Lo studio completo sulle microplastiche
fonte: http://www.vita.it
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